lunedì 29 gennaio 2024

Jean-François Millet e i dipinti contadini di Massimo Capuozzo

Nel racconto di oggi parlerò di alcuni dei più bei dipinti dell'Arte francese dell’Ottocento. Si tratta di opere di che già impressionarono i suoi contemporanei, da Vincent Van Gogh a Odillon Redon. Oltre al Museo d'Orsay e al Museo di Cherbourg, molte opere di Millet si trovano negli Stati Uniti per una serie di tortuosi sentieri che spesso la Storia imbocca.
Come per “Gustave Courbet” anche per “Jean-François Millet” (1814-1875), di cui molte opere hanno a che fare con il lavoro umano, si pone il problema di quanto l'arte dovrebbe recare in sé un messaggio politico-sociale, sebbene per Millet il problema del rapporto fra arte e impegno sociale sollevi maggiori dubbi rispetto al più palesemente schierato a sinistra Courbet.
Figura importante della pittura francese della metà del secolo, Millet è stato uno dei fondatori e uno degli esponenti di spicco della “Scuola di Barbizon”, quel gruppo informale di pittori paesaggisti che vivevano a sud di Parigi vicino alla foresta di Fontainebleau, dove anche Millet si era stabilito nel 1849.
Millet assurse alla notorietà per i suoi “paesaggi” ma soprattutto per le sue “scene di genere”, che mostrano l'estenuante vita dei contadini francesi, e fu uno di quegli intellettuali, che seppe trasformare l'esperienza personale della miseria e del dolore in autentica bellezza.
Cantore sublime dei compiti quotidiani dei contadini, per i quali la questione stessa dell'esistenza, della vita e della morte, è decisa dai capricci della terra, in questo Millet ha trovato il dramma supremo dell'umanità. La terra di Normandia è la scena su cui si svolge quest'epica tragedia e il contadino intento al suo incessante è il protagonista paziente e devoto lavoro.
Nella devozione e nella fatica del contadino c’è sempre la compassione del pittore, uno spettacolo che porta l’artista alla preghiera e alle lacrime.
Jean-François Millet era nato il 4 ottobre 1814 a Grèville in Normandia all'estremità nord occidentale del dipartimento della Manica, più precisamente nella frazione di L’Hague, il luogo più remoto e selvaggio di quel distretto, un gruppo di poche casette a cento metri dal mare.
Jean-François era il figlio maggiore di una famiglia di fittavoli normanni. Pastore da bambino e poi più grande addetto all’aratura dei campi, nonostante un’origine così modesta, riuscì ad avere accesso ad una certa cultura, soprattutto grazie a un suo zio, un prete con fama locale di letterato: grazie a lui imparò infatti il latino, lesse Montaigne, La Fontaine, Omero e soprattutto Virgilio, che dovette colpirlo particolarmente, Shakespeare e Milton, Chateaubriand e Victor Hugo e questi autori lo accompagnarono per tutta la vita. La sua lettura preferita rimase però sempre la Bibbia. Jean-François sentiva una fede profonda che riecheggiava la devozione incondizionata e un po' terrificante di sua madre e di sua nonna.
I suoi genitori erano dei fittavoli, quindi non erano proprietari, e il guadagno era scarso a fronte della molta fatica: il bambino, poi ragazzo, viveva con la sua famiglia l'esistenza tipica di un giovane contadino povero.
Le sue capacità di disegno furono tuttavia piuttosto rapidamente notate e apprezzate, fin dalla sua infanzia da coloro che lo circondavano, ma fino a vent’anni Jean-François lavorò i campi con la famiglia, poi, nel 1833, grazie ai contatti dello zio prete, fu mandato dal padre a Cherbourg, una cittadina a poca distanza dal suo paesello, per apprendere il mestiere di pittore, prima nello studio del ritrattista “Paul Dumouchel”, un artista di terz'ordine che vantava un alunnato presso David, senza comunque trascurare di aiutare la famiglia nel lavoro dei campi.
Nel 1835 poi frequentò, ma questa volta a tempo pieno, l’atelier del pittore di storia e ritrattista “Lucien-Théophile Langlois de Chèvreville”, allievo del barone Gros, dove completò il suo apprendistato e con il quale realizzò numerose copie di opere dei grandi maestri che il collezionista locale Thomas Henry aveva appena donato al comune di Cherbourg e che Millet riproduceva con molta assiduità.
La sua copia de “I pastori dell'Arcadia” (92 × 110 cm) di “Nicolas-Antoine Taunay” fu uno dei suoi primi tentativi di paesaggio. Sullo sfondo di una composizione mitologica, dipinse una natura artificiale, uno sfondo semplice su cui si stagliano i personaggi, che già sono i veri centri d’interesse dell'artista.
Fig.1
Grazie all’interessamento di Langlois, estimatore del suo allievo, il vecchio e simpatico maestro intercedette presso un comitato cittadino affinché Jean-Francois potesse ottenere una borsa di studio dal comune di Cherbourg per poter continuare gli studi a Parigi e quindi migliorare le sue capacità.
Nel 1837, il ventitreenne Jean-Francois si trasferì nella capitale, dove avrebbe studiato all'”Ecole des Beaux-Arts” sotto la guida del pittore accademico “Paul Delaroche” (1797 – 1856), autore di soggetti storici ed eccellente ritrattista oltre ad essere un professore di profonda sensibilità.
Millet lasciò dunque la sua casa e si recò a Parigi, ma appena giunto, fu colto da una grande nostalgia della sua campagna. Dalle terse giornate della Normandia, in una nevosa sera di gennaio Jean-François era giunto in "una Parigi nera, fangosa e fumosa", come egli stesso la definì.
Il traffico dei mezzi, la luce dei lampioni soffocata dalla nebbia, i vicoli stretti e le baraccopoli sporche gli facevano venire le lacrime agli occhi. Per controllare un improvviso scoppio di pianto, si gettò in faccia manciate d'acqua fredda da una fontana di strada. Questo lo fece sentire meglio. Dopotutto, era a Parigi per un pellegrinaggio “religioso”: la religione dell’arte. Gli tornarono allora in mente le ultime parole di sua nonna, una cattolica severa e maestosa con l'animo di una puritana che, prima di congedarsi da lei gli aveva detto: "Preferirei vederti morto, figlio mio, piuttosto che essere ribelle e infedele ai comandamenti di Dio... Ricorda, sei un cristiano prima di essere un artista".
Quando Jean-François si unì al corso d'arte a Parigi, gli eleganti studenti cittadini ridevano delle sue rudi maniere campagnole. Alcuni di loro, più sinceri degli altri, provarono però la forza dei suoi pugni.
I compagni di classe avevano soprannominato quel ragazzone normanno, un po' ridicolo ma anche ammirato, il ”selvaggio uomo dei boschi”.
All'”Ecole des Beaux-Arts”, Jean-François rimase due anni fino al 1839 quando, in seguito al suo fallimento al concorso del “Prix de Rome”, la borsa di studio non gli fu più rinnovata e ritornò in Normandia, dove incominciò la sua carriera di ritrattista.
Durante le sue prime visite al museo di Cherbourg, poi al Louvre quando era a Parigi, Millet si era soffermato, innanzitutto e soprattutto, davanti ai dipinti olandesi del Seicento che raffiguravano quelle scene di vita quotidiana che lo affascinavano tanto e che lo avrebbero maggiormente appassionato durante la sua carriera di pittore. Di tutta la Storia dell’Arte, il modello “olandese” fu quello che Jean-François principalmente apprezzò, sentendosi a poco a poco incoraggiato a dipingere soggetti comuni “allo stile olandese”.
Col tempo a Parigi incominciò a stringere alcune interessanti amicizie che contribuirono alla sua emancipazione artistica. In particolare, simpatizzò con Honoré Daumier che, oltre alla satira dei potenti, eccelleva nella rappresentazione dei poveri. Millet incontrò anche un giovane che, dopo essere stato marinaio, era diventato commerciante di carta: si chiamava “Eugène Boudin” (1824 – 1898) e si dedicava alla pittura. I due amici si incoraggiavano a vicenda nel loro cammino verso il “Realismo”.
Tornato in provincia sposò “Pauline Ono”, figlia di un sarto di Cherbourg, della quale fece un bel ritratto e con lei si trasferì ancora a Parigi, ma Pauline, di salute fragile, morì di tubercolosi nell'aprile 1844.
Fig.2
Rimasto solo e con l’anima dolorante, Millet se ne tornò quindi a Cherbourg dove però incontrò “Catherine Lemaire”, un'ex domestica che lo colmò di tenerezza con cui intraprese una relazione e ne dipinse il ritratto nel 1845.
Fig.3
Catherine gli avrebbe dato nove figli e lui l’avrebbe sposata solo nel 1853 per le profonde inibizioni religiose di Jean-François che riteneva peccaminoso risposarsi.
Per sfuggire allo scandalo, si trattava in realtà di una coppia di fatto in un paesino di provincia, si trasferirono nella città portuale di “Le Havre”, in Normandia, dove Millet viveva facendo ritratti e scene di genere leggero.
Tornato a Parigi nel 1846, incontrò “Constant Troyon”, “Narcisse Diaz de la Peña”, “Charles Jacques” con i quali Millet strinse amicizia e, l'anno dopo, nel 1847 conobbe anche “Théodore Rousseau” con il quale strinse un’amicizia fraterna. Erano alcuni dei pittori che avrebbero costituito la futura “scuola di Barbizon”.
Gli anni Quaranta dell’Ottocento furono quelli della cosiddetta “maniera fiorita” di Millet: per sopravvivere e per attrarre il favore di una clientela borghese, Millet creava infatti composizioni aggraziate scene pastorali e nudi, nello stile di “Watteau” o di “Fragonard”, oltre a una serie di bellissimi ritratti apprezzati dalla committenza borghese.
La carriera di Millet iniziò quindi in sordina: dipinti su commissione di carattere più commerciale in cui non mostrava originalità nella scelta dei soggetti, realizzava principalmente ritratti su richiesta, il suo stile era spesso povero e piatto. "Un'esecuzione secca e goffa", come aveva annotato Delacroix nel suo diario.
La natura però rimaneva ancora lo scenario privilegiato per schizzi leggeri e piacevoli: il trattamento era ancora in gran parte convenzionale anche se la natura incominciava a guadagnare gradualmente terreno sulla superficie del dipinto e la sua pittura diventava sempre più rigogliosa e animata.
Nello stesso tempo, Millet incominciò a sperimentare un altro stile, meno settecentesco e più segnato dal Romanticismo di “Géricault” e di “Delacroix” in cui la natura fungeva da supporto per l'espressione di emozioni e di sentimenti drammatici: non era più un luogo ameno e addomesticato delle prime opere, ma un universo oscuro e inquietante che mostrava per esempio nel bellissimo “Al riparo dalla tempesta” del 1847.
Fig.4
Risale sempre a questo periodo anche il primo paesaggio puro e privo di aneddoti di Millet, direttamente ispirato a un sito esistente, “Castel Vendon” che rappresenta le scogliere di Gréville, il primo dipinto di una lunga serie perché, nel corso della sua vita, Millet non smise mai di trarre ispirazione dal suo paese natale per le sue composizioni.
Fig. 5
In questo periodo incominciò anche a realizzare le prime grandi scene di vita contadina che lo avrebbero reso famoso, come “Lo Spulatore” del 1848 e “Il seminatore” del 1850.
La rivoluzione del 1848, che aveva portato alla caduta del re “Luigi Filippo” e all'instaurazione della “Seconda Repubblica”, e il sentimento di libertà, che vibrando nell’aria la accompagnava, giocarono un ruolo importante anche nella carriera e nella vita di Millet. Viveva con la sua compagna a Parigi, una città che odiava. Era inquieto in quella città troppo tumultuosa ed era come se stesse vivendo al di "fuori di se stesso".
Tutto però accadde come se il 1848 gli avesse permesso finalmente di fare ciò che aveva in mente di raffigurare, di raccontare quel mondo contadino da cui era lontano e che amava, che era parte di sé e che aveva ampiamente osservato e vissuto e del quale avrebbe reso gli aspetti più belli nel corso della sua successiva carriera.
Gli artisti parteciparono a questo sussulto delle menti, dei costumi e della politica. Fraternizzarono, fra di loro, proclamarono la libertà dell’arte. La “Seconda Repubblica” poi influiva sulla vita artistica tra il 1848 e il 1852: opere e paesaggi realisti erano apprezzati e in quel periodo sembravano apprezzati anche dallo Stato.
E 'Lo spulatore' fu sintomo di questa sterzata anche per Millet.
Nel 1849 allo scoppio di una brutta epidemia di colera che minacciava Parigi, influenzato dagli amici Constant Troyon, Narcisse Diaz, Charles Jacque e soprattutto Rousseau, e spinto anche da un desiderio di riavvicinarsi di nuovo alla natura Millet, a 35 anni, si stabilì con la famiglia a Barbizon ai margini della foresta di Fontainebleau e a Barbizon risiedette per tutta la vita, vivendo da contadino in povertà quasi come un eremita e non lasciando mai questo luogo campestre, se non per qualche sortita a Parigi o nella sua nativa Normandia.
A Barbizon trascorreva ore osservando la natura e la vita contadina. Non dipingeva ancora assiduamente sul tema, ma osservava e prendeva appunti, schizzi su piccoli pezzi di carta, catturando i gesti dei lavoratori sul campo e qui la sua pittura ebbe un'enorme influenza sull’omonima scuola che si era orientata verso il “Naturalismo”, scegliendo di dipingere direttamente la natura – un metodo che sarebbe diventato noto come pittura “en plein air” abbandonando la formalità della pittura classica.
Ma che cos’era Barbizon? E che cosa fu per Millet?
La “Scuola di Barbizon” prende il nome da un paesino vicino alla foresta di Fontainebleau a sud di Parigi e fu la più importante “scuola” di pittura paesaggistico-rurale francese alla metà Ottocento: era costituita da un gruppo “informale” di artisti inizialmente ispirati dal “naturalismo”, un linguaggio che – almeno nel caso di Millet – si spostò intorno al 1850 verso il “realismo”.
I Barbisonnier svilupparono una forma di vita e di arte che ignorava molti canoni dell'arte accademica e attirava l'attenzione anche sul lavoro dei contadini.
Questo gruppo di pittori, per nulla turbato dalle fazioni rivali classiche e romantiche, aveva preso le distanze da Parigi, ritirandosi nella terra di Barbizon, per sperimentare un nuovo approccio più vero e più immediato con la pittura di paesaggio. Ciò che era "moderno" nei paesaggi di Barbizon rispetto a quelli di Constable, era che essi erano dipinti all’aperto, sul posto: essi furono infatti i pionieri della tecnica della “pittura en plein air” che avrebbe raggiunto il suo apice nelle mani degli impressionisti come Monet, Pissarro, Sisley e Renoir.
L’aspetto contemplativo che si insinua sempre quando un pittore si ritira nel suo studio per "costruire" un'immagine partendo dagli schizzi che aveva realizzato, non si interpose mai tra gli artisti di Barbizon e le loro opere soprattutto dei migliori esponenti di questa “scuola”: “Théodore Rousseau” (1812-1867), “Camille Corot” (1796-1875), “Charles Daubigny” (1817-1878) e lo stesso Jean-François Millet, anche se quest’ultimo non fu mai pienamente un “barbisonnier” per l’impegno sociale che veicola attraverso nelle sue “scene di genere”.
