mercoledì 8 luglio 2015

Ritratto di vecchia di Giorgione di Massimo Capuozzo

Quello che io ero tu sei, quello che io sono tu sarai

Il Rinascimento riscoprì il ritratto allegorico, trascendendo il suo originario significato di testimonianza di una forma reale o di un carattere, per diventare emblema di una realtà diversa e allusiva. Questo elemento allegorico insieme all’intenso naturalismo di cui il Ritratto di Vecchia è un esempio eloquente è caratteristico dei ritratti di Giorgione.
Il Ritratto di vecchia è un dipinto ad olio su tela (68 x 59 cm), databile intorno al 1506 e conservato nelle Gallerie dell'Accademia a Venezia.
Il dipinto conserva ancora la sua cornice originale e fu forse visto da Michelangelo che, di passaggio a Venezia per un viaggio di aggiornamento, ne rimase colpito e ne serbò memoria quando creò le espressive figure delle Sibille nella volta della Cappella Sistina.
Naturalmente, come spesso accade per Giorgione, l’aura di mistero che avvolge l’autore circonda anche le sue opere, da quelle di più difficile interpretazione – la Tempesta o i Tre filosofi – a quelle in apparenza meno enigmatiche come questo ritratto, per il quale, nel corso dei secoli, sono stati avanzati molti dubbi non solo sulla sua interpretazione, ma perfino sulla paternità stessa del dipinto: una figura certamente deviante come la vecchia ritratta che reca, tra il braccio ed il seno, il motto col tempo. Certamente il tema è lontano dal timbro e dallo spirito di Giorgione, sebbene la materia pittorica abbia le stesse valenze di quella della Tempesta, cui sembra legata per committenza, e per il Ritratto di Laura di Vienna, cui l’opera strutturalmente assomiglia.
Il dipinto giunse nelle Gallerie dell'Accademia nel 1856 dalla Collezione Manfrin. Insieme a La Tempesta, il dipinto è citato nell'inventario del 1528 della Collezione Vendramin, come Testa di donna vecchia con un velo intorno al capo. Nel successivo inventario del 1569, fatto redigere da Luca Vendramin in occasione della trattativa di vendita – peraltro mai avvenuta – della collezione di famiglia al principe elettore Alberto V di Baviera, il quadro è citato come il ritratto de la madre del Zorzon, de man de Zorzon, cioè della madre di Giorgione, per mano di Giorgione. In seguito, senza una plausibile ragione stilistica, salvo per un lontano richiamo della donna ritratta con una vecchia effigiata nella Pala della Madonna e Santi nella Basilica di San Zeno, datata al 1520, del veneziano Francesco Torbido (1482 – 1562), che da ragazzo fu alla scuola di Giorgione a Venezia, il dipinto fu attribuito al giovane allievo. Tale assegnazione durò nel tempo, tanto che l'opera conservò un suo modesto interesse, impedendo così alla critica ufficiale di prenderla in considerazione per studi più approfonditi. Attraverso poi accurati studi documentari furono ritrovati preziosi documenti che invece rimandavano direttamente a Giorgione, tra cui i frutti della preziosa ricerca di Gino Fogolari (1875 - 1941) che vi identificò la madre dell'artista nell’inventario del 1569 dei beni di Gabriele Vendramin, committente della Tempesta, inventario in cui è anche scritto che il fornimento reca dipinta l'arma de Vendramin, le cui tracce effettivamente si notano sulla cornice dell'opera. Agli inizi del Novecento, quindi, iniziarono a proporsi le prime ipotesi di attribuzione a Giorgione, ma solo nel 1949, però, il dipinto fu definitivamente riconsegnato a Giorgione, e fu comprovato tutto dopo il restauro del 1949, considerate la preziosità della coloristica e l'alta carica umana della vecchia effigiata.
