venerdì 22 luglio 2011

Castellammare di Stabia e la sua storia di Massimo Capuozzo

Le fonti storiche ci permettono di assegnare la sua origine al 950 a.C., due secoli prima della fondazione di Roma.
Secondo la tradizione mitologica, l'antica Stabia o Stabiae sarebbe stata fondata da Ercole al suo ritorno dalla Spagna: i resti di un piccolo tempio dedicato ad Ercole sono stati ritrovati sullo scoglio di Rovigliano, un tempo chiamato Petra Herculis.
I primi abitanti di Stabia vennero dal mare, attratti dalla dolcezza del clima, dalla fertilità del suolo e dalla difesa naturale costituita dalla cerchia di monti ricchi di boschi, ma anche dalla straordinaria ricchezza di acqua. In seguito altri nuclei di genti si fermarono a Stabia, come gli Osci, i Greci, gli Etruschi, i Sanniti e infine i Romani.
La storia dell'antica Stabiae si può suddividere in tre fasi fondamentali: la prima dall'VIII sec. a.C. alla distruzione sillana dell'89 a.C.; la seconda, dall'89 a.C. all'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.; una terza con la ripresa della vita nel II sec. d. C.
La storia di Stabiae non può prescindere da quella suo ampio territorio, l'ager stabianus, identificabile con l'area compresa tra i monti Lattari a Sud, le colline di Casola, Lettere e S. Antonio Abate ad Est, e il litorale ad Ovest. Si tratta di una vasta zona collinare, ancora oggi famosa per la salubrità del clima e per la produzione vinicola, con un tratto di pianura idonea alla coltura cerealicola, l'attuale comune di S. Maria la Carità, con la vicinanza dei monti Lattari, celebri per la produzione di latte oltre che per il fabbisogno di legname, con una grande ricchezza di sorgenti di acqua potabile e minerale lungo il litorale, rinomata già in antico; ed infine con la presenza di vie di comunicazione l'una verso l'interno in direzione di Nuceria, la via Nuceria-Stabiae e l'altra a mezza costa, in direzione di Surrentum la via Stabiis-Surrentum.
LA PRIMA STABIAE
Nell'età del ferro la valle del Sarno e le pendici dei monti Lattari furono teatro di rapporti commerciali e di scambi culturali tra Opici, Etruschi, Greci, Osci, ecc., come è attestato dai reperti di ceramica. La prima fase, caratterizzata da un alternarsi nel sito di Stabiae della presenza commerciale etrusca e greca, è fondamentalmente legata all'evolversi delle vicende di questi due popoli.
La posizione geografica di Stabiae e le sue condizioni climatiche ed ambientali particolarmente favorevoli portarono ad una densa frequentazione del territorio già dall'VIII sec. a.C.: la scoperta di una vasta necropoli attesta l'importanza di Stabiae.
L'abitato cui era legata la necropoli, non ancora individuato, non doveva trovarsi molto lontano dal sepolcreto e forse era collocato sull'estremità settentrionale della collina di Varano, in modo da controllare sia lo scalo marittimo costituito dall'insenatura compresa tra lo scoglio di Rovigliano ed il promontorio di Pozzano, sia la via Stabiae-Nuceria e doveva avere forma di città fortificata, oppidum.
Stabiae dunque, essendo il luogo più favorevole per raggiungere dal mare l'entroterra verso Nuceria da dove partivano le principali vie di collegamento verso Nola, l'Irpinia, la valle del Calore ed il Salernitano, dovette costituire ancor prima di Pompei un avamposto costiero per i vari villaggi della valle del Sarno; i confini del suo ager erano delineati da netti limiti naturali: a Sud i monti Lattari ed il monte Faito, ad Est le alture di Lettere e Casola, ad Ovest il mare, a Nord l'isolotto di Rovigliano ed infine il fiume Sarno.
Intorno alla metà del VII sec. la crescita urbana di Pompei ed il sorgere del suo pagus maritimus in loc. Bottaro provoca un grave contraccolpo a Stabiae: la necropoli subisce infatti una fortissima contrazione e l'abitato si rivolge maggiormente verso l'entroterra come è testimoniato dalle tracce di un piccolo insediamento rurale in Gesini a Casola.
Alla fine del V sec. a.C. il territorio è ormai in mano al popolo dei Campani e Stabiae continua a svolgere un ruolo di tramite commerciale tra Neapolis e Nuceria. Alla necropoli di Madonna delle Grazie intorno alla metà del IV sec. a.C. si aggiunge la necropoli presso il castello medievale a Pozzano, sito di controllo per l'accesso alla penisola sorrentina.
Verso il IV sec. a.C., dominarono il territorio i Sanniti, ben presto sconfitti e ricacciati dai Romani con le guerre sannitiche. L'attività e la frequentazione del territorio nella seconda metà del IV sec. a.C. è attestata da un santuario in loc. Privati alle pendici di Monte Coppola in posizione strategica per il controllo della via pedemontana verso Surrentum.
Il periodo successivo tra il III sec. a.C. e l'89 a.C. anno della distruzione di Silla è scarsamente documentato: durante la seconda guerra punica, nel 218 a.C., Stabiae si schierò dalla parte di Roma, inviando navi e uomini; alla fine del III inizi II sec. a.C. il santuario di Privati venne completamente distrutto ed abbandonato; due insediamenti collinari a Gragnano ed a Casola testimoniano di una distruzione e di un abbandono nel corso del I sec. a.C.; infine la più estesa testimonianza archeologica di un impianto urbano di 45.000 mq. non ancora riportata alla luce permette solo ipotesi sulla data del suo impianto: se fosse antecedente all'89 a.C. saremmo di fronte ad una realtà politicamente ed amministrativamente organizzata già prima dell'età sillana.
Quello che è certo è che Stabiae doveva avere grande importanza se Silla, nel corso della Guerra Sociale, non si limitò solo ad occuparla, come aveva fatto per Pompei ed Ercolano, ma distrusse questa piazzaforte, tenuta da Papio Mutilo, uno dei più valenti generali italici, tanto che le ultime resistenze degli insorti ebbero il loro baluardo nelle montagne di Stabiae, dove essi si difesero accanitamente ma, stretti infine d'assedio, dovettero arrendersi il 30 aprile dell'89 a.C., e Stabiae, abbandonata al furore dei soldati, venne messa a ferro e a fuoco, le sue mura furono diroccate, l'incendio sterminatore rischiarò le onde del Tirreno.
Dopo questa distruzione, gli Stabiani superstiti, privati delle loro abitazioni, cercarono asilo sulle vicine colline, dando vita a borghi e villaggi.
La distruzione sillana del 30 aprile dell'89 a.C. non provocò la scomparsa di Stabiae anche se essa scompare dalle fonti come città ed è ridotta a pagus amministrativamente dipendente da Nuceria.
Il maggior addensamento abitativo, per quanto è deducibile dai dati archeologici attualmente disponibili va collocato proprio nel periodo compreso tra la conquista sillana dell'89 a.C. e l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C.
Per tutto il primo secolo, infatti, fino all'eruzione del 79 d.C., l'ager stabianus si arricchì di moltissime ville; alcune, grandiose ville di otium sorte per la salubrità dei luoghi e per la presenza di sorgenti minerali, si concentrano lungo il ciglio settentrionale della collina di Varano adattandosi alla morfologia dei luoghi in posizione panoramica senza soluzione di continuità per godere lo splendido panorama del golfo.
In questo periodo verso l'interno, invece, nella parte più alta della collina, il territorio stabiano, si andò coprendo di ville rustiche, vere e proprie fattorie specializzate nello sfruttamento intensivo dei campi con la produzione di frutta, ortaggi, olio e soprattutto vino; queste ville, caratterizzate dalla presenza di un settore produttivo con torchio, aia, magazzini, nettamente differenziato dal quartiere residenziale, si differenziano nettamente da quelle residenziali e, disposte nel piano immediatamente vicino alla fascia pedemontana e lungo questa, fra il piano e il monte, si concentrano soprattutto negli attuali comuni di S. Antonio Abate, S. Maria la Carità e nella zona collinare di Gragnano, Casola e Lettere e sembrano disporsi lungo gli antichi assi viari che in gran parte sono ricalcati dalle attuali vie di penetrazione dalla costa verso l'interno.
Fino ad oggi sono state individuate oltre 40 ville rustiche che rivelano un occupazione capillare del territorio con piccole e medie aziende produttive. E' impossibile tuttavia precisare quanti e quali dovettero essere i fondi tenuti dai capitalisti patrizi e cavalieri stabiani, e se questi fossero stati tutti di Stabiae o provenissero dalle altre città e dalla costa retrostante: la scarsità dei reperti archeologici concernenti la parte valliva non consente infatti di far luce sui proprietari dei fondi.
Questa realtà ricca ed articolata subì una brusca interruzione il 23 agosto del 79 d.C. quando l'eruzione del Vesuvio ne comportò il completo obliteramento.
L'eruzione del Vesuvio del 24 agosto del 79 d.C., la città subì la stessa sorte di Ercolano e Pompei, rimanendo seppellita dalla lava del Vesuvio: la pioggia di cenere e lapilli coprì Stabia di uno strato che in alcuni punti raggiungeva oltre dieci metri di altezza, causando anche la morte di Plinio il Vecchio presso la villa stabiana del suo amico Pomponio.
Questa catastrofe non cancellò definitivamente la vita in queste zone: a differenza di quanto avvenne per le altre zone vicine la vita a Stabiae riprese dopo poco; la sua posizione geografica era tale che fu necessario sgombrare le strade per ripristinare i collegamenti terrestri.
Avvalendosi della costituzione introdotta nelle città italiche da Augusto, dopo la catastrofe del 79, Stabiae rinacque: gli stabiani riedificarono le loro case non più nella zona orientale, ma in quella opposta, verso le colline, ricche di vigneti, agrumeti, boschi di castagni, ulivi, abeti e verso la costa dove furono riattivati gli antichi cantieri di costruzioni navali e venne dato maggior impulso alla pesca e ai traffici marittimi. Un sepolcreto sotto la cattedrale di Castellammare, le cui tombe, databili dal II al VI sec. d .C., poste al di sopra del livello eruttivo del 79 d.C. lungo la via per Sorrento-Capo Ateneo, indica, dopo l'eruzione, una rinascita e uno spostamento del centro abitato verso la zona ricca dell'acqua che scaturiva dalle sorgenti, la più ricca delle quali, detta Fontana Grande, sgorgava da una grotta che formava quasi un piccolo lago a poca distanza dal mare.