Millet si era stabilito con la moglie e i figli in una casupola di Barbizon, ai margini della grande foresta: scavava, coltivava la terra, dipingeva nel suo giardino e allevava la sua famiglia quasi sempre al livello più basso di sussistenza.
Il dipinto della svolta nella sua carriera era stato “Lo spulatore” un olio su tela di 100 × 71 cm, oggi alla “National Gallery” di Londra. L’opera fu esposta al “Salon” nel 1848 fra 5000 opere, perché in quell'anno di rivoluzione, il “Salon” fu libero dalla giuria, esponendo il peggio e il meglio della pittura, e questa fu una delle prime scene rurali che dipinse sulla base dei suoi ricordi d'infanzia.
Osserviamo ora l’opera.
Fig. 6
Uno spulatore, piegandosi sotto il peso del suo grande ventilabro, il cesto che serve per separare la pula dal grano, lancia una nuvola dorata di paglia nell'aria. L’opera fu notata dall’ondivago Théophile Gautier che ne elogiò i colori e "l'effetto polveroso dei grani sparsi".
Dopo questo dipinto, la pittura di Millet si orientò sempre di più verso soggetti rurali: le sue origini contadine spiegano la sua passione per questo tipo di scene che si possono definire il nucleo essenziale, ma non unico, della sua opera.
Quelli che Millet realizza non sono ritratti di contadini, ma quelli che lui stesso avrebbe definito delle "sintesi", dei tipi disumanizzati, i cui volti non hanno lineamenti, ma in essi l’artista voleva catturare il corpo nello sforzo e il gesto nel lavoro.
A partire dal 1850 circa, Millet iniziò a farsi una reputazione nazionale, ma soprattutto internazionale come uno dei principali pittori realisti in Francia.
Il suo successo, almeno al momento, gli permise di acquistare incisioni e disegni degli artisti che ammirava, tra cui “Pieter Bruegel il Vecchio” (1525 - 1569) e “Rembrandt” (1606 - 1669) – anche per Millet come per Courbet la matrice fiammingo olandese risulta dunque fondamentale –, nonché del romantico “Eugène Delacroix” (1797 – 1863). Il realismo dettagliato delle opere di questi pittori fu una fonte di ispirazione per i lavoratori agricoli di Millet. Si aggiunga a questo che Millet era un avido collezionista di fotografie, tra le quali privilegiava quelle di “scatti non in posa” della popolazione locale.
Millet incominciò dunque a dipingere contadini, un “mileu” che conosceva bene, una realtà che aveva incontrato e che aveva vissuto, e lo faceva con talento: nelle sue tele restituiva i gesti semplici e ordinari di questi contadini della sua epoca, se ne percepiscono i movimenti, il lavoro quotidiano, l’ordinarietà della loro immutevole vita, scandita solo dal ritmo delle stagioni.
I contadini diventano il centro dei suoi dipinti e Millet mostra chiaramente la loro umanità, il loro lavoro incessante.
In quel momento i lavoratori rurali costituivano ancora la stragrande maggioranza della popolazione francese: spigolatrici, pastorelle, vignaioli, piantatori di patate, seminatori, lavandaie, spaccalegna, mietitori erano l’universo della campagna francese e Millet li riproduce tutti con grande precisione, mostrando al pubblico la difficile vita della popolazione rurale del suo tempo.
In questo consiste il realismo di Millet e la sua differenza dagli altri Barbisonner: nella sua capacità di mettere in risalto lo splendore del gesto umano. Se osserviamo attentamente i suoi lavoratori, è il loro gesto, preciso ed efficace, che attira la sua attenzione e che egli si sforza, da designatore provetto – non si dimentichi la sua formazione accademica -, di ripristinare sulla tela quei gesti.
Millet riesce a magnificare l'universo contadino e la sua miseria facendo percepire all’osservatore il duro lavoro di questi oscuri lavoratori della terra, dipingendo sì una profonda armonia tra uomo e natura, dove il gesto contadino trova il suo vero significato, ma mostrando anche con chiarezza la sua personale simbiosi con gli esseri che dipinge.
Perché Millet li ama, perché è stato uno di loro.
Quest’opera fu molto apprezzata da Courbet e lo colpì tanto che fu forse questa la fonte di ispirazione per la realizzazione degli “Spaccapietre”.
Millet riesce a collegare con successo l’arte con il sociale, la poesia e l’ideale artistico con l’attualità della vita contemporanea. E questo ha determinato il suo riconoscimento anche da parte di artisti molto diversi fra loro.
Nel buio di un fienile, uno spulatore mantiene con entrambe le mani un cesto largo e poco profondo sulle cosce, leggermente inclinato verso il basso. Più lontano da lui si alza una nuvola di pula dorata.
Indossa zoccoli aperti dietro, i sabot, imbottiti di paglia per mantenere caldi i piedi, pezzi di stoffa blu legati sopra le ginocchia e un fazzoletto rosso annodato sui capelli.
Il cesto è uno speciale ventilabro, senza bordo anteriore, in modo tale che, scuotendolo abilmente, la pula possa essere spostata in avanti e spinta oltre il bordo, lasciando indietro il grano nella parte fonda del cesto.
Gli spulatori erano considerati lavoratori esperti, operai specializzati si direbbe oggi.
Millet iniziò forse questo dipinto, il primo a trattare il tema della vita contadina, già alla fine del 1846 e lo espose al “Salon” del 1848, anno della rivoluzione.
Con la rivoluzione del 1848 era ritornata alla luce una nuova visione dei temi popolari. Millet si sentì sempre più giustificato nel dipingere ciò che veramente gli interessava: le sue origini povere e il mondo della campagna.
Cominciò quindi a rappresentare scene di vita contadina in modo sorprendentemente sobrio, quasi oggettivo se non per quella sua cordiale partecipazione.
Fino ad allora i contadini erano stati spesso rappresentati come simpatiche comparse, utili a decorare i paesaggi o come bucolici pastori e pastorelle. Millet dipinse invece il mondo rurale così come lo vedeva, senza aggiungere nessuna edulcorazione, senza mai cedere al sentimentalismo, al “miserabilismo” commovente o peggio ancora al pittoresco.
Fu solo e semplicemente realistico.
La destra dell'epoca tuttavia, come in genere tutte le destre e come tutti i conservatori di ogni tempo e paese, lesse nelle scene contadine di Millet una critica sociale e addirittura, vide in alcuni suoi dipinti successivi come “Le spigolatrici” o come l’”Uomo con la vanga”, un invito alla sedizione. Nell’immaginario collettivo i contadini erano infatti ancora percepiti come una classe pericolosamente sovversiva: il ricordo delle “jacquerie” era ancora l’incubo costante dell’aristocrazia e della borghesia francese e tormentava i loro sonni; per giunta la “Seconda Repubblica”, con il suffragio “universale” maschile, aveva esteso il diritto di voto alle masse contadine e questo preoccupava molti oltre misura.
Da questo sorge un problema che si profila ogni volta che si parla di Millet: Millet fu assolutamente apolitico? Non prese mai posizione?
In molti credono di sì e ritengono che i suoi dipinti non illustrino alcuna idea e che non servano alcuna ideologia. 
Diversamente dal realismo socialista che attraversa l’opera di Courbet e di Daumier e poi di molte opere figurative del Novecento, Millet colloca la sua pittura nel terreno stesso dell'esperienza a monte di interpretazioni e di ingiunzioni?
È poco credibile che sia così. Apartitico lo fu di sicuro, ma apolitico è impossibile. La politicità indica una scelta che non è mai neutra e Millet compie la sua scelta: le sue “scene di genere” non sono momenti di abbandono idillico o di evasione dalla realtà, ma sono per lo più un racconto “drammatico” della vita contadina e Millet, figlio di fittavoli, conosceva bene le dure condizioni dei fittavoli e, se non alza barricate, se non grida “proletari di tutto il mondo unitevi” racconta, mette in evidenza e, a ben leggere questi suoi racconti, soprattutto alcune di queste scene di genere, pare che esprima con chiarezza le dure e servili condizioni di contadini non proprietari.
Se poi si considera poi che uno dei motivi che portarono alla rivoluzione del 1848 era stata proprio la miseria rurale, compresi i cattivi raccolti, qualche studioso di Millet ha individuato un aspetto politico nel dipinto, come in altre scene rurali, o una grande compassione dell'artista verso questi poveri braccianti.
È stato spesso e da più parti suggerito, ad esempio, che questa figura solitaria si sia cercata un secondo lavoro per guadagnare qualche soldo in più per meglio contribuire al sostentamento della sua famiglia. È una congettura probabile.
Nel complesso la critica reagì favorevolmente all'esposizione del dipinto al “Salon”, sebbene l’onnipresente Théophile Gautier sia stato molto critico nei confronti del trattamento pittorico di Millet scrivendo: “Stende sulla sua tela uno strofinaccio, senza usare olio o essenza, grandi croste di colore, pittura così secca che nessuna vernice potrebbe mitigarla. Niente potrebbe essere più aspro, selvaggio e rozzo'.
Ma dall’interno degli ovattati salotti parigini Gautier non capiva che uno dei motivi di quell'applicazione spessa della pittura era senza dubbio responsabile il fatto che Millet stava dipingendo su un quadro preesistente e che in questa fase della sua carriera, con il successo economico non ancora arrivato, Millet riutilizzava spesso le sue tele, dipingendo su composizioni già esistenti e persino tagliando le tele.
Del 1850 è “Il seminatore” un olio su tela di 102 × 83 cm un dipinto di cui Millet realizzò due esemplari quasi identici con lo stesso titolo.
Il dipinto che segue appartiene alla collezione del “Museum of Fine Arts” di Boston mentre l'altro fa parte della collezione del “Museo d'arte della prefettura di Yamanashi” a Kofu in Giappone.
Fig. 7
Il dipinto raffigura un contadino nell'atto “maestoso” di seminare la terra, apparentemente durante l’inverno. La luce splende nella parte alta dell’orizzonte visivo, il che fa supporre che sia l'alba.
L’uomo è vestito con il tipico abbigliamento contadino, con le gambe avvolte nella paglia per sentire meno freddo, cammina a lunghe falcate e porta un sacco di semi sulle spalle, mentre sparge con la mano destra quel che rimane del suo raccolto dell’anno precedente.
A sinistra del dipinto appaiono diversi corvi, nemici naturali dei contadini ma pur sempre parte del ciclo della natura, che beccano i chicchi sottraendoli alla coltivazione.
Sul lato destro, in lontananza, si vede un altro uomo che sta arando il terreno con i buoi per preparare il lavoro dei seminatori.
Il dipinto è una rappresentazione reale del vigore e dello stile di vita laborioso del contadino.
“Il seminatore” è stato il primo dipinto veramente importante fra quelli realizzati a Barbizon. 
Al “Salon” di Parigi nel 1850 ricevette molta attenzione, ma anche molte critiche. “Clément de Ris” lo elogiò come "uno studio energico e pieno di movimento", mentre “Théophile Gautier” lo derise di nuovo, definendolo un "raschiamento di cazzuola". La storica dell'Arte australiana “Anthea Callen” ha scritto invece che "Millet ha intenzionalmente trasformato il suo lavoratore umano in un muscoloso gigante allungando le sue proporzioni. Rafforzato dal dominio del seminatore nello spazio pittorico e dal nostro punto di vista ribassato, è quindi facilmente spiegabile il suo aspetto minaccioso per la borghesia parigina del 1850."
Millet ritornò sullo stesso tema del seminatore almeno altre tre volte con tecniche diverse per quanto se ne sa, e “Vincent van Gogh”, che trovò ispirazione in molti dipinti di Millet raffiguranti paesaggi e lavoratori
agricoli, copiò “Il seminatore” in molti dei suoi dipinti, ma trasformò l'immagine utilizzando colori più brillanti.
Fig. 8
Nel 1854 Millet ritornò per un breve periodo in Normandia dove realizzò numerosi disegni della sua città natale e della campagna circostante, che sarebbero serviti come punto di partenza per le future tele realizzate poi a Barbizon.
Del 1855 è “La raccolta delle patate” conservato al “Walters Art Museum” di Baltimora. “La Raccolta delle Patate” raffigura il lavoro dei contadini nella pianura situata tra Barbizon e Chailly-en-Bière. Millet per questo lavoro utilizza pigmenti in pasta applicati in strati spessi su una tela a trama grossa.
Fig. 9
Il tema della “raccolta delle patate” fu trattato anche da “Camille Pissaro” nel 1874 a Pontoise e da “Vincent van Gogh” nel 1883 a L’Aia.
Fig. 10
Fig. 11
Del 1857, è la tela “sovversiva” esposta al Salon di quell’anno, “Le spigolatrici” del Museo d’Orsay, un olio su tela di 83 × 110 cm. Quest’opera – oggi considerata una dei fondamenti del modernismo – subì allora grandi attacchi da parte della critica più conservatrice, che stigmatizzò questi soggetti ignobili trattati dall'artista con un registro nobile e monumentale. Mani pesanti, schiene piegate, volti segnati dal sole.
Che cos’altro doveva raccontare Millet?
Il suo realismo svela la realtà cruda delle cose senza filtri. Come un cronista, Millet mostra le differenze di classe sociali e così il lavoro duro dei contadini. Anche se la genuflessione delle donne sembrerebbe sottolineare il legame simbolico con la terra madre, le tre protagoniste raccolgono gli avanzi della raccolta delle spighe di grano mentre il sole, alle loro spalle, allunga le ombre sul campo.
Il dipinto indignò l’alta borghesia in visita al “Salon”: la miseria della vita contadina svettava sulla nobiltà e sulla pittura elevata del tempo, quella di Storia, quella di grandi eventi.
Ma non è forse Storia anche questo che Millet raffigura?
Il suo realismo è direttamente proporzionale al senso di pesantezza della vita nei campi. La ripetitività dei gesti è la chiave di lettura di quel mondo e i volti sono semplificati con l’intento di rendere manifesta la fatica.
Fig. 12
Millet dipinse quest’opera con grande tenerezza. Tenerezza e solidarietà umana perché conosceva bene le difficoltà del contadino francese. Ma il pubblico parigino accolse il dipinto con un coro misto di derisione, di sarcasmo e di insulti. Quasi si volessero essi stessi difendere da un insulto. Riferendosi alle figure delle tre spigolatrici, un critico osservò: "Sono semplici spaventapasseri vestiti di stracci e installati in un campo: la bruttezza e la volgarità di Millet sono irrilevanti". Qualcun altro le definì sarcasticamente “le tre Grazie dei poveri”. Come se la povertà fosse una colpa.
A questo sfogo, Millet avrebbe potuto rispondere che anche nelle cose così semplici c'è una bontà che va al di là dell’incomprensione di un critico cieco. Alcuni misero addirittura in dubbio gli aspetti tecnici del dipinto, ma si tratta di critiche infondate perché “Le spigolatrici” ha un’impaginazione perfetta ed esemplifica perfettamente il profondo rispetto che Millet nutriva per la dignità senza tempo del lavoro umano.
