sabato 31 ottobre 2015

La Primavera di Sandro Botticelli di Alfonso Iovino

La Primavera è un dipinto a tempera su tavola (203x314 cm) di Sandro Botticelli, databile all’incirca nel 1482.
Realizzata per la villa medicea di Castello, il dipinto è attualmente conservato nella Galleria degli Uffizi a Firenze.
La Primavera è considerata il capolavoro dell'artista e faceva forse anticamente pendant con l'altrettanto celebre Nascita di Venere, con cui condivide provenienza, formato e alcuni riferimenti filosofici.
La Primavera fu dipinta per Lorenzo di Pierfrancesco dei Medici, appartenente al ramo cadetto della potente famiglia fiorentina e cugino di Lorenzo il Magnifico. La sua collocazione originaria era nel Palazzo Medici di Via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello accanto alla Nascita di Venere; con il riordino delle collezioni fiorentine l’opera fu trasferita agli Uffizi nel 1919.
I critici sono discordi sulla datazione. In ogni modo l’opera è stata sicuramente dipinta tra il 1477 e il 1482. Lightbrown ipotizzò una datazione immediatamente successiva al rientro del maestro da Roma, nel 1482, coincidente con le nozze del committente Lorenzo il Popolano con Semiramide Appiani.
In un ombroso boschetto, sullo sfondo di un cielo azzurrino, sono disposti nove personaggi. Il primo personaggio a sinistra dello spettatore è una figura maschile vestita con una sola mantella rossa ed un pugnale, nell'atto di cogliere un frutto. Il primo gruppo è rappresentato da tre figure femminili che danzano. Nella parte centrale del dipinto è presente una donna con una veste rossa e blu, sopra di essa un angelo ondeggia mentre è nell'atto di scagliare una freccia dal suo arco.
A destra sono presenti altre due figure femminili: la prima è una donna con una veste decorata di fiori, la seconda indossa semplicemente una veste con un velo e sembra nell'atto di fuggire dalla figura maschile posta alle sue spalle.
Il suolo è composto da un verde prato, disseminato di un'infinita varietà di specie vegetali e di un ricchissimo campionario di fiori.
Nell'iconografia della Primavera, Botticelli esprime una chiara rappresentazione dello stile del Rinascimento italiano, dove il recupero della cultura classica si pone come elemento caratterizzante in tutte le arti.
Nell'opera, per certi aspetti ancora di oscura interpretazione, è combinata la mitologia e l'iconografia classica con la ricerca di nuove forme:  realtà e fantasia si scontrano per dare vita ad nuovo modo di concepire l'arte.
Anche se possiamo distinguere i tre diversi gruppi raffigurati nel dipinto, essi tuttavia si dispongono su diversi piani prospettici, dando profondità ed una lieve prospettiva alla raffigurazione.
La linea di disposizione delle figure procede quindi come una  “S” disposta orizzontalmente: la prima figura è disposta lievemente più indietro rispetto alle tre damigelle danzanti, mentre la figura centrale acquisisce il ruolo di riferimento simmetrico rispetto a tutte le altre. L'artista sceglie di porre in primo piano la figura centrale, facendo uso di un'accennata prospettiva. Le ultime due figure sulla destra sono disposte in modo obliquo ed orientate verso lo spettatore.
Il dipinto va letto da destra verso sinistra.
Il primo personaggio presente è Zefiro, il vento primaverile, mentre rincorre la sua amata, la ninfa Clori, divinità dei fiori e della Primavera.
Al centro è presente Venere, la dea della bellezza, posta dinanzi ad un cespo di mirto, mentre allunga il braccio verso le tre Grazie poste alla sua sinistra. 
Cupido, la divinità dell'amore, aleggia sopra di lei, nell'atto di scoccare la potente freccia, capace di far innamorare gli uomini e gli dei.
Le tre Grazie, Aglaia (lo splendore), Eufrosine (la gioia), Talia (la prosperità), nate da Zeus ed Eurinome, danzano una carola. 
A sinistra di queste ultime è presente Mercurio, dio dell'eloquenza, del commercio e dei ladri, nell'atto di allontanare le nubi con il Caduceo, bastone di araldo, sormontato da ali, con due nastri bianchi attaccati.
Come per altri capolavori del Rinascimento, la Primavera nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente mitologico, legato ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai accertata; uno filosofico, legato alla filosofia dell'Accademia neoplatonica e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, infine, legato alle vicende contemporanee ed alla gratificazione del committente e della sua famiglia.
Mirella Levi D'Ancona ha ipotizzato che il dipinto possa essere l'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani; Botticelli lo avrebbe oltretutto eseguito in due momenti successivi, perché l'opera era stata inizialmente commissionata da Giuliano de' Medici in occasione della nascita del figlio Giulio, il futuro papa Clemente VII, avuto con Fioretta Gorini che egli avrebbe sposato in gran segreto nel 1478. Ma Giuliano morì nella congiura dei Pazzi in quello stesso anno, un mese prima della nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto fu riciclato dal cugino qualche tempo dopo, per celebrare le sue nozze, inserendovi il suo ritratto e quello della moglie, che si diceva essere donna dall'estrema bellezza.