Anche se cessò di vivere come municipium, non cessò d'essere conosciuta come centro commerciale di rilevante importanza, grazie al suo porto che continuò a offrire ricovero alle navi di maggior tonnellaggio rispetto a quello di Pompei, adatto a ricevere soltanto barche; dopo alcuni decenni dall'eruzione, la via Nuceria-Stabiae fu liberata dai lapilli ed è verosimile che le navi che approdavano ai lidi di Stabia per rifornirsi d'acqua, imbarcavano per lo più i prodotti agricoli dell'area retrostante.
Stabiae, dunque, ripreso il suo posto fra i centri importanti della Campania, fece parte delle province dipendenti dal vicariato di Roma, dette Suburbicarie e governate da un Consolare soggetto all'autorità di Roma.
Stabia risorse e, grazie alla rinomata bellezza dei suoi paesaggi, al suo clima e alle sue acque, come un tempo aveva richiamato gli antichi abitanti, dopo l'eruzione riattivò l'afflusso dei forestieri: Galeno vide in Stabia la stazione climatica ideale per l'aria asciutta, per i pascoli salutari alle greggi, per il luogo poco distante dal mare, per le erbe medicinali fiorenti sulle pendici dei monti Lattari, come la sanguinaria, la melissa officinalis, il corbezzolo, e soprattutto per il grande potere curativo che avevano le sue acque.
La legislazione del periodo di Diocleziano e Costantino, dal III secolo al VI circa d.C., rese assai dura la condizione in cui vissero i contadini dell'entroterra stabiano: in quel clima di sofferenze e di prevaricazioni essi continuarono a condurre il proprio o l'altrui campo esclusivamente a beneficio della classe senatoria, patrizia ed equestre. Tra il III e il IV sec. d.C. esisteva in Casola, in località Gesini, un insediamento romano italico, come attesta la necropoli risalente a questo periodo.
Dopo il frazionamento dell'unità romana, si formarono dei territori tesi a diventare sempre più liberi ed autonomi.
Nei primi secoli dopo la caduta dell'Impero romano col nome di Stabiae si designava ancora un vasto territorio comprendente anche questo paese, i cui segni economici si scorgevano sulle pendici dei Lattari e specialmente lungo la strada che conduceva a Nocera; inoltre, come località ad esso appartenenti, rientravano le terre dei futuri Castelli di Lettere e di Gragnano.
La religione cristiana si diffuse presto a Stabia, fin dai primi tempi apostolici, attraverso le vie dei traffici marittimi.
Dei primi tempi della diffusione del Vangelo a Stabiae ci sono giunti pochi, ma importanti documenti: nel primo tratto della strada per Equa e Sorrento c'era la via dei sepolcri nella quale nel II sec. a.C. erano allineati, secondo l'uso del tempo, bellissimi sarcofagi. Frammenti di sarcofagi, di pietre tombali, di lapidi marmoree, venuti alla luce rivelano, accanto a tracce del culto pagano, il lento, ma progressivo diffondersi del cristianesimo.
Stabiae era già diocesi sul finire del V secolo, quando il suo vescovo Orso, il primo di cui si abbia notizia, fu chiamato a Roma per partecipare al Concilio celebrato da Papa Simmaco nel 499.
L'antica diocesi ricalcava l'antico territorio di Stabia ed ancora nel X secolo comprendeva le città di Lettere, Gragnano, il castello di Pino da una parte, Angri e Messigno dall'altra e scendeva sui confini di Sorrento dalla parte del Faito, cioè sull'odierna città di Vico Equense. Il centro di questa vasta diocesi era Varano dove nel luogo detto Stagli di sopra era ubicata la cattedrale dei vescovi Orso, Catello, Lorenzo e Lubentino.
Sempre agli albori del Cristianesimo risale la cripta di Grotta San Biagio.
Le Pievi di Lettere, Gragnano, Pino ricevettero dunque l'evangelizzazione dai vescovi della Chiesa Stabiana: agli inizi del Cristianesimo la Chiesa Vescovile era unica chiesa battesimale e, ancora nei secoli IV-V il Vescovo celebrava i ministeri, amministrava i Sacramenti, esercitava la cura delle anime e i fedeli non solo della città, ma dei vici e dei pagi della diocesi si recavano nella sede vescovile per ricevere i sacramenti; bisogna giungere al VI secolo perché i Vescovi che, in un primo tempo mandavano nei villaggi di loro giurisdizione presbiteri o diaconi ad evangelizzare le popolazioni, per il formarsi di vere comunità di fedeli, avvertissero la necessità di disporvi in modo stabile un presbitero.
Dopo il crollo dell'impero romano la città dovette subire numerosi saccheggi dovuti alle invasioni barbariche: fra il V ed il X secolo il territorium stabiano ed i suoi abitanti subirono le invasioni e l'immigrazione di popoli nomadi che attraversarono tutta l'Italia, abbattendo l'Impero Romano d'Occidente ed ogni ostacolo che trovarono dinnanzi.
Tra le varie popolazioni barbariche maggiore importanza ebbero gli Ostrogoti che riuscirono ad occupare gran parte dell'Italia meridionale ed operarono in Italia in funzione specialmente antiromana e antipatrizia. Nel quarantennio 527-67 la situazione cambiò sia per l'avvento di Giustiniano sul trono di Bisanzio, il cui disegno fu di far rivivere l'impero di Roma e di restituire alla classe dei potentiores quell'autorità e quella funzione che stavano declinando e che erano state causa di tante sciagure, sia per l'ambizione dei Goti di sottrarsi all'influenza bizantina. Fu a questo punto che i Bizantini vennero in Italia per scacciare i Goti.
La guerra greco-gotica (535-53) combattuta fra Goti e Bizantini durò a lungo e le battaglie decisive si svolsero nella zona compresa nel territorio stabiano, tra il rione San Marco di Castellammare, Varano, Lettere, la Saletta di Gragnano, S. Antonio Abate e le rive del fiume Sarno.
Questa guerra modificò radicalmente la condizione sociale ed economica delle regioni italiane e da questo momento la storia del territorio stabiano è collegata a quella del ducato di Napoli e della dominazione bizantina: nel 568 lo stato Sorrentino, sottoposto ai Bizantini, si estendeva dal capo di Minerva al fiume Sarno e si divideva in due regioni, la Sorrentina e la Stabiana, ma conservava una certa autonomia nella dipendenza di Napoli.
La caduta del re goto Teja, piuttosto che aprire un periodo di sicurezza e libertà, diede inizio ad un rovinoso e duro periodo di esoso fiscalismo che compromise la sorte del territorio e della sua popolazione. La ricostruzione dell'Italia, danneggiata nel lungo periodo della guerra gotica fu infatti soltanto un alibi: il denaro spremuto ai contribuenti non fu reinvestito in opere di ricostruzione, e, per la riscossione delle tasse, il governo sguinzagliò un'orda di agenti fiscali ed i piccoli coltivatori furono obbligati a pagare un forte tributo, dazi e diritti di regalia sui fiumi e sulla navigazione, sulle attività commerciali, sui prezzi e sui tassi d'interesse. In questo stringente sistema fiscale gli agenti trovarono il modo di ritagliare per sè buone fette di guadagni illeciti: con la loro rapacità, stabilirono un sistema tributario ancor più rovinoso di quello introdotto negli ultimi tempi dell'impero d'occidente, con la conseguenza che le campagne si depauperarono, le terre furono abbandonate e si profilò nuovamente il fenomeno del latifondo. Per questo motivo anche le popolazioni della Campania si ridussero a invocare la venuta di nuovi popoli tedeschi che avrebbero dovuto scacciare il dominatore parassita.
Nel 574 il Duca longobardo Zottone occupò Benevento. Da questo momento entrò in uso un nome del tutto ignoto fino al tempo dei Goti: la Liburia. Nella Liburia napoletana o settentrionale venne a gravitare il territorio stabiano insieme coi monti Lattari, ma Stabiae non era più detta villa, ma agro di Napoli.
L'arrivo dei Longobardi in Campania non segnò tuttavia la definitiva caduta del dominio bizantino sul territorio costiero: dopo un periodo di precaria pace si precipitò in una situazione di guerriglia costante rivolta verso le popolazioni indigene e questo comportò il ritiro delle guarnigioni greche verso la costa, e si formò così un ducato autonomo con capitale Napoli.
Il territorio stabiano costituì il confine tra il Ducato bizantino di Napoli e quello longobardo di Benevento occupato da Zottone. Per tale posizione dovette sopportare numerose conseguenze: a causa dei continui saccheggi la Piana del Sarno si spopolò ed il fiume, non cinto più di argini, straripò e rese la regione, un tempo fertile, maleodorante e selvaggia.
Durante l'invasione longobarda, la popolazione, per sfuggire alle violenze ed ai saccheggi dei Longobardi si rifugiò in luoghi dove era difficile l'accesso, sorsero così i borghi di Caprile, Aurano, Castello che aveva una posizione più vantaggiosa poichè era situato all'imboccatura del torrente Vernotico che segnava l'antica via che da Stabiae portava ad Amalfi; in quel periodo il vescovo di Stabia San Catello, per difendere le folle impaurite in fuga verso i monti edificò sul monte Faito una chiesa dedicata a San Michele, poi abbandonata nel XIX secolo.