Quando Millet realizzò questo capolavoro aveva quarantatré anni e per molti anni aveva inviato le sue foto ai “Salon” parigini, per poi essere rifiutato più volte. Le sue opere “contadine” non erano infatti accettabili per gli aristocratici e per la classe di potere e tanto meno per gli aristocratici custodi dell’ortodossia accademica. Che cosa essi potevano condividere con un uomo che sapeva maneggiare l'aratro e che calpestava il suolo e il letame di Barbizon. Ma i critici più avvisati seppero invece cogliere proprio questa qualità dell'arte di Millet.
Ma ora osserviamo il quadro da vicino.
Il campo in cui lavorano le tre spigolatrici è immerso in una luce d'agosto apparentemente calda e intensa, ma il finale tonale sfocia in un blu torbido, opaco, cinereo che suggerisce l’idea di una foschia.
Tre contadine in primo piano spigolano nei campi, meccanicamente, stancamente, sotto il caldo ed estenuante sole dell’estate, che brucia la terra e gli uomini con i suoi raggi potenti e spossanti.
La "spigolatura" era un'attività concessa ai contadini più poveri di raccolta del grano o di altri cereali caduti nei campi dopo il grande raccolto del proprietario, prima del signore feudale. Sullo sfondo, un gruppo di raccoglitori accatasta infatti le spighe dorate.
Un uomo a cavallo supervisiona il loro lavoro.
È il padrone della tenuta o è un suo uomo di fiducia che svolge per il padrone l’azione di controllo dei braccianti?
Non si sa, ma fa lo stesso.
Le tre povere contadine - gli “spaventapasseri” dei critici sprezzanti – sono coinvolte in uno dei tre momenti della spigolatura: cercare le spighe di grano, raccoglierle, e legarle insieme in un covone.
Questo compito era estenuante, ma serviva a contribuire al nutrimento delle loro famiglie ed era uno dei principali compiti assunti dalle donne in quel periodo di difficoltà e di carestia.
Millet aveva trascorso quasi un decennio a studiare quel processo.
Due delle spigolatrici portano in testa fazzoletti rossi e blu e sono inclinate verso il basso con il capo al di sotto della linea del bacino, cercando tastoni con le dita, meccanicamente ma inappuntabilmente, le spighe fra le stoppie.
Una terza donna si alza per alleggerire per un attimo la tensione della postura, forse per chiedersi, per un momento, quale legge crudele l'abbia condannata a tanta sofferenza e fatica. Ma dopo questo lampo momentaneo, dopo questa parziale accensione del fuoco divino che promette di trasformare questa vile argilla in un essere umano, ma riprenderà il suo posto accanto alle altre e ripiegherà ancora una volta la sua schiena a terra.
Di fronte a questa scena, è chiaro che la bellezza dei soggetti non c'entri nulla.
Millet si limitava a dipingere ciò che vedeva, senza imporre alcuna idea di ciò che doveva o di ciò che non doveva essere. I contadini lavoravano la terra e Millet li dipingeva. Era talmente semplice. C’è rassegnazione in lui come nelle tre donne perché come dice la Bibbia nel libro della “Genesi”: "Mangerete il vostro pane col sudore della fronte, finché non ritornerete sulla terra, perché siete stati tratti da essa; poiché tu sei polvere e polvere ritornerai".
L'enfasi del dipinto sui ranghi più bassi della società rurale attirò ovviamente ancora una volta la notevole opposizione da parte delle classi superiori, sconvolte dalle sue pretese artistiche e dal suo radicalismo sociale, e lo collegò immediatamente al crescente movimento socialista. Tuttavia, il danno era stato fatto, il dipinto era stato accettato al “Salon” e i repubblicani francesi gongolarono e lo ammirarono per il suo apprezzamento dignitoso e realistico dei poveri delle campagne.
Millet aveva prestato molta attenzione alla sua composizione, usando ogni espediente per infondere ai suoi soggetti una grandezza semplice, ma monumentale.
La luce obliqua del sole al tramonto accentua la qualità scultorea delle spigolatrici, mentre le loro espressioni non perfettamente definite, “sintetiche”, secondo la definizione dell’artista stesso, e i tratti spessi e pesanti tendono a enfatizzare la natura faticosa del loro lavoro.
Inoltre, queste figure, piegate e dipinte in primo piano scuro, si stagliano su una calda scena “georgica” di alacri mietitori – con i loro covoni di fieno e quelli di grano, e con i loro carri – che hanno mietuto un ricco raccolto dai campi di grano.
Il contrasto tra l’abbondanza e la scarsità, tra la luce e l’ombra, è abilmente usato da Millet per enfatizzare la divisione delle classi. E la lontananza della classe dei proprietari terrieri è evidenziata anche dall'immagine sfocata del proprietario o del caposquadra che sia, seduto su un cavallo a distanza sulla destra.
È lontano sta lì solo per controllare.
L'intera composizione diventa quindi una sottolineatura sulla diversità di classi sociali in Francia e, in particolare, sull'incapacità delle classi popolari di elevarsi al di sopra del loro rango.
Le tre donne sono mostrate piegate per non oltrepassare la linea d’orizzonte, per confermare che esse vivono dove sono nate e che sono ancora serve di quella gleba dalla quale raccolgono le briciole contendendole ai passeri e ai corvi.
Nel frattempo, la linea di terra più alta è occupata da contadini sorvegliati dal caposquadra, nessuno dei quali va oltre l'orizzonte. Il cielo simboleggia l'inaccessibile classe superiore della società che disprezza i suoi inferiori. L’uomo a cavallo è diverso dalle altre persone, diverso come l'aria che sovrasta terra.
Ma c'è un segno o una speranza che il cambiamento stia arrivando.
Il gilet bianco e i fazzoletti rossi e blu delle spigolatrici formano i tre colori della bandiera – la bandiera della Repubblica francese e il simbolo della rivoluzione popolare in Francia – come era mostrato in “La libertà che guida il popolo” di Delacroix del 1830.
Millet vendette “Le spigolatrici” per 3.000 franchi. Nel 1889 il dipinto, appartenuto al banchiere Ferdinand Bischoffsheim, fu battuto all'asta per 300.000 franchi. Un divario impressionante a distanza di poco più di trent’anni.
Poco dopo, fu donato al Louvre e, nel 1986, trasferito al Museo d'Orsay.
“Le spigolatrici” è uno dei dipinti di genere di Millet di più grandi dimensioni e ha ispirato una cospicua tradizione di moderni dipinti di genere.
Nel 1859, Millet realizzò “L’Angelus”, il suo più celebre dipinto considerato uno dei più grandi dipinti religiosi della seconda metà dell'Ottocento e uno dei più iconici dell’arte occidentale.
L’opera, diventata un’icona della pittura francese, rappresenta una coppia di laboriosi contadini che si concede una pausa dal loro duro lavoro nei campi per pregare.
Il dipinto è semplice e rappresenta le due figure umane in perfetta armonia con l'ambiente circostante.
Quest’opera, insieme ad altre scene di vita contadina, consolidò la reputazione di Millet come uno dei migliori pittori di genere dell’Ottocento.
L'”Angelus” infatti sarebbe stata un’opera molto copiata e, dopo la morte dell’autore, diventò un simbolo dei valori borghesi, dell'etica del lavoro e della pietà religiosa.
Fig. 13
Il surrealista spagnolo Salvador Dalì (1904 - 1989) ne fu talmente affascinato, quasi ossessionato, che “L'Angelus” lo ispirò per la realizzazione di molte opere, tra cui: “L'Angelus architettonico di Millet” del 1933 e il “Gala e l'Angelus di Millet”, due opere che precedono di poco l'arrivo delle celeberrime “anamorfosi coniche” del 1933.
Fig.14
e
Fig. 15
Nel 1938, Dalì scrisse anche un saggio intitolato “Il mito tragico dell'Angelus di Millet”. Dalì era convinto che l'opera di Millet rappresentasse una scena funeraria, non solo un momento di preghiera e che le due figure stessero pregando per il loro bambino sepolto, piuttosto che pregare durante l'Angelus.
In effetti, Dalì insistette talmente tanto sulla necessità di radiografare la tela, che il Louvre organizzò un esame ai raggi X, solo per trovare la sagoma di una piccola bara sotto il cesto delle patate che rivelò realmente una forma che assomigliava a una piccola bara. Tuttavia, anche dai raggi X non risultò chiaro se Millet avesse cambiato idea sul significato del dipinto o se quella forma che si intravedeva fosse realmente una piccola bara. Gli analisti però scoprirono che anche il campanile della chiesa in lontananza era stato aggiunto in un secondo momento. Sembra dunque che Millet abbia originariamente dipinto una sepoltura – forse una versione agreste del celebre dipinto di Courbet “Una sepoltura a Ornans” del 1850 – ma che in seguito abbia convertito la tela in una recita dell'Angelus, con un campanile della chiesa ben visibile.
Come sempre osserviamo il dipinto.
Il dipinto rappresenta due contadini, un uomo e una donna, che si fermano per qualche minuto per recitare l'”Angelus”, una preghiera tradizionalmente recitata tre volte al giorno che commemora l'Annunciazione. "Angelus" (angelo), è infatti la prima parola dell'Annunciazione: "Angelus Domini nuntiavit Mariae" ovvero "L'angelo del Signore annunciò a Maria".
La scena si svolge durante la raccolta delle patate, appena fuori dal villaggio di “Chailly-en-Bière” il cui campanile è visibile in lontananza.
In mezzo ai campi, si vedono un giovane contadino e probabilmente sua moglie che hanno appena finito o forse solo interrotto il loro lavoro.
Non è chiaro quale sia il rapporto che esiste tra la coppia: se siano marito e moglie, o colleghi di lavoro, o contadino e servitrice. Un catalogo di vendita del 1889 li descrive vagamente come "un giovane contadino e la sua compagna".
La coppia stava scavando patate, i cui sacchi sono stati caricati su una carriola e si sono fermati appena hanno sentito fluttuare nell'aria immobile i rintocchi lontani delle campane della chiesa.
Tutti i loro attrezzi, tra cui le borse, un forcone, un cesto di patate e una carriola sono sparsi qua e là.
Le nebbie del crepuscolo sorvolano i campi.
All'orizzonte, si distingue un villaggio. Il campanile della chiesa e alcuni tetti delle casette sono visibili attraverso l'oscurità che incomincia ad addensarsi.
Silenziosi e immobili come statue, i due personaggi, che occupano la scena, si perdono in una religiosa contemplazione, l'uomo scoprendosi il capo lo china in silenziosa preghiera, così come la donna che stringe le mani con riverenza, anche lei con il capo chino.
Il loro aspetto è povero e i loro abiti grossolani.
A guardarli si direbbe che siano entrambi composti di quella stessa terra che si attacca ai loro zoccoli di legno, le loro forme dominano la scena nella calma del crepuscolo, immerse nella scura sfocatura della sontuosità del tramonto e le ombre, sempre più profonde della notte, smettono di sopraffarle con la loro immensità.
In quel momento non sono più due povere creature isolate, ma sono due anime la cui preghiera riempie l'infinito ed esse si riempiono dell’infinito.
Raffigurando questi due personaggi silenziosi e anonimi nel mezzo di una vasta pianura coltivata, con solo pochi semplici strumenti che li aiutano a racimolare il necessario dal terreno per la loro esistenza, Millet fa luce sulla vita massacrante dei contadini con il loro duro lavoro fisico quotidiano che non finisce mai e dura dall’alba al tramonto attraverso tutte le stagioni.
Nello stesso tempo, il momento di silenzio ricorda la nostra inevitabile connessione con il divino e la nostra insignificanza di fronte a lui. È proprio questa combinazione di elementi che rende questo dipinto uno dei grandi capolavori della pittura religiosa francese dell'Ottocento, un incrollabile atto di fede, nonostante tutto.
Ma veniamo ora alla storia di questa meraviglia.
Si tratta di un insolito esempio di arte cristiana laicamente interpretata che esprime un profondo senso di devozione e per questo L’Angelus diventò presto uno dei dipinti religiosi più riprodotti dell’Ottocento, con acqueforti esposte da migliaia di devoti capifamiglia in tutta la Francia.
Millet lo dipinse per nostalgia: nel 1865, ammise che l'idea dell'”Angelus” era nato da un ricordo d'infanzia di sua nonna, che insisteva affinché la famiglia smettesse di lavorare nei campi quando sentivano la campana della chiesa suonare per l'Angelus.
Per mezzo secolo, dalla fine dell'Ottocento al periodo tra le due guerre, “L'Angelus” diventò il dipinto più famoso del mondo. Questo formato piccolo e un po' scontato sembrava tuttavia un pezzo secondario agli occhi del suo autore: si ritiene che il dipinto gli fosse stato commissionato dal collezionista d'arte americano “Thomas Gold Appleton” (1812 – 1884) ma, siccome il committente non ripassava a ritirarlo, Millet ne era preoccupato e decise allora di venderlo per meno di 1.000 franchi a un altro collezionista che a sua volta lo ri vendette rapidamente e il dipinto passò di mano in mano nel corso degli anni e ogni volta che ritornava sul mercato d’arte dava luogo a fenomeni di speculazione di prezzo.
Questi fenomeni speculativi non riguardavano i grandi dipinti storici che dipendevano da un luogo e restavano per sempre fuori mercato. I piccoli formati invece, come i titoli brevi, potevano suscitare entusiasmo e fu questo fenomeno, tipico del mercato d’arte, che avrebbe portato fortuna agli impressionisti e che portò alla ribalta “L’Angelus”. Se questo dipinto fosse stato largo tre metri e alto due, probabilmente non avrebbe conosciuto la stessa fortuna.
Nel 1889, L'Angelus raggiunse tali vette che fu addirittura oggetto di dibattito alla Camera dei Deputati dove alcuni parlamentari chiesero che lo Stato lo acquisisse. Il dibattito fu acceso e si potrebbe immaginare che i conservatori dell'epoca fossero sensibili a questo elogio della terra e della religione. In realtà furono loro i più contrari, perché continuavano a vedere nelle opere di Millet una denuncia della povertà contadina. Anche la sinistra fu, come spesso accade, divisa: in questo caso il suo patriottismo artistico entrava in conflitto con l'esigenza di laicità, minata dalla religiosità del dipinto. Infine, le autorità pubbliche presero una decisione a favore dell’acquisto: ma il prezzo del dipinto fu portato alle stelle da un ricco americano e fra la costernazione generale partì per gli Stati Uniti. Qualche anno dopo, però fu acquistato nuovamente per una somma altrettanto bizzarra da un collezionista francese, Alfred Chauchard (1821-1909), proprietario dei “Grands Magasins du Louvre” per 750.000 franchi e alla sua morte l'opera finalmente passò in eredità allo Stato. Da allora in poi “L'Angelus” iniziò la “carriera” museale e, oltre ad essere un dipinto di “cult”, diventò anche uno strumento diplomatico come biglietto di visita della Francia. Il “Museo d'Orsay” infatti lo manda qua e là nei paesi che ne fanno richiesta per mostre d’arte di cui l’opera è spesso una vedette acclamatissima. Nel 1932 il dipinto fu freggiato da uno sconosciuto con un bastone come la “Venere” di Velázquez.
