venerdì 4 dicembre 2009

Le reazioni del romanticismo: la Scapigliatura ed il Verismo di Massimo Capuozzo

Le reazioni al Romanticismo: la Scapigliatura ed il Verismo
Presentazione
da La scapigliatura milanese di Cletto Arrighi
Quando una parola nuova o sconosciuta risponde perfettamente ad un’idea, ad una condizione, ad un caso qualunque della vita sociale, che non si potrebbe esprimere altrimenti che con una perifrasi, la fortuna di questa parola dovrebbe essere certa.
In Francia succede infatti così. Ogni mese, si può dire, fa capolino un neologismo, e quantunque l’Accademia, gli faccia il viso dell’arme, esso viene accettato a braccia aperte dal buon senso popolare, ed entra di balzo nella lingua viva appena sia riconosciuto necessario o di buona lega.
Demi-monde? per dirne uno. Trovatemi, di grazia, demi-monde sul vocabolario.
Ma qui da noi gli è un altro pajo di maniche. Da noi, senza ripetere le solite fastidiose canzoni, ognun sa quanto sia pericoloso e difficile l’osare, e tanto più per uno scrittoruccio di primo pelo, come sono io.
Avvenne che, un bel giorno, dovendo pur trovare un titolo - oh! lettori, il titolo d’un libro! Dio vi tenga ben lontani dal cercare un titolo... finchè durano queste condizioni!! - mi trovai nella necessità, o di coniare un neologismo o di andar a pescare nel codice della lingua qualche parola vecchia che rendesse pressapoco il concetto del mio qualsiasi romanzo.
Prima dunque di osare, consultai sua maestà il Vocabolario, se mai nella sua infinita sapienza avesse saputo additarmi un mezzo di salvezza. Cerca e ricerca, finalmente trovai una parola acconcia al caso mio; perchè, s’ha un bel dire, ma la nostra lingua, per chi la vuol frugare un po’ a fondo, non manca proprio di nulla, e sa dar a un bisogno parole vecchie anche per idee nuove, nello stesso modo che i Francesi sanno fabbricar parole nuove per idee che hanno tanto di barba.
Però, in quella maniera che potrei star garante che scapigliatura non è una parola nuova, sarei in un bell’imbarazzo se volessi persuadervi che la è molto usata e conosciuta.
Infatti fra le tante persone a cui domandai che cosa intendessero per scapigliatura, parte inarcò le ciglia, come a dire: non l’ho mai sentita a menzionare, e parte mi rispose così a tentoni, chi: l’atto dello scapigliarsi, chi: una chioma arruffata, e chi, finalmente - e costui fu un letterato - una vita da debauchè; definizioni tutte o false o inesatte e, in ogni modo, lontane le mille miglia da quel significato in cui m’ero proposto di adoperarla io.
Quell’io che credevo di aver rubato il lardo alla gatta, da quelle risposte n’ebbi una delusione che mi afflisse moltissimo - ben inteso, per quanto può affliggere una delusione filologica - e avrei messo il cuore in pace, e lasciato nel dimenticatojo la povera incompresa, se una certa rincalzante smania di spuntar le cose un po’ difficili - confesso un uno debole - non mi ci avesse incaponito sopra.
Ed ecco lettori, se il permettete, ch’io la prendo per mano e ve la presento.
In tutte le grandi e ricche città del mondo incivilito esiste una certa quantità di individui d’ambo i sessi v’è chi direbbe: una certa razza di gente - fra i venti e i trentacinque anni non più; pieni d’ingegno quasi sempre; più avanzati del loro secolo; indipendenti come l’aquila delle Alpi; pronti al bene quanto al male; inquieti, travagliati, turbolenti - i quali - e per certe contraddizioni terribili fra la loro condizione e il loro stato, vale a dire fra ciò che hanno in testa, e ciò che hanno in tasca, e per una loro particolare maniera eccentrica e disordinata di vivere, e per... mille e mille altre cause e mille altri effetti il cui studio formerà appunto lo scopo e la morale del mio romanzo - meritano di essere classificati in una nuova e particolare suddivisione della grande famiglia civile, come coloro che vi formano una casta sui generis distinta da tutte quante le altre.
Questa casta o classe - che sarà meglio detto - vero pandemonio del secolo, personificazione della storditaggine e della follia, serbatojo del disordine, dello spirito d’indipendenza e di opposizione agli ordini stabiliti, questa classe, ripeto, che a Milano ha più che altrove una ragione e una scusa di esistere, io, con una bella e pretta parola italiana, l’ho battezzata appunto: la Scapigliatura Milanese.