Seguì poi una serie di battaglie o di spedizioni per iniziativa di Longobardi e Bizantini, di cui la più importante fu la spedizione di Radoaldo che in un primo tempo raggiunse il suo scopo e Sorrento cadde in potere dei Longobardi. Forse i Longobardi occuparono tutto il territorium stabiano, ma, non riuscendo a mantenersi sulla costa, in un secondo momento furono respinti nel retroterra e rimasero padroni soltanto dei monti. Nell'832 intervenne l'accordo noto come il Capitolare di Sicardo, concesso al duca di Napoli col quale si definirono i confini e talune condizioni di convivenza per i territori limitrofi. Sicardo, volle che si determinasse la sorte di Stabia e del retroterra, così da porre termine ad ogni futuro contrasto per il loro possesso. L'estensione del territorio era enorme e la sua latitudine era compresa fra le paludi ai piedi di Lettere e il monte retrostante, fra il territorio nocerino e il golfo del mare di Stabia e coincideva sostanzialmente con l'estensione della diocesi di Stabia.
Dopo l'anno 649 non si hanno più memorie di Stabia fino all'anno 850 forse per l'alluvione che la distrusse.
L'antica cattedrale della terza Stabia, distrutta dall'alluvione, era situata vicino alla Mensa Arcivescovile di S. Andrea d'Amalfi, nel luogo detto li stagli di sopra, detto Vetere, perché qui stava la vecchia città, la terza Stabia distrutta. Gli stabiani, scampati al funesto evento, costruirono a ricordo in località Trivione, in quel tempo territorio di Stabia, ora di Gragnano, una fontana sormontata da un teschio in marmo bianco e sulla fontana apposero una scritta che nel secolo XVIII era illegibile e diedero ai luoghi limitrofi il toponimo La morte. In seguito a questa distruzione della città, i superstiti stabiani abbandonarono le località dove era ubicata la loro città e ricostruirono un nuovo insediamento urbano sul colle che si estende da Scanzano a Pozzano e lì, in località Castello, cioè nel vallum del medioevale castello stabiese, eressero la seconda Cattedrale di Stabiae, ricordata nell'anno 857.
La sorte di Stabiae e del suo territorio durante le lotte fra Longobardi e Bizantini-Campani e le trasformazioni che si compirono, nella seconda metà del VII secolo, la parte interna del territorium dovette essere in possesso dei Longobardi. Poi si restrinse in seguito alla erezione della chiesa di Lettere e all'assegnazione dei terreni di Angri alla chiesa di Salerno.
Nel secolo IX i confini del Ducato Napoletano erano approssimativamente i seguenti: dal lago Patria fino ad oriente di Amalfi, con le città di Cuma, Pozzuoli e Sorrento, governate da Comites e Praefecti alle dirette dipendenze del duca napoletano.
Poiché tutta la zona costiera era in saldo possesso dei Partenopei, era logico pensare che ai piedi di questo bastione naturale, che sono i monti Lattari, i napoletani ritenessero indispensabile l'erezione di opere fortificate e punti di avvistamento per contrastare i nemici ed evitare che, superata la dorsale montana, irrompessero sulle città costiere di Amalfi e Sorrento.
Del resto le difese approntate si resero utili anche contro i saraceni: quanto a questi ultimi, le loro scorrerie costringevano gli abitanti costieri e dell'immediato retroterra a creare una salda linea difensiva. Perciò, sin da quel secolo, gli abitanti d'Amalfi, Sorrento, Napoli e Gaeta si organizzarono per resistere agli invasori predatori e crudeli che non ci pensavano due volte prima di far proprie le altrui masserizie e ridurre in schiavitù le genti sottoposte al saccheggio.
Contro l'imminente pericolo bisognava essere continuamente all'erta e dare l'allarme tempestivo alle popolazioni dominate da continuo spavento. Da qui la necessità di elevare torri e bastioni lungo la costa per l'avvistamento e l'avviso alle popolazioni in pericolo.
La cittadina di Stabiae elevò la sua torre di vedetta nell'odierno territorio di Lettere, perché questo era di sua pertinenza e la cittadina di Lettere non era ancora sorta.
L'arrivo delle orde barbaresche era dovuto alle continue lotte combattute fra Napoletani e/o Amalfitani, da una parte, e Longobardi beneventani dall'altra. Non potendo piegare il nemico, ora i primi, ora i secondi chiamavano in aiuto gl'infedeli. E questi accorrevano con beneficio della parte che li aveva mobilitati. Col tempo, però, essi andarono oltre la primitiva funzione, trasformandosi da alleati in occupanti. In una delle cronache del tempo si legge infatti che venuti, in un primo momento come schiere ausiliarie, successivamente si trasformarono in violenti occupatori.
L'anno 848 è indimenticabile per la valle del Sarno: qui, per il possesso della città di Nocera, si scontrarono le schiere napoletane e quelle del Principe di Salerno, sostenute dai Saraceni chiamati in aiuto: questi ultimi andarono oltre i fatti d'arme, asportarono reliquie, profanarono templi.
Contro costoro, il papa Giovanni VIII capeggiò una lega, sostenuta dallo sforzo di Amalfi e di Napoli; ma alla sua scomparsa il problema rimase insoluto e le popolazioni tirreniche indifese.
Le irruzioni saracene divennero sempre più frequenti e, come altrove, la zona fu sconvolta. La vita e l'aspetto delle campagne ne risentirono abbastanza; all'operosità subentrò l'inerzia forzata, alla popolazione successe la solitudine: secondo una cronaca del tempo ogni contrada non aveva più abitanti e lungo le strade raramente si vedevano viandanti e contadini nelle campagne.
Per queste ragioni si pose mano alla costruzione di torri e castelli là dove occorrevano, facendone incrementare il numero, che prima non era notevole.
Prima dell'arrivo delle barbariche schiere, le campagne erano piene di frutti e di contadini: si viveva, di quei tempi, quasi all'aperto, sotto il fico e la vite e nei propri campi. Ora non era più così non si combatté più in campo aperto, ma si pensò a costruire luoghi fortificati anche là dove prima non erano mai stati.
Quando poi non giungevano i Saraceni, la valle era minacciata dai Longobardi sempre in lotta col Ducato napoletano. E' rimasta famosa la scorreria del duca napoletano Bono (an. 832) nella nostra valle, ove, attaccate le schiere longobarde, ne incendiò l'accampamento riportando largo bottino d'armi e vettovaglie.
Fu, quindi, di questi tempi che gli abitanti della fascia costiera e dell'immediato entroterra lasciarono il piano e si rifugiarono nelle nuove torri del piano (Scafati) e del monte (Lettere e Pozzano).
Verso la fine del IX secolo la popolazione stabiese cercò di munirsi di efficaci mezzi di difesa contro le ormai fre quenti invasioni di nemici e gli sbarchi di corsari e pirati. A quest'epoca risale la costruzione del Castrum ad mare situato sullo sprone del colle ai cui piedi sgorgava la Fontana Grande: da questo castello la città ha tratto il nome, che compare per la prima volta in un docu mento del 15 novembre 1086 contenuto nel Codice diplomatico amalfitano.
Sulle alture collinari poste alle spalle di Stabia sorsero la torre di difesa stabiese, la gragnanese, l'altra di Pino e Pimonte e quella posta quasi a ridosso del mare, a Pozzano, detta per ciò castellum ad mare o castellammare.
Erano indistintamente chiamate castelli stabiesi e il territorio dove erano sorte era indicato come immediata pertinenza della cittadina di Stabia.
La rinascita della Campania agli inizi del X secolo è dovuta alla messa a coltura di nuove terre non solo per le condizioni di maggiore tranquillità dopo la diminuzione delle incursioni saracene, ma anche per lo sviluppo demografico: chiese rustiche e monasteri attrassero intere famiglie di contadini e di piccoli proprietari per cui pullularono di casali fortificati solo in parte per necessità di difesa contro nemici esterni: il castello infatti ebbe in Campania il carattere di centro di popolamento e di dissodamento e servì a fornire alla popolazione rurale un nuovo inquadramento politico e sociale; la stessa rete stradale della regione, in età romana caratterizzata da grandi arterie funzionali alle comunicazioni di Roma con i centri portuali, subì un frastagliamento in vie di raccordo tra i borghi ed un potenziamento delle vie che collegavano la costa con borghi e casali dell'entroterra.
Con il cambiamento delle condizioni politiche ed economiche, il territorium stabiano nel X secolo subì una serie di trasformazioni che partirono da Amalfi: in questo periodo infatti si affacciò sulla scena della storia del territorio stabiano il ducato di Amalfi. Entrando nella storia come nuova entità geografica e politica, il ducato amalfitano dovette fronteggiare i due maggiori fenomeni politici del tempo: le incursioni ungare e le scorrerie longobarde che costituivano un continuo pericolo che incombeva continuamente sul confine settentrionale della valle del Sarno dove Saraceni e Longobardi arrivavano di frequente: nel 950 i Saraceni tentarono infatti di arrivare ad Amalfi per via di terra ed il loro tentativo fu impedito dagli armati usciti dal castello di Gragnano in località Caprile che fu teatro di una cruenta battaglia per cui il luogo fu denominato la Carneficina oggi Carnicina.
Divenuta ricca col commercio, Amalfi voleva occupare il versante dei monti Lattari che si affacciavano sul Golfo di Napoli e voleva espandersi verso la piana del Sarno perché da un lato aveva l'esigenza di difendere il ducato dalle invasioni e dall'altro, senza i prodotti della piana del Sarno e i frutteti e le vigne del territorio di Gragnano, sarebbe stato impossibile vivere in tanti sulla angusta costiera. Gli amalfitani avevano intuito che il loro territorio necessitava, oltre che di una difesa imperniata sul mare che lo bagnava da un lato e sui monti che lo cingevano dall'altro, anche di una difesa strategico-militare costituita da castelli da costruire nei punti strategici delle varie località territorio dello Stato amalfitano. Era ancora vivo nel loro animo il sacco perpetrato nel 838 dalle soldatesche del principe longobardo Sicardo alla loro città.
Per queste ragioni, con negoziati ed acquisti, gli amalfitani attuarono l'ingrandimento territoriale del loro Stato con l'annessione di territori già parte di Stabia, indebolita anche grazie alla violenta alluvione cui, fra i secoli VIII e X, era soggiaciuta, divenendo i padroni dei castelli di Lettere e di Gragnano ed accrescendone man mano anche l'efficienza militare.