Su uno sfondo scuro, affacciata a un parapetto, una donna notevolmente e impietosamente anziana, ritratta a mezza figura di tre quarti e voltata a sinistra, emerge dall'ombra del fondale. Ella si porge di spalla, su cui è appoggiato uno scialle giallognolo ripiegato in alto e sfrangiato, la veste rosata è dimessa e povera ma pulita e una cuffia bianca floscia trattiene in parte i radi capelli, spettinati che ricadono in un ciuffo di capelli grigi e sfibrati. Interessante è la doppia rotazione del busto verso sinistra e della testa verso destra, che dà una particolare intensità all'effigie, e il gesto della mano destra, appoggiata al petto come durante il mea culpa ad indicare se stessa e la sua pena. Tutto converge nel volto sofferente della donna, la bocca socchiusa con un'intensa espressione come per parlare, lasciando intravedere la lingua dietro la dentatura irregolare; il naso è carnoso, la pelle incartapecorita e segnata dalle rughe e gli occhi, lucidissimi, inchiodano quelli dell’osservatore e sembra rivolgergli delle parole, quelle scritte sul cartiglio che tiene nella mano destra, poggiata sul seno e che reca scritto Col tempo, risucchiando chi la osserva nello turbamento della consapevolezza di una fine non lontana. Il dipinto sembra di un'amara riflessione sulla vecchiaia, come portatrice di devastazione fisica, ma vi è chi vi ha voluto leggere anche un significato positivo, legato all’ aumento della saggezza che ammonisce sul destino riservato alla giovinezza e alla bellezza terrena.
Il volto della vecchia è segnato dall'età avanzata, ma Giorgione va al di là della semplice descrizione, soffermandosi, soprattutto, sul carattere della donna: l’artista, infatti, non mette sulla tela l’idea astratta della vecchiaia e della morte, ma la sua realtà grave e lucida forse addirittura servendosi della sua stessa madre come modella.
Il dipinto presenta un’evidente analogia con l’impostazione del clima pittorico veneziano che si era creato con l’arrivo fugace di Leonardo a Venezia nel marzo 1500, dove il maestro toscano era stato incaricato di progettare alcuni sistemi difensivi contro la continua e assillante minaccia turca.

Vasari fu il primo a porre l’accento sul rapporto tra lo stile di Leonardo da Vinci e la maniera di Giorgione. Forse Leonardo a Venezia fece o comunque lasciò alcuni dei suoi innovativi studi sulle caricature e su volti grotteschi, base dei suoi studi di fisiognomica: di qui l’influenza in alcune opere successive prodotte a Venezia, come questo ritratto di Giorgione o il Cristo dodicenne tra i dottori del soggiorno veneziano di Albrecht Dürer (1471 - 1528), oggi al Museo Tyssen a Madrid: il dipinto si gioca tutto sul contrasto fra il viso sublime e giovane di Gesù e il volto orribile, vecchio e corrotto dei sapienti del Tempio per i quali Leonardo è sicuramente stato di ispirazione nella realizzazione dei volti grotteschi dei saggi.
In altre opere di Giorgione come le Tre età dell'uomo della Galleria Palatina di Firenze o il Doppio ritratto del Museo di Palazzo Venezia a Roma si notano un approfondimento psicologico e una maggiore sensibilità verso gli effetti luminosi derivati da Leonardo. Giorgione non ritrae, infatti, solo la psicologia dei suoi personaggi, ma è capace di descriverne anche i loro sentimenti.
Nel Doppio ritratto è raffigurata una coppia di amici: il giovane in primo piano si appoggia ad una mano, in un gesto di assoluto dolore, con l’altra mano mostra una specie di arancia dal valore profondamente simbolico: quel frutto è un melangolo, un’arancia amara che allude al concetto di malinconia. Il giovane è innamorato ed ha di fronte a sé l’osservatore, ma non lo vede, è come in trance, quasi estraniato in un’altra dimensione. Alle sue spalle fa capolino un altro giovane che invece guarda negli occhi l’osservatore ed è assolutamente presente: Giorgione pone, infatti, in rilievo la differenza fra chi è innamorato e chi non lo è.
Lo sfondo scuro della maggior parte dei ritratti e le figure che ne emergono lentamente richiamano Leonardo e, in generale, il modo di dipingere fiorentino. Nell’enigmatica pittura di Giorgione già Vasari aveva individuato l’influsso del chiaroscuro di Leonardo. Quella luce diffusa nell'atmosfera quasi disciolta in essa propria di Leonardo, diventa una cifra fondamentale per la pittura di Giorgione che si realizza soprattutto nei ritratti. Probabilmente Giorgione era entrato in contatto con Leonardo durante il suo breve, ma intenso soggiorno veneziano: Leonardo aveva con sé il cartone per il Ritratto di Isabella d'Este, che potrebbe essere stato un esempio per spingere gli artisti locali all'approfondimento psicologico nel ritratto e a una maggiore sensibilità verso gli effetti luminosi. Com’è facilmente congetturabile Leonardo amava la conversazione, era brillante e Giorgione era socievole e vivace dovettero entrare in contatto ed è noto che Leonardo raccomandasse vivamente ai giovani artisti di ritrarre anche i lati meno affascinanti della natura. L’impronta leonardesca più evidente è nella volontà del pittore di rappresentare i moti dell’animo, la convinzione – propria di Leonardo – che sui tratti del volto si possa leggere la complessità dell’anima umana.
