mercoledì 30 marzo 2011

I Dori e Sparta fra ipotesi e racconto di Massimo Capuozzo

L’epoca arcaica della Grecia è un periodo assai oscuro, definito dagli storici come il «Medioevo greco».
Una delle questioni più discusse è il ruolo che ebbero i dori nel periodo tra il 1250 e il 1150 a.C., secolo in cui la civiltà micenea, che aveva il suo centro nel Peloponneso, fu travolta ed i palazzi distrutti. Dopo alcuni secoli emerse una nuova società, quella che conosciamo ad esempio a Sparta.
I greci avevano perduto, però ogni ricordo preciso di ciò che era avvenuto e che era divenuto patrimonio dell'epica di Omero in cui, però non si parla dei dori.
Per ricostruire gli aspetti storici dell'invasione dei dori, si può ricorrere ad una serie di elementi. Il primo è il racconto mitico elaborato da greci, in base al quale Eracle sarebbe stato cacciato da Argo ed i suoi discendenti sarebbero tornati a prendere possesso di ciò che era stato loro tolto. Questa leggenda serve a legittimare l'occupazione dorica del Peloponneso in età storica.
Un altro aspetto è culturale: i dori, ovunque si trovino in epoca storica (ad esempio a Creta o a Sparta), avevano caratteri linguistici comuni, avevano anche istituzioni simili, ed erano tutti divisi in tre tribù con lo stesso nome.
Un terzo elemento è dato dall'archeologia, che mostra una soluzione di continuità nel Peloponneso, la distruzione della civiltà del palazzo, il mutamento dei modi di sepoltura.
Ciò che oggi appare probabile è l'arrivo di una nuova popolazione, i dori appunto, che, anche se non è certo siano gli artefici della caduta dei micenei, poterono approfittare del vuoto che si era creato nella regione, per affermarsi con un nuovo tipo di società, quella che storicamente conosciamo a Sparta.
E' estremamente suggestiva l’ipotesi della congiura delle regine di cui parla Valerio Massimo Manfredi ne «Le paludi di Esperia». Il libro ruota intorno ad una delle molte storie raccontate nei poemi pseudo-omerici, cioè alla leggenda che ad Ilio era custodita una statua di Atena che rendeva la città inespugnabile. Tutti i maggiori capi achei, quindi anche Diomede, dopo il saccheggio di Troia pensano di essersi impadroniti della vera statua magica. Diomede torna verso la sua patria, Argo, con il suo preziosissimo carico. Giunto alla sua città si ricorda degli avvertimenti di Odisseo ed entra di nascosto nel suo palazzo, per scoprire che la sua regina, Egialea, aveva tramato una congiura per ucciderlo, così come Klitemnestra aveva ucciso Agamennone. Diomede si rifiuta di scatenare una guerra civile e parte per fondare una nuova città che sarà resa invincibile dalla statua di Atena.
Manfredi illustra la congiura delle Regine, cioè il patto segreto secondo cui le mogli degli eroi avrebbero cospirato per detronizzarli e riprendersi il potere: si tratta di un’eco di un sistema matriarcale antichissimo e molto affascinante, storicamente accertato. Klitemnestra, per esempio, non era semplicemente consorte del re, ma regnante di Argo e Micene per diritto di nascita. Sembra che anche l’uccisione di Ifigenia fosse stata considerata dalla regina una mossa politica del marito, che così eliminava la vera erede al trono.
La congiura delle Regine, architettata da Klitemnestra che coinvolge Egialea e prova a coinvolgere Penelope, che, però rifiuta. La congiura non è presentata nella classica veste della perfidia, ma anche vista dall’interno, con il dolore di Klitemnestra che ha visto la figlia Ifigenia sacrificata, così come il figlio della regina di Creta, che, infatti, riuscirà a far scacciare il re Idomeneo. La congiura delle regine trova una sua spiegazione anche di natura antropologica, infatti, appare come la rivendicazione della struttura matriarcale che aveva caratterizzato la civiltà minoica nei confronti della patriarcale civiltà achea.
Durante il suo viaggio Diomede incontra un popolo nomade e selvaggio, i Dor, i dori di origine greca, ritenuti i discendenti di Eracle e dotati di armi invincibili rispetto alle bronzee spade achee: le spade di ferro. Invia quindi Anchialo, uno dei suoi uomini fidati, ad avvisare i re achei di prepararsi ad affrontare l’invasione di questo popolo guerriero.
La verità documentaria di quest'epoca si perde ovviamente tra testimonianze archeologiche di devastanti avvenimenti ed ipotesi di studiosi moderni, che sono spesso vere e proprie supposizioni: i cosiddetti popoli del mare, la loro origine e la loro storia e della calata dorica, che resta evento misterioso, anche riguardo alla propria reale esistenza, diviso tra ipotesi archeologiche, quali quelle dello Tzedakis, ipotesi storiche, quali quelle di Domenico Musti, ed ipotesi linguistiche rapportate al presente, quali la celebre tesi di John Chadwick, che aiutò Michael Ventris a decifrare la scrittura dei Micenei, la celebre Lineare B.
Dei Dori Manfredi fa riferimento alla lingua, così simile al greco proto-storico eppure così diverso sotto alcuni aspetti, dialetto forse appartenente ad un ceppo linguistico differente. Ai Dori gli storici hanno attribuito la fine del mondo miceneo, anche se tutt'ora non si è fatta luce piena sulle modalità della loro presunta invasione e sulla tempistica esatta della stessa.
I popoli del mare, forse popolazioni eterogenee unitesi in una sorta di lega marina sarebbero, secondo gli storici, un'altra causa (o con-causa) alla quale sarebbe dovuta la fine della Grecia protostoria, non preistorica, perché i Greco-Micenei possedevano l'uso della scrittura, già Greco antico trascritto secondo un sistema sillabico di derivazione egea. Questa confederazione di popoli esisteva già nel XIII secolo a. C. Gli Shekelesh, gli Sherden, i Teresch (forse Siculi, Sardi, Etruschi) si incontrano lungo la narrazione come i Feleset facevano, tra gli altri, parte dei popoli del mare ed erano, molto probabilmente, i Filistei). Quando Menelao cerca di fare rotta verso l'Egitto si imbatte in queste flotte potentissime che, come si legge nei manuali che trattano di questo remoto periodo storico, incombevano minacciosi sulla terra dei Faraoni durante il regno di Ramsete III, la figura del quale è ripresa dallo stesso Manfredi. Anche Diomede è costretto a scontrarsi con loro, mentre veleggia lungo l'Adriatico, verso la Puglia.

venerdì 25 marzo 2011

Leopardi e il natio borgo selvaggio di Massimo Capuozzo


Recanati, scena di gran parte della vita di Leopardi[1], è presente anche in molte sue liriche.

Un disperato bisogno di viaggiare e di allontanarsi dalla grettezza della "zotica gente" del suo "natio borgo selvaggio", definizione coniata ne «Le Ricordanze», porta il poeta a soffrire la chiusa grettezza, l’isolamento dalle correnti di civiltà e di pensiero, il difficile rapporto con i retrivi abitanti.

In tutta la sua produzione poetica, soprattutto nell'epistolario, Leopardi parlò di Recanati e dell'arretratezza culturale che la caratterizzava, della noia che generava nella sua anima e del bisogno che aveva di allontanarsene.

Nella terza lettera che il poeta scrisse al suo amico Pietro Giordani, che invece gli aveva parlato con simpatia di Recanati, esortandolo ad amare la cittadina natia, seguendo gli illustri esempi di Plutarco ed Alfieri, Leopardi dichiara di non poter più seguire questi esempi:

«Plutarco, l'Alfieri amavano Cheronea ed Asti. Li amavano e non vi stavano. A questo modo amerò ancor io la mia patria quando ne sarò lontano; ora dico di odiarla perché vi sono dentro, chè finalmente questa povera città non è rea d'altro che di non avermi fatto un bene al mondo, dalla mia famiglia in fuori».

Iniziando poi a parlare di Recanati, Leopardi evidenzia nella lettera lo squallore, «la morte, l'insensataggine e la stupidità […] il sonno universale, la mancanza d'ingegno» e sogna di fuggire, di vivere «in un mondo che mi alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa)».

Più volte nel corso della sua vita, Leopardi cercò di allontanarsi dall'opprimente borgo nato: nell'estate del 1819, Leopardi tentò invano di fuggire, nel 1822, Leopardi finalmente ebbe la possibilità di uscire da Recanati e di vedere il mondo esterno a quella "tomba de' vivi" e si recò a Roma, ospite degli zii materni, ma anche gli ambienti letterari di Roma gli apparvero vuoti e meschini, in contrasto con la grandezza monumentale della città.

Nel 1825 l'editore milanese Stella gli offrì l'occasione di lasciare la famiglia e di mantenersi con il proprio lavoro intellettuale: soggiornò così a Milano, Bologna, Firenze e Pisa, ma fu presto costretto a rientrare nel “natio borgo selvaggio” in quanto le sue condizioni di salute si aggravarono e conseguentemente gli fu sospeso l'assegno dell'editore.

Leopardi rimase a Recanati un anno e mezzo: "sedici mesi di notte orribile". Ma poi riuscì ad abbandonarla definitivamente per trasferirsi a Firenze nel 1830. Da allora Leopardi non tornò mai più a Recanati.

Tuttavia proprio a Recanati Leopardi scrisse le sue più grandi poesie, «I Grandi Idilli»: «Le ricordanze», «Il passero solitario», «Il sabato del villaggio», «La quiete dopo la tempesta», «A Silvia», «Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia».

Nella maggior parte di questi componimenti, Recanati vive poeticamente nei suoi versi, con un amore che supera l’intolleranza. In questi componimenti si succedono, si alternano, si stringono in un afflato lirico originalissimo le speranze del passato, la disperazione del presente, l'elegia su se stesso ed il disprezzo per il mondo che lo circonda. A modo suo Leopardi riprende la disperazione, tutta "romantica", dell'uomo di genio incapace di adattarsi alla vita e dannato alla infelicità, per la ricchezza della sua sensibilità e la miseria dei tempi.

Recanati compare ne La sera del dì di festa ritratta in una ferma notte lunare.

La sera del dì di festa

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna.
O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai né pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno.
A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo.
Oh giorni orrendi
In così verde etate!
Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente.
Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di br non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

Le ricordanze

A Silvia

Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa,
il limitare di gioventù salivi?

Sonavan le quiete
stanze, e le vie d'intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all'opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.

Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.

Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.

Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? Questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.

Il sabato del villaggio

La donzelletta vien dalla campagna
in sul calar del sole,
col suo fascio dell'erba; e reca in mano
un mazzolin di rose e viole,
onde, siccome suole, ornare ella si appresta
dimani, al dí di festa, il petto e il crine.
Siede con le vicine
su la scala a filar la vecchierella,
incontro là dove si perde il giorno;
e novellando vien del suo buon tempo,
quando ai dí della festa ella si ornava,
ed ancor sana e snella
solea danzar la sera intra di quei
ch'ebbe compagni nell'età piú bella.
Già tutta l'aria imbruna,
torna azzurro il sereno, e tornan l'ombre
giú da' colli e da' tetti,
al biancheggiar della recente luna.
Or la squilla dà segno
della festa che viene;
ed a quel suon diresti
che il cor si riconforta.
I fanciulli gridando
su la piazzuola in frotta,
e qua e là saltando,
fanno un lieto romore;
e intanto riede alla sua parca mensa,
fischiando, il zappatore,
e seco pensa al dí del suo riposo.

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l'altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s'affretta, e s'adopra
di fornir l'opra anzi al chiarir dell'alba.

Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l'ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.

Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d'allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo'; ma la tua festa
ch'anco tardi a venir non ti sia grave.