Il gruppo di destra rappresenterebbe l'istintività e la passionalità notoriamente condannate dal Neoplatonismo, perché portatrici di atteggiamenti irrazionali. I fiori presenti nella scena alluderebbero a vari significati matrimoniali: fiordalisi, margherite e nontiscordardime alludono alla donna amata, i fiori d'arancio sugli alberi sono ancora oggi un simbolo di felicità matrimoniale, così come la borrana che si vede sul prato.
In base ad altri ritratti, dipinti da Botticelli o da altri artisti della sua cerchia, nei vari personaggi della rappresentazione sono stai individuati vari esponenti di casa Medici,  ma trattandosi spesso di opere altamente idealizzate, si possono fare per lo più semplici ipotesi, più o meno suggestive.
La presenza di Flora sarebbe pertanto un'allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città. Le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio-Milano, Cupido (Amor)-Roma, le Tre Grazie Pisa, Napoli e Genova, la ninfa Maya Mantova, Venere Venezia e Borea Bolzano.
L’opera è densa di significati allegorici di difficile ed incerta interpretazione.
Tra le ipotesi più accreditate c’è quella dell’interpretazione del regno di Venere. Il dipinto sarebbe quindi la rappresentazione di Venere dopo la nascita, raffigurata nell'altro celebre dipinto di Botticelli, durante l'arrivo nel suo regno. Vi si narrerebbe come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale. In tal caso la scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia collocava nell'isola di Cipro, come rivelano gli attributi tipici della dea sullo sfondo e la presenza di Cupido e Mercurio a sinistra in funzione di guardiano del bosco. Le Tre Grazie rappresentavano tradizionalmente le liberalità: la parte più interessante del dipinto è tuttavia quella costituita dal gruppo di personaggi sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora, divinità della fioritura e della giovinezza, protettrice della fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore sensuale e irrazionale, che però è fonte di vita – dalla loro unione nasce Flora – e, tramite la mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto – le Grazie – per poi spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da Mercurio.
Per Panofsky la Venere della Primavera sarebbe la Venere celeste, vestita, simbolo dell'amore spirituale che spinge l'uomo verso l'ascesi mistica, mentre la Nascita di Venere raffigurerebbe la Venere terrena, nuda, simbolo dell'istintività e della passione che ricacciano gli individui verso il basso.
Numerose sono le proposte di lettura per le Grazie. Esse possono rappresentare tre aspetti dell'amore, descritti da Marsilio Ficino: da sinistra, la Voluttà, dalla capigliatura ribelle, la Castità, dallo sguardo malinconico e dall'atteggiamento introverso, e la Bellezza, al cui collo una collana che sostiene un elegante prezioso pendente e un velo sottile che le copre i capelli. Proprio verso di lei la quale Cupido sembra stare per scoccare la freccia.
A parte le varie interpretazioni possibili e proposte dai vari studiosi, rimane sicuramente il significato prettamente umanistico dell’opera: Venere si identifica con l’Humanitas che separa i sensi e gli amori materiali a destra dai valori spirituali a sinistra. Per Humanitas si deve intendere quella particolare concezione che promuove l’ideale di un’umanità positiva, fiduciosa nelle proprie capacità e sensibile ai bisogni degli altri.
Tale concezione di origine antica fu fatta propria dagli umanisti e dal circolo neoplatonico che gravitava intorno alla corte dei Medici. Il Neoplatonismo fu una corrente filosofica ed estetica che si rifaceva al filosofo greco Platone cercando una fusione con i concetti più nobili del Cristianesimo. La concezione del bello e dell’amore ideale ed assoluto tipica del Neoplatonismo influenzò molto la cultura del tempo e lo stesso Botticelli.
Nell'opera sono leggibili alcune caratteristiche stilistiche tipiche dell'arte di Botticelli: innanzitutto la ricerca di bellezza ideale e di armonia, emblematiche dell'umanesimo, grazie al disegno e alla linea di contorno. Ciò genera pose sinuose e sciolte, gesti calibrati, profili idealmente perfetti. L'ondeggiamento armonico delle figure, che garantisce l'unità della rappresentazione, è stato definito musicale.
In ogni caso l'attenzione al disegno non si risolve mai in effetti puramente decorativi, ma mantiene un riguardo verso la volumetria e la resa veritiera dei vari materiali, soprattutto nelle leggerissime vesti.