Il Ritratto di vecchia è particolare e per questo deviante rispetto alle opere di Giorgione e rispetto agli altri dipinti dello stesso genere, sia precedenti sia contemporanei: qui, infatti, è rappresentata una vecchia popolana, una delle tante vecchie di quei tempi, non una persona particolarmente importante o ricca. In quegli anni, e siamo nel primo decennio del Cinquecento, solo le persone di un certo rango sociale potevano permettersi di commissionare a un pittore il proprio ritratto: re, principi, duchi o papi, cardinali, prelati, o banchieri e ricchi commercianti. Nel caso poi di un ritratto femminile, il dipinto era generalmente eseguito quando la donna, nobile o ricca, era comunque giovane, come ad esempio accadeva spesso in occasione del proprio matrimonio. La scelta del soggetto di una vecchia popolana è forse dovuta a quanto si legge nel cartiglio: mostrando la scritta, la figura indica se stessa, ma rivolge lo sguardo allo spettatore, come per ricordare che anche noi, col tempo, diverremo come lei. Potrebbe, quindi, essere un’allegoria del trascorrere del tempo e per rendere più efficace il monito, Giorgione riesce a dipingere con straordinaria efficacia le rughe della pelle, i capelli grigi e sfibrati, la bocca sdentata e, soprattutto, l’espressione di stanchezza sotto il peso della vecchiaia.
Sembra che il tema iconografico della vecchia, inteso come una riflessione sul trascorrere del tempo, derivi dalla Vecchia con i denari o Vanitas di Dürer del 1507 ed ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Questo rimando trova conferma nel fatto che Giorgione incontrò l'artista tedesco durante il secondo soggiorno di Durer a Venezia (1505-1507) e quindi in questa circostanza ne avrebbe potuto fornire il prototipo, poiché il pittore tedesco lo teneva con sé durante il suo secondo viaggio a Venezia. Se ciò fosse vero, ma è solo un’ipotesi, allora la Vecchia di Giorgione potrebbe essere datata intorno al 1508. Se invece l’opera di Giorgione fosse precedente, allora il modello iconografico sarebbe dato dal pittore veneto e da lui sarebbe nato un vero e proprio tema motivo iconografico.
Alla metà del secolo scorso l’opera è stata letta in chiave allegorica, sottendendo la metafora della vanità, che non tiene conto del passare del tempo. Questa interpretazione è in sintonia con la proposta interpretativa di Bernard Berenson che nel 1954, considerati i richiami stilistici a La tempesta della Galleria dell'Accademia di Venezia, ipotizzò che l'artista, con l'effige della vecchia donna, abbia voluto evidenziare la potenza del tempo, prospettando come la bella zingara della Tempesta avrebbe potuto trasformarsi, appunto col tempo; quindi, alla luce di questa interpretazione, il compito della vecchia sarebbe di ricordare alla giovane il valore effimero della bellezza.
L’ipotesi di Berenson è accattivante sebbene il confronto sia più proficuo con un altro ritratto femminile denominato Laura com’è passato alla storia fin dal XVII secolo.
Questo ritratto, misterioso come il suo autore, è un dipinto a olio su tela, incollata in un secondo momento su tavola, (41 x 33,5 cm) ed è conservato nel Kunsthistorisches Museum a Vienna. Si tratta peraltro dell'unica opera autografata dall'artista e di uno dei pochissimi dipinti databili con certezza del suo catalogo, perché sul retro reca una scritta: «1506 adj. primo zugno fo fatto questo de ma[no] de maistro zorzi da chastel fr[anco] cholega de maistro vizenzo chaena ad instanzia de mis. giac.mo».
L'opera è documentata nel 1636 a Venezia nella collezione di Bartolomeo della Nave, dove era inventariata come il Ritratto di Laura e attribuita a Giorgione. In seguito passò al duca di Hamilton in Inghilterra e di qui all'arciduca Leopoldo Guglielmo a Bruxelles come opera d’ignoto. Originariamente il dipinto comprendeva la mano sinistra che fu tagliata nel XVII secolo quando il quadro fu ridotto nella forma ovale. In un restauro del 1832 sono state restituite le misure originarie al dipinto.
È impossibile sapere chi sia la giovane donna raffigurata in questo ritratto: di lei non sappiamo nulla e Laura è il nome convenzionale che da secoli è stato attribuito alla donna ritratta in questo bellissimo dipinto.