Se tale parola non andasse a genio de’ miei lettori me ne dorrebbe moltissimo, perchè io la trovo assolutamente bella. E posso ripeterlo con franchezza perché appunto non l’ho inventata io. Ed è per me tanto più bella, in quanto che essa mi rende, quasi a capello, il concetto di questa parte della popolazione Milanese tanto diversa dall’altra per i suoi misteri, le sue miserie, i suoi dolori, le sue speranze, i suoi traviamenti, sconosciuti ai giovani morigerati e dabbene, ed agli adulti gravi e posati, che della vita hanno preso la strada maestra, comoda, ombreggiata, senza emozioni, come senza pericoli.
La Scapigliatura Milanese è composta da individui di ogni ceto, di ogni condizione, di ogni grado possibile della scala sociale. Plebe, medio ceto e aristocrazia; foro, letteratura e commercio; celibato e matrimonio, ciascuno vi porta il suo tributo, ciascuno vi conta qualche membro d’ambo i sessi; ed essa li accoglie tutti in un amplesso amoroso, e li lega in una specie di mistica consorteria, forse per quella forza simpatica che nell’ordine dell’universo attrae fra di loro le sostanze consimili.
La speranza nell’avvenire è la sua religione; la povertà il suo carattere essenziale. Non la povertà del mendico che stende per Dio la mano all’elemosina, ma la povertà di un Duca a cui tocca di licenziare una dozzina di servitori, vendere molte coppie di cavalli, e ridurre a quattro le portate della sua tavola, perchè, fatti i conti coll’intendente, ha trovato di non aver più che cinquantamila lire di rendita.
Essa è figlia soprattutto di un’epoca non lontana e fatale; figlia generosa, giacché, chi ha traveduto il cielo, è un imbecille od un santo se si rassegna a vivere di nuovo contento e felice sulla terra.
Nè voglio dire con ciò che prima di quell’epoca non ci fossero scapigliati a Milano....... Dio me ne guardi!
Strano paese sarebbe stato questo in cui la gioventù avesse avuto nelle vene tanta pacatezza, e tanto senno in cervello per soffrire con calma e senza riluttanza l’ozio forzoso e la vita monotona e indecorosa che vi si conduceva.....
Come il Mefistofele del Nipote essa ha dunque due aspetti, la Scapigliatura: il buono ed il cattivo.
Da un lato un profilo più Italiano che Meneghino pieno di brio, di speranza e di amore, e rappresenta il lato simpatico e forte di questa numerosa classe, inconscia delle proprie forze, anzi della propria esistenza, propagatrice delle brillanti utopie, focolare delle idee generose, anima di tutti gli elementi geniali, artistici e politici del proprio paese, che ogni causa o grande o folle fa balzar d’entusiasmo, che conosce della gioja la sfumatura arguta del sorriso, e lo scroscio franco e prolungato, ed ha le lagrime del fanciullo sul ciglio e le memorie feconde nel cuore.
Dall’altro invece un volto smunto, solcato, cadaverico, su cui stanno le impronte delle notti passate nello stravizzo e nel giuoco, su cui si adombra il segreto del dolore infinito, e i sogni tentatori d’una felicità inarrivabile, e le lagrime di sangue, e le tremende sfiducie e la finale disperazione.
Presa in complesso dunque, la Scapigliatura è tutt’altro che disonesta.
Se non che, come accade di tutti i partiti estremi, che accolgono nel loro seno i rifiuti di tutti gli altri, anch’essa conta un buon numero di persone tutt’altro che oneste, le quali finiscono collo screditare la classe intera. Ma cotesti signori sono come nel ferro le scorie, nel demolito il marame; e c’è per essi un nome abbastanza conosciuto senza ricorrere alla scapigliatura; e anch’io sarei tentato di chiamarli cavalieri d’industria e birbanti, se l’educazione di moda non mi vietasse di chiamar chicchessia col suo vero nome. Ma, appunto come tali, essi non hanno una fisionomia particolare e si perdono in quella putrida vegetazione comune a tutti i paesi del mondo come i ladri, e le spie... gente nata per lo più dal fango, e vivente nel fango del proprio mestiere, senza perdono e senza poesia possibile.
Però la Scapigliatura li fugge per la prima e li rinnegherebbe ad alta voce, se ella avesse la coscienza della propria esistenza.
Giacchè la vera... la mia Scapigliatura potrà pentirsi qualche volta de’ fatti proprii, arrossirne giammai.