L'attenzione dell'artista è tutta focalizzata sulla descrizione dei personaggi e in secondo luogo delle specie vegetali accuratamente studiate, sull'esempio di Leonardo da Vinci che in quell'epoca era già artista affermato. Minore cura è riservata, come al solito in Botticelli, allo sfondo, con gli alberi e gli arbusti che creano una tinta scura e compatta. Il verde usato, come accade in altre opere dell'epoca, doveva originariamente essere più brillante, ma col tempo si è ossidato arrivando a tonalità più scure.
Le figure spiccano con nitidezza sullo sfondo scuro, con una spazialità semplificata, sostanzialmente piatta o comunque poco accennata, come negli arazzi. Non si tratta di un richiamo verso l'ormai lontana fantasia del mondo gotico, ma piuttosto dimostra l'allora nascente crisi degli ideali prospettici e razionali del primo Quattrocento, che ebbe il suo culmine nell’epoca di Savonarola (1492-1498) ed ebbe radicali sviluppi nell'arte del XVI secolo, con un più libero inserimento delle figure nello spazio.
La Primavera è dipinta con stesure ad olio su un fondo di tempera, la parte inferiore corrispondente al prato e agli alberi è stesa su di una campitura nera destinata a dare profondità al verde che vi è steso ad olio. Le figure del cielo sono invece dipinte al di sopra di un fondo di biacca che ne evidenzia la luminosità. L’opera è caratterizzata da diverse tonalità di colore chiaro che si pongono in contrasto con lo sfondo in un gioco di luci ed ombre che risalta i chiaroscuri. I dettagli naturalistici del prato, l’uso sapiente del colore, l’eleganza delle figure, la poesia dell’insieme, hanno reso giustamente celebre quest’importante ed affascinante opera.

Alfonso Iovino

Le allegorie del buono e del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti di Enrico Staiano

L'Allegoria ed Effetti del Buono e del Cattivo Governo è un ciclo di affreschi di Ambrogio Lorenzetti situato nel Palazzo Pubblico di Siena intorno al 1338-1339.
Prima di passare alla trattazione dell'opera di Lorenzetti è opportuno parlare della vicenda basso medioevale e rinascimentale della città toscana.
Siena come altri comuni italiani ebbe rivalità sia interne sia esterne, tra le  più accese si ricorda quella con Firenze. Nel comune senese erano importanti gli ideali di concordia e di pace, che dovevano ispirare l'operare dei governanti.
La Repubblica di Siena fu uno stato indipendente esistito dal 1125 fino al 1555/1559.
Nel 1125 Siena ebbe un governo consolare, nel 1199 Siena passò ad  un governo esecutivo podestarile.
In un primo momento, Siena strinse alleanze con varie città toscane e si scontrò diverse volte con Firenze fino al 1201 con la pace di Fonteruoli.
Nei primi anni del Duecento, la ghibellina Siena poteva contare come alleato principale il re Manfredi di Sicilia.
Le mire espansionistiche di Firenze e i vari conflitti economici con Siena, fecero innalzare il livello del conflitto tra ghibellini e guelfi, che culminò nella nota battaglia di Montaperti (4 settembre 1260) dove Siena riuscì a fronteggiare l'armata guelfa fiorentina.
Successivamente Siena ebbe un grande ampliamento territoriale, ma, nonostante questo, subì una grave sconfitta da parte di Firenze nella battaglia di Colle nel 1269. Il 15 agosto Siena si arrese alle truppe di Carlo I d’Angiò. Nel 1280 fu costituito il governo dei quindici, in carica fino al 1286 e sostituito dal Governo dei nove. Siena, lacerata dalle lotte intestine tra guelfi e ghibellini, con l'instaurazione del Governo dei nove (espressione di un centinaio di famiglie guelfe, con l'esclusione dei nobili) diventò guelfa. Dopo il Governo dei nove vi fu una fase di seria precarietà politica: nel 1368 sorse il breve Governo dei tredici; nel 1369 fu istituito il Governo dei quindici; Dal 1385 al 1399 il governo di Siena fu affidato ai priori (dapprima dieci, poi undici, infine dodici). Dopo un brevissimo periodo sotto la signoria dei Visconti (1399-1404), Siena riprese la propria autonomia. Il mutato scenario quattrocentesco fece sì che anche Siena avesse la sua Signoria dal 1487 al 1525, con Pandolfo Petrucci ed i suoi discendenti Borghese (1512-15), Raffaello (1515-22), Francesco (1522-23) e Fabio (1523-25). Dopo questa esperienza signorile Siena ritornò alle antiche istituzioni repubblicane nel 1525. La decadenza della repubblica di Siena raggiunse l'epilogo con la battaglia di Scannagallo. Le truppe senesi si arresero all'esercito ispano-mediceo assoldato dal duca di Firenze, Cosimo I de' Medici. Nel 1555 quando Siena si arrese, i superstiti locali abbandonarono la città, per stabilirsi a Montalcino. I senesi esiliati crearono così la repubblica di Siena riparata in Montalcino. In esecuzione del trattato conseguente alla pace di Cateau-Cambrèsis, l’ultimo baluardo senese fu annesso al ducato fiorentino retto da Cosimo I de’ Medici.