Nella sua atipicità iconografica, questa giovane donna, in pratica seminuda, è un unicum: nulla del genere si era visto nella pittura veneziana italiana ed europea del periodo.
Su uno sfondo scuro si vede una giovane dallo sguardo impenetrabile, dall'espressione apparentemente impassibile, nuda sotto un abito rosso foderato di pelliccia, ritratta di tre quarti a mezza figura e voltata a sinistra. Ai lati del viso rotondo pendono due ciocche scomposte dei capelli castani. Con la mano destra la giovane donna discosta la veste e scopre un seno turgido e fiorente, quasi sfiorato dal velo azzurrino, trasparente, che le scende dal capo sul collo fino a cingerle il seno, offerto alla vista dell'osservatore e sensualmente evidenziato anche dal velo mentre contro lo sfondo nero, rami e foglie di alloro incorniciano le sue spalle. Proprio quest’ultimo dettaglio ha suggerito suggestivamente il nome Laura, poiché la pianta d’alloro era chiamata dai latini lauro.
La donna guarda fuori dal dipinto, diritto davanti a sé, ma alla fissità apparente del volto fa eco il gioco malizioso e un po' perverso del corpo. La donna è tutt’altro che una bellezza classica, ma la sua posa, la presenza del lauro che l’avvolge come un morbido tessuto e la figura suscitano un’aura di morbida sensualità. Il ritratto è inoltre avvolto da una luce morbida, riscaldata dal tono rosso dell’abito che risalta contro la superficie scura, mentre le nudità di Laura sono illuminate da un intenso chiarore e appena oscurate da una lieve ombreggiatura che dà loro un dolce senso di tattile rotondità. Questo delicato dispiegarsi di luci e colori e l'ambiguità dell'immagine ricordano certi ritratti di Leonardo ben noti al Giorgione. Il colore è steso a velature sottili che esaltano la trasparenza del velo e permettono lievi passaggi di tono: dal rosso al bruno della pelliccia al tenue incarnato della pelle.
L'interpretazione della figura ha dato spazio a varie ipotesi, in parte fantasiose. Alcuni hanno pensato che l'alloro potrebbe rimandare a Dafne, la ninfa amata da Apollo, tramutata in alloro per sfuggire alle attenzioni che il dio le rivolgeva, alcuni che potrebbe essere una poetessa, con l'alloro a simboleggiare la gloria derivante dalla poesia.  Qualcun altro ha ipotizzato che si trattasse di un ritratto immaginario della Laura amata da Francesco Petrarca. Giorgione era un pittore colto, che frequentava ambienti colti: era, infatti, in contatto con il circolo di letterati e umanisti riunito intorno a Pietro Bembo (1470 – 1547) e a Caterina Cornaro (1454 - 1510). I suoi dipinti sono pieni zeppi di motivi, di figure e di simbologie che soltanto i committenti o le persone che condividevano il suo codice culturale erano in grado di cogliere. Ambienti colti, nei quali la letteratura era grande protagonista. Da qui l’ipotesi che dalle letture dei testi petrarcheschi, il raffinato Giorgione abbia immaginato questo ritratto di Laura. Ma sarebbe una Laura così sensuale, così procace, così lontana dalla Laura idealizzata ed eterea cantata da Petrarca? Proprio questa sua spiccata sensualità ha invece portato alcuni storici dell'arte ad identificare la ragazza con una cortigiana veneziana di inizio Cinquecento: l'indizio principale sarebbe proprio la veste con pelliccia, che le cortigiane della Venezia del tempo erano solite indossare.
L'interpretazione più probabile, vuole che il dipinto sia il ritratto di una sposa, chiamata Laura: il velo che porta in capo sarebbe un rimando al velo nuziale, l'alloro diventa simbolo di castità ed il seno, oltre che simbolo di fecondità, sarebbe anche simbolo di erotismo, ma di un erotismo comunque moderato, perché scoperto solo per metà alluderebbe all’equilibrio tra virtù e passione, modestia e sensualità. Lo sguardo che evita quello dello spettatore e guarda lontano infine sarebbe simbolo di riservatezza e di fedeltà quindi più probabilmente, si può ritenere un dipinto augurale in occasione delle nozze della giovane. A sostegno di questa tesi c’è che l’iscrizione sul retro indica che fu commissionato da un certo Messer Giacomo, ma in ogni caso non sappiamo se questo Messer Giacomo fosse il marito della Laura ritratta.