L’amante di Gramigna
da Vita dei campi (1880)
Questo è un documento nato come momento di scambio d’opinione con un amico letterato, in cui Verga definisce i suoi orientamenti e le sue scelte e ci fornisce indirettamente la strada per arrivare alla definizione dei suoi princìpi teorici.
È la Prefazione a ‘L’amante di Gramigna’, nota anche come ‘Lettera a Salvatore Farina’ perché è in forma epistolare. È un documento di estrema importanza, che contiene tutti gli elementi fonda­mentali della poetica verista. La lettera ha anche un intento argomentativo, perché Farina si oppone alle nuove ten­denze della letteratura verista.

A Salvatore Farina.
Caro Farina, eccoti non un racconto, ma l’abbozzo di un racconto. Esso almeno avrà il merito di essere brevissimo, e di esser storico - un documento umano, come dicono oggi - interessante forse per te, e per tutti coloro che studiano nel gran libro del cuore. Io te lo ripeterò così come l’ho raccolto pei viottoli dei campi, press’a poco colle medesime parole semplici e pittoresche della narrazione popolare, e tu veramente preferirai di trovarti faccia a faccia col fatto nudo e schietto, senza stare a cercarlo fra le linee del libro, attraverso la lente dello scrittore. Il semplice fatto umano farà pensare sempre; avrà sempre l’efficacia dell’essere stato, delle lagrime vere, delle febbri e delle sensazioni che sono passate per la carne. Il misterioso processo per cui le passioni si annodano, si intrecciano, maturano, si svolgono nel loro cammino sotterraneo, nei loro andirivieni che spesso sembrano contradditori, costituirà per lungo tempo ancora la possente attrattiva di quel fenomeno psicologico che forma l’argomento di un racconto, e che l’analisi moderna si studia di seguire con scrupolo scientifico. Di questo che ti narro oggi, ti dirò soltanto il punto di partenza e quello d’arrivo; e per te basterà, - e un giorno forse basterà per tutti.
Noi rifacciamo il processo artistico al quale dobbiamo tanti monumenti gloriosi, con metodo diverso, più minuzioso e più intimo. Sacrifichiamo volentieri l’effetto della catastrofe, allo sviluppo logico, necessario delle passioni e dei fatti verso la catastrofe resa meno impreveduta, meno drammatica forse, ma non meno fatale. Siamo più modesti, se non più umili; ma la dimostrazione di cotesto legame oscuro tra cause ed effetti non sarà certo meno utile all’arte dell’avvenire. Si arriverà mai a tal perfezionamento nello studio delle passioni, che diventerà inutile il proseguire in cotesto studio dell’uomo interiore? La scienza del cuore umano, che sarà il frutto della nuova arte, svilupperà talmente e così generalmente tutte le virtù dell’immaginazione, che nell’avvenire i soli romanzi che si scriveranno saranno i fatti diversi?
Quando nel romanzo l’affinità e la coesione di ogni sua parte sarà così completa, che il processo della creazione rimarrà un mistero, come lo svolgersi delle passioni umane, e l’armonia delle sue forme sarà così perfetta, la sincerità della sua realtà così evidente, il suo modo e la sua ragione di essere così necessarie, che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, allora avrà l’impronta dell’avvenimento reale, l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sòrta spontanea, come un fatto naturale, senza serbare alcun punto di contatto col suo autore, alcuna macchia del peccato d’origine.

Introduzione
da I Malavoglia

Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola, vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio.
Il movente dell’attività umana che produce la fiumana del progresso è preso qui alle sue sorgenti, nelle proporzioni più modeste e materiali. Il meccanismo delle passioni che la determinano in quelle basse sfere è meno complicato, e potrà quindi osservarsi con maggior precisione. Basta lasciare al quadro le sue tinte schiette e tranquille, e il suo disegno semplice. Man mano che cotesta ricerca del meglio di cui l’uomo è travagliato cresce e si dilata, tende anche ad elevarsi e segue il suo moto ascendente nelle classi sociali. Nei Malavoglia non è ancora che la lotta pei bisogni materiali. Soddisfatti questi, la ricerca diviene avidità di ricchezze, e si incarnerà in un tipo borghese, Mastro don Gesualdo, incorniciato nel quadro ancora ristretto di una piccola città di provincia, ma del quale i colori cominceranno ad essere più vivaci, e il disegno a farsi più ampio e variato. Poi diventerà vanità aristocratica nella Duchessa de Leyra; e ambizione nell’Onorevole Scipioni, per arrivare all’Uomo di lusso, il quale riunisce tutte coteste bramosìe, tutte coteste vanità, tutte coteste ambizioni, per comprenderle e soffrirne, se le sente nel sangue, e ne è consunto. A misura che la sfera dell’azione umana si allarga, il congegno della passione va complicandosi; i tipi si disegnano certamente meno originali, ma più curiosi, per la sottile influenza che esercita sui caratteri l’educazione, ed anche tutto quello che ci può essere di artificiale nella civiltà. Persino il linguaggio tende ad individualizzarsi, ad arricchirsi di tutte le mezze tinte dei mezzi sentimenti, di tutti gli artifici della parola onde dar rilievo all’idea, in un’epoca che impone come regola di buon gusto un eguale formalismo per mascherare un’uniformità di sentimenti e d’idee. Perché la produzione artistica di cotesti quadri sia esatta, bisogna seguire scrupolosamente le norme di questa analisi; esser sinceri per dimostrare la verità, giacché la forma è così inerente al soggetto, quanto ogni parte del soggetto stesso è necessaria alla spiegazione dell’argomento generale.
Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. Nella luce gloriosa che l’accompagna dileguandosi le irrequietudini, le avidità, l’egoismo, tutte le passioni, tutti i vizi che si trasformano in virtù, tutte le debolezze che aiutano l’immane lavoro, tutte le contraddizioni, dal cui attrito sviluppasi la luce della verità. Il risultato umanitario copre quanto c’è di meschino negli interessi particolari che lo producono; li giustifica quasi come mezzi necessari a stimolare l’attività dell’individuo cooperante inconscio a beneficio di tutti. Ogni movente di cotesto lavorìo universale, dalla ricerca del benessere materiale alle più elevate ambizioni, è legittimato dal solo fatto della sua opportunità a raggiungere lo scopo del movimento incessante; e quando si conosce dove vada quest’immensa corrente dell’attività umana, non si domanda al certo come ci va. Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate, e piegano il capo sotto il piede brutale dei sovravvegnenti, i vincitori d’oggi, affrettati anch’essi, avidi anch’essi d’arrivare, e che saranno sorpassati domani.
I Malavoglia, Mastro-don Gesualdo, la Duchessa de Leyra, l’Onorevole Scipioni, l’Uomo di lusso sono altrettanti vinti che la corrente ha deposti sulla riva, dopo averli travolti e annegati, ciascuno colle stimate del suo peccato, che avrebbero dovuto essere lo sfolgorare della sua virtù. Ciascuno, dal più umile al più elevato, ha avuta la sua parte nella lotta per l’esistenza, pel benessere, per l’ambizione - dall’umile pescatore al nuovo arricchito - alla intrusa nelle alte classi - all’uomo dall’ingegno e dalle volontà robuste, il quale si sente la forza di dominare gli altri uomini, di prendersi da sé quella parte di considerazione pubblica che il pregiudizio sociale gli nega per la sua nascita illegale; di fare la legge, lui nato fuori della legge - all’artista che crede di seguire il suo ideale seguendo un’altra forma dell’ambizione. Chi osserva questo spettacolo non ha il diritto di giudicarlo; è già molto se riesce a trarsi un istante fuori del campo della lotta per studiarla senza passione, e rendere la scena nettamente, coi colori adatti, tale da dare la rappresentazione della realtà com’è stata, o come avrebbe dovuto essere.
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Società e cultura del Rinascimento italiano di Massimo Capuozzo