La quiete dopo la tempesta

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso.
Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il rumorio
Torna il lavoro usato.
L'artigiano a mirar l'umido cielo,
Con l'opra in man, cantando,
Fassi in su l'uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell'acqua
Della novella piova;
E l'erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville.
Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand'è, com'or, la vita?
Quando con tanto amore
L'uomo a' suoi studi intende?
O torna all'opre? o cosa nova imprende?
Quando de' mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d'affanno;
Gioia vana, ch'è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali.
Uscir di pena
E' diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d'affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D'alcun dolor: beata
Se te d'ogni dolor morte risana.

È aperta verso la vicina campagna ne
Il passero solitario.
D'in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finchè non more il giorno;
Ed erra l'armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell'aria, e per li campi esulta,
Sì ch'a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d'allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell'anno e di tua vita il più bel fiore.

Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio!
Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de' provetti giorni,
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch'omai cede la sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s'allegra.

Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell'aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.

Tu solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni nostra vaghezza
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all'altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest'anni miei?
Che di me stesso?
Ahi pentiromi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.


[1] La vita – Giacomo Leopardi nacque nel 1798 a Recanati nelle Marche, da famiglia nobile e di spiriti conservatori; eb­be la fanciullezza e la giovinezza impegnate negli studi, che perseguì con appassionata perseveranza tanto che, a diciassette anni, non solo conosceva perfettamente il latino e il greco, ma aveva anche già composto due opere di erudizione, la Storia dell’astronomia ed il Saggio sugli errori popolari degli antichi: fu tanto lo sforzo di questo periodo che ne ebbe guastata la salute.

Nel 1816 Leopardi preparò una risposta ad una nota lettera della Stael, Lettera ai compilatori della ‘’Biblioteca italiana’’, che però non fu pubblicata.

Nel 1817 cominciò a scrivere lo Zibaldone, fondamentale quaderno di appunti, di osservazioni di carattere culturale, di confessioni autobiografiche, che continuò a farsi alterne e con varia intensità fino al 1832.

Secondo la consuetudine delle famiglie aristocratiche, il giovane Giacomo, fu educato in casa insieme con i fratelli da un precettore ecclesiastico, il quale ben presto non ebbe più nulla da insegnargli. Egli allora continuò a studiare autonomamente sui libri della sterminata biblioteca del padre; imparò il greco e l’ebraico e si dette a lavori di profonda erudizione, che ottennero il plauso e l’ammirazione di importanti studiosi del tempo, italiani e stranieri.

Furono sette anni di studio matto e disperatissimo, come egli stesso ebbe a definirli, che ebbero gravi ripercussioni sulla sua salute, già da tempo precaria.

Il primo saggio importante di poetica fu il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, nato nel 1818 in risposta ad un articolo del di Breme, ma anche questo fu pubblicato solo postumo; nello stesso anno compose le prime canzoni, tra cui All’Italia.

Man mano che, col passare degli anni, si evolveva spiritual­mente, Leopardi sentiva sempre più intollerabile il chiuso ambiente familiare e quello paesano e gretto di Recanati.

Nel 1820, una crisi intellettuale e spirituale prima lo indusse al tentativo di suicidio, poi al tentativo di fuga da casa, sventata dai suoi genitori; solo tre anni più tardi, nel 1822, ottenne di lasciare la famiglia e il paese per recarsi a Roma ma, deluso dall’ambiente, fece ritorno a Recanati nel 1824; da al­lora soggiornò in varie città italiane, Milano, Bologna, Firenze, Pisa, ancora Roma, Napoli, con l’intervallo di alcuni più o meno lunghi ritorni a Recanati.

Rientratovi nel 1828, vi ritrovò l’atmosfera degli anni giovanili che, osservata con occhi nuovi, suscitò in lui emozioni e ricordi, ispirandogli la creazione delle sue liriche più alte, tra cui A Silvia, Il sabato del villaggio, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario, Le ricordanze, Il canto notturno di un pastore errante dell’Asia.

Tornato a Firenze, Leopardi ritrovò l’amico Antonio Ranieri, conosciuto qualche anno prima, con il quale successivamente si trasferì a Napoli, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Nel periodo napoletano compose i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia.

Maturava intanto in lui un’amara filosofia della vita che trovò espressione poetica nelle sue liri­che, i Canti, e poetico-meditativa nelle prose delle Operette morali.

Nella prima opera, i Canti, che includeva tutte le opere più significative dell’intera produzione leopardiana (i cosiddetti piccoli e grandi idilli), egli dà voce al respiro della sua anima, cioè ai sentimenti, all’onda di ricordi e di emozioni, ma anche alle profonde riflessioni esistenziali che uno spettacolo naturale o un momento della vita del borgo suscitano in lui. In seguito alla morte di Leopardi, nel 1845, Ranieri curò un’edizione postuma dei Canti, che comprendeva anche il canto La Ginestra.

Oltre a queste due opere, che sono le maggiori, ricordiamo lo Zibaldone, vasta raccolta di osservazioni, di riflessioni di varia natura, assai utile per comprendere l’evoluzione del poeta, e i Pen­sieri.

Morì a soli 39 anni, in seguito ad un’epidemia di colera che aggravò i mali che lo tormentavano da tempo, senza aver ottenuto in vita quella fama che gli sarebbe stata ampiamente tributata, invece, dopo la sua morte.

L’arido vero e gli ameni inganniLa caratteristica principale delle poetica leopardiana è quella di essere una lirica di taglio filosofico: essa trae origine quasi sempre da un’osservazione del mondo esterno e della natura e, attraverso le sensazioni e i sentimenti che tale osservazione suscita, sviluppa ampie parti meditative, nelle quali il poeta colloca la sostanza del proprio ragionamento poetico.

Fin dalla prima giovinezza Leopardi si con­vinse che l’unica verità è quella cui l’uomo perviene mediante la ragione, e a questa convinzione si mantenne fedele per tutta la vita.

Ma la verità che la ragione rivela all’uomo è squallida e amara, è quella che Leopardi chiama l’arido vero. La ragione, infatti, smaschera come inconsistenti quei va­lori in cui l’uomo istintivamente crede: la bellezza, la gloria, l’amore, la giovinezza. Es­si, guardati alla fredda e spietata luce della ragione, si rivelano ingannevoli e caduchi, illusioni.

Ma se questa è la verità che bisogna coraggiosamente accettare, è certo che, privata di questi valori, la vita perde ogni gioia e ogni bellezza, perché, se è vero che essi sono inganni, è altrettanto vero, come dice il poeta nelle Ricordanze, che sono ameni inganni, fonte unica di speranza e di gioia.

La civiltà, prodotto della ragione, condanna gli uomini all’infelicità. Leopardi infatti era convinto che l’anima umana trovasse un autentico piacere soprattutto nei pensieri vaghi e indefiniti che, spesso inafferrabili, lasciano dietro di sé molteplici suggestioni, desideri ed idee. Su questa base contenutistica, Leopardi avvia un profondo processo di rinnovamento della lingua della poesie italiana, abbandonando la metrica classica e lasciando che la sua poesia si snodasse sulla linea della musicalità e del ritmo, producendo un forte effetto evocativo.

Da questo contrasto fra la realtà e le esigenze profonde dello spirito umano nascono i temi più alti della poesia e del romanticismo leopardiani: e innanzitutto il tema della nostalgia e del rimpianto.

I Canti leopardiani traboccano di questi non valori vagheggiati e intensamente invocati, tanto che è stato detto giustamente che nessun poeta, forse, ha cantato la giovinezza e l’amore con l’intensità appassionata di Leopardi, che negava loro reale consistenza e che li vedeva perciò idealizzati dal desiderio e dalla nostalgia che hanno le cose amate e non possedute. Leopardi, nell’arco della sua vita, ideò ben due teorie sul piacere: nella prima, il poeta spiega che il piacere non poteva mai essere soddisfatto, in quanto l’uomo ha in sé connaturata l’esigenza di provare piacere, ma allo stesso piacere segue l’assuefazione; nella seconda, invece, Leopardi spiega come il piacere sia impossibile da raggiungere ed esista solo come cessazione del dolore.

Da questa constatazione nasce, oltre al rimpianto, anche la protesta: essa si rivolge soprattutto alla Natura, che dovrebbe essere madre ai suoi figli, e invece è per loro matrigna, e crudelmente promette gioie che poi non mantiene. Essa si mostra indifferente alle loro pene, e non teme di distruggere in un istante, con un terremoto, un’alluvione o l’eruzione di un vulcano, le opere pazienti costruite dall’uomo e la sua stessa vita.

Il non senso dell’esistenza umana e il pessimismo leopardiano - Nel Canto notturno la vita dell’uomo è paragonata alla corsa di un vecchio debole e infermo, gravato da pesi, su un terreno sassoso che gli lacera i piedi scalzi: corsa che ha per meta un abisso dove egli alla fine precipita.

La vita è dunque sofferenza senza senso, che non acquista senso neanche dalla morte. Infatti, a differenza di Manzoni, per Leopardi con la morte tutto ha termine, e non esiste una vita ultraterrena che ristabilisca la giustizia, che dia significato al dolore terreno.

Il non senso della vita umana, non confortata da alcuna provvidenza, si esprime nei grandi interrogativi presenti nei Canti leopardiani (che senso ha la vita? perché essa è solo dolore? perché la natura ci è matrigna?), interrogativi che suonano nel vuoto, che rimangono senza risposta.

Tuttavia l’uomo ha una stagione felice: quella della fanciullezza e della giovinezza, perché questa è un’età in cui domina il sentimento e la ragione ancora non gli ha rivelato la verità amara della sua condizione.

lunedì 21 marzo 2011

La visione del mondo di Manzoni: il vero la giustizia e la provvidenza di Massimo Capuozzo


Alessandro Manzoni è uno dei più autorevoli esponenti della tendenza realistica ed oggettiva del Romanticismo italiano, in linea di continuità con la corrente illuministica che, nella seconda metà del Settecento, aveva fatto di Milano uno dei centri culturalmente più avanzati della penisola.

Il suo romanticismo si può rilevare sia dai suoi scritti teorici[1] a favore del Romanticismo e sia dalla sua religiosità. Però abbiamo anche altri aspetti come quello classico e illuminista che si vedono nella chiarezza della lingua ed anche nelle idee sulla rivoluzione francese che lo rieducarono allo spirito di fratellanza e all'amore verso gli umili.

Oltre alla religiosità, abbiamo in lui una grande moralità, cioè l'amore verso una letteratura che, utile, serve ad educare.

Le opere prima della conversione mostrano soprattutto la sua abilità di scrittura e i primi interessi dello scrittore ci fanno capire la sua moralità e il suo amore verso la verità.

Nel carme «In morte di Carlo Imbonati» Manzoni vede già la letteratura come qualche cosa che deve educare al vero, ai sentimenti onesti e liberi.

Il santo vero

Dal Carme in morte di Carlo Imbonati di Alessandro Manzoni[2]

“Sentir”, riprese, “e meditar: di poco

Esser contento: da la meta mai

Non torcer gli occhi: conservar la mano

Pura e la mente: de le umane cose

Tanto sperimentar, quanto ti basti

Per non curarle: non ti far mai servo:

Non far tregua coi vili: il santo Vero

Mai non tradir: né proferir mai verbo,

Che plauda al vizio o la virtù derida.”