Si dice che questo sia l'unico dipinto in cui si possono “sentire suonare le campane”.
In quel momento invece Millet aveva raggiunto l'abisso della sua povertà. "Abbiamo solo abbastanza cibo per sostenerci per due o tre giorni", scrisse, "e non sappiamo come lo otterremo...".
Oggi è Millet noto soprattutto la serie di opere che mettono in luce la difficile situazione dei contadini e la dura realtà della loro vita quotidiana. La vita contadina fu la sua specialità anche se fu pittore piuttosto poliedrico ma queste scene contadine sono alcune delle più belle e significative “scene di genere” dell’Ottocento e, insieme alle opere di “Gustave Courbet”, rappresentano la prima apparizione di una modernizzazione dell'arte, nel senso che i loro dipinti trattano questioni di attualità sociale.
Millet conosceva da vicino la durezza della vita contadina, in gran parte dovuta al ciclo costante delle stagioni e ai faticosi compiti ad esse associati, ma anche dovuta ai capricci del tempo. Per esempio, quando la produzione è stata raccolta e immagazzinata, giunge il momento di preparare i campi per la nuova seminagione ma, prima che possano essere arati, i campi devono essere ripuliti dalle erbacce e dalle stoppie. Un ciclo continuo che non conosce soste. E in Francia come altrove, del resto, questa pulizia dei campi era effettuata utilizzando la vanga, un pesante attrezzo con un lungo manico, con una lama larga come quella di una pala ad angolo retto ed era particolarmente faticoso da usare perché richiedeva e richiede ancora oggi, una notevole forza fisica e una lunga resistenza: anche il più forte dei lavoratori trova dolorosa la vangatura e ha bisogno di pause regolari.
Il contadino raffigurato in questo dipinto di Millet non fa eccezione.
Il suo magistrale “L'Uomo con la Zappa”, appoggiato al suo arnese, tutto rigido, la bocca semiaperta, trasmette la sofferenza, la stanchezza del contadino dopo una giornata di lavoro. È un contadino senza identità, senza individualità, che lavora la terra e che è tutt'uno con essa. Un disegno preparatorio in cui l'uomo con la vanga conserva ancora alcune sembianze umane, mostra come è stata effettuata questa "sintesi".
“L’uomo con la vanga”, olio su tela di 82 × 100 cm, databile fra il 1860 e il 1862, fa parte delle collezioni del “J. Paul Getty Museum” di Los Angeles.
Fig. 16
Osserviamolo.
Appoggiato sul manico della vanga e ancora molto affannato, il bracciante si ferma per una pausa e sembra sfinito.
In realtà non si tratta di una zappa come di solito il titolo è tradotto, ma di una vanga, un attrezzo che serve per dissodare il terreno suddividendolo in zolle che sono rivoltate e non per scavare buche come la zappa. La vanga è diversa dalla zappa perché è spinta nel terreno con la forza del piede anziché delle braccia. Una volta separata la zolla e sollevata, l’altra mano afferra il manico il più possibile verso la lama per completarne il sollevamento e per poi sbriciolarla. E questo per tutto il campo da dissodare e da pulire da stoppie e da erbacce.
Coperto di sudore e con indosso solo la camicia, dei ruvidi pantaloni e gli zoccoli, quando il caldo ha cominciato ad incalzare ha tolto la giacca e il cappello e tiene le maniche allungate per proteggersi dal sole intenso. Il viso e il collo sono già di un bruno intenso, cotti dal sole, mentre le sue labbra sono screpolate e secche. L'espressione sul suo volto è vuota e l’artista lo mostra privo di qualsiasi energia, rivelandolo come un uomo allo stremo delle sue forze.
Sta solo, moderno Prometeo, in un campo accidentato e ricoperto di rovi, di stoppie e di ciuffi d'erba, e da solo lavora la terra e la pulisce.
Sullo sfondo di questa solitudine, in lontananza alcuni mucchi di foglie secche e di erbe indesiderate stanno bruciando, emettendo colonne di fumo.
Il contadino è alto, legnoso e appare brutale.
Non ha via di scampo da quell’esistenza che sembra un supplizio, una maledizione, una condanna ai lavori forzati.
La sua fisionomia poco attraente è simile a quella del “Seminatore” del 1850 e delle “Spigolatrici” del 1857, ma come in loro, sebbene abbrutito dalla fatica, anche in lui c’è dignità e calma solidità, dettate dalla consapevolezza dell’immutabilità del proprio destino.
Questo sembrerebbe contraddire quei critici d'arte che affermavano che Millet aveva concentrato tutta la sua attenzione artistica sulla bruttezza della classe operaia rurale.
In realtà le opere di Millet sono prive del sentimentalismo dello stanco Romanticismo e cercano solo di raccontare il lavoratore, il suo ambiente e la sua strenua fatica.
Per lui la bellezza dei soggetti non conta.
Eppure “L'uomo con la vanga” è forse uno dei pochi momenti della ribellione personale di Millet. L’opera fu infatti dipinta in un momento in cui Millet non era più neanche in grado di pagare il prezzo della visita medica a sua madre morente e aveva alzato le mani al cielo in preda alla disperazione. Scrive in quel periodo: "Sono inchiodato alla roccia e condannato a lavori forzati senza fine!"
Non è forse l’immagine che sembra esprimere l’uomo con la vanga?
E allora, quando ancora una volta la povertà si prendeva gioco di lui e lo schiacciava, dipinse nella sua opera l'amarezza della sua disperazione.
Millet era ben consapevole di quali sensazioni quell'immagine avrebbe suscitato nei borghesi infatti scrisse a un amico: “L'uomo con la vanga mi metterà nei guai con un bel numero di persone che non amano essere invitate a guardare con attenzione un mondo diverso da quello a cui sono abituate, che odiano essere disturbate dalla loro tranquillità”.
E aveva visto giusto. Raramente un'immagine è riuscita a provocare opinioni così discordanti: da un lato la più grande tempesta di insulti e dall'altro l'effusione più fanatica di elogi rispetto a questa rappresentazione di un lavoratore dei campi, tormentato e disperato, che si ferma per un momento ad appoggiarsi e a riprendere respiro.
In quell’immagine è impresso il peso dei secoli di servitù. Lo spirito di quest’uomo è stato infatti fiaccato, ucciso da generazioni di lavoro forzato imposte a lui e a tutta la sua classe. Nei suoi occhi c'è uno sguardo vuoto. Ogni espressione sul suo volto è stata soffocata dalla fatica, l’uomo era ridotto al rango della bestia.
Nel Seicento, in pieno Assolutismo, il pensatore moralista Jean de La Bruyère, parlando di questa categoria di uomini aveva scritto: “Certi animali selvatici si possono vedere sparsi per il paese, maschi e femmine, neri, lividi e bruciati dal sole, legati alla terra, nella quale crescono con invincibile ostinazione. Eppure, hanno una sorta di linguaggio articolato, e quando si alzano, mostrano un volto umano e in realtà sono uomini”.
Verrebbe da dire: non subumani?
I critici rabbrividirono di fronte al doloroso realismo di quest’opera.
Nessuno prima di allora aveva mai osato scuotere quell'uomo dalle sue tenebre – questo contadino con la vanga, con la schiena piegata, con il cranio teso come una pera per la lunga e interminabile fatica, con quegli occhi vacui, gelidi, insensibili a ogni pensiero – la bestia feroce e muta dell'aratro.
Uno dei critici scrisse sprezzante: "Millet dovette cercare per un bel po' di tempo prima di trovare un ragazzo così. Tali tipi non si incontrano comunemente, nemmeno nei manicomi. Immaginate un mostro con uno stupido sorriso stampato in faccia, piantato di traverso come uno spaventapasseri in mezzo al campo. Nessun barlume di intelligenza dà un tocco umano a questa cosa brutale, quindi si tratta di un lavoro o di un omicidio che ha commesso? Sta scavando il terreno o sta scavando una fossa?”
E di fronte a questo giudizio siamo nell’anticamera di Lombroso?
In questo quadro, la gente di città, i borghesi videro una propaganda socialista.
Ma l'uomo con la vanga non era un manifesto politico, era piuttosto una figura molto tipica delle grandi masse di braccianti agricoli che da dieci secoli lavoravano nei campi di Francia senza un mormorio. Era forse apparso un artista per dar voce a questa povera gente?
Forse sì. Nei suoi quadri Millet mostrava un lamento, ma senza l’idea di una disperazione sociale, ma di quella individuale. Per una volta, Millet aveva dipinto però un autentico discorso politico.
“L'Uomo con la zappa” è un servo paziente che compie l'opera di Dio nella sua cattedrale della terra e del cielo.
Alle accuse di socialismo Millet chiese retoricamente "L'opera di questi uomini è forse il tipo di opera futile che alcuni vorrebbero farci credere? Per me, almeno, riflette la vera dignità, la vera poesia della razza umana".
Poesia certamente, caro Jean François, ma poesia tragica. Arare i campi, dipingere quadri, scrivere inni: queste nobili opere devono essere fatte. Ma perché danno tanto amaro dolore nel compierle?
Le “scene di genere” di Millet impressionarono molti pittori progressisti e crearono una tendenza che fu poi sviluppata in opere come “I raschiatori del pavimento” del 1875 di Gustave Caillebotte, “I Cantonieri in rue de Berne” del 1878 di Edouard Manet, la “Donna che dipinge se stessa” del 1887-90 di Degas e “I giocatori di carte” di Cézanne del 1892-6. Per non dire delle opere di Daumier e di Rosa Bonheur, anche se quest’ultima con uno spirito alquanto diverso.
Queste opere furono molto discusse in un momento in cui la Francia stava ancora cercando di assestarsi e di sanare le sue divisioni interne all'indomani della Rivoluzione del 1848, anche se Millet era un artista più umanitario che fazioso. Da questo punto di vista, era diverso da “Gustave Courbet” (1819-1877), pittore decisamente di sinistra, le cui opere come “Gli spaccapietre” e “Lo studio dell'artista” del erano così sfacciatamente politiche.
Tuttavia, Millet condivise con Courbet lo stesso desiderio di rendere omaggio agli operai e ai braccianti di Francia e le sue immagini diedero una nuova monumentalità alle loro esistenze.
Per lui, i contadini e le campagne facevano parte di un mondo arcaico fuori dal tempo ed erano una parte unica del patrimonio della Francia. Essendo anche i più vicini alla natura erano anche i più vicini a Dio.
Per fortuna il dolore per il mancato apprezzamento di quest’artista non rimase con lui per sempre: alla fine opere come “Il seminatore”, “Le spigolatrici” e “L'Angelus” convertirono un piccolo, ma influente gruppo di persone e di critici alla religione della sua arte. Queste persone non erano né sconcertate né spaventate dal suo realismo. Un'artista “fratello”, “Théodore Rousseau”, fu uno dei primi a riconoscere il genio di questo pittore così tristemente paziente e, quando Millet stava affrontando le sue schiacciati difficoltà economiche, Rousseau comprò uno dei suoi dipinti per poche centinaia di franchi e, per non metterlo in imbarazzo, finse che l'aveva comprato per un ricco americano. Un altro amico aveva raccolto abbastanza soldi attraverso una lotteria per pagare l'affitto e le note del macellaio. Alexandre Dumas scrisse articoli entusiastici sul suo lavoro, e un ricco collezionista accettò di anticipargli 1.000 franchi al mese in cambio della produzione totale di Millet per un periodo di tre anni. Un altro cliente ancora gli commissionò delle opere a pastello per una collezione che si prevedeva che sarebbe cresciuta fino a più di 90 unità: dal 1865 Millet fece quindi del pastello il suo campo privilegiato di sperimentazione pittorica e lo utilizzò per lavorare sulla resa della luce e dei colori.
Sembrava che il destino di Millet stesse cambiando.
Nel 1867, in occasione dell’”Esposizione Universale” di Parigi fu ospitata un’importante antologica delle sue opere fra cui “Le spigolatrici”, “L'Angelus” e “I piantatori di patate”  del 1861.
Fig. 17
Il primo vero riconoscimento ufficiale gli giunse tuttavia l’anno successivo, il 1868, quando fu nominato cavaliere della “Legion d'Onore”, e poi nel 1869, quando il “Museo delle Belle Arti” di Marsiglia acquistò “La Bouillie” del 1861, la sua prima opera ad entrare in una collezione pubblica. Nell’anno in cui fu insignito della Legion d'Onore ebbe anche il suo dolore più grande: perse il più caro dei suoi amici, Rousseau che affetto da paralisi, questo "più di un fratello" morì tra le sue braccia.
Fig. 18
Tra il 1853 e il 1871 Millet aveva compiuto brevi soggiorni nella sua regione natale, da dove aveva sempre riportato numerosi studi che rappresentavano i luoghi della sua infanzia, la sua casa, i monumenti locali, la costa della Normandia. “Le Bout du hameau de Gruchy” del 1854, tela preparatoria per una composizione presentata poi al Salon del 1866, è un primo esempio.
Fig. 19
Col passare del tempo, la sua tavolozza tese ad alleggerirsi un poco e, man mano che le sue pennellate si allentavano, dava luogo a un certo impressionismo: diversamente dagli impressionisti, però non dipinse mai all'aperto, vi realizzava i disegni, che poi riutilizzava nel suo atelier per creare le sue composizioni, e non prestò mai troppa attenzione ai valori tonali.
Nell'agosto 1870 Millet fuggì dalle truppe prussiane che minacciavano l'Île-de-France in cui si trova anche Barbizon e si rifugiò a Cherbourg con la moglie e i loro nove figli.
La fine della sua vita fu segnata da un appassionato interesse per il paesaggio, in particolare per i siti legati alla sua infanzia (Le Lieu Bailly, vicino a Gréville) e per i monumenti emblematici della sua regione.
La serie “Falaises de Gréville” è particolarmente caratteristica di questa lenta maturazione dai primi schizzi rapidamente abbozzati al disegno preparatorio finale, passando per gli studi più precisi alla matita, alla penna o al pastello.
L'ultimo soggiorno di Millet nel Cotentin, dal 1870 al 1871, segna il trionfo assoluto del paesaggio nella sua opera. La resa degli effetti atmosferici e luminosi osservati all'aperto diventa importante quanto il soggetto stesso del dipinto.
“La Chiesa di Gréville”, ultimo capolavoro dell'artista che non lasciò mai il suo studio, è l'emblema delle sue origini, l'espressione del suo attaccamento alla sua terra natale.
Fig. 20
Completata nel 1874, anno della prima mostra impressionista, l'opera è inondata di luce solare. Il tocco è libero, vivace e veloce. Millet si unisce qui alle ricerche della nuova generazione di artisti che si preparava a rivoluzionare ancora la pittura.
Millet morì a Barbizon il 20 gennaio 1875.