Società e cultura del Rinascimento – Sul piano storico l’inizio dell’epoca moderna è fatto risalire non solo alla scoperta dell’America nel 1492 e alla caduta di Costantinopoli in mano turca nel 1453, ma anche alla discesa in Italia di Carlo VIII, re di Francia, nel 1494, per far valere i suoi diritti di successione sul regno di Napoli, dove gli Aragonesi erano subentrati ai francesi Angioini con la forza nel 1442.
Il preludio dell’epoca moderna è il Rinascimento italiano, una civiltà culturale ed artistica che, nata a Firenze e da lì diffondendosi in tutta Europa dalla metà del XIV secolo a tutto il XVI secolo, voleva riappropriarsi della cultura classica antica, che ad alcuni sembrava alterata dalla religiosità medioevale, proponendosi di recuperarne l'originalità ed il senso della naturalità dell'uomo. L'epicentro della civiltà umanisistico-rinascimentale fu Firenze, da dove arriverà alla corte napoletana aragonese di Alfonso I, a quella papale di Pio II Piccolomini, il papa umanista, e di Leone X dei Medici, e a quella milanese di Ludovico il Moro.
Politicamente l'Umanesimo in Italia si accompagna alla trasformazione dei Comuni in Signorie: l'umanesimo infatti fu l'espressione della borghesia, che ha consolidato il suo patrimonio ed aspira al potere politico.