L’incontro giovanile di Manzoni con l’Illuminismo prima a Milano poi a Parigi concorse in grande misura ad orientare il suo cattolicesimo. Nel Vangelo infatti lo scrittore cercò e trovò una risposta a quelle istanze di uguaglianza e di fraternità che erano state i punti chiave dell’Illumini­smo (si ricordi il famoso trinomio «libertà, uguaglianza, fraternità») e che egli aveva fatto sue. Con la differenza che, mentre gli illuministi ponevano a base di tali istanze il fatto che la ragione è bene comune a tutti gli uomini, e per tutti stabilisce parità di di­ritti e di doveri, egli le collegò alla comune paternità di Dio, che fa sì che tutti gli uo­mini, in quanto suoi figli, siano fra loro uguali e fratelli.

In questo senso sì può parlare di un cattolicesimo democratico di Manzoni. La sua religiosità si dimostra con l'amore verso gli umili, i deboli e gli infelici ed in questo Manzoni è romantico: egli vede la vita come dolore, ma, mentre Foscolo crede nelle illusioni, Manzoni crede in Dio, e quindi vede nel dolore la necessità che serve all'uomo per diventare migliore. Questo è il senso ultimo del suo Cattolicesimo democratico: grazie al fatto che ognuno di noi è figlio di Dio, tutti siamo uguali nello spirito.

La sua profonda religiosità è presente in tutte le opere, perchè Manzoni vede dovunque la presenza della Provvidenza divina e considera la vita come una missione perchè ognuno di noi dovrebbe pensare a fare del bene.

La sollecitudine per gli umili, per i diseredati della società e gli ignorati dalla storia ufficiale, è costante nello scrittore, dagli Inni sacri, alle tragedie, ai Promessi Sposi.

Da La Pentecoste[3]

Dagli Inni sacri[4]

Madre de’ Santi, immagine

Della città superna,

Del sangue incorruttibile

Conservatrice eterna;

Tu che, da tanti secoli,

Soffri, combatti e preghi,

Che le tue tende spieghi

Dall’uno all’altro mar;

Campo di quei che sperano;

Chiesa del Dio vivente,

Dov’eri mai? qual angolo

Ti raccogliea nascente,

Quando il tuo Re, dai perfidi

Tratto a morir sul colle,

Imporporò le zolle

Del suo sublime altar?

E allor che dalle tenebre

La diva spoglia uscita,

Mise il potente anelito

Della seconda vita;

E quando, in man recandosi

Il prezzo del perdono,

Da questa polve al trono

Del Genitor salì;

Compagna del suo gemito,

Conscia de’ suoi misteri,

Tu, della sua vittoria

Figlia immortal, dov’eri?

In tuo terror sol vigile,

Sol nell’obblio secura,

Stavi in riposte mura,

Fino a quel sacro dì,

Quando su te lo Spirito

Rinnovator discese

E l’inconsunta fiaccola

Nella tua destra accese;

Quando, segnal de’ popoli,

Ti collocò sul monte,

E ne’ tuoi labbri il fonte

Della parola aprì.

Come la luce rapida

Piove di cosa in cosa,

E i color vari suscita

Dovunque si riposa;

Tal risonò moltiplice

La voce dello Spiro:

L’Arabo, il Parto, il Siro

In suo sermon l’udì.

Adorator degl’idoli,

Sparso per ogni lido,

Volgi lo sguardo a Solima,

Odi quel santo grido:

Stanca del vile ossequio,

La terra a Lui ritorni:

E voi che aprite i giorni

Di più felice età,

Spose, che desta il subito

Balzar del pondo ascoso;

Voi già vicine a sciogliere

Il grembo doloroso;

Alla bugiarda pronuba

Non sollevate il canto

Cresce serbato al Santo

Quel che nel sen vi sta.

Perché, baciando i pargoli,

La schiava ancor sospira?

E il sen che nutre i liberi

Invidiando mira?

Non sa che al regno i miseri

Seco il Signor solleva?

Che a tutti i figli d’Eva

Nel suo dolor pensò?

Nova franchigia annunziano

I cieli, e genti nove;

Nove conquiste, e gloria

Vinta in più belle prove;

Nova, ai terrori immobile

E alle lusinghe infide,

Pace, che il mondo irride,

Ma che rapir non può.

Alle ingiustizie del mondo, alla prevaricazione dei forti e alla sopraffazione costante dei debo­li, Manzoni contrappone l’istanza della giustizia.

Se, nella sua pienezza, la giustizia per il cristiano Manzoni potrà realizzarsi solo nell’aldilà, tuttavia gli uomini degni di questo nome devono battersi perché anche su questa terra essa si attui il più possibile, perché l’ingiustizia sia sconfitta. Con questo spirito agiscono i personaggi positivi e combattivi del romanzo: padre Cristoforo, il cardinal Federigo, lo stesso Renzo per quanto glielo consentono le sue limitate forze. Chi combatte per la giustizia ha Dio dalla sua parte. Questo pessimismo intorno alla possibilità dell'uomo e della storia umana di attuare la giustizia è profondo nella tragedie Il Conte di Carmagnola (1816-20) e Adelchi (1820-22). In questi anni Manzoni è impegnato nelle meditazioni sulla storia e sull'estetica e compone le Osservazioni sulla morale cattolica (1819, riprese più tardi, nel 1855) per rispondere a Sismondi il quale nella Storia delle repubbliche italiane del Medioevo aveva accusato la chiesa della decadenza politica e morale italiana.

Al tema della giustizia si collega in tal modo quello della provvidenza, grazie alla quale anche il male – secondo Manzoni – può essere ricompreso in una visione più globale della Storia. Il dolore che gli uomini soffrono a causa delle ingiustizie/oppressioni non può mai essere disperato se si ripone fiducia nella provvidenza divina.

La morte di Ermengarda

Da Adelchi[5]

http://www.atuttascuola.it/poesia/ermengarda.mp3


Sparsa le trecce morbide

su l'affannoso petto,

lenta le palme, e rorida

di morte il bianco aspetto,

giace la pia, col tremolo

guardo cercando il ciel.

Cessa il compianto: unanime

s'innalza una preghiera:

calata in su la gelida

fronte una man leggiera

su la pupilla cerula

stende l'estremo vel.

Sgombra, o gentil, dall'ansia

mente i terrestri ardori;

leva all'Eterno un candido

pensier d'offerta, e muori:

fuor della vita è il termine

del lungo tuo martir.

Tal della mesta, immobile

era quaggiuso il fato,

sempre un obblìo di chiedere

che le saria negato,

e al Dio dei santi ascendere

santa del suo patir.

Ahi! nelle insonni tenebre,

pei claustri solitari,

fra il canto delle vergini,

ai supplicati altari,

sempre al pensier tornavano

gli irrevocati dì;

quando ancor cara, improvvida

d'un avvenir mal fido,

ebbra spirò le vivide

aure del Franco lido,

e fra le nuore Saliche

invidiata uscì :

quando da un poggio aereo

il biondo crin gemmata

vedea nel pian discorrer

la caccia affaccendata

e su le sciolte redini

chino il chiomato sir;

e dietro a lui la furia

dei corridor fumanti;

e lo sbandarsi, e il rapi redir

dei veltri ansanti

e dai tentati triboli

l'irto cinghiale uscir;

e la battuta polvere

rigar di sangue, còlto

dal regio stral: la tenera

alle donzelle il volto

torcea repente, pallida

d'amabile terror.

Oh Mosa errante! oh tepidi

lavacri d'Aquisgrano!

Ove, deposta l'orrida

maglia, il guerrier sovrano,

scendea del campo a tergere

il nobile sudor!

Come rugiada al cespite

dell'erba inaridita,

fresca negli arsi calami

fa rifluir la vita,

che verdi ancor risorgono

nel temperato albor;

tale al pensier, cui l'empia,

virtù d'amor fatica

discende il refrigerio

d'una parola amica,

e il cor diverte ai placidi

gaudii d'un altro amor.

Ma come il sol che reduce

l'erta infocata ascende,

e con la vampa assidua

l'immobil aura incende

risorti appena i gracili

steli riarde al suol;


ratto così dal tenue

obblio torna immortale

l'amor sopito, e l'anima

impaurita assale,

e le sviate immagini

richiama al noto duol.


Sgombra, o gentil, dall'ansia

mente i terrestri ardori;

leva all'Eterno un candido

pensier d'offerta, e muori:

nel suol che dee la tenera

tua spoglia ricoprir,

altre infelici dormono,

che il duol consunse; orbate

spose dal brando, e vergini

indarno fidanzate;

madri, che i nati videro

trafitti impallidir

Te dalla rea progenie

degli oppressor discesa,

cui fu prodezza il numero

cui fu ragion l'offesa,

e dritto il sangue, e gloria

il non aver pietà,

te collocò la provida sventura

in fra gli oppressi:

muori compianta e placida;

scendi a dormir con essi:

alle incolpate ceneri

nessuno insulterà.

Muori; e la faccia esanime

si ricomponga in pace;

com'era allor che improvvida

d'un avvenir fallace,

lievi pensier virginei

solo pingea. Così...


dalle squarciate nuvole

si svolge il sol cadente

e dietro il monte imporpora

il trepido occidente:

al pio colono augurio

di più sereno dì.

Nei Promessi sposi il ruolo di protagonisti è invece tenuto da due operai di estrazione contadina, «genti meccaniche e di piccolo affare», come dice Manzoni nell’introduzione al romanzo. E, con un capovolgimento rivoluzionario, coloro che nel giudizio del mon­do sono in alto nella scala sociale, i cosiddetti «personaggi d’autorità», sono qui valu­tati positivamente o negativamente a seconda che si mettano al servizio degli umili o che siano loro avversi.

Introduzione

Da I promessi sposi

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« L'Historia si può veramente deffinire una guerra illustre contro il Tempo, perché togliendoli di mano gl'anni suoi prigionieri, anzi già fatti cadaueri, li richiama in vita, li passa in rassegna, e li schiera di nuovo in battaglia. Ma gl'illustri Campioni che in tal Arringo fanno messe di Palme e d'Allori, rapiscono solo che le sole spoglie più sfarzose e brillanti, imbalsamando co' loro inchiostri le Imprese de Prencipi e Potentati, e qualificati Personaggj, e trapontando coll'ago finissimo dell'ingegno i fili d'oro e di seta, che formano un perpetuo ricamo di Attioni gloriose. Però alla mia debolezza non è lecito solleuarsi a tal'argomenti, e sublimità pericolose, con aggirarsi tra Labirinti de' Politici maneggj, et il rimbombo de' bellici Oricalchi: solo che hauendo hauuto notitia di fatti memorabili, se ben capitorno a gente meccaniche, e di piccol affare, mi accingo di lasciarne memoria a Posteri, con far di tutto schietta e genuinamente il Racconto, ouuero sia Relatione. Nella quale si vedrà in angusto Teatro luttuose Traggedie d'horrori, e Scene di malvaggità grandiosa, con intermezi d'Imprese virtuose e buontà angeliche, opposte alle operationi diaboliche. E veramente, considerando che questi nostri climi sijno sotto l'amparo del Re Cattolico nostro Signore, che è quel Sole che mai tramonta, e che sopra di essi, con riflesso Lume, qual Luna giamai calante, risplenda l'Heroe di nobil Prosapia che pro tempore ne tiene le sue parti, e gl'Amplissimi Senatori quali Stelle fisse, e gl'altri Spettabili Magistrati qual'erranti Pianeti spandino la luce per ogni doue, venendo così a formare un nobilissimo Cielo, altra causale trouar non si può del vederlo tramutato in inferno d'atti tenebrosi, malvaggità e sevitie che dagl'huomini temerarij si vanno moltiplicando, se non se arte e fattura diabolica, attesoché l'humana malitia per sé sola bastar non dourebbe a resistere a tanti Heroi, che con occhij d'Argo e braccj di Briareo, si vanno trafficando per li pubblici emolumenti. Per locché descriuendo questo Racconto auuenuto ne' tempi di mia verde staggione, abbenché la più parte delle persone che vi rappresentano le loro parti, sijno sparite dalla Scena del Mondo, con rendersi tributarij delle Parche, pure per degni rispetti, si tacerà li loro nomi, cioè la parentela, et il medesmo si farà de' luochi, solo indicando li Territorij generaliter. Né alcuno dirà questa sij imperfettione del Racconto, e defformità di questo mio rozzo Parto, a meno questo tale Critico non sij persona affatto diggiuna della Filosofia: che quanto agl'huomini in essa versati, ben vederanno nulla mancare alla sostanza di detta Narratione. Imperciocché, essendo cosa evidente, e da verun negata non essere i nomi se non puri purissimi accidenti...»