Tutto questo è la Laura ritratta da Giorgione, con l’espressione silenziosa e concentrata, con lo sguardo impenetrabile rivolto verso qualcuno lontano da noi, con le labbra lievemente increspate in una posa che non è un sorriso. In questa espressione così reale ed imperscrutabile, risiede il vero enigma di questo ritratto che da secoli continua ad affascinare.
In tutti questi ritratti emerge la tecnica pittorica di Giorgione, che creò l'immagine per campiture cromatiche dense e materiche, senza contorni netti e senza un disegno sottostante, direttamente sulla tela, con estrema libertà. Ciò porta una voluta mancanza di uniformità nella stesura, ben visibile a una distanza ravvicinata, che crea un'opera di straordinaria modernità. La mancanza di uniformità, ben visibile a una distanza ravvicinata, fu uno dei contributi fondamentali di Giorgione all'evoluzione della pittura. Si tratta del tonalismo, detto anche pittura tonale, tecnica pittorica tipica della tradizione veneta del XVI secolo con cui Giorgione diede uno dei contributi fondamentali all'evoluzione della pittura: la definizione volumetrica, plastica, spaziale, non è più espressa sulla tradizionale impostazione rinascimentale, basata sul rigore dell’impaginazione prospettica che era in grado di comporre in unità d’insieme i vari elementi della rappresentazione, ma attraverso la luce ed il colore ed attraverso le sfumature e le modulazioni visive prodotte dalla variazione dell’intensità luminosa. Questo metodo molto innovativo basato su procedimenti tonali e sui rapporti d’intensità cromatica, ottenendo il contrasto luce-ombra, e quindi l'effetto tridimensionale, attraverso i vari toni del colore, diversi, nella stessa forma, per le zone in ombra e quelle in luce, tenendo conto della varietà degli effetti percettivi indotti dall'accostamento di colori differenti, sfruttato per conferire all'immagine profondità e dinamismo: con la graduale stesura tono su tono, in velature sovrapposte, si ottiene, essenzialmente, un morbido effetto plastico e di fusione tra soggetti e ambiente circostante.
Grazie anche alla pittura su tela (una novità proveniente dal nord dell’Europa), che rispetto alla tavola “consente maggiori modellazioni chiaroscurali e di tono, se abbinata all’olio” (Sassi). Quella di Giorgione è già pittura tonale che fonde le forme nell’atmosfera e affida l’unità compositiva alla luce e al colore reso in tutte le sue modulazioni.
Per una sorta di sensazione sul parallelismo tra le due opere, i due ritratti sono raffrontabili. Accostando i due dipinti si pone un dubbio: e se si fosse trattato della stessa donna? Confrontando i due dipinti, l’attaccatura dei capelli è identica, come uguale è la forma del volto; gli occhi, pur con un’espressione diversa, hanno lo stesso colore ed eguale simmetria, malgrado quelli della vecchia siano resi più piccoli dalle borse dell’età avanzata; il mento ha la stessa forma e le stesse fossette; le orecchie, infine, sono identiche. Solo la bocca sembra diversa, ma questo potrebbe essere dovuto al fatto che la vecchia ha una dentatura irregolare e questo produce un effetto deformante.
Ma nonostante il cartiglio Col tempo sia l’indicazione decisiva per collegare le due opere, non è la chiave vera dei dipinti. La chiave vera delle due opere consiste nello strano parallelismo della postura: il braccio e la mano della giovane che scoprono il seno, quelli della vecchia, simmetricamente opposti, nell’atto di coprire. In entrambi i casi, del braccio e della mano raffigurati nella parte sinistra del quadro. La postura, assolutamente eguale, è cambiata solo il particolare del cartiglio.
Strano destino quello di Giorgione, come fu chiamato probabilmente per la sua statura d’artista o per la sua corporatura, un pittore che è passato alla storia per l’indubbia bellezza delle sue opere, ma che ha lasciato sempre perplessa la critica su quali siano state effettivamente le opere; così come non ha lasciato nessuna traccia o quasi della sua vita, persino del posto dov’è nato, della sua data di nascita, fino a far dubitare anche della sua reale esistenza. Nel romanzo Il fuoco del 1900 Gabriele D’Annunzio racconta così il maestro di Castelfranco: «Io veggo Giorgione imminente su la plaga meravigliosa, pur senza ravvisare la sua persona mortale; lo cerco nel mistero della nube ignea che lo circonfonde. Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o quasi, di lui s′ignora; e taluno giunge a negare la sua esistenza. Il suo nome non è scritto in alcuna opera; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l′arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione; il gran Vecellio sembra aver ricevuto da lui il segreto d′infondere nelle vene delle sue creature un sangue luminoso. In verità, Giorgione rappresenta nell′arte l′Epifania del Fuoco. Egli merita d′esser chiamato ‟portatore di fuoco”, a simiglianza di Prometeo». 