La struttura sociale – Il basso medioevo aveva visto un radicale cambiamento culturale, la nascita in Italia dei liberi comuni e, attraverso le crociate, uno sviluppo dei commerci che avevano ridotto il potere economico e quindi politico dei nobili.
L'acquisizione dell'autocoscienza politico-sociale della borghesia mercantile aveva portato anche ad una revisione filosofica della propria posizione nell'Universo, quindi ad una messa a fuoco sulle potenzialità umane nei confronti dei due poteri universali: il periodo storico, in cui il movimento si diffuse in tutta Italia fu delicatissimo, in quanto i tentativi di unire lo Stato sotto un Re furono inutili, cosicché le cinque città più influenti, Napoli, Roma, Firenze, Milano e Venezia, usufruirono della possibilità di spartirsi il territorio italico in cinque stati relativamente piccoli rispetto alle potenze europee.
La nascita in Italia del movimento fu dovuta alla situazione favorevole per i commerci: l'Italia era, infatti, uno dei paesi europei più importanti e fiorenti e le materie prime erano abbondanti, nell'artigianato come nell'agricoltura, grazie a raccolti ingenti ed all'emancipazione dei lavoratori nelle industrie di trasformazioni di materie prime in prodotto finito, specialmente l'industria tessile (lana e seta).
L'economia mercantile ebbe notevole peso per lo sviluppo dell'Umanesimo in Italia invece che nel resto dell'Europa, in quanto, dopo le crociate, tornarono i commerci con l'oriente, che dovevano avvenivano attraverso il Mediterraneo, ed in questa situazione la penisola italiana rappresentava un punto di passaggio obbligato. Lo sviluppo economico basato sui commerci inoltre ebbe l'effetto di mettere in contatto gli intellettuali italiani con gli intellettuali del Mediterraneo orientale, che portarono alla diffusione di idee che non erano più legate al modo di vedere dominante all'epoca in Europa.
Altro fattore fu il Papato: sebbene il pensiero dell'Umanesimo vada contro la visione teologica del potere nel Medio Evo, in quanto l'uomo si separa da Dio, concentrandosi su di sé, tuttavia la Chiesa contribuì allo sviluppo di questa filosofia mentre contemporaneamente la osteggiava in altri modi. In pratica il Papa aiutò lo sviluppo dei Comuni in quanto furono i baluardi militari di difesa contro l'Impero tedesco, ma al tempo stesso invece i Comuni, diventati ormai Signorie, rappresentavano un pericolo per il potere temporale della Chiesa: il rischio che una delle signorie italiane potesse riunire la penisola sotto un unico stato unitario, come era già successo nel resto dell'Europa era, infatti evidente alla politica del papato. Per questo motivo il papato fu sempre un oppositore dello sviluppo di uno stato italiano forte, cercando una politica di equilibrio fra le esigenze delle varie signorie.
Nonostante questi numerosi e potenti nemici le Signorie fiorirono per numerosi anni fino a raggiungere una grande espansione: insieme a queste quindi si prolungò nel tempo anche la cultura umanista, anche grazie alle università, sempre più numerose a causa della frammentazione in piccole città-stato che necessitavano di una classe dirigente che avesse un'istruzione efficiente e non legata alle istituzioni ecclesiastiche. Grazie a questa scuola efficiente, poiché dedicata a strette cerchie di persone, per lo più borghesi, ampliò le frontiere del sapere umano, condizione che portò l'uomo ad aiutarsi rispetto a Dio.
L'Umanesimo nasce per primo in Italia perché qui, prima o più che altrove, esistevano le condizioni favorevoli alla nascita dei rapporti economici mercantilistici.
Nei secoli XIV e XV l'Italia era uno dei paesi più progrediti del mondo (in senso borghese). Già nel XIII secolo le città italiane avevano difeso vittoriosamente, nella lotta contro l'impero tedesco, la propria indipendenza.
Verso la metà del XIII sec. in molte città-stato repubblicane era avvenuta l'emancipazione dei contadini dalla servitù della gleba, anche se a ciò non corrispondeva quasi mai un'equa distribuzione della terra.
La libertà conquistata dai contadini era più che altro giuridica, il che non poteva impedire loro di trasformarsi in operai salariati nelle fabbriche di panno (opifici) o in braccianti, sfruttati da artigiani arricchiti, i quali consegnavano loro la materia prima o semilavorata ricevendo in cambio il prodotto finito; dai maestri delle corporazioni, che spesso li costringevano a restare garzoni e apprendisti per sempre; da mercanti-imprenditori, che li utilizzavano nelle loro manifatture solo per produrre merci d'esportazione, offrendo loro salari molto bassi, orari molto pesanti, mansioni parcellizzate, pochissimi diritti e stretta sorveglianza sul luogo di lavoro; da altri ricchi contadini neo-proprietari o persino dagli stessi feudatari di prima che ora li sfruttano con altri metodi (ad es. la rendita in denaro).
La più famosa rivolta dei contadini italiani fu quella guidata da Fra Dolcino, agli inizi del '300. Si può anzi dire che la repressione di tutti i movimenti ribellistici di quell'epoca, contribuì anch'essa all'istituzione di Signorie e Principati, cioè di governi centralizzati e autoritari.
L'avvento delle Signorie, iniziato nel Trecento, aveva determinato l'estendersi territoriale dei confini dei Comuni più grandi, ma anche la fine dell'autonomia di molti altri Comuni e soprattutto la sostituzione del principio politico della repubblica con quello della monarchia. Tuttavia le Signorie sono state anche una risposta (seppure autoritaria) alle continue lotte intercomunali e intracomunali.
La formazione delle Signorie contribuisce allo sviluppo dell'Umanesimo, perché:
organismi territoriali molto estesi, dotati di un complesso apparato burocratico-amministrativo e diplomatico, di corti culturali e politiche, portavano ad aumentare la richiesta di personale qualificato; personale che le Università tradizionali, ancorate ai programmi e alla didattica dell'enciclopedismo scolastico-aristotelico, non potevano fornire; di qui la nascita di nuove scuole (private) e accademie presso le corti;
oltre a ciò va considerato il fatto che il processo di formazione dei Comuni aveva sì favorito l'autonomia economica e sociale dei ceti borghesi e commerciali, ma non era ancora riuscito a darsi una giustificazione teorica, di tipo etico-politico, filosofico-morale. E' appunto dal mondo antico che l'Italia umanistica delle Signorie trarrà gli spunti e gli esempi più significativi di virtù civili, di gloria militare, di eroismo personale, di autocontrollo delle passioni, di raffinato gusto estetico, che le serviranno per legittimare la propria diversità dal Medioevo (dall'"età di mezzo" - come veniva chiamato -, in quanto separava l'Umanesimo dall'epoca classica). Probabilmente i risultati più significativi e duraturi l'Italia li ottenne non sul terreno economico e politico, ma su quello culturale, con la nascita dell'Umanesimo prima e delle arti rinascimentali dopo.

La politica d'equilibrio – Nelle lunghe guerre del periodo dell'espansione (1313-1454) i maggiori Stati italiani, dopo avere assorbito gli Stati più piccoli, avevano tentato di sopraffarsi l'un l'altro, ma non erano riusciti che a logorare le loro forze in guerre inconcludenti.
Convinti ormai di aver raggiunto la massima estensione territoriale, si erano rassegnati a concludere la pace di Lodi nel 1454, e avevano iniziata una nuova politica, fondata su un sapiente gioco di alleanze e di influenze, che, controbilanciando le forze rivali, portasse ad uno stabile equilibrio. Questo gioco riuscì bene, tanto che, per quarant'anni, dalla pace di Lodi (1454) alla calata di Carlo VIII, re di Francia, l'Italia godette di una pace quasi continua. Perno di tale equilibrio furono Cosimo dei Medici prima e Lorenzo il Magnifico poi, che furono i moderatori supremi della pace.

Il passaggio dalla Signoria al Principato - Caduto il regime comunale, il signore si sente più libero e comincia ad agire senza preoccuparsi del volere della cittadinanza, della quale si considerava dapprima il rappresentante. Il signore cerca una base legale al proprio potere e ricorre perciò a colui che, in teoria, é la fonte unica dell'autorità, cioè l'imperatore. Da esso ottiene con omaggi e con doni il riconoscimento ufficiale della propria Signoria e il titolo di conte o di duca, titolo che è la prova tangibile di una investitura imperiale. La Signoria non aveva allora più nulla che la legasse al vecchio Comune, e diviene un Principato, con diritto ereditario.
Così sorgono in Italia i Ducati di Milano, di Ferrara, di Mantova e, più tardi, di Firenze: essi sono veri Stati secondo il significato moderno della parola; come Stati hanno un completo ordinamento amministrativo e finanziario, una loro politica di espansione, un loro armamento.