Palazzo Pubblico di Siena è senza dubbio uno degli edifici più celebri d’Italia ed affaccia su Piazza del Campo, a Siena. L’edificio, costruito verso la fine del Trecento, è sempre stato il centro del governo cittadino e fin da allora gli interni sono stati decorati dai migliori artisti. Era interesse di chi presiedeva la macchina pubblica esibire in queste sale la visione politica attraverso opere capaci di celebrare e propagandare i concetti che più credevano opportuni.
La sala dei Nove rappresenta il luogo simbolo di Palazzo Pubblico dove si riuniva il Consiglio dei Nove ossia i rappresentanti della città ed espressione della borghesia mercantile cittadina. Avevano potere esecutivo e organizzativo e presiedevano un’assemblea di circa 300 membri. Questa forma di governo andò avanti dal 1287 e il 1355. Durante tale periodo la città ebbe una notevole fioritura artistica, urbana ed economica, che vide la nascita di splendidi edifici, piazze, ospedali. Il momento di splendore terminò con l’inizio di lotte interne e con lo scoppio della peste del 1348. Tra coloro che morirono durante la terribile epidemia, c’è anche Ambrogio Lorenzetti.
Gli affreschi, sono composti da quattro scene disposte lungo tutto il registro superiore di tre pareti di una stanza rettangolare, detta Sala del Consiglio dei Nove, o della Pace.
Ambrogio Lorenzetti lavorò agli affreschi dal febbraio del 1338 al maggio del 1339, lasciandovi la firma sotto l’affresco della parete di fondo, dove si trova l’Allegoria del Buon Governo: “Ambrosius Laurentii de Senis hic pinxit utrinque…”. Purtroppo la firma è incompleta e forse recava anche l’anno di esecuzione.
I Nove decisero di affidare ad Ambrogio la realizzazione di questi affreschi per onorarlo come miglior pittore senese del momento e in quanto in grado di riuscire a interpretare al meglio il modo di vivere della borghesia mercantile allora al potere.
La Sala del Consiglio dei Nove ha subito negli anni numerose modifiche,infatti gli affreschi hanno subito integrazioni e mostrano qua e là alcune lacune. Tuttavia l’opera di Ambrogio è in larga misura conservata, grazie anche all’importante restauro degli ultimi anni ’80 del Novecento.
Questi affreschi assumono una particolare importanza se si considera che essi sono una delle prime espressioni di arte civile. Si tratta del primo ciclo di affreschi portatore di contenuti filosofici e politici di carattere laico.
A sostegno delle figure e delle azioni rappresentate, Lorenzetti aggiunse iscrizioni in latino e in italiano che ne guidano e rilevano il significato simbolico.
Tutte e tre le pareti sono caratterizzane dalla capacità di Lorenzetti di costruire grandi narrazioni, fatte di dettagli che riescono ad amplificare e a comporre una lenta presa di coscienza nell’osservatore di ciò che si trova davanti.
Confrontando l'Allegoria del Buon Governo (sulla parete di fondo) con l’Allegoria del Cattivo Governo (sulla parete laterale sinistra), entrambe sono popolate da personaggi allegorici facilmente identificabili grazie alle didascalie. A queste seguono due paesaggi della stessa città forse Siena, con gli Effetti del Buon Governo dove i cittadini vivono nell'ordine e nell'armonia (sulla parete laterale destra), e gli Effetti del Cattivo Governo dove si vede una città in rovina (sulla parete laterale sinistra).
Il risultato appare infatti denso di riferimenti storici artistici e letterari e nasce da un progetto molto ambizioso con ‘toni’ polemici e perentori, che intende coinvolgere il pubblico in riflessioni che investono direttamente il coevo contesto socio-politico.
Per quanto ben restaurati, gli affreschi risentono delle modifiche infrastrutturali intervenute dei secoli, anche con apertura di porte che hanno irrimediabilmente danneggiato i dipinti ed alcune parti sono ormai illeggibili ed irrecuperabili. Particolarmente danneggiato appare l’affresco dell’Allegoria del Cattivo Governo (specie nella parte destra).
 L’Allegoria del Buon Governo – L’Allegoria del Buon Governo si trova sul fondo della sala. L’occhio è immediatamente attratto da due figure in trono che rappresentano, rispettivamente, a destra,il “Comune” personificato e, a sinistra, il gruppo della“Sapienza Divina”che sovrasta la “Giustizia”.
Le due figure allegoriche sono rappresentate frontalmente, in posa solenne ed è chiaro che stiano a significare come un“Buon Governo”debba basarsi sulla duplice esistenza del potere religioso e di quello civile.