Il ducato di Amalfi, quindi, inseritosi pacificamente verso i Monti Lattari, con i suoi possedimenti quali le borgate di Pimonte, le Franche, il Castello di Pino, l'Agro di Agerola, le montagne di Positano e di Vico Equense, divideva il ducato di Sorrento dal territorio di Stabia.
I Prefetti Amalfitani avevano intuito inoltre che non era sufficiente alla difesa dello Stato il castello di Pino e, pertanto, eressero il castello di Lettere del quale si ha memoria nel 1018, avamposto della pianura nocerino-sarnese; quando agli inizi dell'XI secolo il castello di Pino fu invaso da orde nemiche costruirono verso il 1077 il castello di Gragnano, come avamposto di quello di Pino.
Il Castellum ad Mare, il Castellum Litterense ed il Castellum Gragnanense, originariamente unica unità amministrativa soggetta al Duca di Napoli e dipendenti da un unico vescovo, erano stati costruiti per impedire che Stabia, Sorrento ed Amalfi cadessero in possesso dei Longobardi, ma nel secolo X gli uomini di Lettere, Gragnano, Pino, Pimonte, si definivano già Cives Amalfitani per i privilegi loro elargiti dai Comites Amalfitani.
Il colle di Pino il primo ad essere munito dagli Amalfitani nel 949, per rendere più sicuri gli oppida di Gragnano e di Pimonte situati nella parte occidentale del loro ducato.
La stessa storia della Chiesa Vescovile di Lettere s'innesta proprio nel secolo X in quella della Chiesa Arcivescovile di Amalfi: alla fine del secolo X, il vescovado di Amalfi fu elevato ad arcivescovado e gli fu dato come suffraganeo, Stefano vescovo del Castro Stabiensi di Lettere. A Stefano, vescovo di una diocesi di nuova formazione, fu assegnato il municipium di Lettere con le chiese e con tutti i suoi annessi e connessi, il castello di Gragnano con tutti i suoi annessi e connessi ed il castello di Pino con tutti i suoi annessi e connessi, luogo detto Apud montes. Per legittimare la presa della torre stabiese intervenne una mossa diplomatica da parte della nuova repubblica marinara: come segno dell'accresciuta potenza della Città, alla creazione della Repubblica si fece seguire la creazione dell'arcivescovado amalfitano, alle cui dipendenze si vollero porre nuove diocesi suffraganee poste lungo la costiera e nell'area di Lettere. Per ciò qui sorse il vescovado e accanto alla torre si levò la cattedrale. Per tacitare la cittadina di Stabia della perdita subita si mandò a dirigere la nuova diocesi il vescovo Stefano, stabiese di nascita e di pastorale. Il primo vescovo dimorò nella torre patria (a. 984). La Chiesa Vescovile di Lettere fu intitolata S. Maria Trinitatorum, così la Chiesa Vescovile di Lettere, un tempo pieve della Diocesi Stabiana, fu fondata nel 988 ed ebbe sede presso l'antico castrum. Nell'antica cattedrale di Lettere celebrarono i Vescovi da Stefano dell'anno 988 a Filippo Fasio che, il 28 luglio 1570, ricevette un Breve da Pio V per il trasferimento del titolo della Chiesa Vescovile di Lettere in un luogo più idoneo, essendo l'antica cattedrale letterese scoperta, deforme, abbandonata e sede di ladroni.
Ma la vita della cattedrale e dell'annesso episcopio risuonò nei secoli anche delle liti che i Vescovi di Lettere sostennero con gli Arcipreti di Gragnano, garanti delle prerogative arcipretali, fino a giungere a negare l'obbedienza dovuta ai vescovi di Lettere.
Si trattava di luoghi che avevano fatto parte e continuavano a far parte del territorio Stabiano, ma l'appartenere ad Amalfi ecclesiasticamente nonché politicamente, almeno alla fine del X secolo, prova che tale territorio si era diviso in due parti e la diocesi di Lettere raggruppò il castello di Lettere, Gragnano e Pino.
Il territorio Stabiano rientrava nel ducato Napoletano, ma, come Gaeta, Sorrento ed Amalfi era semplicemente zona di dominio ducale. Per questo motivo il territorium stabiano, formatisi gli stati amalfitano e sorrentino, finì politicamente diviso fra l'uno e l'altro che lo avevano ai confini dei loro territoria: nel X secolo, quindi, la parte montana dei castelli fu occupata dalla Repubblica amalfitana, mentre il litorale, col suo castello a mare cadde in potere del ducato di Sorrento.
Gli amalfitani indicavano la torre di Lettere col nome di Torre della Patria (turris patriae) per indicare che proteggeva l'estremo confine amalfitano verso il golfo di Napoli e la vicina valle del Sarno.
Il ducato di Sorrento si separò dal ducato di Napoli nel sec. XI e nel 1053 il ducato di Sorrento aveva la stessa estensione dell'anno 568 e di esso faceva parte Stabia. Nel 1075 il ducato di Sorrento era sotto il dominio di Roberto il Guiscardo e quindi anche Stabia è sotto il medesimo dominio. Nel 1085, la zona costiera stabiana faceva ancora parte del ducato di Sorrento del cui arcivescovo era suffraganeo il vescovo di Stabia.
Con l'unione territoriale allo Stato amalfitano delle località di Lettere, Gragnano, Pino, Pimonte, già territori di Stabia, la vita religiosa degli abitanti di queste terre ebbe il fulcro nella Diocesi Amalfitana. Ebbero così vita le Arcipreture di Gragnano e di Pino, mentre soltanto nel 994 le terre oggi poste nel distretto di S. Antonio Abate cessarono di appartenere all'agro stabiano.
Lettere e Casola con i loro castagneti contribuirono molto a fornire il legname scelto ai cantieri amalfitani. Le genti di Casola, Lettere, Pino e Pimonte tentarono le vie del mare su navi amalfitane o salernitane.
Poiché la zona costiera era in mano ai partenopei, i napoletani ritennero indispensabile l'erezione di opere fortificate lungo i monti Lattari per impedire ai nemici di giungere ad Amalfi e a Sorrento, queste difese furono utili soprattutto contro i Saraceni che tentarono di raggiungere Amalfi, ma furono fermati dagli armati del Castello di Gragnano.
Ai principi del XII secolo, Sergio I, duca di Sorrento, riuscì ad estendere la sua egemonia su Lettere, ma non si sa se questo possesso sia stato duraturo.
La scarsità dei documenti non consente di seguire le vicende dei singoli luoghi abitati del territorium per cui si può concludere che, ferma restante una sua fondamentale divisione fra il Ducato Amalfitano e quello Sorrentino, non dovettero mancare temporanee modificazioni in tale ripartizione. Solo dopo ci sarà una certa influenza del ducato sorrentino sulla parte marina del territorio stabiese. In queste vicende storiche va segnalata la presenza dei monaci benedettini che ebbero una grande influenza sia nella vita politica che in quella privata grazie ai loro possedimenti terrieri a cui si aggiungevano le chiese, le ville e le corti.
Durante il periodo angioino, nel 1271, Carlo I donò Castellammare in feudo al figlio Carlo nella città fu fondato il monastero di S. Bartolomeo sotto la regola di S. Chiara.
Da questo momento la storia di Castellammare si saldò pienamente con la storia del regno.
Durante la lunga guerra del Vespro la città diventò spesso teatro di battaglie e di incursioni: durante il regno di Carlo II (1285-1309), il 23 giugno 1287 nel mare di Castellammare avvenne la battaglia tra le flotte di re Carlo e di re Giacomo d'Aragona. Per la parte di Carlo c'erano sei galee e dei galeoni; per la parte di Giacomo 45 galee e dei galeoni agli ordini dell'ammiraglio Ruggero di Lauria; inoltre per la parte di Giacomo c'erano siculi e catalani, dalla parte di Carlo c’erano francesi, provenzali, regnicoli. Il re Carlo perse la battaglia con 3300 morti fra cui Guido de Monfort e molti altri baroni e conti. Castellammare fu invasa dall'esercito di re Giacomo d'Aragona i nemici siculi, entrati in città, compirono il saccheggio.
Carlo II volle che nella zona più amena e tranquilla dei colli di Stabia sorgesse un edificio dotato di tutti gli splendori, da utilizzare quale luogo di riposo e di svago per sé e la famiglia reale, la Villa reale di Quisisana.
Poco lontano dalla riva del mare Carlo II fece edificare una Chiesa e un convento per l'ordine riformato di San Francesco. In seguito, il convento ospitò il Seminario diocesano, mentre della chiesa oggi demolita, fu conservata solo una cappella conosciuta oggi con il nome di Oratorio.
Durante il primo periodo angioino l'abitato fu cinto di mura, mentre il porto fu un sicuro approdo delle navi. Giovanni Boccaccio, nella sesta novella della decima giornata, descrisse la Castellammare trecentesca come una città ricca di ville e giardini, di ulivi, di castagneti e di noccioli.
Durante il regno di re Roberto (1309-1342) Castellammare divenne città demaniale, dopo essere stata per breve tempo feudo dei del Balzo e di Pietro, figlio di re Roberto; nel 1316 il sovrano la concesse al duca di Calabria che affannosamente la fortificò per timore che l'armata di Federico d'Aragona potesse giungere nel golfo, stimando Castellammare un punto delicatissimo di tutto il sistema difensivo della capitale.
Roberto amava tanto la città che ampliò ed abbellì la Villa reale assegnando la direzione dei lavori a Francesco di Vico e Ottone di Crespiano che terminarono l’impresa nel 1318: qui i re di Napoli cercavano riposo dal caldo estivo della capitale ed un rifugio dalle epidemie e dalle pestilenze. Durante le pause di riposo re Roberto amava abitare a Quisisana e spese a larga mano per la cappella della villa reale e fece sorgere accanto al palazzo un piccolo ospedale. Nel 1333 il re mandò a Quisisana tre cervi mentre, durante l’estate del 1337 fece trasportare molti codici da Napoli a Quisisana, perché amava circondarsi dei suoi libri preferiti.
Le attività commerciali intanto fervevano ed il porto di Castellammare non era secondo agli altri del regno quanto ad operazioni mercantili.