Ma al di là dell’aura di mito che tuttora ne avvolge la vita e la brevissima carriera, Giorgione va visto come geniale interprete di un ambiente intellettuale particolarmente predisposto a linguaggi in codice, a simboli esoterici e all’esaltazione della natura. Giorgione non è un’invenzione letteraria, sebbene le notizie sulla sua vita siano poche e frammentarie. È oggi certo che nacque a Castelfranco Veneto, ma non si sa se nel 1477 o il 1478. Le sue origini familiari e il suo nome sono incerti. Gli è stato attribuito un cognome, Barbarelli, da Carlo Ridolfi (1594  1658), nella sua opera intitolata Le Maraviglie dell'arte, pubblicata nel 1648, quindi quasi due secoli dopo; non conosciamo il nome del suo maestro, probabilmente dovette essere un pittore di Castelfranco o di Treviso nella sua prima formazione trevigiana, cui si aggiunsero poi i maestri con i quali entrò in contatto a Venezia. Non si sa neppure con certezza quando Giorgione sia giunto a Venezia, ma si suppone che il suo arrivo in laguna sia avvenuto intorno al 1500. Secondo Vasari, compì la sua formazione, alla bottega di Giovanni Bellini (1433 – 1516), ma è ipotizzabile anche che a Venezia si appoggiasse alla bottega di Vincenzo Catena (1470 circa – 1531), un pittore che per noi è pressoché sconosciuto, ma che all’epoca doveva avere la sua fama e che da lui abbia appreso la tecnica di Giovanni Bellini, mentre attraverso un gruppo di pittori lombardi presenti in laguna, conobbe l'insegnamento di Leonardo da Vinci (1452–1519), ma non è del tutto escluso che Giorgione abbia incontrato di persona Leonardo.
Il periodo dell’arrivo di Giorgione a Venezia per la Serenissima rappresentò una congiuntura economi­co politica particolarmente propizia: nelle generali difficoltà delle terre italiane, sconvolte da Milano a Napoli dagli eserciti stra­nieri, Venezia sembrava un’oasi di prosperità. Con l'annessione dell’isola di Cipro, di alcuni importanti scali pugliesi, di una fascia della Romagna e di alcune zone dell’ex ducato di Milano, l’autoritario doge Agostino Barbarigo (1419 – 1501) aveva portato i domini della Serenis­sima alla massima estensione territoriale. I successi politici corrisposero ad un momento favorevole nei traffici commerciali marittimi: cresceva il numero dei mercanti stranieri che ampliavano e decoravano i loro fondaci. La situazione positiva, però, si deteriorò rapida­mente. Con la morte di Agostino Barbarigo nel 1501 agli occhi del nuovo doge Leonardo Loredan (1436 – 1521), si presentò un quadro diverso: Venezia dovette fronteggiare la minaccia dell’impero ottomano, la marina di san Marco faticava a controllare le scorre­rie turche e perse ricchi scali nell’Egeo, l’economia si fece incerta. I traffici commerciali marittimi nel Mediterraneo orientale diventarono malsicuri per l’aggressività dei turchi ed il mercato internazionale cominciò a risentire del­la concorrenza delle rotte atlantiche. Di fronte a questa situazione il patriziato venezia­no si preparò ad abbandonare le vie del mare per sfruttare meglio le risorse della terra. Un imponente piano di bonifiche agrarie offrì nuovi terreni alle coltivazioni che poeti e trattatisti esaltavano e gli artisti ne diventarono presto sostenitori, offrendo ai vene­ziani un’immagine idilliaca degli otia agresti. Il rapporto più stretto con l’entroterra portò conseguentemente alla molti­plicazione del numero dei cosiddetti pittori terrazzani, ossia provenienti dalla terraferma, che si stabilirono a Venezia.