Le guerre di successione in Italia – Gli Angioini avevano ottenuto il permesso dalla chiesa romana di occupare il regno di Napoli e di Sicilia (1266 - 1285), che i Normanni, attraverso una politica matrimoniale, avevano consegnato agli Svevi di Germania.
Il più grande sovrano degli Svevi era stato Federico II: alla sua morte la chiesa impedì ai successori di continuare a governare il Mezzogiorno, chiamando appunto in aiuto gli Angioini, i quali però furono cacciati dai siciliani nella guerra del Vespro, per cui poterono insediarsi solo nel regno di Napoli.
I siciliani erano stati aiutati dagli Aragonesi, che nel 1442 avevano occupato anche il regno di Napoli, cacciando definitivamente gli Angioini, sicché in pratica gli Aragonesi erano diventati padroni di tutta l’Italia meridionale, inclusa la Sicilia e la Sardegna. Ecco perché mezzo secolo dopo il re francese Carlo VIII venne a rivendicare i suoi diritti alla successione sul regno di Napoli.
Carlo VIII fu chiamato dal duca Ludovico Sforza, detto il Moro, che aveva usurpato il potere della città di Milano al nipote Gian Galeazzo Sforza, il quale, essendo sposato con Isabella d'Aragona, nipote di Ferrante I, re di Napoli, pensava, con l'aiuto di quest'ultimo, di poter cacciare l'usurpatore Lodovico.
Tuttavia non solo Milano aveva interesse a che Carlo VIII scendesse in Italia. Venezia sperava, che con la distruzione del regno di Napoli finisse la concorrenza dei porti pugliesi nel mar Ionio e Mediterraneo; a Firenze le correnti politiche guidate dal frate domenicano Savonarola, speravano di abbattere la signoria dei Medici e di ripristinare la repubblica; nel Napoletano non pochi baroni e sudditi erano contrari al regime aragonese.
Scendendo in Italia, Carlo VIII garantì a Ludovico il Moro il ducato di Milano, a Firenze aiutò a cacciare i Medici, col papa Alessandro VI Borgia, di origine spagnola, non poté trovare un accordo: infatti non ottenne l’investitura del regno napoletano; a Napoli aiutò a cacciare gli Aragonesi.
Appena Carlo VIII si insediò nell'Italia meridionale, si formò una coalizione anti-francese promossa dal papato, composta da Milano, Venezia e Roma, che con l'aiuto della Spagna e dell'Impero asburgico di Massimiliano I, riuscì a cacciare i francesi dall'Italia.
E così gli Aragonesi poterono riprendersi il trono di Napoli nel 1495, anche se il successore di Carlo VIII, Luigi XII, s'impadronì con la forza del ducato di Milano, vantando dei diritti alla successione e costringendo gli Aragonesi a non intervenire nel 1499, grazie all’appoggio di Venezia e del papato.
In quel difficile periodo avvennero molte altre guerre in Italia:
· Cesare Borgia, figlio del papa Alessandro VI, combatté le piccole signorie anti-papali della Romagna e delle Marche, impadronendosi dei loro territori e cercando di estenderli verso Bologna e la Toscana, ma il tentativo fallì.
· Venezia approfittò della situazione occupando alcuni territori della Romagna.
· Il papato rispose dichiarando guerra a Venezia con l'aiuto di Francia, Spagna, Ducati di Ferrara e Mantova. Venezia fu costretta a ritirarsi.
Poi il papato organizzò una ‘Lega Santa’ (1511-13) contro i francesi di Milano, vedendo che questi avevano intenzione di estendere i loro territori verso le Romagne. La Lega riuscì ad assegnare Milano agli Sforza e Firenze (che nella guerra aveva parteggiato per i francesi) ai Medici. Ma la Francia non si rassegnò alla perdita della Lombardia e col re Francesco I la riconquistò (1515-21).
La guerra tra Francia e Spagna riprese quando il nuovo re di Spagna, Carlo I d'Asburgo (1500-1558), in virtù di una precedente politica matrimoniale, ricevette in eredità, oltre ai possessi spagnoli in Italia: regno di Napoli, Sardegna e Sicilia, nonché alcuni possessi spagnoli in America, anche tutti i territori della corona imperiale (Austria, Boemia, Ungheria, Paesi Bassi). Egli assunse il titolo di Imperatore e il nome di Carlo V.
La Francia si oppose a questa eredità e rivendicò la propria candidatura al trono dell'Impero (in linea di diritto, infatti, la corona era elettiva, anche se per consuetudine veniva trasmessa secondo i legami di parentela). Non avendo ottenuto nulla e temendo l'accerchiamento, la Francia scatena contro la Spagna quattro guerre, sostanzialmente tutte favorevoli a Carlo V, che si conclusero con la pace di Cateau-Cambrésis nel 1559, che per quasi un secolo segnerà le linee fondamentali dell'assetto europeo.
Con questa pace, che sostanzialmente confermò l’egemonia spagnola in Italia e in buona parte d’Europa:
1. la Francia ottiene la rottura dell'accerchiamento, in quanto, Carlo V, alla sua morte, divide il proprio impero nei due rami di Austria e di Spagna;
2. la Francia però deve rinunciare a ogni pretesa su Milano e Napoli (che restano in mano spagnola) e deve restituire il Piemonte ai duchi di Savoia, anche se ottiene il riconoscimento della sua espansione verso il Reno;
3. il grande disegno di Carlo V, di restaurare l'unità politico-universale e religiosa cattolica dell'Europa contro i protestanti e i musulmani fallisce completamente (francesi e turchi si erano alleati, i turchi arriveranno quasi fino a Vienna, inoltre con la pace di Augusta del 1555 si concede ai principi e re di decidere se la religione dei loro Stati sarà cattolica o protestante, mentre i sudditi dovranno rassegnarsi a seguire la religione dei rispettivi sovrani: cuius regio eius religio). Nella Germania del nord, nei Paesi Scandinavi, in Inghilterra, nei Paesi Bassi si affermano le confessioni protestanti.
4. Inghilterra, Olanda e Francia si affermano come moderne monarchie centralizzate, legate, sul piano economico, allo sviluppo della borghesia.