Nel 1336 un pericolo abbastanza costante per la città, la pirateria, si presentò: corsari siciliani si spingevano fino alle coste di Castellammare, danneggiando gravemente il commercio e nascondendosi nelle caverne che si trovavano lungo la costa sorrentina.
Nel 1343, sotto il regno di Giovanna I, la città fu occupata e saccheggiata da Raimondo Peralta per incarico di Ludovico d'Aragona, re di Sicilia; fu poi invasa dai mercenari ungheresi che, guidati da Luigi d'Ungheria, nemico della regina, imperversarono nell'intera regione con violenze e saccheggi.
L'epoca durazzesca (1382-1414) si aprì con la tragica fine di Giovanna I e con le conseguenti guerre tra durazzeschi ed Angioini per la successione del Regno di Napoli: Carlo III di Durazzo e Luigi, duca d'Angiò si scontrarono, mentre sul castello stabiese fu, momentaneamente innalzato il Vessillo durazzesco.
Nel 1385, Carlo III di Durazzo morì e con la sua morte ebbe inizio un nuovo periodo di lotta, di violenze, di provocazioni d’ogni sorta. Antiche animosità si ridestarono e nella lotta tra le due fazioni comparve la figura di La­dislao che aveva ereditato la corona paterna. L'improvvisa morte del padre l’aveva colto quando aveva appena nove anni e la madre Margherita, dovette prendere le redini del governo in un momento oltremodo difficile.
A sostenere la causa degli angioini giunse a Napoli Ottone de Brunswich che provocò, nel luglio del 1387, la fuga a Gaeta di Margherita e di suo figlio.
Castellammare, dove predominava il partito fautore degli Angioini, costituiva un importante nucleo, pericoloso per la causa di Margherita e di Ladislao, mentre Amalfi, la penisola sorrentina, Gragnano e Gaeta, si schierarono a favore di questi ultimi.
Le forze durazzesche attaccarono violentemente per mare e per terra Castellammare che, insieme con Gaeta e Capua, formavano punti strategici di prima importanza. La città resistette all'urto, anzi mise in fuga gli ar­mati sbarcati da quattro galee e cinque brigantini, pro­venienti dalla vicina Vico Equense.
Nell'ottobre del 1388 Ottone di Brunswich abban­donò Luigi II ed offrì i suoi servizi a Margherita e a Ladislao. Il 7 giugno Brunswich mosse da Scafati, con armati al soldo della regina Margherita. Il tentativo d'attacco riuscì infruttuoso, anche per il so­praggiungere improvviso di un furioso fortunale. Tre giorni dopo Pietro de Corona, ancora al soldo degli An­gioini, prontamente intervenuto a rafforzare il presidio della città, si scontrò con le forze di Ottone di Brunswich, riportandone vittoria.
Castellammare rimase così sotto il potere degli Angioini che presero anche Napoli il 9 luglio, instaurandovi un clima di terrore. Molti cittadini atterriti trovarono scampo con la fuga e taluni, arrivando nelle nostre contrade, vi portarono la triste novella. A Castellammare, il partito angioino, moralmente demoralizzato, fu sopraffatto e ben presto sul pennone del castello fu innalzato il vessillo durazzesco, tra feste e luminarie.
Sfruttando il malcontento che serpeggiava nelle file avversarie, Ladislao riuscì a rag­giungere risultati assai vantaggiosi. Ci furono defezioni in massa nelle schiere an­gioine. Pietro de Corona abbandonò il vessillo gigliato e si pose al soldo di Ladislao.
Anche il Castellano di Lettere, Franceschiello di Lettere, cedette e passò ai Durazzeschi. Per lungo tempo questi aveva tenuto quel castello in nome degli Angioini, rimasto poi lungamente inoperoso, senza soldo per i suoi armigeri maceri e affamati, per procacciare loro i viveri necessari, si era dato a taglieggiare e qualche volta ricorse anche al saccheggio e alla rapina, tale da essere ritenuto un capo di briganti. Il 2 aprile del 1392, assalì Castellammare difesa, per gli Angioini da Ludovico de Restajano. Il castello attaccato da terra e da mare dalle galee della re­gina Margherita, impossibilitato a sopportare l'assedio, dopo undici giorni capitolò e fu preso da Tom­maso da Seiano e da Filippo de Corona. Cinque galee durazzesche gettarono le ancore nel porto, ma il giorno successivo (20 aprile), al sopraggiungere di una forza na­vale angioina, composta da 10 galee e quattro galeotte, abban­donarono repentinamente le acque portuali, dileguandosi.
Franceschiello di Lettere fu costretto a fuggire e a riparare sui monti. Castellammare fu riconquistata dagli Angioini che ne riordinarono la difesa con rapidità, tanto che le navi della regina Marghe­rita, sopraggiunte il 28 luglio, furono accolte da una pioggia di verrettoni, e si videro opporre una strenua resistenza, per questo furono costrette a desistere dall'im­presa e a prendere il largo. Castellammare restò nelle mani degli angioini che la tennero in loro saldo possesso ancora per sette anni.
Infine Ladislao, nel luglio del 1393, all'età di sedici anni assunse di persona il comando del suo esercito e, partito da Capua, dopo aspra lotta s’impadronì di Aversa, di Nocera e di Salerno, riducendole in suo possesso, il 19 dicembre del 1394 era a Gragnano, da dove impartì ordini agli Amalfitani; successivamente, dopo la conquista degli Abruzzi e della Basilicata, si recò verso il Salernitano, per abbattere le ultime resistenze della potenza avversaria. Castellam­mare fu presa il 19 luglio del 1399 e subito dopo Napoli e l’Aquila, e così il 6 maggio del 1401 gli ultimi baluardi angioini furono definitivamente in possesso di Ladislao.
Il re, nel 1413, abitava il palazzo di Quisisana, e nel 1414 soggiorna nel castello della Torre della Marina, in Gragnano, da qui si recò a Perugia dove fu colpito da un male ribelle che lo costringe a ritornare a Na­poli, dove morì il 6 agosto dello stesso anno.
La regina Giovanna II, succeduta a suo fratello Ladislao, il 3 agosto 1419 concesse Castellammare, Lettere, Gragnano, Pimonte e le Franche in feudo a Giordano Colonna, principe di Venosa e di Salerno, ma il 7 agosto 1420, per la ribellione del feudatario, Castellammare ridivenne regio demanio ed il titolo di fedelissima per l'aiuto che gli stabiesi le avevano dato nella guerra contro Luigi III d'Angiò appoggiato da Muzio Attendolo Sforza, pertanto le concesse un privilegio in base al quale la città rimanesse per sempre in regio demanio, che non potesse essere venduta e che i suoi cittadini avessero cittadinanza di qualsiasi altra città del regno e specialmente di Napoli, con gli stessi onori e privilegi.
Castellammare subì molti danni in seguito alla guerra di successione, scoppiata tra Renato d'Angiò e Alfonso d'Aragona, che terminò nel 1442, con la vittoria degli aragonesi.Nel gennaio del 1437, il principe Alfonso concesse in feudo Castellammare insieme con Pimonte e le Franche al Gran Camerario del regno Raimondo de Perellos. Nel 1438 Castellammare è feudo di Isabella di Lorena, moglie di Renato d'Angiò.
In realtà si trattò di una modificazione di nome, prodotta dalla erezione di un castello, esistendo già o come Stabia o, ancora meglio, come facente parte del suo territorium un agglomeramento di case sorte vicino al mare. E' da riportare al secolo XI il terminus a quo di tale trasformazione. Se si tiene conto che alla fine del secolo X per castelli stabienses si intendevano soltanto Lettere e Gragnano apparirà logica l'ipotesi che quest'altro castello sia sorto in seguito e cioè nella prima metà del secolo XI. Ma è questa l'epoca della piena autonomia politica di Sorrento; e, poiché sappiamo che i castelli stabienses furono opera degli Amalfitani, signori del loro territorio, per analogia siamo tratti ad avanzare la seconda ipotesi che la costruzione del nuovo castello a mare risalga ai Sorrentini, desiderosi di difendere con esso la parte più vulnerabile dei confini del proprio Stato, che comprendeva la zona non amalfitana del territorio Stabiano.
Durante il regno di Alfonso I d'Aragona (1442-1458) il re, nel 1442, donò Castellammare in feudo a Raimondo de Pierleone, ma gli stabiesi, sulla scorta degli antichi privilegi, si ribellarono ed il re, il 5 maggio 1444, revocò l'infeudazione della città e le restituì gli antichi privilegi. Ridiventata regio demanio, Castellammare restò libera sino al 3 giugno 1507.
Alfonso I fece costruire una torre sulla spiaggia di Pozzano nel luogo detto «Portocariello» che da lui fu chiamata Alfonsina, fu aperta una strada per i monti che da Castellammare arrivava a Sorrento. Iniziò la costruzione di molte galee per ordine regio; una di questa si chiamò Castellammare ricca di decorazioni, di bandiere e di stemmi.
Non risulta però che re Alfonso sia venuto a soggiornare a Castellammare. Egli non mo­strò mai alcun interesse per la reggia di Quisi­sana, forse perché ebbe sempre una certa ritrosia a venire a Castellammare, sapendo che gli stabiesi non nutrivano per lui lo stesso affetto che avevano avuto per i re angioini, e, se si compiacque di confermare loro i famosi Ca­pitoli, fu per accattivarsene le simpatie e per tenerseli buoni.
Malgrado ciò, il sovrano commise l'erro­re che gli stabiesi non gli perdonarono mai, di favorire, in loro sostituzione, la penetrazione di elementi catalani, castigliani ed aragonesi nelle cariche di comando e in quelle amministrative.
Quando alla morte di Alfonso I, avvenuta il 27 giugno del 1458, salì al trono suo figlio Ferrante, la pace fu nuovamente turbata per le pretese degli Angioini sul trono di Na­poli.
Giovanni d'Angiò, figlio dell'ex re Renato, si accinse a riconquistare la per­duta eredità paterna.Partito da Genova nel­l'ottobre del 1459, il primo scontro campale con le forze aragonesi, avvenne alle foci del Sarno, il 7 luglio 1460: Ferrante fu clamorosamente sconfitto e a stento riu­scì a rifugiarsi a Napoli.