Nel reticolo delle calli e dei canali – tanto impreziosito da parecchie presenze monumentali, chiese, conventi e numerosissimi palazzi rinascimentali, da non lasciare quasi più spazi edificabili – brulicavano mercanti, venditori agenti di banchieri affaristi, ma anche intellettuali ed artisti. Il rinnovamento di Venezia aveva risonanza in­ternazionale: la Serenissima Repubblica nell’immaginario collettivo cominciava a diventare un baluardo di italianità di fronte al dilagare delle conquiste straniere sul suolo italiano attirava crescenti attenzioni e simpatie. Il giovanissimo Michelangelo compì a Venezia un soggiorno di aggiornamento; Leonardo, fuggito da Milano invasa dai francesi, dopo essere passato per la corte mantovana dei Gonzaga, vi si fermò nel 1501. Albrecht Dürer, Quentin Metsys e Hieronymus Bosch trascorsero a Venezia periodi di studio lasciandone traccia tangibile nelle rispettive opere. Tra quelle calli e quei canali il ventiduenne Giorgione ebbe anche modo di conoscere la pittura di Hieronymus Bosch e quella di Albrecht Dürer.
Il fenomeno Giorgione cominciava a germogliare. Vasari lo definisce come uno dei precursori di un’arte finalmente moderna, infatti, Giorgione uscì dallo schema monotono della pittura religiosa, portando elementi di novità, così come inserì nuovi elementi anche nella pittura legata alla rappresentazione della natura. Si dilettava di musica e di poesia, aveva una cerchia di committenti raffinati e colti per i quali dipinse opere con soggetti poco consueti, difficili da interpretare. Ancora Ridolfi racconta, che Giorgione si dilettasse a realizzare «armari e molte casse in particolare, nelle quali faceva per lo più favole d’Ovidio». La vicenda del giovane pittore di Castelfranco cominciava ad intrecciarsi con lo svilup­po del collezionismo patrizio veneziano, che cominciava ad as­sumere dimensioni importanti in una società intel­lettuale particolarmente predisposta a linguaggi in codice, a simboli esoterici e all’esaltazione della natura. I primi generi richiesti erano i ritratti e i soggetti religiosi, ma inseriti entro vasti sfondi natu­rali, anticipatori del genere del paesaggio. Giorgione introdusse inoltre soggetti profani: composizioni moraleggianti, allegorie delle “tre età dell’uomo”, scene di concerti, mezze figure femminili, ricer­cati temi mitologici o letterari. La generazione di artisti veneziani che si affac­cia al Cinquecento, stimolata anche dal mercato, aderisce al tonalismo e riconosce in Giorgione il punto di riferimento, a prescindere dall’effettivo contatto con il maestro. È difficile definire i limiti di scuola o bot­tega intorno a Giorgione, poiché i rapporti fra gli artisti del circolo giorgionesco non ricalcano lo schema maestro-allievo, ma possono essere definiti una collaborazione-competizione continua che coinvolge alcuni degli artisti più promettenti. Un rapporto di collaborazione e non di discepolato lega Giorgione e il coetaneo Seba­stiano Luciani (1485 – 1547), meglio noto come Sebastiano del Piombo, ma anche con il più giovane Tiziano (1480/1485  1576).
Nel 1508 Giorgione fu chiamato ad affrescare le facciate del Fondaco dei tedeschi, ricostruito dopo un rovinoso incendio. Riservandosi la dire­zione globale dei lavori e l’esecuzione della parte verso il canal Grande, Giorgione affidò a Tiziano la fronte che guarda in direzione delle Mercerie: l’edificio ha purtroppo perduto del tutto la decorazione dipin­ta, distrutta dalla salsedine e dagli agenti atmosferici.
Gli affreschi del Fondaco segnano anche il punto di contrasto fra due generazioni. Giovanni Bellini, nella posizione di pittore ufficiale della Repub­blica, seleziona una commissione di artisti inca­ricati di formulare una valutazione economica del lavoro: i tre membri prescelti sono Vittore Carpaccio (1465 circa – 1525/1526), Vittore Belliniano (1456 circa – 1529) e Lazzaro Bastiani (1429 – 1512); gli autorevoli rappresentanti della tradizionale pittura di teleri narrativi propongono una ridu­zione sul compenso in precedenza fissato. Fu una decurtazione leggera, da 150 a 140 ducati, ma può essere interpretata come il segnale di un certo cli­ma di tensione tra la corrente giorgionesca e i maestri che restano fedeli ai caratteri della pittura veneziana della tradizione tardo quattrocentesca.