«Ma, quando io avrò durata l'eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e graffiato autografo, e l'avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica di leggerla?»

Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse di fare. « Ben è vero, dicevo tra me, scartabellando il manoscritto, ben è vero che quella grandine di concettini e di figure non continua così alla distesa per tutta l'opera. Il buon secentista ha voluto sul principio mettere in mostra la sua virtu; ma poi, nel corso della narrazione, e talvolta per lunghi tratti, lo stile cammina ben più naturale e più piano. Sì; ma com'è dozzinale! com'è sguaiato! com'è scorretto! Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati. E poi, qualche eleganza spagnola seminata qua e là; e poi, ch'è peggio, ne' luoghi più terribili o più pietosi della storia, a ogni occasione d'eccitar maraviglia, o di far pensare, a tutti que' passi insomma che richiedono bensì un po' di rettorica, ma rettorica discreta, fine, di buon gusto, costui non manca mai di metterci di quella sua così fatta del proemio. E allora, accozzando, con un'abilità mirabile, le qualità più opposte, trova la maniera di riuscir rozzo insieme e affettato, nella stessa pagina, nello stesso periodo, nello stesso vocabolo. Ecco qui: declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri, e da per tutto quella goffaggine ambiziosa, ch'è il proprio carattere degli scritti di quel secolo, in questo paese. In vero, non è cosa da presentare a lettori d'oggigiorno: son troppo ammaliziati, troppo disgustati di questo genere di stravaganze. Meno male, che il buon pensiero m'è venuto sul principio di questo sciagurato lavoro: e me ne lavo le mani».

Nell'atto però di chiudere lo scartafaccio, per riporlo, mi sapeva male che una storia così bella dovesse rimanersi tuttavia sconosciuta; perché, in quanto storia, può essere che al lettore ne paia altrimenti, ma a me era parsa bella, come dico; molto bella. « Perché non si potrebbe, pensai, prender la serie de' fatti da questo manoscritto, e rifarne la dicitura? » Non essendosi presentato alcuna obiezion ragionevole, il partito fu subito abbracciato. Ed ecco l'origine del presente libro, esposta con un'ingenuità pari all'importanza del libro medesimo.

Taluni però di que' fatti, certi costumi descritti dal nostro autore, c'eran sembrati così nuovi, così strani, per non dir peggio, che, prima di prestargli fede, abbiam voluto interrogare altri testimoni; e ci siam messi a frugar nelle memorie di quel tempo, per chiarirci se veramente il mondo camminasse allora a quel modo. Una tale indagine dissipò tutti i nostri dubbi: a ogni passo ci abbattevamo in cose consimili, e in cose più forti: e, quello che ci parve più decisivo, abbiam perfino ritrovati alcuni personaggi, de' quali non avendo mai avuto notizia fuor che dal nostro manoscritto, eravamo in dubbio se fossero realmente esistiti. E, all'occorrenza, citeremo alcuna di quelle testimonianze, per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranezza, il lettore sarebbe più tentato di negarla.

Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il punto.

Chiunque, senza esser pregato, s'intromette a rifar l'opera altrui, s'espone a rendere uno stretto conto della sua, e ne contrae in certo modo l'obbligazione: è questa una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d'indovinare le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ribatterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse insieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche, mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam battere l'una dall'altra; o, esaminandole ben a fondo, riscontrandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare che, così opposte in apparenza, eran però d'uno stesso genere, nascevan tutt'e due dal non badare ai fatti e ai principi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così ad evidenza d'aver fatto bene. Ma che? quando siamo stati al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e risposte, per disporle con qualche ordine, misericordia! venivano a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà certamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustificarne un altro, anzi lo stile d'un altro, potrebbe parer cosa ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quando non è d'avanzo.

Il tema della provvidenza, che percorre tutta l’opera manzoniana, si dispiega soprattutto nel romanzo.

In esso la provvidenza conforta gli umili nelle loro tribolazioni, dà loro fiducia e persino sicurezza d’animo, ma la provvidenza confonde e annienta anche i prepotenti, così che alla fine la giustizia, sia pure faticosamente, trionfa, come dimostra la vicenda dei due promessi sposi, gente di buona volontà, che dopo tante traversie riescono a raggiungere anche su questa terra la serenità che si sono meritata.

L’incontro di don Abbondio e i bravi

Fra Cristoforo e don Rodrigo

Addio monti…

Il rapimento di Lucia

Il colloquio fra Lucia e l’Innominato

Da I promessi sposi[6] (cap. 21)

http://controversi.org/promessisposi/manzoni_i_promes_sil_23_cap21.mp3

La vecchia era corsa a ubbidire e a comandare, con l'autorità di quel nome che, da chiunque fosse pronunziato in quel luogo, li faceva spicciar tutti; perché a nessuno veniva in testa che ci fosse uno tanto ardito da servirsene falsamente. Si trovò infatti alla Malanotte un po' prima che la carrozza ci arrivasse; e vistala venire, uscì di bussola, fece segno al cocchiere che fermasse, s'avvicinò allo sportello; e al Nibbio, che mise il capo fuori, riferì sottovoce gli ordini del padrone.

Lucia, al fermarsi della carrozza, si scosse, e rinvenne da una specie di letargo. Si sentì da capo rimescolare il sangue, spalancò la bocca e gli occhi, e guardò. Il Nibbio s'era tirato indietro; e la vecchia, col mento sullo sportello, guardando Lucia, diceva: - venite, la mia giovine; venite, poverina; venite con me, che ho ordine di trattarvi bene e di farvi coraggio.

Al suono d'una voce di donna, la poverina provò un conforto, un coraggio momentaneo; ma ricadde subito in uno spavento più cupo. - Chi siete? - disse con voce tremante, fissando lo sguardo attonito in viso alla vecchia.

- Venite, venite, poverina, - andava questa ripetendo. Il Nibbio e gli altri due, argomentando dalle parole e dalla voce così straordinariamente raddolcita di colei, quali fossero l'intenzioni del signore, cercavano di persuader con le buone l'oppressa a ubbidire. Ma lei seguitava a guardar fuori; e benché il luogo selvaggio e sconosciuto, e la sicurezza de' suoi guardiani non le lasciassero concepire speranza di soccorso, apriva non ostante la bocca per gridare; ma vedendo il Nibbio far gli occhiacci del fazzoletto, ritenne il grido, tremò, si storse, fu presa e messa nella bussola. Dopo, c'entrò la vecchia; il Nibbio disse ai due altri manigoldi che andassero dietro, e prese speditamente la salita, per accorrere ai comandi del padrone.

- Chi siete? - domandava con ansietà Lucia al ceffo sconosciuto e deforme: - perché son con voi? dove sono? dove mi conducete?

- Da chi vuol farvi del bene, - rispondeva la vecchia, - da un gran... Fortunati quelli a cui vuol far del bene! Buon per voi, buon per voi. Non abbiate paura, state allegra, ché m'ha comandato di farvi coraggio. Glielo direte, eh? che v'ho fatto coraggio?

- Chi è? perché? che vuol da me? Io non son sua. Ditemi dove sono; lasciatemi andare; dite a costoro che mi lascino andare, che mi portino in qualche chiesa. Oh! voi che siete una donna, in nome di Maria Vergine...!

Quel nome santo e soave, già ripetuto con venerazione ne' primi anni, e poi non più invocato per tanto tempo, né forse sentito proferire, faceva nella mente della sciagurata che lo sentiva in quel momento, un'impressione confusa, strana, lenta, come la rimembranza della luce, in un vecchione accecato da bambino.

Intanto l'innominato, ritto sulla porta del castello, guardava in giù; e vedeva la bussola venir passo passo, come prima la carrozza, e avanti, a una distanza che cresceva ogni momento, salir di corsa il Nibbio. Quando questo fu in cima, il signore gli accennò che lo seguisse; e andò con lui in una stanza del castello.

- Ebbene? - disse, fermandosi lì.

- Tutto a un puntino, - rispose, inchinandosi, il Nibbio: - l'avviso a tempo, la donna a tempo, nessuno sul luogo, un urlo solo, nessuno comparso, il cocchiere pronto, i cavalli bravi, nessun incontro: ma...

- Ma che?

- Ma... dico il vero, che avrei avuto più piacere che l'ordine fosse stato di darle una schioppettata nella schiena, senza sentirla parlare, senza vederla in viso.

- Cosa? cosa? che vuoi tu dire?

- Voglio dire che tutto quel tempo, tutto quel tempo... M'ha fatto troppa compassione.

- Compassione! Che sai tu di compassione? Cos'è la compassione?

- Non l'ho mai capito così bene come questa volta: è una storia la compassione un poco come la paura: se uno la lascia prender possesso, non è più uomo.

- Sentiamo un poco come ha fatto costei per moverti a compassione.

- O signore illustrissimo! tanto tempo...! piangere, pregare, e far cert'occhi, e diventar bianca bianca come morta, e poi singhiozzare, e pregar di nuovo, e certe parole...

"Non la voglio in casa costei, - pensava intanto l'innominato.

- Sono stato una bestia a impegnarmi; ma ho promesso, ho promesso. Quando sarà lontana..." E alzando la testa, in atto di comando, verso il Nibbio, - ora, - gli disse, - metti da parte la compassione: monta a cavallo, prendi un compagno, due se vuoi; e va' di corsa a casa di quel don Rodrigo che tu sai. Digli che mandi... ma subito subito, perché altrimenti...

Ma un altro no interno più imperioso del primo gli proibì di finire. - No, - disse con voce risoluta, quasi per esprimere a se stesso il comando di quella voce segreta, - no: va' a riposarti; e domattina... farai quello che ti dirò!

"Un qualche demonio ha costei dalla sua, - pensava poi, rimasto solo, ritto, con le braccia incrociate sul petto, e con lo sguardo immobile sur una parte del pavimento, dove il raggio della luna, entrando da una finestra alta, disegnava un quadrato di luce pallida, tagliata a scacchi dalle grosse inferriate, e intagliata più minutamente dai piccoli compartimenti delle vetriate. - Un qualche demonio, o... un qualche angelo che la protegge... Compassione al Nibbio!... Domattina, domattina di buon'ora, fuor di qui costei; al suo destino, e non se ne parli più, e, - proseguiva tra sé, con quell'animo con cui si comanda a un ragazzo indocile, sapendo che non ubbidirà, - e non ci si pensi più. Quell'animale di don Rodrigo non mi venga a romper la testa con ringraziamenti; che... non voglio più sentir parlar di costei. L'ho servito perché... perché ho promesso: e ho promesso perché... è il mio destino. Ma voglio che me lo paghi bene questo servizio, colui. Vediamo un poco..."

E voleva almanaccare cosa avrebbe potuto richiedergli di scabroso, per compenso, e quasi per pena; ma gli si attraversaron di nuovo alla mente quelle parole: compassione al Nibbio! "Come può aver fatto costei? - continuava, strascinato da quel pensiero. - Voglio vederla... Eh! no... Sì, voglio vederla".

E d'una stanza in un'altra, trovò una scaletta, e su a tastone, andò alla camera della vecchia, e picchiò all'uscio con un calcio.