Castellammare fu presa dai francesi forse per il tradimento del castellano Giovanni Gagliardi, o, più probabilmente perché il partito angioino cittadino ebbe buon gioco nelle altre forze in difesa delle mura e ciò è più plausibile perché Ferrante, riconfermò castellano e governatore della città, il 10 aprile 1462, il presunto traditore.
La tradizine racconta che la Castellana, dall'alto delle mura aveva scorto fra le schiere un aitante cavaliere, e, desiderosa di averlo tra le braccia, di notte, avesse aperto le porte agli attaccanti.
Rinchiuso in Napoli, Ferrante, chiese ed ottenne truppe da Francesco Sforza, duca di Milano, da Alessandro Sforza, signore di Piacenza, da Giorgio Skandeberg, principe d'Albania e lo stesso Papa Pio II, inviò suo nipote An­tonio Piccolomini, con mille cavalli e cinquecento fanti ed alcuni pezzi d’artiglieria ad « espugnare Castello a Mare » tenuto in saldo possesso degli Angioini, « per la quale quelli del presidio, non fidandosi di difendere le mura, si arresero ». Era la settimana santa del 1461, quando castellammare fu presa e posta inaspetta­tamente a sacco. Tardivo ed inutile fu l'intervento del Piccolomini per fermare gli eccessi delle truppe.
Da Castellammare, i pontifici si recarono ad attac­care Scafati, che colta alla sprovvista si arrese ad Antonio Piccolomini, per questo il re, quale premio gliela concesse in feudo, feudo che qualche anno dopo passò al di lui nipote.
Dopo altri scontri, con alterna fortuna, gli Angioini, anche questa volta dovettero abbandonare il vagheggiato sogno e nel 1464 definitivamente lasciarono, sconfitti, il suolo napoletano.
Alla morte di Ferrante il 25 gennaio 1494, gli successe suo figlio Alfonso II, che non fu re neppure per un anno. Quando l’esercito fran­cese, guidato da Carlo VIII nel 1495, invase il reame Alfonso si affrettò ad abdicare in favore del figlio Ferrante II.
Ma i francesi, superando rapi­damente e facilmente lo schieramento difensivo arago­nese, fecero il loro ingresso in Napoli e Carlo VIII assunse il titolo di re di Sicilia.
Alla notizia che Carlo VIII si avvicinava a Napoli gli Stabiesi, provati dalle precedenti vicissitudini, con il ricordo del sacco subito anni addietro per opera delle truppe del Piccolomini, impauriti abbandonarono le loro case e andarono raminghi per i monti e, appena il sovrano invasore arrivò nella capitale, subito una delegazione partì da Castellammare per giurargli fedeltà.
Sul finire di maggio del 1496 Carlo, richia­mato in patria da altri interessi, riprese la marcia di ri­torno. Subito dopo le truppe di Ferrante II, guidate dal generale Consalvo di Cordova affrontarono le schiere del presidio fran­cese le costrinsero a ca­pitolare e così sfumarono gli ambiziosi piani del monarca d'oltralpe.
Castellammare dal 1464 al 1494, per il tacere delle armi, godette felici giorni. Ferrante si era adoperato a rialzare il paese dalla depressione eco­nomica: si svilupparono tante piccole industrie della lana e della seta e la coltura del gelso e del baco da seta ebbero maggiore impulso; si aprirono botteghe di tintorie e cardatrici, e l'artigianato dei ber­retti, le cosiddette «coppole», divenne fiorente; carbonai e tagliaboschi si moltiplicarono e, dai monti del Faito, era portato a valle il legname necessario per alimentare l'industria navale che assunse proporzioni considerevoli. Naviglio mercantile era commesso nei numerosi cantieri, quivi allestiti. Anche Francesco Coppola, conte di Sarno, si prodigava ad aprire sempre nuovi sbocchi commerciali, si servì delle nostre maestranze. Fu proprio in questo periodo che, alla costru­zione di navi mercantili, si unì anche quella delle galee. I vini pregiati pro­dotti nelle feconde terre, alimentavano l'industria delle botti e degli arnesi agricoli. La media borghesia, con mentalità nuova cresceva e tentava di fondersi con la nobiltà cittadina, numerica­mente modesta, e a questa classe nuova, si deve la creazione di quelle basi solide che portarono l'economia del paese ad un livello soddisfacente, procurando lavoro e armonia nella cittadina.
La popolazione crebbe in numero e la città si arric­chì di nuove case. Genovesi e fio­rentini, avevano interessi commerciali da tutelare a Castellammare.
In seguito all’accordo di Granada, stipulato tra Luigi XII di Francia e Ferdinando il Cattolico, Napoli fu occupata dai Francesi.
A Castel­lammare si erano formati due opposti partiti uno fran­cofilo, più forte numericamente, ed un altro più modesto fedele alla decaduta dinastia ara­gonese. I partigiani di questa monarchia, temendo le rappresaglie dei Francesi, al loro sopraggiungere, abbandonarono la città, raggiungendo per mare e per terra Vico, ove furono accolti, in virtù di un patto di mutua assistenza, stretto il luglio del­ 1501 tra le università di Vico, Sorrento, Piano e Positano, rimaste fedeli a Federico d'Aragona.
Nel luglio del 1501, quaranta famiglie sta­biesi si rifugiarono in Vico, dove furono accolte frater­namente, anche in seguito ad un accordo stipulato tra le Università di Vico, Sorrento e Piano, che prevedeva di accogliere nelle proprie città i fuggiaschi di Castellam­mare e di altri luoghi vicini.
Il 24 luglio, però, malgrado Vico opponesse all'assalto dei francesi una vigorosa e fiera resistenza, di fronte ai ripetuti assalti di preponderanti forze, fu co­stretta a capitolare. La lotta continuò ancora per giorni e i coalizzati della penisola sorrentina sostennero l'urto degli avversari, finchè le fanterie francesi non vinsero, e il 4 agosto, tutto il territorio da Castellammare a Capo Minerva fu ridotto completamente in soggezione di Luigi XII.
La vittoria finale della guerra franco-spagnola arrise agli Spagnoli che, divenuti padroni di Napoli nel 1503, instaurarono il lungo periodo viceregnale che durò oltre due secoli, sino al 1734.
Nel 1506 fu fondato, su mandato dello stesso S. Francesco di Paola, il Santuario ed il convento di Santa Maria di Pozzano.
Durante il regno di Ferdinando il Cattolico (1507-1515) il 3 giugno 1507 Castellammare fu infeudata dal re alla sorella Giovanna III d'Aragona, vedova di Ferrante I, e le appartenne fino alla sua morte il 7 gennaio 1517.
Il 5 aprile 1517 la regina Giovanna IV concesse ancora capitoli e grazie a Castellammare. La città restò in suo potere sino alla sua morte, il 28 agosto 1518. Giovanna IV non aveva eredi diretti ed i suoi beni, per testamento, furono ereditati dalla nipote Isabella d'Aragona, Duchessa di Milano per il suo matrimonio con Giangaleazzo Sforza. Castellammare, in tale occasione, passò al demanio regio, diventando libera, anche se vi fu una lite giudiziaria tra la città e la duchessa di Milano che ne pretendeva il feudo.
Quando nel 1516 Carlo V ricevette il governo dei vasti possedimenti spagnoli cui si aggiunsero nel 1519 i possessi di Casa d'Austria, con i diritti della corona imperiale, la straordinaria potenza raggiunta da Carlo preoccupò Francesco I di Francia ed un nuovo conflitto apparve inevitabile fra le due monarchie.
Ovun­que furono intensificati i preparativi di guerra, così a Castellammare, chiave di volta del sistema difensivo del golfo partenopeo e, nel 1520, Carlo V fece rinforzare le mura e munire di bombarde il castello.
La guerra scoppiò nel 1521 e l’Italia divenne il principale campo di lotta.
Nel 1527, le forze spagnole furono sconfitte per mare e per terra e Napoli fu assediata dai francesi.
Nell'aprile del 1527 il conte Renato de Vaudemont, erede dei diritti dei re angioini sul Regno di Napoli, sbarcò nel porto di Castellammare e s’impadronì della città per conto di Clemente VII, portando distruzione e morte.
Agli inizi del 1528 Castellammare, investita dalle trup­pe di Gastone di Foix, visconte di Lautrec, luogotenente nel Regno di Napoli di Francesco I che aveva invaso il Regno, riuscì a resistere ai ripetuti assalti per alcuni giorni, poi attaccata e bombardata dal mare dalle navi di Andrea Doria, fu presa e Vaudemont ne diventò governatore, ma, subito dopo, una violenta epidemia di colera mieté numerosissime vittime. I Francesi ne fu­rono atterriti e anche il Lautrec non fu risparmiato dal morbo che infieriva funesto e che lo portò alla tomba nell'agosto, mentre Andrea Doria passò agl'imperiali, il che costrinse l'armata francese, a to­gliere l'assedio da Napoli, abbandonare Castellammare per prendere la via del ritorno in patria e così, rioccu­pata Castellammare dagli Spagnoli, fu concessa il 22 aprile del 1529 in feudo a Filippino Doria.
A turbare l'effimera pace che era scaturita dopo gli eventi narrati, papa Paolo IV, contrario alla dinastia asburgica, fomentava nuove discordie, favorendo la ripresa del conflitto tra le due opposte potenze. I francesi cercarono nuove alleanze, rivolgendosi per aiuti al sultano di Costantinopoli che stipulò accordi segreti con la Francia.
Quest’operazione favorì l’ingerenza nella penisola italiana, dei corsari turco-barbareschi, che in seguito portarono alle città rivierasche meridionali lutti e danni, assalendole e depredandole.
Nel 1534, Adriano Barbarossa, Gran Corsaro e Generale di Solimano, Sultano dei Turchi, con una potente flotta sbarca a Castellammare, dopo aver saccheggiato Capri ed Ischia. I Gragnanesi accorsi in aiuto degli Stabiesi riuscirono a ricacciare i Turchi.