La congiuntura favorevole per la Serenissima subì una brusca battu­ta d’arresto nel 1509, in coincidenza con l’attac­co sferrato a Venezia dalle potenze alleate della Lega Santa (o Lega di Cambrai). La guerra della Lega di Cambrai fu scatenata per arrestare l'espansione della potentissima Repubblica di Venezia in terraferma. Fu una guerra di vastissima portata in cui tutti i principali Stati europei dell'epoca si allearono contro la Repubblica di Venezia per distruggerla e spartirsi le ricchissime spoglie. La Repubblica di Venezia nel XV secolo, all'apice della sua potenza economica e militare ed in possesso di un vasto impero sul Mediterraneo, aveva iniziato un processo di espansione nella terraferma veneta e lombarda, attraverso conquiste militari, acquisizioni e donazioni spontanee. Ciò suscitò le comprensibili preoccupazioni dei governanti dei diversi stati della penisola, in particolare del papato il quale aveva assistito impotente nel 1503 alla perdita di molte importanti città della Romagna che avevano chiesto ed ottenuto la dedizione alla Repubblica di Venezia. Giulio II Della Rovere, furioso per il rifiuto di Venezia di restituire le città romagnole, istigò le principali potenze europee a dichiarare guerra a Venezia e il 10 dicembre 1508 queste si trovarono a Cambrai per stipulare un accordo segreto che prese il nome della città. Disastrosamente sconfitto sul campo ad Agnadello il 14 maggio 1509, l’esercito vene­ziano si ritirò velocemente, perdendo una dopo l’altra tutte le città della terraferma; mentre le truppe di Bartolomeo d’Alviano erano in rotta, in varie città scoppiarono rivolte sanguinose per l'autonomia. Perfino Mestre fu incendiata dall’esercito imperiale; Venezia stessa era minac­ciata e gli abitanti accumulano viveri e provviste per prepararsi all’assedio.
Da una lettera di Isabella d’Este risulta che Giorgione morì di peste nel 1510 fra settembre e ottobre: le circostanze della morte, avvenuta in pochi giorni durante una pestilenza sono narrate da Vasari che dice che aveva appena trentatré anni. Vasari lo annovera tra i grandi del suo tempo, al pari di Leonardo Raffaello e Michelangelo.
Nel 1510 con Giorgione moriva anche una Venezia che, con la guerra, vide dissolversi il sogno di un’espansione inarrestabile e di un’eterna primavera. Sopravvivevano certo gli amici, tra i quali Tiziano e Sebastiano del Piombo, scampati alla peste, che mantennero vivi i suoi ideali, rimanevano i suoi affreschi sulle pareti esterne dei palazzi, sfavillanti, finché la salsedine e il tempo non li sbriciolarono, rimanevano le sue tele non firmate, enigmatiche che aprirono visioni sorprendenti su una stagione unica, prima della tempesta finale.
La ricostruzione del catalogo è stata e resta difficile, sebbene per essa sia stato di aiuto il diario del nobile veneziano, Marcantonio Michiel (1484  1552) che, fra il 1520 e il 1540, appuntò ciò che vide nei palazzi veneziani: Michiel era un uomo di elevata cultura che aveva rapporti anche a Roma e a Napoli che per fortuna annotò in questo manoscritto la presenza di diciassette opere di Giorgione e della sua scuola. Ancora oggi sono pochissime le opere attribuite al maestro con certezza. Tutta la produzione di Giorgione sì riassume entro il primo decennio del 1500: la morte precoce, durante un’epidemia di peste, troncò bruscamente una carriera appena avviata. Tuttavia, è possibile seguire un’evoluzione stilistica, dalle prime opere, più intensamente belliniane, fino al punto di svolta costituito dalla pala nel duomo di Castelfranco Veneto del 1504, l’unico dipinto di Giorgione destinato a un altare: in esso l’impostazione tradizionale delle Sacre conversazioni si risolve in una distesa veduta paesaggistica e in una piena immersione nella luce naturale.
L’eredità di Giorgione si risolse comunque rapida­mente: Tiziano e Sebastiano si contesero il primato di guida della generazione emergente. Tra il giugno del 1510 e l’agosto del 1511 Sebastiano Luciani si occupò dell’esecuzione della Pala di san Giovanni Crisostomo, ricca di nuovi elementi: la li­bertà spaziale, l’asimmetria nella disposizione dei personaggi, la figura principale vista di profilo. In­tanto, Tiziano si era trasferito a Padova per sfuggire alla peste, e nell’aprile del 1511 affrescò tre episodi della vita di Sant’Antonio nella Scuola del Santo. Con i dipinti padovani il poco più che ventenne Tiziano afferma la propria autonoma personalità: i tre affreschi rivelano un’energia drammatica e un uso teatrale del colore sconosciuti al tranquillo tonalismo giorgionesco. Nuovi, forti accordi cromatici superano le armonie elegantemente e pazientemente costruite da Giorgione, alle quali lo stesso Sebastiano Lucia­ni era rimasto legato.

Massimo Capuozzo

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