- Chi è?

- Apri.

A quella voce, la vecchia fece tre salti; e subito si sentì scorrere il paletto negli anelli, e l'uscio si spalancò. L'innominato, dalla soglia, diede un'occhiata in giro; e, al lume d'una lucerna che ardeva sur un tavolino, vide Lucia rannicchiata in terra, nel canto il più lontano dall'uscio.

- Chi t'ha detto che tu la buttassi là come un sacco di cenci, sciagurata? - disse alla vecchia, con un cipiglio iracondo.

- S'è messa dove le è piaciuto, - rispose umilmente colei: - io ho fatto di tutto per farle coraggio: lo può dire anche lei; ma non c'è stato verso.

- Alzatevi, - disse l'innominato a Lucia, andandole vicino. Ma Lucia, a cui il picchiare, l'aprire, il comparir di quell'uomo, le sue parole, avevan messo un nuovo spavento nell'animo spaventato, stava più che mai raggomitolata nel cantuccio, col viso nascosto tra le mani, e non movendosi, se non che tremava tutta.

- Alzatevi, ché non voglio farvi del male... e posso farvi del bene, - ripeté il signore... - Alzatevi! - tonò poi quella voce, sdegnata d'aver due volte comandato invano.

Come rinvigorita dallo spavento, l'infelicissima si rizzò subito inginocchioni; e giungendo le mani, come avrebbe fatto davanti a un'immagine, alzò gli occhi in viso all'innominato, e riabbassandoli subito, disse: - son qui: m'ammazzi.

- V'ho detto che non voglio farvi del male, - rispose, con voce mitigata, l'innominato, fissando quel viso turbato dall'accoramento e dal terrore.

- Coraggio, coraggio, - diceva la vecchia: - se ve lo dice lui, che non vuol farvi del male...

- E perché, - riprese Lucia con una voce, in cui, col tremito della paura, si sentiva una certa sicurezza dell'indegnazione disperata, - perché mi fa patire le pene dell'inferno? Cosa le ho fatto io?...

- V'hanno forse maltrattata? Parlate.

- Oh maltrattata! M'hanno presa a tradimento, per forza! perché? perché m'hanno presa? perché son qui? dove sono? Sono una povera creatura: cosa le ho fatto? In nome di Dio...

- Dio, Dio, - interruppe l'innominato: - sempre Dio: coloro che non possono difendersi da sé, che non hanno la forza, sempre han questo Dio da mettere in campo, come se gli avessero parlato. Cosa pretendete con codesta vostra parola? Di farmi...? - e lasciò la frase a mezzo.

- Oh Signore! pretendere! Cosa posso pretendere io meschina, se non che lei mi usi misericordia? Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia! Mi lasci andare; per carità mi lasci andare! Non torna conto a uno che un giorno deve morire di far patir tanto una povera creatura. Oh! lei che può comandare, dica che mi lascino andare! M'hanno portata qui per forza. Mi mandi con questa donna a *** dov'è mia madre. Oh Vergine santissima! mia madre! mia madre, per carità, mia madre! Forse non è lontana di qui... ho veduto i miei monti! Perché lei mi fa patire? Mi faccia condurre in una chiesa. Pregherò per lei, tutta la mia vita. Cosa le costa dire una parola? Oh ecco! vedo che si move a compassione: dica una parola, la dica. Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!

"Oh perché non è figlia d'uno di que' cani che m'hanno bandito! - pensava l'innominato: - d'uno di que' vili che mi vorrebbero morto! che ora godrei di questo suo strillare; e in vece..."

- Non iscacci una buona ispirazione! - proseguiva fervidamente Lucia, rianimata dal vedere una cert'aria d'esitazione nel viso e nel contegno del suo tiranno. - Se lei non mi fa questa carità, me la farà il Signore: mi farà morire, e per me sarà finita; ma lei!... Forse un giorno anche lei... Ma no, no; pregherò sempre io il Signore che la preservi da ogni male. Cosa le costa dire una parola? Se provasse lei a patir queste pene...!

- Via, fatevi coraggio, - interruppe l'innominato, con una dolcezza che fece strasecolar la vecchia. - V'ho fatto nessun male? V'ho minacciata?

- Oh no! Vedo che lei ha buon cuore, e che sente pietà di questa povera creatura. Se lei volesse, potrebbe farmi paura più di tutti gli altri, potrebbe farmi morire; e in vece mi ha... un po' allargato il cuore. Dio gliene renderà merito. Compisca l'opera di misericordia: mi liberi, mi liberi.

- Domattina...

- Oh mi liberi ora, subito...

- Domattina ci rivedremo, vi dico. Via, intanto fatevi coraggio. Riposate. Dovete aver bisogno di mangiare. Ora ve ne porteranno.

- No, no; io moio se alcuno entra qui: io moio. Mi conduca lei in chiesa... que' passi Dio glieli conterà.

- Verrà una donna a portarvi da mangiare, - disse l'innominato; e dettolo, rimase stupito anche lui che gli fosse venuto in mente un tal ripiego, e che gli fosse nato il bisogno di cercarne uno, per rassicurare una donnicciola.

- E tu, - riprese poi subito, voltandosi alla vecchia, - falle coraggio che mangi; mettila a dormire in questo letto: e se ti vuole in compagnia, bene; altrimenti, tu puoi ben dormire una notte in terra. Falle coraggio, ti dico; tienla allegra. E che non abbia a lamentarsi di te!

Così detto, si mosse rapidamente verso l'uscio. Lucia s'alzò e corse per trattenerlo, e rinnovare la sua preghiera; ma era sparito.

- Oh povera me! Chiudete, chiudete subito -. E sentito ch'ebbe accostare i battenti e scorrere il paletto, tornò a rannicchiarsi nel suo cantuccio. - Oh povera me! - esclamò di nuovo singhiozzando: - chi pregherò ora? Dove sono? Ditemi voi, ditemi per carità, chi è quel signore... quello che m'ha parlato?

- Chi è, eh? chi è? Volete ch'io ve lo dica. Aspetta ch'io te lo dica. Perché vi protegge, avete messo su superbia; e volete esser soddisfatta voi, e farne andar di mezzo me. Domandatene a lui. S'io vi contentassi anche in questo, non mi toccherebbe di quelle buone parole che avete sentite voi. - Io son vecchia, son vecchia, - continuò, mormorando tra i denti. - Maledette le giovani, che fanno bel vedere a piangere e a ridere, e hanno sempre ragione -. Ma sentendo Lucia singhiozzare, e tornandole minaccioso alla mente il comando del padrone, si chinò verso la povera rincantucciata, e, con voce raddolcita, riprese: - via, non v'ho detto niente di male: state allegra. Non mi domandate di quelle cose che non vi posso dire; e del resto, state di buon animo. Oh se sapeste quanta gente sarebbe contenta di sentirlo parlare come ha parlato a voi! State allegra, che or ora verrà da mangiare; e io che capisco... nella maniera che v'ha parlato, ci sarà della roba buona. E poi anderete a letto, e... mi lascerete un cantuccino anche a me, spero, - soggiunse, con una voce, suo malgrado, stizzosa.

- Non voglio mangiare, non voglio dormire. Lasciatemi stare; non v'accostate; non partite di qui!

- No, no, via, - disse la vecchia, ritirandosi, e mettendosi a sedere sur una seggiolaccia, donde dava alla poverina certe occhiate di terrore e d'astio insieme; e poi guardava il suo covo, rodendosi d'esserne forse esclusa per tutta la notte, e brontolando contro il freddo. Ma si rallegrava col pensiero della cena, e con la speranza che ce ne sarebbe anche per lei. Lucia non s'avvedeva del freddo, non sentiva la fame, e come sbalordita, non aveva de' suoi dolori, de' suoi terrori stessi, che un sentimento confuso, simile all'immagini sognate da un febbricitante.

Si riscosse quando sentì picchiare; e, alzando la faccia atterrita, gridò: - chi è? chi è? Non venga nessuno!

- Nulla, nulla; buone nuove, - disse la vecchia: - è Marta che porta da mangiare.

- Chiudete, chiudete! - gridava Lucia.

- Ih! subito, subito, - rispondeva la vecchia; e presa una paniera dalle mani di quella Marta, la mandò via, richiuse, e venne a posar la paniera sur una tavola nel mezzo della camera. Invitò poi più volte Lucia che venisse a goder di quella buona roba. Adoprava le parole più efficaci, secondo lei, a mettere appetito alla poverina, prorompeva in esclamazioni sulla squisitezza de' cibi: - di que' bocconi che, quando le persone come noi possono arrivare a assaggiarne, se ne ricordan per un pezzo! Del vino che beve il padrone co' suoi amici... quando capita qualcheduno di quelli...! e vogliono stare allegri! Ehm! - Ma vedendo che tutti gl'incanti riuscivano inutili, - siete voi che non volete, - disse. - Non istate poi a dirgli domani ch'io non v'ho fatto coraggio. Mangerò io; e ne resterà più che abbastanza per voi, per quando metterete giudizio, e vorrete ubbidire -. Così detto, si mise a mangiare avidamente. Saziata che fu, s'alzò, andò verso il cantuccio, e, chinandosi sopra Lucia, l'invitò di nuovo a mangiare, per andar poi a letto.

- No, no, non voglio nulla, - rispose questa, con voce fiacca e come sonnolenta. Poi, con più risolutezza, riprese: - è serrato l'uscio? è serrato bene? - E dopo aver guardato in giro per la camera, s'alzò, e, con le mani avanti, con passo sospettoso, andava verso quella parte.

La vecchia ci corse prima di lei, stese la mano al paletto, lo scosse, e disse: - sentite? vedete? è serrato bene? siete contenta ora?

- Oh contenta! contenta io qui! - disse Lucia, rimettendosi di nuovo nel suo cantuccio. - Ma il Signore lo sa che ci sono!

- Venite a letto: cosa volete far lì, accucciata come un cane? S'è mai visto rifiutare i comodi, quando si possono avere?

- No, no; lasciatemi stare.

- Siete voi che lo volete. Ecco, io vi lascio il posto buono: mi metto sulla sponda; starò incomoda per voi. Se volete venire a letto, sapete come avete a fare. Ricordatevi che v'ho pregata più volte -. Così dicendo, si cacciò sotto vestita; e tutto tacque.