L’eredità di Millet ebbe tuttavia una notevole influenza su altri giovani artisti, tra cui “Eugène Boudin” (1824 – 1898) nella rappresentazione della vita rurale e contadina, “Claude Monet” (1840 – 1926) influenzato dalla rappresentazione della vita rurale e anche dalla luce naturale e dal colore dei dipinti di Millet e più tardi influenzò anche “Pablo Picasso” (1881 – 1973) che a Parigi lo studiò molto in particolare il suo uso di luci e ombre per creare effetti drammatici nei suoi dipinti. Il suo talento di disegnatore e l'attenzione per la gente comune nelle sue opere piacquero ad artisti come Van Gogh, che ricordò più volte l'opera di Millet nelle lettere a suo fratello, e come “Georges Seurat”, padre del “pointillisme”.
                                                Massimo Capuozzo


mercoledì 17 gennaio 2024

Gustave Courbet: “gli anni della svolta e le tele della provocazione”

Figlio di ricchi proprietari terrieri, Courbet (1819 - 1877) era un giovanotto alto e forte di Ornans, piccola città di 4.000 abitanti a 25 km da Besançon nella Franca Contea.
Dopo gli studi superiori in collegio a Besançon fu indirizzato prima agli studi di ingegneria poi a quelli di giurisprudenza ma, quando si trasferì a Parigi per studiare, passava più tempo al Louvre che su codici e pandette.
In quegli anni della giovinezza “bohèmien” frequentava artisti e intellettuali tra cui Baudelaire e Proudhon che esercitarono su di lui un notevole fascino. Iniziò a farsi un nome dipingendo principalmente ritratti e ben presto abbracciò gli ideali socialisti degli intellettuali progressisti. In pochi anni il bel giovanotto romantico diventò una sorta di rappresentante della ribellione, un festaiolo che concentrava la sua attenzione su donne e alcol oltre che sulla pittura.
Poco prima della fine del 1848 Courbet si trasferì in un laboratorio di “Rue Hautefeuille”, non lontano dalla birreria Andler-Keller che frequentava già dai suoi primi anni parigini e fece di questo luogo la sua “dependance”: lì, tra amici, furono sviluppate grandi teorie. Charles Baudelaire e lo scultore Auguste Clésinger erano assidui frequentatori e in quella birreria Gustave si incontrava con i suoi amici del gruppo di Ornans tra cui “Max Buchon” e il musicista “Alphonse Promayet”. Anche Henry Murger, Alexandre Schanne e una serie di persone che animavano la Bohème parigina frequentavano quella birreria e il loro atteggiamento traspariva dal look e dagli ideali che professavano. La sua statura imponente, il suo gusto per la birra e per la musica, facevano di Gustave un “leader”. Con la rivoluzione del 1848 alle porte, Courbet era al centro del fermento artistico e politico dell’altra Parigi. Lì suonava il violino, si legava ad artisti che volevano proporre una “terza via”, in opposizione al Romanticismo e ai gusti accademici: il nemico dichiarato era Paul Delaroche (1797 - 1856), pittore simbolo dell’accademismo. Charles Baudelaire o Hector Berlioz, di cui Courbet dipinse splendidi ritratti, erano le menti più brillanti di questo gruppo e qui, sotto la guida di Champfleury, Courbet gettò le basi del proprio stile, quello che egli stesso avrebbe chiamato "realismo", riprendendo un termine coniato dal suo gruppo, constatando di fatto che “il dipinto esisteva già sotto i loro occhi”.
I tempi però erano duri e Courbet continuava a non vendere nulla e ad essere squattrinato, salvo i congrui sussidi paterni.
A febbraio la rivoluzione li sorprese in tutta la sua violenza.
La rabbia ribolliva in tutta l’Europa tra moti rivolte e rivoluzioni. In Francia ci fu una vera e propria rivoluzione: la “Monarchia di Luglio” di Luigi Filippo fu rovesciata sotto la guida di liberali e repubblicani e fu nominato un governo provvisorio che proclamò la “Seconda Repubblica”, Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto a suffragio “universale” maschile e diventò presidente di questa Repubblica.
Courbet sembrò credere in lui.
Il “Salon”, aperto 15 marzo 1848 accettò tre suoi disegni e sette dipinti ma, nonostante una menzione d'onore, non trovò alcun acquirente. Di contro la critica incominciò a notarlo: in “Le National”, “Prosper Haussard” (1802–1866) elogiò soprattutto “Le Violoncelliste”, un autoritratto, che secondo il critico era ispirato a Rembrandt, mentre Champfleury, che sarebbe stato uno degli amici più fedeli di Courbet, in “Le Pamphlet” ammirò la “Notte di Valpurga”.
Champfleury parlò molto del gruppo di “Rue Hautefeuille” e definì la birreria Andler “il tempio del realismo”. Un altro testimone e amico di Courbet, “Jules-Antoine Castagnary” (1830 – 1888) riferì che, fuori dal suo laboratorio, negli anni Sessanta dell'Ottocento “era nella birreria che Courbet si incontrava con il mondo esterno”.
A giugno le vicende politiche a Parigi peggiorarono. Gustave, sostenitore della non violenza, partecipò agli eventi relativamente da lontano. I suoi amici Champfleury, Baudelaire insieme allo studioso di linguistica Charles Toubin misero insieme in pochi giorni un giornale, “Le Salut public”, sul cui frontespizio Courbet realizzò una vignetta.
Alla morte di suo nonno Oudot il 13 agosto tornò come meglio poté a Ornans per partecipare ai funerali. A Ornans preparò i suoi primi dipinti aderendo risolutamente allo spirito di questo nuovo modo di vedere l’Arte.
Nel marzo 1849 Champfleury stilò per il pittore l'elenco delle undici opere proposte per il “Salon” e Baudelaire scrisse le note che accompagnavano la presentazione. Sei dipinti e un disegno furono selezionati da una giuria ora eletta dagli artisti stessi e proprio nella culla della Seconda Repubblica, e Courbet diventò il pittore singolare che noi tutti oggi conosciamo.
A Ornans dipinse una serie di opere, e soprattutto “Un dopo cena a Ornans”, che gli valse una medaglia d'oro e il suo primo acquisto da parte dello Stato per 1.500 franchi. Questo status di pittore premiato con medaglia d’oro, da quel momento in poi lo esonerò dalla approvazione della giuria e fu di conseguenza libero di esporre al “Salon” ciò che voleva.
Courbet usò questa possibilità per scuotere fin dalle radici i codici accademici.
Quest’olio su tela gli avrebbe assicurato la fama.
Un dopo cena a Ornans” fu realizzato in un formato molto grande (250×200 cm) che Courbet avrebbe continuato ad adottare in futuro.
Il ritorno alle radici, nel suo paese natale, cambiò il suo modo di dipingere: abbandonò definitivamente lo stile “romantico” di alcuni dei suoi primi dipinti esposti e, ispirato dal suo “territorio”. “Il dopo cena” gli valse anche il consenso di alcuni critici, come il suo amico “Francis Wey” e il plauso di pittori tra cui “Ingres” e “Delacroix”, due mostri sacri della scena artistica francese.
I suoi paesaggi, ancora relativamente rari all'epoca, incominciarono gradualmente a essere dominati dall'identità del ritiro, della solitudine e dall'affermazione della potenza della natura, mentre contemporaneamente si stavano delineando gli inizi della “scuola di Barbizon” e della “scuola di Crozant”, fortemente influenzate da “John Constable”.
Ma osserviamo ora “Il dopocena a Ornans” dipinto a trent’anni nel 1849 e oggi esposto al “Palais des Beaux-Arts” di Lille.
Fig. 1
Dipinto a Ornans durante l'inverno del 1848-1849, inizialmente era intitolato “Una cena pomeridiana a Ornans”, e fu il primo dipinto "realista" su larga scala con cui Courbet sfidò le convenzioni rappresentative della pittura accademica.
Per realismo qui si intendono gli "effetti della realtà", basati su una scena di vita quotidiana realmente vissuta, con un piglio decisamente documentaristico: questo momento della vita del borghese di provincia passa infatti ai posteri.
Il dopocena” fu la prima opera che lo rese famoso e fu anche il suo primo dipinto di grande formato, con figure quasi a grandezza naturale e fu inoltre la sua prima importante opera veramente realistica.
Si tratta di una scena “realmente” vissuta dal pittore, che racconta le circostanze e conferisce identità ai personaggi. Suo padre, Régis Courbet, è seduto a sinistra, con le gambe incrociate, una mano che tiene un bicchiere vuoto, l'altra in tasca, la testa abbassata e sembra assopito. Dietro il tavolo c'è il padrone di casa, Urbain Cuénot con aria pensierosa e, con la testa appoggiata sulla mano sinistra, guarda il musicista Alphonse Promayet, altro amico d'infanzia del pittore che, seduto nell'ombra suona il violino. Infine, l'ultimo personaggio, Adolphe Marlet, il cacciatore, è mostrato di spalle mentre accende con noncuranza la pipa, con il suo cane addormentato sotto la sedia.
In questo dipinto Courbet mostra la sua vita a Ornans, la sua famiglia, gli amici della sua giovinezza, li rappresenta con affetto, ma senza compiacimento, perché la ricerca della verità per lui ha la precedenza assoluta nell’Arte.
Il dipinto è immerso nella tenue luce di un pomeriggio autunnale, perché la cena evocata dal titolo è il pasto di mezzogiorno e non quello della sera. La luce pomeridiana illumina i volti, la tovaglia e la figura di spalle, lasciando nell'oscurità il resto della stanza; sullo sfondo si intravede appena un imponente camino.
I colori sono pochi e piuttosto scuri, neri profondi, marroni e grigi. Risaltano ancora di più i punti luminosi: la tovaglia bianca e l'abito beige del cacciatore. Gli abiti caldi dei personaggi e la presenza del cane da caccia contribuiscono a collocare la scena in autunno. Courbet rappresenta realisticamente anche gli avanzi del pasto sulla tavola e perfino una grande macchia di vino sulla tovaglia.
Fig. 2
Non cerca di abbellire la scena, ma di rappresentarla in tutta la sua realtà.
La composizione è costruita in profondità e dona perfettamente l'illusione dello spazio. Tutti questi elementi contribuiscono a evocare con forza un mondo reale e familiare.
La pittura francese del Seicento aveva già offerto numerosi esempi di “scene di genere” sul tema dei pasti, dei bevitori e dei musicisti, in particolare tra i Caravaggisti, il cui rappresentante più illustre era stato “Valentin de Boulogne”.
Fig. 3 
Anche i fratelli Le Nain, che però non avevano avuto contatti con l’Italia, avevano fatto lo stesso all'inizio del Seicento mostrando il loro interesse per questo soggetto con dipinti come per esempio il “Pasto di contadini” in cui essi guardano lo spettatore e si mettono in posa, così come avevano fatto alcuni artisti del periodo d'oro della pittura olandese, per non parlare dei fiamminghi.
Fig. 4
Courbet traeva ispirazione dalla pittura nordica, fiamminga e olandese, dove la “scena di genere” aveva occupato un posto importante fin dal Rinascimento.
Avendo viaggiato in Belgio e nei Paesi Bassi negli anni precedenti, Courbet aveva potuto osservare e studiare il lavoro di quei pittori che soddisfacevano la sua esigenza di realismo.
La maggior parte di questi antichi dipinti avevano però dimensioni più modeste rispetto a “Dopo cena a Ornans” e i personaggi che comparivano in essi erano anonimi.
Dando grandi dimensioni alla sua opera e dando un nome ai personaggi, Courbet trasformava una “scena di genere” in un “soggetto storico”. E da questo la sua forza dirompente: i grandi formati, infatti, erano tradizionalmente riservati alla “pittura storica”, il genere più apprezzato dalla “Scuola di Belle Arti”. Courbet stava quindi incominciando a sconvolgere la tradizione, come avrebbe fatto ancora un anno dopo con “Un funerale a Ornans”.
Da ardente repubblicano qual era, voleva forse dimostrare che ognuno ha un suo posto nella Storia?
Questo desiderio di competere con la pittura storica può spiegare anche un'altra ipotizzabile fonte di ispirazione, “La Vocazione di San Matteo” di Caravaggio.
Fig.5 
Courbet riprende apparentemente la composizione, che pone di lato e nell'ombra il personaggio in azione, la figura di Gesù in Caravaggio e il violinista nel “Dopocena” di Courbet, ma sembra riprendere anche i forti contrasti di ombra e di luce.
Si tratta però solo di un’assonanza, forse solo di una semplice coincidenza perché Courbet non era mai stato a Roma e non conosceva questo famoso dipinto romano se non da qualche incisione. Ma è troppo poco per parlare di una citazione.
Delacroix fu pieno di elogi e dichiarò: “Hai visto qualcosa di simile, o di così forte […]?" si domandava e rispondeva: "Ecco un innovatore, anche un rivoluzionario, che improvvisamente emerge senza precedenti”.
Il dipinto attirò l'attenzione, ma provocò anche molte critiche, in particolare da parte di Ingres e di Théophile Gautier. Per le sue dimensioni e la sua fattura – i personaggi sono quasi a grandezza naturale e uno di loro che è addirittura ritratto di spalle –, riprendeva le convenzioni della pittura di Storia, ma la scena raffigurata colpisce per la sua irrilevanza, per la sua banalità quotidiana.
Nella capitale nel giugno 1849 si svolsero violente manifestazioni e Gustave decise di ritornare a Ornans dopo il “Salon” che era stato finalmente autorizzato, ma gli apprezzamenti che riceveva in campo artistico non fecero altro che scatenare la furia delle critiche reazionarie che accusarono Courbet di essere un pittore del "grossolano", del "triviale", del "disgustoso". Ovviamente da intendere nel regno dell’Arte. 
Nel frattempo a Parigi più di 30.000 soldati si erano stabiliti in città e mantenevano il coprifuoco.
Al suo arrivo a Ornans, in seguito al successo del “Dopocena” la cittadina riservò un'accoglienza trionfale all’”enfant prodige” del paese. Courbet fu celebrato come un eroe e vi si trattenne per un periodo più lungo. Suo padre gli allestì un laboratorio improvvisato nella soffitta della casa di famiglia dei nonni: sebbene di modeste dimensioni, in questo laboratorio compose le sue prime opere monumentali, che lo storico dell’Arte americano Michael Fried definisce “i dipinti della svolta”.
Courbet ora aveva tanto tempo per dipingere, visto che il successivo “Salon” era previsto solo fra dicembre 1850 e gennaio 1851.
Nel corso del 1850, dopo un tardo inverno trascorso a caccia e a ricongiungersi con gli abitanti della sua valle, dipinse “I contadini di Flagey di ritorno dalla fiera”, poi “Un funerale a Ornans”.
fig. 6
I contadini di Flagey al ritorno dalla fiera” rappresenta ancora una volta un momento della vita quotidiana dei contadini della Franca Contea.
Osserviamo il dipinto.
Al calare della notte, i contadini, uomini e donne, ritornano dalla fiera di Salins con i loro acquisti.
Alcuni riportano nelle ceste il cibo avanzato, altri hanno acquistato animali da ingrassare. I più ricchi sono a cavallo, i più modesti li seguono a piedi.
La composizione di questa tela, in uno stile che per certi aspetti richiama l'immaginario popolare, ha però ancora qualcosa di artificioso: ai margini di questo strano corteo di contadini, sembra essere stato aggiunto l'uomo con il maiale, incastrato sull’insieme, a dipinto terminato.