Il Comune è presentato come un Re in trono, ma che indossa un copricapo che ricorda quello dei giudici. L’abito bianco e nero richiama i colori della città e porta nella destra uno scettro e nella sinistra uno scudo su cui sono rappresentati la Madonna ed il bambino.
La figura del Comune  sovrastata dalle virtù che ne devono ispirare il governo:  Fides, Caritas, Spes, mentre la affiancano sei“virtù”, le quattro cardinali: Fortezza, Prudenza (a sinistra), Temperanza e Giustizia (a destra), cui si aggiungono la Pace (all’estrema sinistra) che regge un ramoscello d’ulivo, e la Magnanimità (all’immediata destra del Comune).
Ognuno dei personaggi è caratterizzato non solo dall’indicazione didascalica di quanto rappresenta, ma anche da oggetti e simboli loro tipicamente assegnati (ad esempio la Giustizia con la spada ed una testa mozzata o la Temperanza con la clessidra). La Sapienza Divina è situata sulla parete di fondo. Essa è alata, incoronata e con un libro in mano. Con la mano destra tiene una bilancia, sui cui piatti sono presenti degli angeli. Il primo angelo, decapita un uomo e ne incorona un altro. Il secondo angelo consegna a due mercanti lo staio e il sale. La bilancia rappresenta la Giustizia, che viene retta dalla Sapienza Divina che è l'unica a poter reggere il peso della bilancia. I due angeli hanno legate alla vita due  funi che discendono verso il basso e si incontrano nella mani di una terza figura, che siede ai piedi della Giustizia: si tratta della Concordia come si legge, infatti, sullo strumento che regge sulle ginocchia, una pialla simbolo del livellamento e dell’appianamento di eventuali scontri. La Concordia  consegna i capi delle due funi ad uno dei personaggi in basso che fanno parte, peraltro, del corteo di cui si è già scritto e che fa da elemento d’unione con l’allegoria del Comune. Questo gruppo, infine, è rappresentativo delle varie classi sociali e dei vari mestieri della città.
Ulteriori simboli sono identificabili, ad esempio, nei due putti ai piedi del Comune e che rappresentano Senio ed  Ascanio , figli di Remo che, secondo la leggenda, fuggiti alle ire di Romolo che avrebbe voluto ucciderli, giunsero in Toscana e qui fondarono la città di Siena. Più in basso troviamo l'Esercito della città che sottomette un gruppo di prigionieri.
Nell'insieme, l'affresco si articola su tre registri: quello superiore con le componenti divine (Sapienza Divina Virtù Teologali), quello intermedio con le Istituzioni cittadine (la Giustizia, il Comune, le Virtù non teologali), quello più basso con i costruttori (esercito e cittadini). L'affresco esprime anche la percezione della giustizia nella Siena del tempo, una giustizia che non è solo giudizio di giusti e colpevoli, ma anche regolatrice di rapporti commerciali. È inoltre una giustizia che, pur ispirata da Dio, non si perita a condannare a morte e soggiogare le popolazioni vicine.
Effetti del Buon Governo in città – Si trova sulla parete laterale destra e forma, insieme agli Effetti del Buon Governo in Campagna, un unico affresco. È la diretta emanazione degli Effetti del Buon Governo e doveva rappresentare con un esempio eloquente gli obiettivi dei governanti della città.
Osservando l’Allegoria del Buon Governo e gli effetti benefici che questo comporta sulla vita della città e della campagna limitrofa, si deduce che il bene comune deve ispirare tutte le azioni degli amministratori e che dove c’è ordine e giustizia c’è pace, lavoro, benessere e sviluppo.
La città è dominata da moltissime vie, piazze, palazzi, botteghe. Sono molti gli ornamenti, come le bifore sulle finestre, i tetti merlati, le mensole sagomate sotto i tetti, gli archi, le travi in legno, le piante e i fiori sulle terrazze. Un lusso che solo il Buon Governo può assicurare. In alto a sinistra spuntano il campanile e la cupola del Duomo, simboli della città del tempo.
La città è poi popolata da abitanti dediti all'artigiano, al commercio, all'attività edilizia. Non manca neppure un riferimento allo studio, come dimostra un signore ben vestito in cattedra che insegna di fronte ad un uditorio attento.
Ci sono anche attività non lavorative. Come per esempio una fanciulla a cavallo con la corona in testa che si prepara al matrimonio. Molto bello è il gruppo di danzatrici che si tengono per mano e ballano al ritmo di una suonatrice di cembalo, nonché cantante.
La città è delimitata e separata dalla campagna dalle mura rappresentate di scorcio. E proprio in prossimità delle mura la piazza sembra popolata da attività lavorative cittadine che hanno legami con la campagna: in basso a destra un pastore che sta per dirigersi in campagna insieme al suo gregge di pecore. La città rappresenta l'unione armonica delle virtù civili: Sapienza, Coraggio, Giustizia e Temperanza. Gli edifici cittadini non seguono una geometria comune, tant'è che risultano più opprimenti, imponenti e massicci che nella realtà.