Lucia stava immobile in quel cantuccio, tutta in un gomitolo, con le ginocchia alzate, con le mani appoggiate sulle ginocchia, e col viso nascosto nelle mani. Non era il suo né sonno né veglia, ma una rapida successione, una torbida vicenda di pensieri, d'immaginazioni, di spaventi. Ora, più presente a se stessa, e rammentandosi più distintamente gli orrori veduti e sofferti in quella giornata, s'applicava dolorosamente alle circostanze dell'oscura e formidabile realtà in cui si trovava avviluppata; ora la mente, trasportata in una regione ancor più oscura, si dibatteva contro i fantasmi nati dall'incertezza e dal terrore. Stette un pezzo in quest'angoscia; alfine, più che mai stanca e abbattuta, stese le membra intormentite, si sdraiò, o cadde sdraiata, e rimase alquanto in uno stato più somigliante a un sonno vero. Ma tutt'a un tratto si risentì, come a una chiamata interna, e provò il bisogno di risentirsi interamente, di riaver tutto il suo pensiero, di conoscere dove fosse, come, perché. Tese l'orecchio a un suono: era il russare lento, arrantolato della vecchia; spalancò gli occhi, e vide un chiarore fioco apparire e sparire a vicenda: era il lucignolo della lucerna, che, vicino a spegnersi, scoccava una luce tremola, e subito la ritirava, per dir così, indietro, come è il venire e l'andare dell'onda sulla riva: e quella luce, fuggendo dagli oggetti, prima che prendessero da essa rilievo e colore distinto, non rappresentava allo sguardo che una successione di guazzabugli. Ma ben presto le recenti impressioni, ricomparendo nella mente, l'aiutarono a distinguere ciò che appariva confuso al senso. L'infelice risvegliata riconobbe la sua prigione: tutte le memorie dell'orribil giornata trascorsa, tutti i terrori dell'avvenire, l'assalirono in una volta: quella nuova quiete stessa dopo tante agitazioni, quella specie di riposo, quell'abbandono in cui era lasciata, le facevano un nuovo spavento: e fu vinta da un tale affanno, che desiderò di morire. Ma in quel momento, si rammentò che poteva almen pregare, e insieme con quel pensiero, le spuntò in cuore come un'improvvisa speranza. Prese di nuovo la sua corona, e ricominciò a dire il rosario; e, di mano in mano che la preghiera usciva dal suo labbro tremante, il cuore sentiva crescere una fiducia indeterminata. Tutt'a un tratto, le passò per la mente un altro pensiero; che la sua orazione sarebbe stata più accetta e più certamente esaudita, quando, nella sua desolazione, facesse anche qualche offerta. Si ricordò di quello che aveva di più caro, o che di più caro aveva avuto; giacché, in quel momento, l'animo suo non poteva sentire altra affezione che di spavento, né concepire altro desiderio che della liberazione; se ne ricordò, e risolvette subito di farne un sacrifizio. S'alzò, e si mise in ginocchio, e tenendo giunte al petto le mani, dalle quali pendeva la corona, alzò il viso e le pupille al cielo, e disse: - o Vergine santissima! Voi, a cui mi sono raccomandata tante volte, e che tante volte m'avete consolata! Voi che avete patito tanti dolori, e siete ora tanto gloriosa, e avete fatti tanti miracoli per i poveri tribolati; aiutatemi! fatemi uscire da questo pericolo, fatemi tornar salva con mia madre, Madre del Signore; e fo voto a voi di rimaner vergine; rinunzio per sempre a quel mio poveretto, per non esser mai d'altri che vostra.

Proferite queste parole, abbassò la testa, e si mise la corona intorno al collo, quasi come un segno di consacrazione, e una salvaguardia a un tempo, come un'armatura della nuova milizia a cui s'era ascritta. Rimessasi a sedere in terra, sentì entrar nell'animo una certa tranquillità, una più larga fiducia. Le venne in mente quel domattina ripetuto dallo sconosciuto potente, e le parve di sentire in quella parola una promessa di salvazione. I sensi affaticati da tanta guerra s'assopirono a poco a poco in quell'acquietamento di pensieri: e finalmente, già vicino a giorno, col nome della sua protettrice tronco tra le labbra, Lucia s'addormentò d'un sonno perfetto e continuo.

Ma c'era qualchedun altro in quello stesso castello, che avrebbe voluto fare altrettanto, e non poté mai. Partito, o quasi scappato da Lucia, dato l'ordine per la cena di lei, fatta una consueta visita a certi posti del castello, sempre con quell'immagine viva nella mente, e con quelle parole risonanti all'orecchio, il signore s'era andato a cacciare in camera, s'era chiuso dentro in fretta e in furia, come se avesse avuto a trincerarsi contro una squadra di nemici; e spogliatosi, pure in furia, era andato a letto. Ma quell'immagine, più che mai presente, parve che in quel momento gli dicesse: tu non dormirai. "Che sciocca curiosità da donnicciola, - pensava, - m'è venuta di vederla? Ha ragione quel bestione del Nibbio; uno non è più uomo; è vero, non è più uomo!... Io?... io non son più uomo, io? Cos'è stato? che diavolo m'è venuto addosso? che c'è di nuovo? Non lo sapevo io prima d'ora, che le donne strillano? Strillano anche gli uomini alle volte, quando non si possono rivoltare. Che diavolo! non ho mai sentito belar donne?"

E qui, senza che s'affaticasse molto a rintracciare nella memoria, la memoria da sé gli rappresentò più d'un caso in cui né preghi né lamenti non l'avevano punto smosso dal compire le sue risoluzioni. Ma la rimembranza di tali imprese, non che gli ridonasse la fermezza, che già gli mancava, di compir questa; non che spegnesse nell'animo quella molesta pietà; vi destava in vece una specie di terrore, una non so qual rabbia di pentimento. Di maniera che gli parve un sollievo il tornare a quella prima immagine di Lucia, contro la quale aveva cercato di rinfrancare il suo coraggio. "È viva costei, - pensava, - è qui; sono a tempo; le posso dire: andate, rallegratevi; posso veder quel viso cambiarsi, le posso anche dire: perdonatemi... Perdonatemi? io domandar perdono? a una donna? io...! Ah, eppure! se una parola, una parola tale mi potesse far bene, levarmi d'addosso un po' di questa diavoleria, la direi; eh! sento che la direi. A che cosa son ridotto! Non son più uomo, non son più uomo!... Via! - disse, poi, rivoltandosi arrabbiatamente nel letto divenuto duro duro, sotto le coperte divenute pesanti pesanti: - via! sono sciocchezze che mi son passate per la testa altre volte. Passerà anche questa".

E per farla passare, andò cercando col pensiero qualche cosa importante, qualcheduna di quelle che solevano occuparlo fortemente, onde applicarvelo tutto; ma non ne trovò nessuna. Tutto gli appariva cambiato: ciò che altre volte stimolava più fortemente i suoi desidèri, ora non aveva più nulla di desiderabile: la passione, come un cavallo divenuto tutt'a un tratto restìo per un'ombra, non voleva più andare avanti. Pensando all'imprese avviate e non finite, in vece d'animarsi al compimento, in vece d'irritarsi degli ostacoli (ché l'ira in quel momento gli sarebbe parsa soave), sentiva una tristezza, quasi uno spavento de' passi già fatti. Il tempo gli s'affacciò davanti voto d'ogni intento, d'ogni occupazione, d'ogni volere, pieno soltanto di memorie intollerabili; tutte l'ore somiglianti a quella che gli passava così lenta, così pesante sul capo. Si schierava nella fantasia tutti i suoi malandrini, e non trovava da comandare a nessuno di loro una cosa che gl'importasse; anzi l'idea di rivederli, di trovarsi tra loro, era un nuovo peso, un'idea di schifo e d'impiccio. E se volle trovare un'occupazione per l'indomani, un'opera fattibile, dovette pensare che all'indomani poteva lasciare in libertà quella poverina.

"La libererò, sì; appena spunta il giorno, correrò da lei, e le dirò: andate, andate. La farò accompagnare... E la promessa? e l'impegno? e don Rodrigo?... Chi è don Rodrigo?"

A guisa di chi è colto da una interrogazione inaspettata e imbarazzante d'un superiore, l'innominato pensò subito a rispondere a questa che s'era fatta lui stesso, o piuttosto quel nuovo lui, che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l'antico. Andava dunque cercando le ragioni per cui, prima quasi d'esser pregato, s'era potuto risolvere a prender l'impegno di far tanto patire, senz'odio, senza timore, un'infelice sconosciuta, per servire colui; ma, non che riuscisse a trovar ragioni che in quel momento gli paressero buone a scusare il fatto, non sapeva quasi spiegare a se stesso come ci si fosse indotto. Quel volere, piuttosto che una deliberazione, era stato un movimento istantaneo dell'animo ubbidiente a sentimenti antichi, abituali, una conseguenza di mille fatti antecedenti; e il tormentato esaminator di se stesso, per rendersi ragione d'un sol fatto, si trovò ingolfato nell'esame di tutta la sua vita. Indietro, indietro, d'anno in anno, d'impegno in impegno, di sangue in sangue, di scelleratezza in scelleratezza: ognuna ricompariva all'animo consapevole e nuovo, separata da' sentimenti che l'avevan fatta volere e commettere; ricompariva con una mostruosità che que' sentimenti non avevano allora lasciato scorgere in essa. Eran tutte sue, eran lui: l'orrore di questo pensiero, rinascente a ognuna di quell'immagini, attaccato a tutte, crebbe fino alla disperazione. S'alzò in furia a sedere, gettò in furia le mani alla parete accanto al letto, afferrò una pistola, la staccò, e... al momento di finire una vita divenuta insopportabile, il suo pensiero sorpreso da un terrore, da un'inquietudine, per dir così, superstite, si slanciò nel tempo che pure continuerebbe a scorrere dopo la sua fine. S'immaginava con raccapriccio il suo cadavere sformato, immobile, in balìa del più vile sopravvissuto; la sorpresa, la confusione nel castello, il giorno dopo: ogni cosa sottosopra; lui, senza forza, senza voce, buttato chi sa dove. Immaginava i discorsi che se ne sarebber fatti lì, d'intorno, lontano; la gioia de' suoi nemici. Anche le tenebre, anche il silenzio, gli facevan veder nella morte qualcosa di più tristo, di spaventevole; gli pareva che non avrebbe esitato, se fosse stato di giorno, all'aperto, in faccia alla gente: buttarsi in un fiume e sparire. E assorto in queste contemplazioni tormentose, andava alzando e riabbassando, con una forza convulsiva del pollice, il cane della pistola; quando gli balenò in mente un altro pensiero. "Se quell'altra vita di cui m'hanno parlato quand'ero ragazzo, di cui parlano sempre, come se fosse cosa sicura; se quella vita non c'è, se è un'invenzione de' preti; che fo io? perché morire? cos'importa quello che ho fatto? cos'importa? è una pazzia la mia... E se c'è quest'altra vita...!"

A un tal dubbio, a un tal rischio, gli venne addosso una disperazione più nera, più grave, dalla quale non si poteva fuggire, neppur con la morte. Lasciò cader l'arme, e stava con le mani ne' capelli, battendo i denti, tremando. Tutt'a un tratto, gli tornarono in mente parole che aveva sentite e risentite, poche ore prima: "Dio perdona tante cose, per un'opera di misericordia!" E non gli tornavan già con quell'accento d'umile preghiera, con cui erano state proferite; ma con un suono pieno d'autorità, e che insieme induceva una lontana speranza. Fu quello un momento di sollievo: levò le mani dalle tempie, e, in un'attitudine più composta, fissò gli occhi della mente in colei da cui aveva sentite quelle parole; e la vedeva, non come la sua prigioniera, non come una supplichevole, ma in atto di chi dispensa grazie e consolazioni. Aspettava ansiosamente il giorno, per correre a liberarla, a sentire dalla bocca di lei altre parole di refrigerio e di vita; s'immaginava di condurla lui stesso alla madre. "E poi? che farò domani, il resto della giornata? che farò doman l'altro? che farò dopo doman l'altro? E la notte? la notte, che tornerà tra dodici ore! Oh la notte! no, no, la notte!" E ricaduto nel vòto penoso dell'avvenire, cercava indarno un impiego del tempo, una maniera di passare i giorni, le notti. Ora si proponeva d'abbandonare il castello, e d'andarsene in paesi lontani, dove nessun lo conoscesse, neppur di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé: ora gli rinasceva una fosca speranza di ripigliar l'animo antico, le antiche voglie; e che quello fosse come un delirio passeggiero; ora temeva il giorno, che doveva farlo vedere a' suoi così miserabilmente mutato; ora lo sospirava, come se dovesse portar la luce anche ne' suoi pensieri. Ed ecco, appunto sull'albeggiare, pochi momenti dopo che Lucia s'era addormentata, ecco che, stando così immoto a sedere, sentì arrivarsi all'orecchio come un'onda di suono non bene espresso, ma che pure aveva non so che d'allegro. Stette attento, e riconobbe uno scampanare a festa lontano; e dopo qualche momento, sentì anche l'eco del monte, che ogni tanto ripeteva languidamente il concento, e si confondeva con esso. Di lì a poco, sente un altro scampanìo più vicino, anche quello a festa; poi un altro. "Che allegria c'è? cos'hanno di bello tutti costoro?" Saltò fuori da quel covile di pruni; e vestitosi a mezzo, corse a aprire una finestra, e guardò. Le montagne eran mezze velate di nebbia; il cielo, piuttosto che nuvoloso, era tutto una nuvola cenerognola; ma, al chiarore che pure andava a poco a poco crescendo, si distingueva, nella strada in fondo alla valle, gente che passava, altra che usciva dalle case, e s'avviava, tutti dalla stessa parte, verso lo sbocco, a destra del castello, tutti col vestito delle feste, e con un'alacrità straordinaria.