Il gusto di Courbet per i dettagli veri (la pipa, il maiale, il suo ombrello, il cesto in bilico sulla testa del contadino) testimonia un’ansia di realismo, ma anche il valore sentimentale che quegli oggetti della vita quotidiana continuano ad avere per un ragazzo di paese.
Questo dipinto sarebbe stato esposto al “Salon” del 1851 con “Il funerale a Ornans” e “Gli spaccapietre”.
Se questi dipinti misero a disagio il pubblico quando nel 1851 furono esposti nella più importate manifestazione parigina fu perché essi mostravano, senza cercare minimamente di abbellirla, una realtà molto ordinaria, addirittura banale, e perché elevavano una “scena di genere” al rango di pittura storica. Questa sua pregiudiziale si riflette nella sua nuova estetica, perché questo leader del realismo amava definirsi anche un “pittore locale” che, legato alla sua “piccola patria”, riassumeva nella sua pittura le radici locali.
I campagnoli colti, composti principalmente da piccoli e da medi proprietari terrieri del Doubs, erano il pilastro di una democrazia egalitaria giunta ai limiti dell’agiatezza. In questo dipinto, Courbet si fa pittore di un piccolo contadino quasi ricco, amico della proprietà, la “massa granitica” di una società stabile e moderata.
Un altro esempio emblematico della sua svolta realistica è il dipinto “Gli spaccapietre” del 1849.
In esso Courbet cerca di mostrare la realtà senza filtri, senza farsi influenzare da punti di vista, da opinioni personali su un determinato soggetto.
Quando il dipinto fu esposto, il pubblico rimase perplesso chiedendosi che cosa stesse guardando: si trattava di un soggetto che non aveva nulla a che fare con i temi consueti dell’Arte, realizzato con un realismo “fotografico”, ma non quello di una fotografia con velleità estetiche, ma come quella di un qualsiasi reporter di cronaca.
Questo è un dipinto triste e, oltre a questo, ha avuto una storia drammatica. Esposto per la prima volta al Salon del 1850-1851, nel 1909 fu acquistato dalla “Gemäldegalerie Alte Meister” di Dresda e purtroppo andò distrutto insieme ad altri 154 dipinti nel corso del bombardamento alleato di Dresda nel febbraio 1945: mentre si cercava di mettere al sicuro queste opere trasportandole su camion verso la fortezza di Königstein per metterli, il camion fu colpito in pieno da una bomba. In seguito alla sua drammatica distruzione, degli “Spaccapietre” restano solo due fotografie.
Non era la prima volta che Courbet dipingeva un operaio: ad esempio, “Le Cheminot” degli anni 1845-1846, un dipinto poco noto esposto al Museo di Belle Arti di Dole, e anche altri pittori lo fecero all'epoca, in particolare Carl Geyling (1814-1880) con “La ferriera: 
Fig. 7
Fig.8
ma quello che cambia radicalmente in Courbet è il trattamento dell'immagine con la sua inquadratura stretta sui corpi, la dimensione dei motivi, il rispetto delle proporzioni su una scala di 1 a 1, la tavolozza dei colori evocati (terra, grigio, sabbia, ecc.).
Fig.9
Émile Zola nel 1865 scrisse del dipinto: "Gli spaccapietre gridano con i loro stracci vendetta contro l'arte e la società", e l’anno successivo Jules Vallès scrisse: "Questo quadro grigio, con i suoi due uomini dalle mani callose e dal collo abbronzato, era come uno specchio in cui si rifletteva la vita noiosa e faticosa dei poveri”.
Osserviamo il dipinto dalla fotografia.
Si vedono due uomini vestiti di stracci e con i corpi spezzati dalla fatica, voltano le spalle allo spettatore, assorti nel loro lavoro, illuminati dal sole. Le loro ombre si allungano e le loro sagome si stagliano su una collina scura. I loro corpi giustapposti non sembrano avere tra loro altro legame che la costrizione del lavoro. A sinistra un paniere di vimini e a destra una pentola, un cucchiaio e una pagnotta di pane nero, il magro pasto di questi due lavoratori che svolgono uno dei lavori più massacranti di quell’epoca.
Courbet, parlando del suo dipinto, dice che si tratta di due spaccapietre molto miserandi. Un vecchio irrigidito dalla fatica, dall'età, dalla polvere e dalla pioggia, troppo vecchio per fare un lavoro così stremante. La testa scura, coperta da un cappello di paglia nero. Le sue braccia sono rivestite da una camicia di stoffa grezza, nel suo panciotto a righe rosse c'è una tabacchiera di corno circondata di rame. Sulle ginocchia i pantaloni rattoppati e ai piedi, le calze blu consumate rivelano i talloni screpolati negli zoccoli. Dietro di lui c’è un ragazzetto, in questo caso troppo giovane per quel lavoro, brandelli di biancheria sporca gli servono da camicia: i pantaloni sono tenuti su da una cinghia di cuoio e ai piedi ha delle vecchie scarpe di misura maggiore del suo piede che, logorate dal tempo e dall’uso, sono scucite e in parte rotte.
Secondo il suo racconto, Courbet, che documentava molto la sua vita, aveva individuato per caso questi due uomini lungo una strada. Voleva rappresentarli a grandezza naturale, con i vestiti stracciati e con i corpi spezzati dalla massacrante fatica. Ma per mostrare la cruda esistenza fisica di questi lavoratori occorreva una tecnica pittorica di per sé laboriosa. L’opera fu infatti il risultato di molto lavoro: uno schizzo e tanti disegni preparatori, oltre a sedute di posa dei due personaggi nel suo laboratorio.
Diversamente da una certa pittura sociale dell'epoca, l'opera non richiede però né psicologia né pathos: questi uomini infatti assorti nel loro lavoro e non trovano in esso né spiritualità, né dignità, né riscatto.
Gli operai che, voltando le spalle all’osservatore, con il volto nascosto, attestano la spersonalizzazione dell’uomo abbrutito dalla fatica.
Stagliandosi su uno sfondo scuro, i due operai occupano il primo piano, vicino allo spettatore. I loro corpi e i loro strumenti formano una serie di angoli acuti e ottusi che non danno l'impressione del movimento, ma piuttosto di arresto, di una sospensione immobile, di un vero e proprio fermo immagine che blocca la fatica di questi lavoratori in un’eternità priva di riscatto.
Come molti altri dipinti di Courbet, Gli spaccapietre per la ricchezza dei dettagli richiede un certo tempo di lettura a causa della densità dei suoi contenuti.
Quest’opera sarebbe potuta sembrare al pubblico uno scherzo del caso, come se il pittore si fosse improvvisamente distratto e per errore avesse ritratto una cosa al posto di un’altra. Ma non era così: essa era stata composta con tutte le regole dell’accademia anche se mostrava un’apparente immediatezza e una casualità in tutto ciò che si vedeva.
Sembra infatti di vedere un’istantanea di quell’evento senza poesia, senza pathos. È la realtà per quello che è. Solo che per Courbet la realtà è anche il brutto della vita e più andrà avanti nella sua carriera più si impegnerà a dimostrarlo.
La sua idea di realismo diventa col tempo qualcosa di diverso rispetto allo stile di altri pittori simili a lui per intendimenti come Corot e Millet: mentre la loro pittura era infatti una pittura d’ambiente, di contesti ampi in cui l’uomo era solo un elemento dell’insieme, con Courbet invece la pittura diventa sempre più sociale. Non è più rappresentazione della realtà in senso generale, ma della realtà dell’uomo, delle dinamiche sociali, delle interazioni fra gli individui, delle trasformazioni dell’ambiente cittadino e di quello contadino.
Nel 1850 anno della realizzazione della tela, siamo in un mondo in piena evoluzione scientifica e tecnologica, in un mondo pervaso dal Positivismo, caratterizzato da un cambio degli assetti sociali e da nuove realtà che invadono la vita quotidiana e che per Courbet devono essere rappresentate senza costruzioni complesse e senza filtri ma simulando la presa diretta della realtà.
E quest’idea funzionava.
Anche se non era apprezzata, faceva parlare, destava interesse, faceva capire che il mondo era pronto per un nuovo modo di fare pittura. Courbet era dunque sulla strada giusta per diventare il leader di un movimento pittorico che stava incominciando a ottenere consensi stima e rispetto anche da una parte del mondo accademico.
Ma mentre artisti come Millet si mantengono fedeli all’idea di realismo oggettivo, Courbet, come Daumier, incomincia a tastare il terreno per vedere se si può andare oltre.
E comincia con Un funerale a Ornans realizzato fra il 1849 e il 1850. È un dipinto ambizioso di grandissimo formato, che comprende diversi notabili del suo paese e membri della sua stessa famiglia.
In una lettera a Champfleury, Courbet racconta che tutti in paese avrebbero voluto essere immortalati sulla sua tela. Pertanto, volendo accontentare la provincia prima della capitale, Courbet organizzò ad aprile una piccola mostra dei suoi dipinti nella cappella del seminario accanto al suo laboratorio, poi a maggio organizzò un'esposizione di quegli stessi dipinti a Besançon, e infine a giugno a Digione.
All'inizio di agosto, ritornò a Parigi e notò che i critici parlavano dei suoi quadri, si spazientivano, si scaldavano.
Ma qual era la realtà che la gente di città non voleva vedere?
La deriva incominciò proprio con il Funerale a Ornans dove un evento ordinario del mondo contadino che, per i canoni dell’epoca, avrebbe meritato al massimo una tela da cavalletto, qui assume invece le dimensioni di un dipinto epico di 6 metri e mezzo x 3, ma privato di ogni senso di epicità, e di grandezza: le figure, realizzate a grandezza naturale danno l’impressione mostrare allo spettatore di trovarsi di fronte all’evento vero e proprio. Come se improvvisamente una finestra si fosse spalancata su un pezzo di realtà.
Le figure sono grezze, plebee, spesso con tratti somatici privi di interesse, i colori sono cupi, terrosi, e la fossa della tomba si apre al centro del dipinto ma non vi rientra del tutto.
La morte è sbattuta in faccia allo spettatore.
E poi di opera in opera Courbet sarebbe giunto al “Ritorno dall’assemblea” di una decina d’anni più tardi in cui il naturalismo ha lasciato definitivamente il posto allo spirito provocatorio e alla voglia dell’artista di scioccare.
Fig. 10
Al Salon del 1850 Courbet aveva presentato “I contadini di Flagey di ritorno dalla fiera”, “Gli spaccapietre”, “Il funerale a Ornans” e altri sette dipinti, tra cui , il “Ritratto del signor Jean Journet”, la “Veduta e rovine del castello di Scey-en-Varais”, “Le rive della Loue sulla strada di Mazières”, i "Ritratti" di Hector Berlioz e di Francis Wey, e infine un “Ritratto dell'autore” noto come “L'uomo con la pipa”, e solo quest'ultimo dipinto, curiosamente ma non troppo, raccolse elogi unanimi.
Fin dall'inaugurazione del Salon il 30 dicembre, “Un funerale a Ornans” suscitò scandalo e stupore tra la critica, e si sviluppò una violenta polemica: il dipinto fu rimproverato per la sua volgarità e i critici accusarono ancora Courbet di dipingere "il brutto", "il triviale" e "l'ignobile". “Gli spaccapietre” suscitò anche le prime caricature sui giornali conservatori e forti dissensi, perché per la prima volta un soggetto della vita quotidiana era stato dipinto in dimensioni fino a quel momento erano riservate a temi ritenuti “nobili” (scene religiose, storiche, mitologiche)
Il “Funerale” però fu salutato da Proudhon come la prima opera socialista.
La sera della premiazione il 3 maggio del 1851 non fu citato nessuno dei suoi dipinti. Diventato più misurato rispetto ad altri critici, Théophile Gautier finì per stupirsi di una simile svista critica e scrisse questa volta: “Courbet è stato l'evento al Salon; ai difetti per i quali lo abbiamo apertamente criticato unisce qualità superiori e originalità incontestabili; ha emozionato il pubblico e gli artisti. Avremmo dovuto dargli una medaglia di prima classe…”.
Il 18 maggio poi, quando l'elenco degli acquisti pubblici fu concluso, Courbet fu escluso anche da questo con il pretesto di restrizioni di bilancio e per ripicca il pittore non volle vendere il suo “Ritratto con la pipa” per meno di 2.000 franchi.
Fig.11
Ma che cosa aveva fatto indignare critica e pubblico?
Osserviamo il dipinto “Funerale a Ornans” partendo dal titolo: il titolo originale era “Pittura di figure umane, storia di una sepoltura a Ornans”, una galleria di ritratti che comprende ben quarantasei personaggi. L’opera ha dimensioni eccezionali (315,45 × 668 cm) e la sua composizione monumentale, organizzata come una specie di fregio come i ritratti delle confraternite olandesi, è statica e quasi senza prospettiva, come se fosse appiattita e i personaggi sono compressi in essa.
La tavolozza, dominata da tonalità chiare o scure, è in linea con questa cerimonia funebre in cui la comunità del paese si riunisce intorno a una tomba per seppellire uno dei propri membri.
La scena si svolge nel nuovo cimitero di Ornans che mostra attraverso questo dettaglio il suo interesse per le notizie locali in questo caso la nuova area cimiteriale tanto osteggiata dalla cittadinanza.
Nel dipinto compaiono, da sinistra a destra, gli addetti alla bara, i necrofori in divisa, il prete, i suoi chierichetti, i sacrestani nei loro begli abiti rossi, i notabili di Ornans, due vecchi della Rivoluzione del 1793 con i loro abiti del tempo, infine le donne in lacrime, rigorosamente separate dal gruppo degli uomini come in chiesa.
Sono tutti cittadini di Ornans.
Salvo poche eccezioni, tutti i personaggi del “Funerale” sono stati identificati. Si noti ad esempio che Oudot, il nonno di Courbet che era stato un “sanculotto”, è rappresentato all'estrema “sinistra” del dipinto, le sorelle e la madre dell'artista sono atteggiate a figure in lutto, Hippolyte Proudhon, un avvocato di Ornans e vice giudice di pace, appare al centro della tela, con il suo naso sottile e il suo cappotto nero.
Le diversità sociali del quadro sono notevoli: i piccoli proprietari vitivinicoli di Ornans si affiancano ai notabili, tra i proprietari terrieri, gli artigiani e i becchini, sotto la direzione spirituale di un povero curato di campagna.
Ma in questa tela ci sono curiosamente più proprietari e liberi professionisti di quanti ce ne fossero in realtà in questo villaggio della Franca Contea a metà dell’Ottocento. Vi domina la piccola borghesia perché Courbet dipinge il proprio ambiente sociale. È comunque interessante notare che Courbet, le cui simpatie erano più rivolte al Socialismo, dipinge qui il ritratto di una comunità unanimemente partecipe, cementata da una certa coesione e raccolta con armonia intorno ai suoi leader civili e religiosi.