L'affresco ha subito un rifacimento trecentesco nel margine sinistro.
È decisamente un’istantanea del ‘300 che ben caratterizza l’intento di sottolineare quanto sia positivo un buon governo per una città, ma anche, come rappresentato nel prosieguo dell’affresco, nelle campagne.
In un paesaggio da Maremma toscana, fatto di colline digradanti e di strade che si snodano uscendo dalle mura cittadine, assistiamo anche in questo caso a scene di vita quotidiana calma, tranquilla, ed i personaggi appaiono palesemente sicuri. Ed è proprio la Sicurezza, o meglio la Securitas, che sovrasta il tutto: alata e nuda, reca su una mano l’immagine di un patibolo, da cui pende un impiccato (chiaro monito per i malfattori) , mentre con l’altra regge un rotolo, una sorta di cartiglio, su cui si legge la frase: “senza paura ognuno franco camini - e lavorando semini ciascuno – mentre che tal comuno – manterrà questa don(n)a i(n) signoria – che la levata arei ogni balia”.
Effetti del Buon Governo in campagna – Si trova sulla stessa parete in cui si trovano Gli Effetti del Buon Governo in Città, e forma con quest’ultimo un unico affresco. In campagna si vedono giovani a caccia con la balestra tra vigne ed ulivi, contadini che seminano, zappano ed arano la terra, tenute dominate da vigne ed uliveti. Sono riconoscibili case coloniche, ville, borghi fortificati. In aria vola la personificazione della Sicurezza, che regge un delinquente impiccato, simbolo di una giustizia con chi trasgredisce le leggi, e un cartiglio. Da notare come questa figura sia nuda, uno dei primi nudi con significato positivo del medioevo (la nudità era al tempo usata solo per rappresentare le anime dei dannati). Nel cartiglio è ricordato che, finché regnerà la Sicurezza, ognuno potrà percorrere la città e la campagna in piena libertà. L'ideale di Lorenzetti per un Comune forte e giusto è mostrato dal contrasto tra la sensualità della figura allegorica e la cruda allusione alla pena di morte: proteggere coloro che agiscono bene e punire chi non rispetta le leggi.
Le attività contadine che si svolgono in campagna riguardano periodi diversi dell'anno, come l'aratura, la semina, la raccolta, la mietitura, la battitura del grano. Evidentemente il pittore era più intenzionato a mostrare la condizione di floridezza e di sicurezza della campagna piuttosto che ad offrire una fotografia realistica di un preciso momento.
A partire dalla porta delle mura della città inizia una strada lastricata in discesa, che porta alla campagna del contado. Il pendio della strada riproduce in maniera realistica l'altitudine della città di Siena, dove alcune porte si trovano davvero ad una certa altezza e sono raggiungibili solo tramite strade in salita. Sulla strada si vedono dei cacciatori a cavallo che si stanno recando in campagna mentre incrociano due borghesi ben vestiti, anch'essi a cavallo, che stanno rientrando in città. Uno dei Signori a cavallo, quello sulla destra, è forse identificabile con Orlando Bonsignori, noto banchiere senese. Ancora più in basso due contadini camminano e conversano, portando in città delle uova. Sul ciglio della stessa strada, all'altezza dei cacciatori a cavallo, troviamo un mendicante seduto. In questa stratificazione sociale si vede la politica del Governo dei Nove, fedelmente riportata su affresco dal pittore: Buon Governo non significava appianare le disuguaglianze sociali, ma fare in modo che ciascuno strato sociale potesse stare ed operare al proprio posto, in sicurezza.
Nella raffigurazione della campagna non sono tenute in considerazione le regole della prospettiva, infatti si nota che gli alberi e gli edifici all'orizzonte presentano le stesse dimensioni di quelli vicini.
L'affresco ha subito un rifacimento quattrocentesco nel margine destro. È ancora visibile l'inizio della scritta Talamone, scritta troncata nella parte terminale dal rifacimento. Ambrogio Lorenzetti aveva infatti disegnato la Campagna fino al mare, che nel contado di Siena voleva dire l'avamposto di Talamone. Nel Quattrocento, al tempo del rifacimento, la zona costiera era infestata dalla malaria e si preferiva raffigurare il contado fino ad un lago anonimo, piuttosto che al mare.
La relazione tra città e campagna è evidente e mai si era vista la capacità di rappresentare in modo così immediato il concetto di reciprocità socio-economica che sostentava città e contado nel Medioevo.
È come essere di fronte a una sorta di istantanea della vita trecentesca, uno spaccato che sta a metà tra immaginazione e realismo.