Quanto sia durata la signoria del Doria non è noto, certa cosa è che nel 1535 Castellammare apparteneva alla principessa di Salerno e che restò in suo potere fino al 18 luglio 1541, quando Carlo V, per il matrimonio di sua figlia Margherita con il duca di Parma Ottavio Farnese, vendette Castellammare in feudo a Ottavio per 50.000 ducati. Castellammare diventò così feudo della famiglia Farnese, pur continuando a seguire le leggi vicereali.
Nel 1542 il pericolo corsaro si profilò di nuovo: la città fu saccheggiata dal corsaro turco Dragut che, con le sue galee, approdò nel luogo detto Quartuccio (dal pagamento della quarta parte del valore della merce sui carri e sulle some che entravano in Napoli) saccheggiò la città e fece prigioniere ottanta persone. Una tempesta lo spinse sull'isola d’Ischia e qui gli stabiesi, con l'ingente somma di 12.000 ducati, ricomprarono i loro concittadini schiavi. Dragut fu scacciato dalla città grazie all'aiuto dei Vicani e dei Gragnanesi.
I corsari turchi ritentarono lo sbarco nel 1558 s’impadronirono di Castellammare e cercarono di nuovo di arrivare a Gragnano. I Gragnanesi insorsero e per prevenire le mosse dei Corsari, si avviarono verso Castellammare andando minacciosamente incontro al nemico. I Turchi sorpresi da tanta audacia e convinti che quel manipolo di uomini costituisse solo l'avanguardia di una grossa formazione, si ritirarono rinunciando così all'idea di saccheggiare Gragnano.
Il 7 settembre 1566 Ottavio Farnese comprò una casa dove si reggeva la corte, l'attuale Palazzo Farnese, l'elegante edificio bianco che si trova vicino al Duomo, successivamente utilizzato per gli uffici del Municipio, mentre lungo il lido sorsero torri d’avvistamento e di difesa, le cui tracce ancora permangono.
Nel 1561, sull'isoletta di Rovigliano, presso la foce del Sarno, fu costruita una grande torre di cui ancora oggi si possono osservare le poderose mura quadrate in pietra calcarea.
Nel XVI secolo fu edificato anche l'attuale duomo originariamente a forma basilicale, a tre navate.
Nel 1615 i Gesuiti costruirono la bella ed elegante Chiesa del Gesù con l'annesso Collegio.
Nel 1622 morì il feudatario Ranuccio I Farnese e gli succede Odoardo che morì nel 1647 e gli succede Ranuccio II.
Nel 1648 Arrigo di Lorena, duca di Guisa, comandante dei Francesi, chiamato dai Napoletani, aveva invaso Napoli il 13 novembre 1647 ed il 18 gennaio 1648 aveva creato governatore di Castellammare, Sorrento, Vico e Massa il genovese Giovanni Grillo. Il 6 aprile gli spagnoli ripresero Napoli ed il Grillo fu fucilato il 9 settembre. Il 13 novembre 1654 Castellammare fu saccheggiata dai Francesi guidati per la seconda volta dal duca di Guisa che entrarono per la porta della fontana grande. Il duca di Guisa prese la città dopo breve assedio e seguito da 50 cavalieri Gerosolimitani si portò al duomo, rese grazie a Dio con pubblica e solenne cerimonia, fortificò la città con nuove trincee ed a tutti gli stabiesi che non vollero rimanere in città diede ampio salvacondotto nel quale s'intitolava Viceré e capitano generale del re di Francia nel regno di Napoli. Il viceré spagnolo D. Garzia de Avellana fece subito occupare le montagne di Castellammare di Stabia per costringere il duca di Guisa alla resa ed in città fu apposto cartello con il quale si promettevano 30000 ducati a chi troncasse la testa al duca di Guisa. Questi subito abbandonò Castellammare il 26 novembre, ma i suoi soldati prima di partire saccheggiarono case e chiese.
Nel 1694 morì il feudatario Ranuccio II Farnese e gli successe Francesco Farnese.
Nel 1727 morì il feudatario Francesco Farnese.
Castellammare, feudo della famiglia Farnese dal 1541 al 1731, passò in feudo a Carlo di Borbone, Farnese per parte di madre e nel 1737 tutti i beni farnesiani furono incorporati, per la loro amministrazione, con la qualifica di Beni Allodiali, cioè di beni che il Re possedeva a titolo di proprietà privata e non come Capo dello Stato. Anche Castellammare subì simile sorte, e mantenne questo stato sino all'emanazione della legge del 2 agosto 1806 con la quale Giuseppe Napoleone Bonaparte, abolendo del tutto la feudalità, restituiva, fra le altre, anche a Castellammare la condizione di città libera.
Con il regno di Carlo III di Borbone iniziò un periodo di tranquillità e prosperità per Castellammare: il re fondò una fabbrica di cristalli nel luogo detto Cristallina; il 7 giugno 1749 iniziarono gli scavi dell'antica Stabia, sepolta dall'eruzione del Vesuvio, scavi che proseguirono fino al 1782 sotto la direzione dello spagnolo Joachin Roch d'Alcabierre, capo del genio militare e del tenente colonnello ingegnere Carlo Weber, svizzero e coadiutore; fu arricchito il Palazzo Quisisana.
Ferdinando IV, che predilesse Castellammare per le sue villeggiature, accrebbe la bellezza del Quisisana: i parchi furono arricchiti di piante rare, furono aperti viali, aiuole, piazzette e vennero installate fontane con sedili di marmo.
Nel 1783 re Ferdinando fondò a Castellammare il Regio Cantiere Navale, il primo del Regno di Napoli, mentre nel 1785 il porto venne ampliato e difeso da un forte munito da trenta cannoni.
Venne costruita nel 1886 l'elegantissima Villa Pellicano la prima, in ordine di tempo, delle raffinatissime ville delle delizie che sorsero sulle pendici di Quisisana.
Il continuo sviluppo della città rendeva ormai inutili le vecchie mura di cinta: perciò nel 1798, in occasione dell'apertura di nuove strade, in particolare quella lungo la marina del torrione del Quartuccio che, costeggiando il mare dall'attuale piazza Quartuccio, arrivava al quartiere dei cacciatori reali fuori la porta della fontana (le attuali vie Mazzini e Bonito), esse furono demolite. Fu conservata, come monumento di un'epoca passata, la porta del Quartuccio, presso la quale nel 1841 venne sistemata la statua del patrono San Catello, e venne inoltre risparmiato il cosiddetto Torrione, parte terminale delle mura edificate nel XV secolo da Ferdinando I d'Aragona. La torre nel 1824 fu compresa nel Palazzo dello Spagnuolo che ospita il Gran Caffè Napoli, nella Villa comunale.
Durante la rivoluzione del 1799, il 14 giugno i Francesi assalirono Castellammare e la saccheggiarono, essendo questa fedele ai Borbone. I cittadini fuggirono per i monti ed il saccheggio fu sospeso solo dietro il pagamento di 200.000 ducati, mentre nelle piazze si innalzava lo stendardo repubblicano.
Francesco I di Borbone aprì la strada nota col nome di Giro di Pozzano che, partendo dai cantieri navali, arrivava alla Basilica di Pozzano, al Castello e al Quisisana: questa via fu sostituita nel 1936 dalla nuova strada panoramica che, attraverso la collina, porta a Sorrento. Fu inoltre costruito, sulla destra del viale che porta a Quisisana, il Regio Teatro Francesco I che dal 1859 è diventato Palazzo Perna.
Nel Ferdinando II ordinò la costruzione di una strada costiera da Castellammare fino a Meta, strada che venne inaugurata nel 1834, nel 1835 fu fondata una scuola Nautica, abolita poi nel 1863; nel 1836 fu dato vita al tratto ferroviario Napoli-Castellammare inaugurato il 31 luglio 1842; aggiunse al vecchio porto un altro molo per l'ormeggio del naviglio militare.
Quando nel 1848 scoppiò la rivolta costituzionale a Palermo, il moto si propagò anche a Napoli, ed il 29 dello stesso mese il Re Ferdinando dapprima concesse la Costituzione, ma il 15 maggio, per prevenire gli eccessi del popolo armato, autorizzò l'intervento dell'esercito e ritirò la Costituzione.
Il 15 maggio a Castellammare una schiera di borbonici capitanati da un barbiere chiamato «Lafemina», gira per la città gridando «abbasso la costituzione e viva il re».In piazza fontana grande la schiera irrompe nel caffè di Francesco Cinquanella sottostante al palazzo del Gran Mogol e lo saccheggia, perché il Cinquanella era sospetto al partito borbonico, sono imprigionati alcuni cittadini perché liberali furono successivamente esiliati; nella schiera dei perseguitati politici c'erano anche Ferdinando Cosenza e Luigi Florio.
Nel 1860, con l'avanzata dei Mille, un gruppo di rivoltosi antiborbonici assalì il municipio ed il posto di polizia; anche nel circondario di Castellammare furono assaliti i posti di guardia, sia al centro sia in periferia: Pimonte, Corbara, ecc.
A Castellammare alla rivolta si rispose con un tentativo clericale e con un'azione di forza organizzata nello stesso Vescovado, per iniziativa di monsignor Petagna.
Nei mesi estivi a Castellammare i soldati borbonici reduci dalle battaglie della Calabria furono accolti nel Seminario diocesano, requisito dal Comune; ciò accrebbe il malcontento ed il disagio nel paese: la notte fra il 13 e 14 agosto una schiera di Garibaldini della brigata Medici imbarcati sul Tuherj, cercò di prendere il vascello Monarca; il 7 settembre gli insorti portarono in processione per la città il ritratto di Ferdinando Cosenza ed una scritta con il nome di Luigi Florio; l'8 settembre nel reale cantiere insorsero anche gli operai al grido di fuori gli infami; il 21 ottobre il vescovo Petagna fu invitato a lasciar libera la cattedrale perché era l'unico luogo adatto alla votazione per il plebiscito dell'unità d'Italia da parte di una speciale giunta cittadina costituita dal sindaco Raffaele Vollano, dai decurioni e dal comandante la guardia nazionale Raffaele Troiano; votarono 4.325 persone. Successivamente il vescovo Petagna, accusato di avere fatto imprigionare nei moti del 1848 dei carbonari che si erano rifugiati nella chiesa di S. Ferdinando di Napoli dove era rettore, andò esule prima a Marsiglia, poi a Parigi.