Sullo sfondo ci sono le caratteristiche del paesaggio della regione: le falesie calcaree, quelle scogliere montuose nude che si vedono in lontananza, che caratterizzano la regione e che incorniciano i ripidi meandri del fiume Loue che attraversa Ornans. Un cielo piovoso oscura questi volti che sembrano abbandonati dalla speranza e sembrano la raffigurazione di un mondo abbandonato anche da Dio.
La ricchezza di questo dipinto ha dato luogo a numerose interpretazioni, oggi come allora, tutte incentrate sull'incognita principale della scena.
Chi si sta seppellendo?
Si sta forse seppellendo la speranza in Dio?
Il teschio, macabro dettaglio, vicino alla fossa serve a ricordare che una rapida decomposizione attende l'uomo dopo la sua morte. È un “memento mori” che insieme alla fossa accennata al centro della tela simboleggia l'aldilà in cui l’uomo sarà inghiottito.
Il realismo di Courbet, forzato sul piano metafisico, è simile alla negazione di ogni trascendenza e, forzato sul piano storico, è simile al riflesso della precoce scristianizzazione di alcune popolazioni rurali francesi cadute nella disperazione.
Ma si potrebbe anche dire che la “Sepoltura” sia una “negazione dell'ideale” in pittura, una confutazione tanto di David e di Ingres quanto di Delacroix e del Romanticismo.
È anche vero però che, elevando personaggi banali (per esempio un sagrestano dalla faccia rubizza per il vino), alla dignità di personalità della grande Storia, rappresentata sempre a grandezza naturale, trasforma una scena di vita quotidiana in un imponente dipinto che ricorda “La sepoltura del conte d'Orgaz” di “El Greco” (1551 - 1614) del 1586, Courbet crea un nuovo genere, in opposizione alla cosiddetta pittura di “grande stile”: la “rivoluzione realista”, secondo lui, avrebbe infatti posto “l'arte al servizio dell'uomo”, di ogni uomo, senza alcun privilegio, anche in una sepoltura.
Fig. 12
Ma ritornando ancora alla domanda sul soggetto della sepoltura, occorre notare che questo dipinto includeva molti repubblicani, piccoli viticoltori, vecchi rivoluzionari dell'anno II e repubblicani illustri, ma, nelle elezioni del 1849, a Ornans e nel Doubs in genere essi votarono contro la “Repubblica Sociale” e contro i rivoltosi di Parigi del 1848, regalando una strepitosa vittoria ai conservatori del “Partito dell'Ordine” guidato da Luigi Napoleone Bonaparte. Questo risultato non poteva piacere a Courbet, di convinzioni assolutamente repubblicane. Chi è sepolta qui è quindi la Repubblica, la “Marianne”, quella figura simbolica della Rivoluzione Francese, che era diventata vittima dei reazionari e del presidente principe Luigi Napoleone e, con la sua sepoltura, tutte le sfumature del repubblicanesimo partecipavano alla cerimonia. Qualche anno dopo, quest’interpretazione simbolica militante della “sepoltura di Marianne” sarebbe stata considerata un’opera sovversiva per il Secondo Impero.
In estrema sintesi “Un funerale ad Ornans” potrebbe rappresentare quindi la morte di Dio, la morte dell'idealismo romantico in pittura da cui anche Delacroix aveva già cominciato ad emanciparsi, la morte della Repubblica: sono queste le interpretazioni con cui si tenta di spiegare oggi questo capolavoro, la cui scandalosa modernità sconvolse l'Ottocento dodici anni prima dell'audace “Colazione sull'erba” di Manet.
Fig. 13
In ogni caso, il fatto che il dibattito persista ancora oggi su questo dipinto attesta che il grande genio innovativo e provocatorio di Courbet influenzò profondamente la vita artistica del suo tempo e in generale l'arte dell'Ottocento e del Novecento.
Un funerale a Ornans” si rivela rivoluzionario anche nei colori: la biacca, che conferisce una tonalità ambrato-bruciata, scuriva il dipinto e attenuava i toni freddi, le mani e i volti realizzati a pennello sono sottolineati con il bistro che evidenzia le linee di contorno. Le aree indeterminate del primo piano, la terra, e dello sfondo, il cielo e le falesie, furono probabilmente realizzate con un coltello. Il nero predominante non forma tuttavia una massa uniforme, anzi ha sfumature fumose o bluastre a cui si contrappongono le note violente del bianco per esempio delle lenzuola dei portatori, della cotta del portacroce, della camicia del becchino, dei berretti e dei fazzoletti delle donne e il cane bianco macchiato di nero in primo piano. Il raso bluastro del telo funebre che non è nero o viola secondo tradizione, è di una tonalità speciale. Courbet utilizzò questo tessuto di raso bianco per "compensare" il grande squilibrio nella tela tra la minoranza dei bianchi e la dominanza dei neri. Ma oltre al bianco e nero, tocchi di colore acceso punteggiano la tela: il rosso vermiglio dei chierichetti, il giallo ramato del vaso del crocifisso, il verde oliva della giacca su cui è inginocchiato il becchino, le calze azzurre, i calzoni verdi, la redingote grigia e il panciotto marrone del rivoluzionario formano un fraseggio colorato che attraversa tutta la tela e sembra contrastare con il triste evento funebre.
Quest’opera fu accolta malissimo dalla critica che si indignò nel vedere un'opera così grande trattare un "aneddoto" popolare e dare a esso tanta importanza. Questo formato panoramico era allora riservato a grandi scene storiche, mitologiche o religiose. Questa messa in discussione delle regole della “gerarchia dei generi” sconvolse i critici. Per la maggior parte di loro, la pittura di Courbet era assimilata all'arte "socialista". Le reazioni furono violente: "È possibile dipingere persone così orribili?" e i critici descrissero i personaggi come "vili caricature che ispirano disgusto e provocano risate". Du Pays denunciò l’arte di Courbet scrivendo "L'amore per i brutti nei loro abiti migliori e tutte le banalità del nostro costume sgradevole e ridicolo, presi sul serio”.
A queste critiche, Courbet rispose: "Non ho mai avuto altri maestri di pittura che la natura e la tradizione, il pubblico e il lavoro." E affermò inoltre: "Così ritengo che la pittura sia un'arte essenzialmente concreta e che non possa consistere [in altro] che nella rappresentazione di cose reali ed esistenti [...] di tutti gli oggetti visibili. Un oggetto astratto, invisibile, inesistente non appartiene al regno della pittura”.
E questa era la definizione del nuovo movimento di cui nel 1847 era diventato il leader: il “Realismo”, che il suo amico Champfleury provvide a diffondere.
Courbet voleva spazzare via l'ipocrisia e l'accademismo dei pittori da salotto borghesizzati e mostrare la cruda realtà della provincia, il mondo della campagna e i suoi poveri abitanti e ricordare a Parigi che esistevano anche loro.
Dopo tante polemiche l'estate del 1851 fu piena di viaggi e di riposo per Courbet. Trascorse del tempo a Berry con il cantante-attore Pierre Dupont e con l'avvocato e politico Clément Laurier (1832– 1878), poi partì per Bruxelles e da lì giunse a Monaco, partecipando ogni volta a una mostra.
A novembre ritornò a Ornans, mentre a Parigi riprendevano le agitazioni politiche e Courbet per un certo periodo fu addirittura accusato di essere un pericoloso “agitatore socialista, un rosso”.
A dicembre del 1851 iniziò a dipingere “Le signorine del villaggio”, raffigurante le sue tre sorelle che fanno l'elemosina a una pastorella di mucche in una valle di Ornans. Courbet, scrivendo a Champfleury a proposito di questo dipinto spiegava all’amico di voler sviare i suoi detrattori, mettendoli su un terreno nuovo, rappresentando un soggetto gentile e dimostrando loro che tutto quello che avevano detto fino a quel momento era inutile. Presentò “Le signorine del villaggio” con altri due dipinti precedenti a questo al Salon che si aprì il 28 aprile del 1852.
Fig. 14
Le signorine del villaggio” è un dipinto a olio su tela di 194 x 261 cm, poco più di un anno dopo il “Dopocena” e il “Funerale di Ornans”. Senza adottare il formato sovradimensionato dei dipinti storici, Courbet sceglie comunque un formato imponente, facendo ancora arrabbiare la giuria del Salon. Ma dopo la medaglia ottenuta per il suo “Dopocena” nel 1849, il pittore poteva liberamente esporre dipinti dagli aspetti e dai soggetti provocatori per una giuria che gli era generalmente ostile.
A prima vista questo dipinto non presenta segni evidenti di uno scandalo programmato, ma a uno sguardo più attento alcune provocazioni ne fanno un dipinto difficilmente recuperabile dalle istituzioni artistiche dell'epoca.
Poco dopo, però, scattò in lui ancora qualcosa di nuovo: decise di iniziare a creare grandi composizioni di nudi attaccando deliberatamente uno degli ultimi bastioni dell'accademismo dell'epoca, scatenando così le critiche, e per questo i funzionari delle “belle arti” in qualche modo lo avrebbero punito.
Nel dicembre del 1852 Luigi Napoleone Bonaparte fu proclamato imperatore con il nome di Napoleone III e istituì un regime autoritario. Courbet vide questo colpo di stato come un tradimento ormai chiaro perché aveva sempre sostenuto i repubblicani che godevano però della reputazione di “pericolosi quarantotteschi”.
Dal punto di vista artistico, negli anni Cinquanta e Sessanta Courbet incominciò a percorrere tre strade che sembrano diverse, ma che in parte camminano parallele in parte divergono.
Da un lato continuò con il realismo oggettivo con paesaggi, animali e scene di vita quotidiana.
Da un altro c’era una pittura con forte valenza politica in cui calcava la mano sulla povertà, sulle differenze sociali, sulle colpe della borghesia francese, quella borghesia che nelle sue opere appare decadente, quasi inutile e in opere di questo tipo non fa che ricordare ai suoi potenziali clienti quanto disgusto essi suscitino ed era questo il miglior modo per non essere venduto, ma era anche il modo di fare rumore, tanto rumore. L’opera che riassume in sé questa posizione polemica è un dipinto apparentemente innocuo, “Le signorine sulla riva della Senna d’estate”.
Poi c’è una terza strada che sembra contraddittoria rispetto al resto della sua produzione: si tratta di opere che riprendono i temi della pittura accademica studi di nudo e figure mitologiche, la più classica iconografia accademica in cui però inserisce un elemento di disturbo. Sembrava che Courbet volesse dire: “volete vedere la donna procace nuda? E io ve la mostro”. Ma Courbet non offrì loro un nudo tipico di “William-Adolphe Bouguereau” come per esempio “Il ninfeo”.
Fig. 15
Creò piuttosto “Le Bagnanti”, delle contadinotte con le natiche all’aria perché alla fine per lui era proprio quello, che i borghesi volevano vedere.
Quando presentò il dipinto al “Salon” del 1853, suscitò subito scandalo e ulteriori polemiche a causa del carattere decisamente provocatorio dell’opera, avendo Courbet deciso di prendere le distanze dalla produzione ufficiale con le sue “incursioni” in campo avverso.
Tra queste incursioni ci sono “Le bagnanti”.
Fig. 16 
L’opera fu unanimemente attaccata dalla critica per la natura trascurata della scena, per la natura massiccia del nudo in contrasto con la bellezza “perfetta” dei canoni ufficiali.
Nel dipinto si vedono due donne, una delle quali è nuda con una stoffa che la copre appena e non rappresenta più una figura mitologica idealizzata. I critici dell'epoca si accanirono su questo dipinto in modo particolarmente violento e Courbet riuscì in questo modo ad ottenere un successo scandaloso.
Le bagnanti” fu acquistato dal collezionista Alfred Bruyas (1821-1876), un agente di cambio di Montpellier e socio della banca Tissié-Sarrus, che collezionava quadri. Quest’acquisto permise a Courbet di diventare, almeno per il momento finanziariamente indipendente.
Bruyas è stato un personaggio importante in un momento cruciale nello sviluppo della carriera di Courbet.
Poco più giovane del pittore, Bruyas era uno dei membri più attivi della “Società degli Amici delle Arti”. Grande appassionato d'arte, Bruyas visitò l'Italia nel 1846 e nel 1848 e a Roma frequentò “Villa Medici” dove fu accolto dal suo amico e concittadino “Alexandre Cabanel”, vincitore del “Prix de Rome” nel 1845 al quale commissionò opere e dipinti. Al suo ritorno a Montpellier, Bruyas si entusiasmò di un altro pittore suo concittadino, Auguste Glaize che dipinse per lui tele che raffiguravano la sua vita intima e familiare.
Sentendosi stretto nella vita di provincia e di fronte a quella incomprensione della sua famiglia, Bruyas lasciò Montpellier nel 1849 per Parigi dove soggiornò più volte fino al 1853 e dove si lasciò coinvolgere appassionatamente nella vita artistica della capitale, dividendo il suo tempo tra musei, Salon, mercanti d’arte, botteghe e studi di artisti. A Parigi diede libero sfogo alla sua smania di acquistare quadri di artisti viventi: Diaz de la Peňa, Hervier, Guignet, Millet, Verdier, Rousseau e altri ancora e soprattutto, si impossessò in rapida successione di numerosi capolavori di Delacroix.
Sempre alla ricerca di nuovi talenti, Bruyas si rivolse al pittore “Octave Tassaert” (1800 – 1874) di origini olandesi, le cui scene di genere evocavano la vita miserabile degli oppressi a Parigi e includevano una serie di scene di suicidio. Ma il soggiorno di Bruyas a Parigi coincise anche con il clamoroso debutto di Gustave Courbet. Il loro incontro avvenne nel maggio 1853 in occasione della visita di Bruyas al “Salon” di quell’anno ed era rimasto affascinato dai tre dipinti di Courbet esposti: fu uno dei suoi rari acquirenti francesi di quel periodo. Acquistò “Le Bagnanti”, che stavano suscitando un grande scandalo per il loro naturalismo aggressivo, e acquistò anche un secondo dipinto, anch'esso criticato, “La filatrice addormentata”. Questa vendita fruttò a Courbet più di 3.000 franchi d'oro.
Bruyas mise alla prova questo nuovo talento che aveva conosciuto, commissionandogli anche un ritratto oggi noto come suggellando così un vero e proprio patto di amicizia tra i due uomini.
Fig. 17
Quando Bruyas ritornò al Sud verso la fine dell'estate del 1853, invitò l'artista a unirsi a lui e Courbet lo raggiunse a Montpellier in Linguadoca nel maggio 1854 e vi rimase fino a settembre.
Al di là delle vendite, Courbet trovò in Bruyas un vero mecenate desideroso di modernità, con cui scambiare punti di vista critici e, apparentemente, lo stesso ideale. In Linguadoca colse l'occasione di catturare la dura bellezza dei paesaggi del sud e durante il suo lungo soggiorno, lavorò esclusivamente per Bruyas e creò diversi capolavori: “La Rencontre”, noto come “Bonjour Monsieur Courbet” una vera icona della modernità, e “Le Bord de mer à Palavas”, che celebra liricamente la sua scoperta del Mediterraneo.
Fig.18

Fig 19 
Quanto Bruyas sia stato importante per la carriera artistica di Courbet si comprende bene nell’”Atelier del Pittore” in cui il suo amico e mecenate occupa una posizione predominante al centro destra della tela e afferma così il suo ruolo essenziale nel processo di sviluppo dell'opera del giovane maestro.