"Che diavolo hanno costoro? che c'è d'allegro in questo maledetto paese? dove va tutta quella canaglia?" E data una voce a un bravo fidato che dormiva in una stanza accanto, gli domandò qual fosse la cagione di quel movimento. Quello, che ne sapeva quanto lui, rispose che anderebbe subito a informarsene. Il signore rimase appoggiato alla finestra, tutto intento al mobile spettacolo. Erano uomini, donne, fanciulli, a brigate, a coppie, soli; uno, raggiungendo chi gli era avanti, s'accompagnava con lui; un altro, uscendo di casa, s'univa col primo che rintoppasse; e andavano insieme, come amici a un viaggio convenuto. Gli atti indicavano manifestamente una fretta e una gioia comune; e quel rimbombo non accordato ma consentaneo delle varie campane, quali più, quali meno vicine, pareva, per dir così, la voce di que' gesti, e il supplimento delle parole che non potevano arrivar lassù. Guardava, guardava; e gli cresceva in cuore una più che curiosità di saper cosa mai potesse comunicare un trasporto uguale a tanta gente diversa.

La tragica notte dell’Innominato ed il Cardinale Federigo Borromeo: Salvo Randone in scena

Don Rodrigo: in scena Luigi Vannucchi

Un’ultima riflessione. Il problema della lingua travagliò a lungo Manzoni e fu da lui sentito con particolare acutezza nel periodo della composizione del romanzo, un’opera che egli voleva rivolta ad un vasto pubblico e per la quale sentiva l’esigenza di una lingua che fosse popolare e viva, e che inoltre – poiché la sua aspirazione di patriota andava a un’Italia unita in nazione – non avesse caratte­re regionale, ma nazionale. Dopo lunga riflessione e sperimentazione, egli si convinse che la soluzione linguistica possibile in Italia era quella di estendere a tutta la penisola il più evoluto dei suoi dialetti, il fiorentino, e più precisamente il fiorentino parlato dalle persone colte, cioè da quella classe borghese che i romantici identificavano col popolo.



[1] Gli scritti sul Romanticismo – Gli scritti che ci fanno vedere la sua poetica romantica sono: La lettera a Chauvet sulle unità della tragedia in cui Manzoni condanna le tre unità e ama il vero, la verità storica, la storia, che è tutto ciò che succede, mentre la poesia ci aiuta a capire i motivi, i sentimenti più profondi dell'uomo. Per Manzoni un'opera letteraria deve avere come scopo l'utile; come mezzo l'interessante e come contenuto il vero. Nella Lettera sul Romanticismo Manzoni sostiene che il Romanticismo non vuole la mitologia ma vuole, invece, la verità.

[2] La vita – Alessandro Manzoni nacque a Milano, il 15 marzo del 1785, dal conte Pietro Manzoni e da Giulia Beccaria, figlia del famoso giurista Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene. Alessandro fu probabilmente il frutto di una relazione adulterina della madre (sposata suo malgrado con il ricco conte Pietro Manzoni) con Giovanni Verri, il quale, come i fratelli Pietro e Alessandro, era una personalità di punta dell’ambiente culturale milanese. Il conte Pietro Manzoni, che aveva sposato Giulia soprattutto per motivi di interesse, riconobbe il bimbo e mise così a tacere il possibile scandalo, ma la famiglia si separò ugual­mente poco dopo.

Giulia si trasferì a Parigi, unen­dosi con Carlo Imbonati, mentre il neonato fu affi­dato a una balia.

Manzoni trascorse l'infanzia in vari collegi di religiosi a Merate, a Lugano e al Longone di Milano. L’ambiente chiuso ed austero dei collegi indusse Manzoni ad applicarsi allo studio dei classici latini e greci, ma non gli impedì di assorbire, attraverso letture personali e contatti con intellettuali che si ispiravano agli ideali della Rivoluzione francese, le idee anticlericali e ateizzanti e degli Illuministi in genere, che circolavano in quel tempo in Lombardia, cui aggiunse letture di Parini ed Alfieri.

Dopo aver compiuto gli studi, insoddisfatto della formazione culturale arretrata e bigotta che gli era stata impartita e, dopo aver avuto a Milano i primi contatti con esponenti significativi del mondo culturale e letterario italiano, Manzoni preferì orientarsi verso le novità provenienti soprattutto dalla Francia che in que­gli anni era agitata dalla rivoluzione. Sebbene educato nella fede cattolica, se ne allontanò ben presto, aderendo a idee materialistiche e libertarie di stampo illuministico. Risale a questo periodo il suo esordio poetico: soli sedici anni scrisse il primo poemetto, dimostrando una precoce vocazione per la poesia e per la letteratura; questi esperimenti letterari ispirati agli ideali rivoluzionari di libertà, uguaglianza e fratellanza secondo i canoni del Neoclassicismo, allora di moda.

Nel 1805, sua madre chiamò il giovane Alessandro presso di sé a Parigi ed il giovane entrò così in contatto con gli stimolanti ambienti culturali della capitale francese, in cui, accanto alle ideologie illuministiche, con un gruppo di pensatori, i cosiddetti «ideologi», che si raccoglievano intorno a Claude Fauriel, con il quale egli strinse una lunga e tenace amicizia, si andavano affermando le nuove concezioni romantiche: tutto questo gli consentì esperienze che influirono molto sulla sua formazione e sulla sua attività successiva di pensatore e di scrittore.

Nel 1808, a Parigi, Manzoni sposò Enrichetta Blondel, una ginevrina calvinista che si convertì al cattolicesimo: la donna, con la sua viva sensibilità religiosa, influenzò fortemente il giovane intellettuale e contribuì ad approfondire la crisi spirituale, in lui da tempo nascosta, che di lì a qualche anno sarebbe sfociata nella conversione al cattolicesimo.

Nel 1810, dopo una profonda crisi religiosa, sotto la spinta della moglie, Manzoni abbandonò il materialismo illuministico, ritornò alla fede e alle pratiche cattoliche, tanto che giunse a rinnegare tutte le sue precedenti opere in contrasto con la fede cristiana.

La totale conversione di Manzoni fu un evento decisivo per la sua vita e la sua arte: rientrato Milano, Manzoni frequentò i circoli romantici ed in particolare si legò al grup­po degli intellettuali che gravitavano intorno al «Conciliatore», un giornale ben presto soppresso dalla polizia austriaca, in cui trovarono espressione gli ideali del Risorgimento.

Manzoni, pur aderendo pienamente alle istanze politiche del movimento romantico, impegnato nella preparazione del Risorgimento, preferì dedicarsi ai suoi studi, alla composizione dei suoi scritti e alle cure della famiglia che gli crebbe intorno numerosa.

A questa conversione seguirono anni di copiosa produzione letteraria:

Tra il 1812 e il 1822, gli anni più intensamente creativi, Manzoni scrisse gli Inni sacri (La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione, La Pentecoste), le tragedie (Il conte di Carmagnola e l’Adelchi) e le odi (Il Cinque Maggio, Marzo 1821), le Osservazioni sulla morale cattolica, la Lettera a Monsieur Chauvet, la Lettera sul Romanticismo, I Promessi Sposi, di cui la prima stesura è del 1823, intitolato Fermo e Lucia. Nel 1827 egli pubblicò la prima edizione del suo capolavoro, il romanzo storico I promessi sposi.

Dopo il 1827 egli operò una lunga revisione del romanzo, di cui rinnovò soprattutto la lingua, in direzione del fiorentino parlato dalle persone colte. Portò a termine la stesura definitiva nel 1842.

Contemporaneamente alla stesura dei Promessi sposi, Manzoni si interessò profondamente ai problemi della cultura del suo tempo ed espresse in scritti famosi le sue opinioni, sempre sostenute da una spiccata capacità di ragionamento e di analisi; tra questi citiamo la Lettera sul Romanticismo, indirizzata al marchese Cesare d'Azeglio, in cui illustrò e discusse i caratteri fondamentali di quel movimento.

Nel 1833 morì l'amatissima Enrichetta e a quello seguì una funesta serie di lutti familiari, con la scomparsa della madre Giulia e di ben nove degli undici figli nell'arco di pochi anni.

Nel 1837, Manzoni sposò Teresa Borri, vedova Stampa che, con la sua ricchezza, rese più agiata la vita di tutta la famiglia.

Gli anni successivi al 1842, caratterizzati da frequenti ed angosciosi stati depressivi dovuti anche ai numerosi lutti familiari, furono occupati da studi di natura teorica, estetica, linguistica e storica. In questi anni furono composti Del romanzo storico e, in genere, dei compo­nimenti misti di storia e d’invenzione, Dell’invenzione, vari studi sulla lingua italiana, il saggio comparativo su La rivoluzione francese del 1789 e la rivoluzione italiana del 1859. Fondamentali nella storia della nostra lingua furono le teorie manzoniane, al punto che da esse furono tratti i criteri uniformanti per l’insegnamento dell’Italiano nelle scuole pubbliche dell’Italia post-unitaria.

Circondato da larga fama e da innumerevoli manifestazioni di rispetto e riverenza, nel 1861 Manzoni fu nominato senatore del Regno d'Italia e fu tra i sostenitori del trasferimento della capitale a Roma.

Nel 1870, Manzoni ricevette la cittadinanza onoraria di Roma, divenuta ormai capitale d’Italia

Il 22 maggio 1873, Manzoni si spense nella sua casa milanese.

Nell'anniversario della sua scomparsa, il 22 maggio 1874, fu eseguita per la prima volta la Messa di requiem composta in suo onore da Giuseppe Verdi.

[3] La Pentecoste – L'inno sacro più importante è "La pentecoste", perchè riesce a rappresentare in modo completo l'unione dell'aspetto religioso e di quello umano, appunto per la profonda umanità che c'è; quest'inno è più poetico. Pentecoste significa cinquantesimo giorno dopo la Pasqua quando lo Spirito Santo discende sugli Apostoli, i quali da quel giorno iniziarono la predicazione delle dottrine di Cristo. Manzoni nello scrivere questa lirica pensò al Nuovo testamento. Nella Pentecoste il poeta chiede alla Chiesa dove lei si trovava dopo la crocifissione di Cristo, infatti la Chiesa allora era perseguitata e dimenticata fino a quando lo Spirito Santo discese sugli Apostoli che fanno conoscere la verità cristiana, per cui tutti gli uomini conoscono una nuova vita, fatta non di potenza, d'invidia, ma di amore e libertà spirituale.

Alla fine dell'inno, Manzoni prega lo Spirito Santo affinché scenda su tutti gli uomini. In quest'inno è presente il cristianesimo democratico, perchè di fronte a Dio siamo tutti uguali anche se in terra non c'è uguaglianza, quindi quella che dice Manzoni non è un'uguaglianza sociale, rivoluzionaria, ma soprattutto spirituale.