Nel gennaio del 1861 si aggrava la crisi economica provocando una disoccupazione di massa. Fu chiuso il regio Cantiere navale: per gli operai sembrò lontanissimo il settembre dell'anno precedente, quando avevano fatto luminarie e carri allegorici in onore di Garibaldi. L'industria tessile precipitava nella rovina completa; cessata la produzione della famosa robbia per la tintura delle divise borboniche, ormai non più richieste, anche se le guardie nazionali indossavano ancora la vecchia uniforme secondo le disposizioni dello stesso Garibaldi. La stessa crisi traversavano le industrie della canapa e della seta. Incominciò una serie di agitazioni che si protrassero fino ad aprile nonostante la dura repressione ed i numerosi arresti che furono effettuati ad ogni scoppio di malcontento popolare.
In questa fase la Guardia nazionale di Castellammare che aveva sedato i primi moti reazionari non era più sufficiente a contenere l'urto delle bande armate e come le altre guardie nazionali era del tutto priva di mezzi adeguati alla situazione. Essa però continuò a mantenere un certo ordine e una certa compattezza, fedele agli ideali patriottici e alle direttive degli organi polizieschi, prestando un buon servizio nel capoluogo con i quattro posti di guardia di Quisisana, Scanzano, Quartuccio e Cantiere e con le sue centinaia di militi volontari che provvedevano all'ordine pubblico in città ed in periferia.
Echi del brigantaggio si sentirono in un centro urbano come Castellammare ed in generale sui problemi connessi all'ordine pubblico, da sempre alterato dalla vivace presenza della camorra locale.
Il 29 aprile 1861 ci fu un assalto brigantesco al Casino Reale di Quisisana: quaranta individui si presentarono dal guardiano fingendosi poliziotti con l'incarico di eseguire una perquisizione; il guardiano aprì e fu aggredito e percosso, mentre le ricche stanze del palazzo furono saccheggiate; i briganti portarono via tutto quello che trovano di vasellame, di oro e di argento; anche la cappella reale è spogliata dei preziosi arredi sacri, un Bambinello d'argento, calici e pissidi; il danno fu calcolato ad oltre 6000 ducati.
L'episodio di Palazzo Reale creò sgomento tra i villeggianti che già avevano cominciato ad affollare la deliziosa contrada di Quisisana. Si cercò di correre ai ripari per tranquillizzare la gente, rafforzando le misure di sicurezza ed il Sottintendente prospettò l'esigenza di creare una nuova stazione di Guardie Nazionali alle Botteghelle.
Dalla primavera del 1861 sino all'autunno dello stesso anno infuriò sui Monti Lattari, tra Agerola e Pimonte, tra Gragnano e Lettere la banda Cavallaro, così denominata dal capo Antonio Cavallaro: a Schito i suoi briganti spogliarono un intero casale.
A parte questi episodi sporadici a Castellammare non c'era una situazione che desse eccessive preoccupazioni alla Sottintendenza: la minaccia all'ordine pubblico proveniva essenzialmente dalla camorra. Se erano giustificati i provvedimenti antibrigantaggio per garantire l'incolumità dei forestieri ed il loro afflusso, tuttavia la situazione non era così allarmante. Occorreva piuttosto curare la piaga dei camorristi, molti dei quali, approfittando degli eventi dell'autunno del '60, erano riusciti a concertare parecchie evasioni in massa dai luoghi di pena.
Il più pericoloso camorrista era considerato Michele De Simone, meglio noto come il Leone di Quisisana: vero e proprio terrore del vicinato: nell'aprile del '61 insieme con altri camorristi aveva aggredito e depredato sulle colline di Castellammare un certo barone Dachenausen, ricco villeggiante; la polizia era riuscita a mettere ai ferri il camorrista il quale poi era riuscito ad evadere insieme con altri dalle carceri di Pozzano; la sua latitanza non durò molto, infatti a giugno fu nuovamente arrestato con enorme soddisfazione di tutti compresa la stampa di regime che partecipò all'euforia per la cattura del pericoloso camorrista.
A novembre ci fu ancora qualche episodio di brigantaggio. A Scanzano un piccolo gruppo di uomini, guidato dai fratelli Michele e Gaetano Troiano, irruppe nella stazioncina di guardia, rubando i cinque fucili che vi si trovavano, mentre le guardie atterrite si nascondevano frettolosamente; alla fine i briganti, schernendo le guardie, si dileguarono con l'aiuto di due donne che avevano preparato l'agguato e del parroco di S. Nicola presso la cui abitazione si erano rifugiati gli aggressori. Il Casino di Quisisana venne di nuovo saccheggiato dai briganti ed il posto di guardia di Scanzano patì, in pieno giorno, una nuova devastazione da parte di una quindicina di briganti che, come al solito, distrussero ogni simbolo collegato al nuovo regime ed i ritratti di Garibaldi e di Napoleone III. Un milite nazionale fu portato via come ostaggio al grido di Viva Francesco II; Viva il Papa-Re!. Nel frattempo si diffondeva la notizia che Pilone stava per invadere la città.
In questo periodo nacquero illustri personaggi: nel 1846 Luigi Denza, nel 1850 Giovan Battista Filosa, nel 1855 Michele Esposito e nel 1859 Ettore Tito.
Dopo l'Unità d'Italia, Castellammare conservò la sua importanza grazie al suo cantiere, presso il quale nel 1876 fu costruita la prima corazzata italiana, la Duilio.
Coll'espansione demografica, la città comincia a estendersi oltre l'antica porta del Quartuccio. Siamo passati dai 15.000 abitanti del 1820 ai 22.000 circa del 1869. Oltre la nuova strada Marina, odierna via Mazzini si sviluppa la strada Spiaggia, che dopo l'Unità d'Italia assume il nome di corso Vittorio Emanuele. A lato dei palazzi già esistenti se ne costruiscono altri. Sono di riferimento estetico il palazzo Benucci, progettato dall'architetto napoletano Enrico Alvino e costruito nel 1843, e il maestoso palazzo Merenghini al n. 57, che nell'Ottocento ospitava l'Albergo Imperiale.
Il centro commerciale e turistico si sposta, se pur di poco, verso questa zona, che solo un secolo prima si trovava fuori le mura. Il largo Quartuccio diventava la bella piazza Principe Umberto.
D'estate Castellammare diventa un'affollata località turistica. Non mancavano avvenimenti straordinari che finivano sulle prime pagine dei giornali nazionali e che contribuivano a far affluire gente da ogni dove. Nel 1870 sono ospiti nella lussuosa villa dei principi di Moliterno alla Sanità, S.A.R. Umberto di Savoia e la consorte Margherita Savoia Genova. Il futuro re d'Italia è accolto da una città in festa, coi balconi impavesati. Il sindaco "omaggia" la principessa di un bouquet di camelie e, per l'occasione, l'isolotto di Rovigliano è tutto illuminato dal fuoco dei bengala. Nel 1873 è in visita di piacere l'imperatrice di Russia. L'8 maggio 1876, alla presenza del re Vittorio Emanuele II e di un nutrito corpo diplomatico, tra cui si distingue il rappresentante cinese, prende il mare la corazzata Duilio, la più potente nave da guerra del mondo, progettata da Benedetto Brin e costruita nel regio Cantiere. Nell'aprile del 1877 trascorre un breve periodo di villeggiatura nel famoso Hotel Quisisana Eugenia Montijo, imperatrice di Francia, vedova di Napoleone III. Nel 1880, sulle verande dello Stabia Hall, lo stabiese Luigi Denza e Peppino Turco compongono la celeberrima Funiculì Funiculà.
Per tutto l'Ottocento la città consolida la sua tradizione di località turistica à la page. I villeggianti accorrono soprattutto per le cure termali, molto in voga. Le terme vantano un assortimento di acque minerali unico al mondo. Nel parco si esibisce, per il pubblico diletto, un concertino di "dame viennesi" diretto dalla pianista francese Malvine Caneo. Si conduce vita mondana nello Stabia Hall e in alcune ville private, come Villa Moliterno (attuale villa Petrella), Villa Lucia del principe di Sant'Antimo, la Villa degli specchi ed infine la Villa Angelina del barone Mandatoriccio. Si viene da ogni parte d'Italia per passeggiare di sera sul bel lungomare o tra i platani della Giardini Pubblici, allietati dalle note che l'orchestra esegue dalla pedana della Cassa Armonica.
L'inizio del nuovo secolo comincia a Castellammare con un evento eccezionale: il 7 novembre 1901 si vara la corazzata Benedetto Brin, alla presenza del re d'Italia Vittorio Emanuele III e della regina Elena, che per l'occasione è stata designata madrina della cerimonia.
A Castellammare l'antesignano del nuovo stile liberty è l'architetto Eugenio Cosenza.
La città d'estate era talmente affollata di villeggianti di ogni nazione d'Europa che non può stupire la presenza di numerosi consolati esteri: quello austro-ungarico, quello francese, quello inglese, quello greco, quello spagnolo, quello olandese, quello paraguaiano, e perfino quello turco.
L’Hotel Stabia, l’Hotel Waiss e l’Hotel Quisisana sono stipati di turisti, come pure locande, pensioni e case private. Numerose carrozzelle effettuano corse a Quisisana, Monte Coppola, Faito, Pozzano, Vico Equense, Meta, Piano, Sorrento, Massalubrense, Gragnano, Pimonte, Lettere, Agerola, Pompei. Ogni mezz'ora è in partenza un tram per Sorrento.
Per la stagione balneare del 1910 le Antiche Terme si offrono gradevolmente rinnovate.
Fra le chiese ricordiamo per maggiore interesse Santa Maria dell'Orto, la Chiesa del Purgatorio e la chiesa della Pace.
Ora la città è una frequentata stazione idro-minerale e un luogo di villeggiatura. Inoltre è uno dei maggiori centri industriali dell'Italia meridionale ed è importante anche per l'agricoltura e il commercio.

Massimo Capuozzo

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