Il Rinascimento e la sua periodizzazione - L’espansione economica e politica degli Stati ita­liani aveva creato una condizione di benessere e, presso le classi dominanti, una larghezza di mezzi finanziari e un tenore di vita prima sconosciuti. Queste condizioni, esaltate da quarant’anni senza guerre intercorrenti tra la pace di Lodi nel 1454 e la calata di Carlo VIII nel 1494, portarono al Rinascimento. Esso è un movimento vasto e complesso che si estende dagli ultimi decenni del Trecento alla metà circa del Cinquecento, e che propone una nuova concezione della vita e nuovi orientamen­ti nel pensiero e nell’arte.
La prima fase del Rinascimento, compresa fra la fine del Trecento e la fine del Quat­trocento, è designata col nome di Umanesimo. In esso ha le radici il Rinascimento vero e proprio, la cui originale e splendida fioritura si manifestò nella prima metà del Cinquecento: a quest’epoca appartengono poeti come Ariosto, pensatori come Machiavelli, artisti come Leonardo, Michelangelo, Raffaello, Tiziano.

L’Umanesimo e la rinascita del mondo classico - II nome di Umanesimo deriva dal fatto che in questo periodo l’interesse appassionato degli uomini di cultura si volge alle opere dei classici, chiamate humanae litterae perché giudicate apportataci di humanitas, cioè di civiltà e di raffinatezza spirituale.
A differenza di quanto avveniva nel Medioevo, quando gli autori classici erano accetta­ti e usufruiti solo nella misura in cui non contraddicevano all’imperante concezione cri­stiana dell’esistenza, gli umanisti vogliono invece recuperare in­tegro il messaggio dei classici, senza diaframmi interpretativi e senza stravolgimenti. In verità quest’esigenza era già presente in Petrarca che in questo senso può essere considerato un preumanista; con la differenza però che Petrarca era un caso pressoché isolato nel suo tempo, mentre nell’Umanesimo questo nuovo modo di accostarsi alla classicità si diffonde ad ampio raggio e da luogo a un vasto movimento culturale.
Gli umanisti non limitano il loro interesse allo studio dei testi classici già conosciuti e in circolazione, ma s’impegnano nel­la ricerca di quei testi che durante le invasioni barbariche e le devastazioni dell’Alto Medioevo erano andati perduti. Intraprendono a questo scopo viaggi per l’Europa, fa­cendo ricerche soprattutto nelle biblioteche dei conventi, dove si presumeva che molti li­bri avessero potuto salvarsi dalle distruzioni e dai saccheggi. Erano ricerche faticose, dispendiose, ma a volte anche fruttuose.
Non sempre i testi classici in circolazione, o dei quali si scopriva l’esistenza, erano per­venuti indenni dalle tumultuose vicende dell’Alto Medioevo o dall’impegno moralizzatore di chi pure voleva che fossero usufruiti. In tal caso gli umanisti si dedicano ad un’operazione che potremmo definire di restauro interno: confrontando pazientemen­te codici diversi di una stessa opera eliminano le modifiche in essi variamente introdot­te, recuperano passi soppressi, così da riportare i testi il più possibile alla loro lezione ori­ginaria.
L’interesse degli umanisti si volge in un primo tempo ai classici latini; ma successiva­mente anche a quelli greci, specie dopo che, caduta Costantinopoli in mano ai Turchi nel 1453, molti dotti greci emigrano in Italia diffondendovi l’insegnamento della loro lin­gua e la conoscenza dei loro autori.

La rinascita del latino - Conseguenza dell’interesse per il mondo classico è la revivi­scenza nell’età umanistica del latino, cui si accompagna spesso il disprezzo per la lin­gua volgare. Il latino non solo è la lingua della cultura, ma diventa anche, nella prima fase dell’Umanesimo, quella della poesia, dove pure sembrava, dopo Dante e il Petrarca, che il volgare dovesse ormai dominare incontrastato.
Solo dopo la metà del Quattrocento, quando sarà evidente che la lingua di una ci­viltà passata, per quanto splendida, non può esprimere adeguatamente la sensibilità e il pensiero di un’età nuova, quali che siano le sue analogie col passato, il volgare tornerà ad affermarsi. In volgare scriveranno esclusivamente o prevalentemente i poeti della se­conda metà del Quattrocento, dal Magnifico al Poliziano, al Pulci, al Boiardo; e il volgare sarà poi la lingua indiscussa del Cinquecento.
La visione antropocentrica del Rinascimento - Alla concezione teocentrica del mondo che aveva dominato nel Medioevo si oppone nel Rinascimento una concezione antropo­centrica, quella tramandata dal mondo classico, che colloca l’uomo (‘anthropos’ in gre­co) al centro dell’Universo.
E non è l’uomo che, vivendo sulla terra, è tuttavia proteso verso la vita eterna, ma l’uomo che pone in primo piano la vita sul nostro pianeta, la considera valida di per sé, per i suoi autonomi valori, e cerca di affermarsi in essa con l’intelligenza, la capacità, il coraggio. Che è poi un modo di vita che già era presente nel Decameron del Boccaccio.