Da non trascurare alcuni dettagli come quella che mostra la città con le porte delle mura aperte. Dove regna il Buon Governo, non c’è bisogno di difendersi e le persone si possono incontrare in tutta serenità.
 Allegoria ed Effetti del Cattivo Governo
Si trova sulla parete laterale sinistra. Dipinto in maniera speculare all'Allegoria del Buon Governo, doveva permettere il diretto confronto didascalico con quell'affresco.
Al centro siede in trono la personificazione della Tirannide una mostruosità con le zanne, le corna, una capigliatura demoniaca, in decisa contrapposizione con il Comune nell'Allegoria del Buon Governo. La tirannide non ha alcuna corda vincolante e ai suoi piedi è accasciata una capra nera demoniaca, antitesi della lupa allattatrice dei gemelli. Sopra di lei volano tre vizi alati, sostituiti alle tre virtù teologali dell’altro affresco. Questi sono l'Avarizia, con un lungo uncino per arpionare avidamente le ricchezze, la Superbia, con la spada e un giogo, e la Vanagloria, con uno specchio per ammirare la propria bellezza materiale.
Accanto alla Tirannide siedono invece le personificazioni delle varie sfaccettature del Male, opposti alle virtù cardinali, alla Pace e alla Magnanimità.
A partire da sinistra troviamo la Crudeltà, intenta a mostrare un serpente ad un neonato; il Tradimento, con un agnellino tramutato in scorpione a livello della coda, simbolo di falsità; la Frode, con le ali e i piedi artigliati; il Furore, con la testa di cinghiale, il torso di uomo, il corpo di cavallo e la coda di cane, simbolo di ira bestiale; La Divisione, con il vestito a bande bianche e nere verticali e con la sega, antitesi della pialla livellatrice di contrasti della Concordia nell'Allegoria del Buon Governo; la Guerra (Guerra), con la spada, lo scudo e la veste nera.
Sotto la Tirannide troviamo la Giustizia, che è a terra, soggiogata, spogliata del mantello e della corona, con le mani legate, i piatti della bilancia rovesciati per terra e l’aria mesta. Accanto a lei ci sono le vittime del malgoverno, cioè i cittadini. Questa è anche la parte più lacunosa dell’affresco, per cui molte cose risultano di difficile interpretazione. Superbia, Avarizia e Vanagloria che fanno da contorno al tiranno, sono tre peccati capitali già presenti nella Divina Commedia. Le tre allegorie dei peccati possono simboleggiare le tre famiglie principali di Firenze, che erano in lotta per il potere. Nell'Allegoria è possibile notare la scena di un delitto. Le campagne, il bene più prezioso, sono distrutte e incendiate dalla guerra provocata dalla tirannide.
L’affresco, sebbene diviso in tre registri al pari dell'Allegoria del Buon Governo, ha una complessità inferiore rispetto all’altro: i cittadini appaiono in numero minore nel terzo registro e l’apparato della Giustizia è ridotto ad una figura spoglia, oltretutto declassata al terzo registro essendo de-istituzionalizzata.
La città è pericolante e piena di macerie, perché i suoi cittadini distruggono piuttosto che costruire, vi si svolgono omicidi, innocenti sono arrestati, le attività economiche sono miserabili. La campagna è incendiata ed eserciti marciano verso le mura. In cielo vola il sinistro Timore. Il risultato appare infatti denso di riferimenti storici artistici e letterari.
Nel dipingere le scene Ambrogio ricorse a stratagemmi fini, per esempio nel Buon Governo la prospettiva e la luce sono costruite in modo da mostrare serenamente la città fino in profondità. La prospettiva si manifesta grazie a più punti di vista, attraverso i quali si esprime la profondità. Non c'è una fonte di luce ben definita che fornisce l'illuminazione al paesaggio.
Per quanto riguarda il colore, sono utilizzate varie sfumature, più accese per la città rispetto a quelle utilizzate per la campagna, dove prevalgono il giallo e il verde. Il colore è steso in modo omogeneo. La scura città del Cattivo Governo dà subito una sensazione di disarmonia, con tetri edifici che bloccano la visuale.
Influenzato dalla prima formazione avvenuta a Siena, Ambrogio si discostò dai caratteri dominanti dell’arte a Siena, infatti,  è difficile ritenerlo un'esponente tipico della pittura senese del Trecento.
Nell'affresco è rappresentato il paesaggio rurale ed urbano che, per la prima volta nella storia della pittura gotica italiana, diventa soggetto principale; in passato era ignorato a favore del fondo oro o utilizzato semplicemente come sfondo di una narrazione.
Nella rappresentazione il pittore, pur prendendo la realtà come modello, la trasforma idealizzandola con particolare cura del dettaglio. 
Molti furono coloro che colsero nella sua pittura novità stilistiche – la forza evocativa, l’originalità descrittiva e il tentativo di resa realistica.