Dopo questa necessaria digressione su Bruyas, osserviamo ora l’opera del grande scandalo.
La scena si svolge in campagna sulle rive di un torrente calmo durante l'estate, fa caldo e queste due donne vogliono rinfrescarsi. Il cielo si intravede a malapena e le donne si trovano fra una fitta vegetazione: la prima, la figura centrale, è corpulenta, emerge dall'acqua ritratta di spalle e sembra salutare la seconda, seduta: quest'ultima si sta vestendo – un piede è nudo e sporco – o, forse si sta accingendo a spogliarsi.
Il primo piano del dipinto – l'acqua, la riva, le grandi rocce, le erbe mescolate ai ciottoli – mostra una zona gialla e sabbiosa che sfuma nell'ombra. Appaiono quindi i dettagli: le vesti della donna in piedi sono appesi ai rami di un albero sulla sinistra, un orecchino d'oro le pende dall'orecchio e i suoi capelli neri sono raccolti in una crocchia.
Il volto della donna seduta sembra esprimere una sorta di imbarazzo, le sue guance sono rosee e, mentre si aggrappa a un ramo, accenna a un gesto.
Non era la prima volta che Courbet raffigurava un nudo: ci sono state “La Baccante” probabilmente del 1847 e “La bionda addormentata” del 1849, nota solo in fotografia in bianco e nero, appartenente a una collezione privata.
Fig.20
Tuttavia, quest’opera al Salon del 1853 causò scandalo.
Che cosa aveva sconvolto tanto in questa scena di nudo?
Il dipinto era stato molto ben collocato in una delle sale nel senso che stava proprio all'altezza degli occhi del pubblico fu unanimemente attaccato dalla critica, per la natura goffa della scena, per il carattere corpulento del nudo in opposizione ai nudi che si praticavano all'epoca: se guardiamo infatti un nudo contemporaneo, eseguito ad esempio da Ingres, la resa non è affatto la stessa. Confrontando “Le bagnanti” con le donne nude dipinte nella tradizione neoclassica e romantica, le enormi differenze saltano subito all’occhio.
Fig. 21

Fig.22
Courbet ancora una volta infrange i codici della rappresentazione, in questo caso oltre al dogma della “gerarchia dei generi”, si scontra con quello del “buon gusto”: si allontana dai nudi idealizzati di Ingres o di David ed entra nella concezione del nudo moderno.
In che senso?
Courbet aveva scelto di mostrare gente semplice, quelle donne di campagna che conosceva bene, quelle della sua Franca Contea e quest’aspetto del “territorio” sconvolse l'opinione pubblica, quella delle città anche se, non era la prima volta che gli artisti raffiguravano la vita quotidiana rurale. Ciò che era ritenuto scandaloso nel caso di quest’opera di Courbet era l'irruzione del “nudo” che l'opinione pubblica definì “volgare” in un contesto, quello del “Salon”, che santificava l'arte e con essa la bellezza. Ciò che era scandaloso era ancora una volta il formato sproporzionato solitamente riservato alla religione, alle divinità del mito e ai grandi ritratti di principi. E poi si trattava di un “Salon” realizzato in un'epoca profondamente cattolica e conservatrice, formalisticamente molto bigotta.
Il problema non era tanto il nudo in sé, ma come Courbet aveva trattato il nudo, il suo punto di vista.
Théophile Gautier che ebbe sempre un atteggiamento altalenante verso Courbet su “La Presse” del 21 luglio, a proposito delle “Bagnanti” scrisse: "Immaginate una specie di Venere che emerge dall'acqua, e che volge allo spettatore una ‘groppa’ (si noti il termine groppa e non schiena) mostruosa imbottita di fossette, sul fondo della quale mancano solo le rifiniture della pasta di mandorla". E questo con una chiara allusione a un corpo femminile pieno di cellulite. Gautier evoca la figura mitologica di Venere, personificazione della Bellezza in senso classico, che qui contrappone al selvaggio e a tutto ciò che egli crede che non sia civiltà. Gautier aggiunge inoltre che la nudità velata finisce per rivelare e quindi per infastidire più di quanto non voglia nascondere.
Lo sguardo del critico esprime bene ciò che divideva l'opinione, altrove Gautier parla di decadenza e di bruttezza. L’espressione “volti mostruosi”, diventata ormai un “leitmotiv” tra le numerose critiche rivolte al pittore, portò Gautier a definire Courbet “il Watteau del brutto”.
Con questo dipinto di provocazione, presto seguito da altri capolavori, Courbet incominciava a prendere l'iniziativa di un movimento che, aprendo le porte della pittura alla modernità, si sarebbe chiamato “realismo” e che Charles Baudelaire avrebbe invece accolto con pieno favore. Il dipinto dal 1868 fa parte delle collezioni del “Museo Fabre” di Montpellier.
Courbet cercava anche di guadagnarsi da vivere con la sua arte e di essere riconosciuto, anche fra le autorità del nuovo potere politico. Per sollecitare ordini pubblici, fece visita all'influente duca “Charles de Morny”, fratellastro di Napoleone III, che aveva appena acquistato da lui “Le signorine del villaggio”, ma da lui ricevette solo vaghe promesse. Si rivolse allora ad “Auguste Romieu”, direttore delle “Belle Arti”, il quale dichiarò "che il governo non poteva sostenere un uomo come [lui]" e che quando "avrebbe fatto altri [tipi di] quadri, avrebbe visto quello che poteva fare". Courbet rafforzò allora la sua posizione di contrasto al sistema e promise “che tutti avrebbero ingoiato il realismo”, a rischio di ritrovarsi totalmente isolato.
L'industrializzazione e la borghesizzazione delle periferie delle città avevano generato una nuova articolazione della borghesia che rifiutava il mondo rurale o che lo accattava solo se idealizzato in una sorta di visione idillico-panteistica.
In una lettera indirizzata a George Sand quasi provocatoriamente, e pubblicata sul settimanale “L'Artiste” il 2 settembre 1855, il critico Jules Champfleury citava il filosofo Pierre-Joseph Proudhon che, in “La filosofia del progresso” del 1853, scriveva: "L'immagine del vizio come quella della virtù appartiene all'ambito della pittura come a quello della poesia: secondo la lezione che l'artista vuole dare, qualsiasi figura, bella o brutta che sia, può assolvere allo scopo dell'arte. [...] Che il popolo, riconoscendosi nella sua miseria, impari ad arrossire per la sua codardia e a detestare i suoi tiranni, che l'aristocrazia, esposta nella sua grassa e oscena nudità, riceva su ogni suo muscolo la flagellazione del suo parassitismo, della sua insolenza e della sua corruzione. [...] E che ogni generazione, depositando così sulla tela e sul marmo il segreto del suo genio, giunga ai posteri senza altra colpa o scusa che le opere dei suoi artisti".
Courbet e Proudhon provenivano dallo stesso angolo della Francia, si conoscevano, si stimavano. Ma il testo di Champfleury rivela un equivoco dal quale Courbet si sarebbe poi districato: non voleva passare la vita a dipingere la gente di campagna o a offendere i borghesi.
Nel frattempo lo studio di “Rue Hautefeuille” continuava a essere per Courbet un luogo di ritrovo di amici, i suoi irriducibili sostenitori, ai quali il pittore si aggrappava.
Parigi brillava con una luminosità appariscente nella seconda metà dell’Ottocento, i ristoranti alla moda i cabaret e i teatri offrivano lo spettacolo di una società sontuosa e frivola, la Rivoluzione industriale produceva ricchezza e le fortune economiche si facevano e si disfacevano in borsa, mentre si spendeva generosamente e l’arte diventava straordinariamente alla moda.
Nel 1855 Napoleone III aveva voluto con molta determinazione la “Esposizione Universale” a Parigi, che si sarebbe tenuta al “Palais de l'Industrie” appositamente costruito per l’occasione. Era la seconda Espo, dopo quella che si era tenuta a Londra nel 1851: era la grande occasione per celebrare davanti al mondo la “grandeur” della Francia e della “Ville Lumière” e in quella circostanza la grande rassegna internazionale avrebbe compreso anche l’annuale “Salon” delle Belle Arti.
Courbet, tornando un giorno da un incontro fallito con l’alto funzionario francese del Secondo Impero, il nuovo direttore delle Belle Arti, Émilien de Nieuwerkerke, nel pranzo durante il quale il pittore era stato invitato per realizzare una grande opera per la gloria del paese e del regime per l'”Esposizione universale”, ma che si riservava il diritto di ammettere l’opera da parte di una giuria. Courbet gli disse di essere l'unico giudice della sua pittura. Nieuwerkerke, intimorito da tanta arroganza, capì che il pittore non avrebbe partecipato ai festeggiamenti previsti. In questo periodo completò “L'uomo ferito”, un autoritratto di un uomo che geme e muore, e di cui parlò a Bruyas, confidandogli che sperava di vivere della sua arte per tutta la vita senza mai allontanarsi di una virgola dai suoi principi, senza mai mentire alla sua coscienza.
Fig. 23
Concentrato, lavorando instancabilmente su una decina di dipinti tra Ornans e Parigi da novembre del 1854, preparava segretamente, con l'aiuto di Bruyas e di altri “complici” come Francis Wey, Baudelaire, Champfleury, un vero e proprio “colpo di stato” nella pittura concentrandosi su “L’atelier del pittore” che doveva essere il suo dipinto-manifesto.
Nell'aprile 1855, la commissione rifiutò però a Courbet la presentazione di alcuni dei suoi dipinti per quel “Salon” speciale contestuale all’”Esposizione Universale” che si doveva inaugurare il 15 maggio.
Di fronte all’esclusione delle sue tele Courbet, che non era certo tipo arrendevole (sarebbe stato un “barricadero” durante la ‘Comune’ nel 1871 e sarebbe finito in carcere in nome delle sue idee socialiste, era quindi inimmaginabile che si desse per vinto) urlando al complotto e incoraggiato dai suoi amici e sostenitori decise allora di organizzare una propria mostra personale a margine del “Salon” e fece costruire a sue spese, lui che poteva permetterselo, un padiglione. Chiese aiuto ad Alfred Bruyas che gli diede sostegno grazie alle sue “entrance” con il Pubblico Ministero di Parigi, il banchiere e uomo politico “Achille Fould”, che gli rilasciò in breve il permesso di costruzione. In poche settimane in avenue Montaigne, a pochi metri dal “Palazzo dell’Industria”, fu eretto il “Padiglione del Realismo” in mattoni e legno destinato ad ospitare quaranta opere del pittore che si allontanavano dalla tradizione, dai soggetti mitologici e storici e dall'arte sacra, in favore di soggetti popolari e intitolò la sua mostra “Le Réalisme, par Gustave Courbet”.
Nonostante qualche ritardo, l'inaugurazione avvenne il 28 giugno e il padiglione fu chiuso nel tardo autunno.
Courbet fece stampare i manifesti e un piccolo catalogo.
Durante la serata di apertura il nome di Gustave Courbet era sulla bocca di tutti quelli che contavano a Parigi, nel bene e nel male. Anche se molte delle sue opere erano state esposte, il dipinto che aveva appositamente creato per il “Salon”, ‘L'Atelier del pittore” era stato respinto dalla giuria.
Per l'”Esposizione Universale”, Bruyas aveva prestato “La Rencontre” che aveva stuzzicato la verve dei caricaturisti diventandone un bersaglio fino all’esasperazione della sua famiglia.
Dopo gli eventi del 1855, Bruyas avrebbe adottato chiaramente una posizione di ritiro, dovuta in gran parte al peggioramento del suo stato di salute. Pensò sempre più di imitare i suoi concittadini Fabre e Valedau, offrendo la sua prestigiosa collezione di pittura al museo della sua città.
La mostra di Courbet richiamò e attrasse stampa e pubblico e lanciò finalmente la sua carriera come ‘leader’ del movimento realista.
Questa mostra, nel cui titolo utilizzava il termine "realismo" per indicare la cifra della propria pittura in netto dissenso con il sistema accademico, rappresentò un manifesto artistico e scatenò una vivace polemica sui giornali.
Le sue opere suscitarono aspre critiche e infuocate polemiche nel mondo artistico parigino ed altri accalorati attacchi per la sfida alle convenzioni artistiche, per la critica alla rappresentazione idealizzata della realtà, fu accusato di trivialità dell'insieme, della “bruttezza” dei personaggi rappresentati e perfino per la sua “spudoratezza”. Per giunta – eresia delle eresie! – il sanguigno Courbet si era voluto servire di formati grandi, considerati appannaggio esclusivo della pittura storica, il genere considerato più alto e nobile.
Il “Padiglione del Realismo” offrì a Courbet anche l’opportunità di esprimere pubblicamente ciò che intendeva per “realismo” e di porre fine ad alcuni malintesi: “Il titolo di realista mi è stato imposto come il titolo di romantici fu imposto agli uomini dal 1830. I titoli in nessun momento davano una giusta idea delle cose; se così non fosse le opere sarebbero superflue […] Ho studiato, fuori da ogni spirito di sistema e senza pregiudizi, l'arte degli antichi e l'arte dei moderni. Non volevo imitarne alcuni più di quanto non volessi copiarne altri; né il mio pensiero mira a giungere al vano traguardo dell'arte per l'arte […] Conoscere per potere, tale era il mio pensiero. Riuscire a tradurre i costumi, le idee, gli aspetti del mio tempo, secondo il mio apprezzamento, per essere non solo un pittore, ma anche un uomo, in una parola, fare arte vivente, questo è il mio obiettivo".
Questo quasi-manifesto fu in parte opera di Champfleury e vi si trovano anche principi di Baudelaire. Entusiasta, Courbet ebbe perfino l'idea di chiedere a un fotografo di prendere i suoi quadri per creare immagini che avrebbe venduto ai visitatori.
Quanto al giornalista e politico Charles Perrier (1813 – 1878), scrisse con sarcasmo su “L'Artiste” che "tutti hanno visto, intonacato sui muri di Parigi in compagnia degli acrobati e di tutti i ciarlatani scritto in caratteri giganteschi, il manifesto del signor Courbet, apostolo del realismo, invitando il pubblico a depositare la somma di 1 franco all'esposizione di quaranta dipinti della sua opera”.
È difficile misurare il reale successo che ebbe la mostra di Courbet, ma Eugène Delacroix che scrisse nel suo "Diario: “Vado a vedere la mostra di Courbet [...]. Sono rimasto lì da solo per quasi un'ora e ho scoperto un capolavoro nel suo dipinto rifiutato. Non potevo staccarmi da questa visione. Abbiamo rifiutato qui una delle opere più singolari di questo tempo”.
L'opera di cui parla Delacroix è “L'atelier del pittore”, un formato enorme, che Courbet non riuscì nemmeno a completare perché aveva poco tempo.
L’atelier” è l’opera che più di tutte rappresenta l’incontro tra le varie anime di Courbet in cui si fondono il realismo, l’accademismo distorto, la critica sociale ma anche il narcisismo straripante dell’artista. Ma questo sarà un altro racconto.
                                                   Massimo Capuozzo.

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