[4] Gli Inni Sacri – Scritti in seguito alla conversione, gli Inni sacri intendevano celebrare le principali feste liturgiche del calendari cristiano che sarebbero dovuti essere dodici, sono le prime testimonianze del rinnovamento religioso e artistico di Manzoni. Essi sono La Resurrezione, Il Nome di Maria, Il Natale, La Passione e La Pentecoste.

La tradizione religiosa è fittamente presente con il ricordo di testi e di idee e ciascun inno celebra prima la festività della chiesa e commenta poi la religiosità. In questi inni il motivo più importante è la discesa di Dio in mezzo agli uomini.

[5] Adelchi – La vicenda si svolge tra il 772 e il 774. Gran parte dell’Italia era allora occupata dai longobardi, guidati da re Desiderio e da suo figlio Adelchi.

Quando la politica di consolidamento del potere spinse il re longobardo a minacciare i territori dello Stato della Chiesa, il papa chiamò in aiuto Carlo Magno, re dei franchi, che assunse la difesa del papato intimando a Desiderio di recedere dai suoi progetti. L’inevitabile guerra tra longobardi e franchi, nel frattempo penetrati in Italia, si concluse con la sconfitta di Desiderio e la morte di Adelchi.

Manzoni inserì nella tragedia due momenti lirici, due cori, il primo dei quali coglie il pavido sgomento del popolo italico alla notizia della sconfitta dei loro dominatori, i longobardi, per opera dei franchi. La massa anonima e silenziosa dei latini si limita ad assistere passivamente agli eventi – che si risolveranno nella sostituzione di una dominazione con un’altra – e offre a Manzoni lo spunto per un’analogia con la condizione servile dell’Italia del suo tempo, della quale rivendica il riscatto morale.

Comprensibile quindi l’interesse suscitato da questi versi nei patrioti del Risorgimento italiano. Nel secondo coro si parla di Ermengarda (figlia del re dei Longobardi) morente, circondata dalle suore nel convento in cui è rinchiusa e se ne analizza la mutevole sorte: la giovane donna è vittima anche se nata dalla parte dei vincitori e la ragione di tutto ciò non è umanamente comprensibile. Anche l’Adelchi è corredato di scritte teorici, come le Note Storiche e il successivo Discorso su alcuni punti della storia longobardica in Italia.

[6] I promessi sposi – Manzoni iniziò a scrivere I Promessi Sposi il 24 aprile 1821, mentre si trovava con la famiglia nella villa di Brusuglio, a pochi chilometri da Milano.

In città la polizia austriaca stava arrestando i patrioti affiliati alla Carboneria. L'anno prima è stato arrestato Pietro Maroncelli e ora sono in corso i processi nei quali erano implicati i collaboratori del Conciliatore, tra cui il direttore del giornale, Silvio Pellico (1789-1854). Molti di loro erano amici e conoscenti di Manzoni che sperava, nel suo rifugio, di non essere coinvolto né chiamato a subire estenuanti interrogatori.

A Brusuglio aveva con sé alcuni libri: le Storie milanesi di Giuseppe Ripamonti (1573-1643) e il saggio di Melchiorre Gioia (1767-1829) Sul commercio di commestibili e caro prezzo del vitto, dove legge il passo di una grida del Seicento, che commina pene severe a chi impedisca la celebrazione di un matrimonio.

Nell'arco di quaranta giorni Manzoni stende di getto l'Introduzione e i primi due capitoli del romanzo che rappresenta una vera e propria sfida, per la sua novità formale e di contenuto.

La prima stesura dei Promessi Sposi è molto diversa dall'edizione definitiva, che vedrà la luce quasi vent'anni dopo, nel 1840.

L'autore, nell'arco di due anni scrive il romanzo in quattro tomi, intitolandolo provvisoriamente Fermo e Lucia, dal nome dei protagonisti.

La composizione inizia nel 1821 e termina nel 1823, con alcune interruzioni. Le sue fonti sono quelle già citate: oltre ai romanzi che circolano in quegli anni e che vengono pubblicati intorno al 1820, come quello di Walter Scott, Manzoni attinge alle cronache e alle opere di storiografia del Seicento.

La novità che balza subito all'occhio è il fatto che sono protagonisti personaggi di origine umile e l'ambientazione è di tipo rurale. Niente cavalieri né damigelle, tornei, imboscate e duelli all'ultimo sangue, ma solo situazioni che, trasposte in epoche diverse, potrebbero vedere coinvolto chiunque. Certo non mancano vicende eccezionali, come la peste, la guerra, il rapimento della protagonista, una clamorosa conversione: tuttavia Manzoni le presenta con estrema verosimiglianza. Infatti crede nella necessità di rifondere, nel romanzo, il vero storico e l'invenzione poetica: lo scrittore pensa che la letteratura, per avere carattere educativo, non può rinunciare a proporsi come momento di conoscenza e stimolo alla riflessione. Perciò deve prospettare personaggi, vicende, situazioni, considerazioni, scene, dialoghi e soliloqui in cui il lettore si possa riconoscere.

Alla scelta degli umili come protagonisti e della forma del romanzo storico non fu estranea la concezione cristiana di Manzoni e la sua opinione che la storia sia fatta dalla gente comune, dalla massa popolare, piuttosto che dalle élites al potere.

Naturalmente si tratta di una narrazione, nella quale una vicenda d'amore è inserita in un contesto illustrato con precisione e sul quale l'autore si documenta con cura puntigliosa.

I protagonisti non sono creature eccezionali, ma gente semplice come se ne trova ovunque e in ogni epoca. I personaggi "storici", ossia quelli ricavati dalle cronache, sono riprodotti senza che mai siano falsate (o "romanzate") le fonti storiche, ma proprio questi personaggi acquistano una suggestione straordinaria quando l'autore cerca di illuminare la loro psicologia e immagina ciò che le cronache non possono dire, ossia il loro dramma interiore, il fastello di irrequietezze, di paure, di contraddizioni, le riflessioni, i compromessi che li portano a scelte e decisioni sofferte.

Ricordando poi il patriottismo profondo di Manzoni, lo scrittore, nel secolo della dominazione spagnola sul Milanese, ravvisa molte analogie con il suo tempo, in cui la Lombardia è sottomessa agli Austriaci e ancora compaiono prevaricazioni e violenze. Come a quei tempi gli umili erano in balìa delle forze politiche, così ora i diritti dei cittadini sono violati e le loro giuste esigenze di libertà sono soffocate.

La vicenda è ambientata nel territorio del Ducato di Milano e dura per due anni, dal 1628 al 1630. Protagonisti sono due giovani borghigiani che non possono sposarsi perché il signorotto della zona si è incapricciato della promessa sposa. Dopo lunghe peripezie (i fidanzati devono separarsi ma si ritrovano, poi, in circostanze drammatiche) le nozze vengono celebrate.

Il romanzo non soddisfa l'autore che lo dà in lettura agli amici Visconti e Fauriel. Quest'ultimo gli suggerisce alcuni tagli sostanziali, per modificare una struttura poco equilibrata, in alcune parti prolissa e fuorviante.

A questo punto, però, l'autore comprende che non si tratta soltanto di scrivere una bella storia capitata in passato, di comporre un romanzo che sappia divertire e intrattenere il lettore: sente dentro di sé l'urgenza di trasmettere un messaggio universale e di dare alla sua opera quella funzione educativa, già obiettivo dei suoi capolavori precedenti. Occorre, quindi, guadagnare in sobrietà e chiarezza, dando ai personaggi quel carattere particolare che consente di farsi portavoce di un'esperienza di vita.

Nel 1825 i quattro volumi sono ridotti a tre, dall'intreccio più agile e organico. Nel 1827 ecco l'edizione (detta "ventisettana") dei Promessi Sposi. Storia milanese del secolo XVII scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni: duemila copie sono esaurite nell'arco di due mesi. Già il titolo è notevolmente suggestivo: l'autore, infatti, si presenta nelle vesti di scopritore e rifacitore, nel milanese in uso ai suoi tempi, di un antico manoscritto secentesco, composto da un misterioso autore Anonimo: non è un espediente molto originale, se si pensa che già Ariosto l'ha usato per l'Orlando furioso nel 1532 e Miguel de Cervantes se ne è servito per il Don Chisciotte fra il 1605-1615.

Ecco in sintesi, la vicenda che inizia la sera del 7 novembre 1628.

Don Abbondio, parroco di un paesino sulle colline presso Lecco, viene minacciato dai bravi di don Rodrigo, affinché non celebri il matrimonio fra Renzo e Lucia. I malviventi, al servizio del signorotto, sanno incutere una gran paura al pavido curato che, con mille pretesti, l'indomani convince lo sposo a rimandare la cerimonia. I due giovani cercano una soluzione: Renzo si reca a Lecco per chiedere aiuto all'avvocato Azzeccagarbugli, Lucia confida nell'intervento di padre Cristoforo, un cappuccino che non esita ad affrontare don Rodrigo in persona.

Ma questi è irremovibile; anzi, progetta il rapimento della ragazza. I fidanzati devono fuggire la notte del 10 novembre. Qui la narrazione si biforca: la storia di Lucia porta il lettore in un convento di Monza. Qui la ragazza trova protezione presso una potente monaca, di cui l'autore ci racconta la storia. Successivamente Lucia viene rapita dal convento, con la connivenza della suora, e portata in un castello sul confine con il territorio veneziano; è in quest'occasione che fa un voto alla Madonna: rinunciare a Renzo in cambio della salvezza e della libertà. Lì il rapitore, l'innominato, un potente malfattore che ha voluto assecondare don Rodrigo, commosso dalla ragazza, decide di cambiare vita: già da tempo si sentiva stanco di commettere delitti e violenze. Alla "conversione" lo aiutano anche le buone parole dell'arcivescovo di Milano Federigo Borromeo. Lucia, liberata, trova ospitalità presso la nobile famiglia milanese di don Ferrante e donna Prassede.

Frattanto Renzo giunge a Milano e si fa coinvolgere nei tumulti scoppiati in seguito alla scarsità di pane. A stento sfugge alla polizia, che lo crede un sobillatore, e raggiunge il cugino Bortolo a Bergamo, dove lavora in un filatoio, sotto falso nome. Trascorre così un anno. Nel 1630 le truppe imperiali dei lanzichenecchi scendono in Italia, attraversano il ducato di Milano, per andare ad occupare Mantova: infatti è in corso la guerra dei trent'anni, che coinvolge molti Stati europei. Francia e Spagna sono in lotta per il controllo del ducato di Mantova e del Monferrato. Le truppe diffondono la peste che falcia migliaia di vite umane e mette in ginocchio la ricca e prosperosa Milano. Renzo si ammala, ma guarisce e decide di tornare in cerca di Lucia. La trova al lazzeretto, un centro di raccolta degli appestati di Milano: anche lei ha preso la peste ma l'ha superata ed ora è convalescente e assiste una ricca vedova di Milano.

Nel lazzeretto si trova anche don Rodrigo è malato, ma la sua situazione non lascia sperare, ed è stato oltretutto reso folle dalla malattia e dal tradimento del suo fedele Griso. Non lasciano sperare neanche le condizioni di Fra' Cristoforo che con totale abnegazione assiste i malati: a lui si rivolge Renzo per la questione del voto, che viene cancellato perché non valido in quanto fatto in condizione di pericolo. Ottenuta la nuova promessa di Lucia, Renzo torna al paesello per preparare le nozze: un violento acquazzone fa terminare il contagio. I due giovani si riuniscono al paesello e, finalmente, don Abbondio celebra le nozze. Risolti tutti i problemi, compresa la pendenza con la giustizia relativo al tumulto di San Martino, la famigliola si trasferisce a Bergamo, dove Renzo impianta un filatoio con il cugino. La storia finisce serenamente.

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