Il talento di restituire gesti e volti proietta l’arte verso una sensibilità nuova e moderna, lontana dalla rigidità fissa e astratta della pittura di origine bizantina.

Enrico Staiano

domenica 11 ottobre 2015

GIORDANO BRUNO, il coraggio della libertà! di Maria Mantello


Giordano Bruno chiama ognuno a costruire libertà e giustizia. Liberi di pensare! Liberi di scegliere! Nella responsabilità delle nostre individuali autodeterminazioni. È scomodo per gli imbecilli e i tiranni. È maestro di libertà e laicità per chi non vuole essere eterno minore, perché – scrive il nostro filosofo - nel corpo han la catena che le stringe […] ne la mente il letargo che uccide». 

Bruno sapeva bene che «il servilismo è corruzione contraria alla libertà e dignità umane». Sapeva bene che senza autonomia di pensiero, di ricerca non c’è futuro non c’è speranza né per gli individui, né per gli Stati. E per questo chiama ognuno a spezzare le catene della soggezione mentale etica politica economica e sociale. Ed è in questa prospettiva che accoglie con entusiasmo la rivoluzione copernicana, che amplifica e sviluppa nel suo rivoluzionario infinito. 
Di questo infinito divenire fa parte ogni essere umano, che produce infinite possibilità di autonoma ricerca intellettuale ed etica. Che può e deve agire per costruire responsabilmente libertà e giustizia. Nell’infinito di Bruno l’umana ragione è liberata dalla grotta dei moduli ripetitivi e stantii. Bruno insegna ad alzare la testa contro potenti e tiranni che proprio col confessionalismo e nel confessionalismo tengono sottomesse le menti. 
Ecco perché è scomodo. Ecco perché è stato mandato al rogo.
Ai padroni dell’anima ha tolto il supporto ideologico, perché l’anima è mente funzione corporale, fisica cerebrale. Ha svelato i meccanismi antropologici di soggezione che proprio su supposte idee di anima si creano abituando a cercare padri-padroni-padreterni a cui affidarsi. 
Bruno si proclama «risvegliatore di dormienti». E la sua lezione è ancora una sveglia nel nostro tempo dove mordacchie e lavaggi del cervello continuano per imporre un mondo di schiavi. Soprattutto se donne. 
Forse, vale appena ricordare che Giordano Bruno, in un contesto dove certo la misoginia non mancava e si mandavano al rogo centinaia di povere donne con l’accusa di stregoneria (e alla stregoneria credevano insospettabili intellettuali) scriveva nel De la causa principio et uno: «Mirate chi sono i maschi, chi sono le femine. Qua scorgete per suggetto il corpo, ch'è vostro amico, maschio, là l'anima che è vostra nemica, femina. Qua il maschio caos, là la femina disposizione (rigore); qua il sonno, là la vigilia; qua il letargo, là la memoria; qua l'odio, là l'amicizia; qua il timore, là la sicurtà; qua il rigore, là la gentilezza; qua il scandalo, là la pace; qua il furore, là la quiete; qua l'errore, là la verità; qua il difetto, là la perfezione; qua l'inferno, là la felicità […] E finalmente tutti vizii, mancamenti e delitti son maschi; e tutte le virtudi, eccellenze e bontadi son femine».
Ecco allora che Bruno è vivo - forte - potente davanti a noi perché ha denunciato l’arroganza e l’ingiustizia di un mondo dove la libertà non può essere la tracotanza di chi nega emancipazione e autodeterminazione altrui. Non c’è libertà senza pari dignità. Non c’è libertà senza parità di diritti e doveri. E Bruno ci chiama al coraggio dell’azione per la costruzione di un mondo di liberi e pari. 
Ognuno ha intelletto e mani, afferma Giordano Bruno, ma è la mano, l’operosità, l’agire che ci rende intelligenti. 
Christian René de Duve, premio Nobel per la medicina (1974) ha scritto: «L’Homo sapiens, quello che possiede conoscenza, deriva dall’Homo habilis, colui che sapeva usare le mani». Un bel riconoscimento per il nostro Giordano Bruno, che a proposito di evoluzionismo secoli prima di Darwin scriveva nella Cabala del cavallo Pegaseo che senza la mano «l'uomo in luogo di camminare serperebbe, in luogo d'edificarsi palaggio si caverebbe un pertuggio, e non gli converrebbe la stanza, ma la buca». 
In questa buca di un mondo di schiavi, oggi non manca chi ci vorrebbe riportare... Sono i cattolicisti di casa nostra, che comunque devono fare i conti con la laicità e la democrazia che abbiamo faticosamente conquistato; sono i cultori della Jihād che vogliono imporre il califfato mondiale, e per questo hanno elevato l’assassinio e la schiavitù a mezzo e fine. 
Contro tutto questo la filosofia di Giordano Bruno si erge potente e forte baluardo di laicità e libertà.

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