L’autonomo affermarsi delle scienze umane - La concezione antropocentrica del mon­do si riflette nel pensiero e nella cultura rinascimentali. Viene meno la subordinazione medioevale delle varie branche del sapere alla teologia:
· La filosofia afferma il suo dirit­to alla libera speculazione razionale, senza limiti e condizionamenti teologici.
· Le scien­ze naturali cessano di riconoscere come scientificamente indiscutibili le affermazioni contenute nei Libri sacri, e cercano la verità sui fenomeni terreni nello studio diretto e sperimentale della natura.
· La storia non è più considerata il campo dell’azione provvi­denziale di Dio, ma dell’azione e dell’impegno dell’uomo.
· La politica, anziché strumen­to per condurre l’umanità a una perfezione terrena che preluda a quella celeste, diventa una scienza con leggi proprie che si pone come fine la costruzione e il mantenimento di uno stato.
· L’arte non si propone più il fine pedagogico di educare e migliorare moral­mente gli uomini, ma il fine edonistico (dal gr. hedoné = piacere) di creare bellezza che per gli uomini sia fonte di gioia.
Tutto il Rinascimento è percorso dalla convinzione della potenza dell’uomo sulla terra. Scrive un umanista, Marsilio Ficino: «L’uomo si serve degli elementi, misu­ra la terra e il ciclo, scruta la profondità del Tartaro. Il cielo non gli sembra troppo al­to, né il centro della Terra troppo profondo... Nessun confine gli basta. Dovunque si sforza di comandare, di essere lodato, di essere eterno come Dio».

La terra casa dell’uomo - Poiché il momento centrale della vita umana è quello terreno, acquista nuovo valore la terra, che è la dimora dell’uomo. Ad essa il Rinasci­mento non guarda più come a un’emanazione di Dio, pervasa da anelito verso Dio co­me nel Cantico delle Creature di San Francesco, né come al luogo delle vane passioni umane, «l’aiuola che ci fa tanto feroci», che Dante vede dal Paradiso; ma come a luogo che appartiene all’uomo e alla sua iniziativa, che va indagato nella sua interna struttura e nelle leggi che vi agiscono, che va scoperto nei suoi spazi geografici ancora ignoti, che infi­ne va goduto nella sua bellezza.
Alla conoscenza della struttura e delle leggi naturali del nostro pianeta è diretto il nuovo metodo di ricerca instaurato da Leonardo da Vinci, il metodo sperimentale. Le terre ignote sono raggiunte dall’infittirsi di quelle imprese di navigatori e di scopri­tori già iniziate nei secoli precedenti. La natura con la sua variegata bellezza campeggia nelle tele dei pittori e, sotto forma di splendidi giardini, diventa elemento architettonica delle dimore signorili. E fa infine la sua irruzione nella poesia, dal Magnifico e da Poliziano al Furioso di Ariosto, sotto forma di roseti in fiore, di alberi, acque, prati attraverso i quali si esprimono gli stati d’animo dei personaggi o che diventano parti delle loro vicende.

Le corti, centri culturali del Rinascimento - Centri culturali del Rinascimento sono le corti dei vari Signori che traggono lustro dalla presenza di poeti, studiosi, artisti. I quali a loro volta vi trovano un ambiente ricco e confortevole, biblioteche ben fornite, possibilità di lavoro, occasioni di incontro con altri uomini d’arte e di cultura, sicurezza economica. Elemen­ti che concorrono non poco alla fioritura intellettuale e artistica di quest’età. Ma la vita di corte ha una contropartita negativa: limita la libertà dell’artista e del poeta condizionandola alla protezione e qualche volta alle esigenze del Signore, e inoltre favori­sce la nascita di un’arte d’elite, che ha nella corte la sua origine e la sua esclusiva destina­zione.

Storia della lirica: il Rinascimento - Nel Quattrocento la produzione lirica è copiosissima, ma non nascono grandi poeti e opere di spicco, almeno fino agli ultimi decenni del secolo. La poesia tende a divenire una forma di letteratura slegata da finalità intellettual­mente importanti; si affievolisce cioè la funzio­ne che aveva avuto nei secoli precedenti, quando la poesia aveva trattato anche temi filosofici, morali, politici, ecc.
Anche la ricerca di forme nuove subisce una battuta d’arre­sto e i poeti preferiscono ripercorrere le orme della tradizio­ne: la lirica del Duecento, Dante e Petrarca, ma anche la poe­sia popolare e quella giullaresca, sono tutti modelli ripresi e imitati nel Quattrocento, senza che si manifesti una tenden­za dominante.
Un aspetto comune alla lirica del Quattrocento è l’affermar­si delle forme poetiche più legate al consumo; per esempio, diventa più vasta la poesia per musica e, più in generale, si sviluppa la poesia d’occasione, quella scritta in concomitan­za e per celebrare i piccoli e i grandi avvenimenti della vita di corte.
Tra i molti poeti che appartengono ad aree geografiche di­verse, ricordiamo Agnolo Poliziano, Matteo Maria Boiardo, Iacopo Sannazaro e Lorenzo de’ Medici.
Un discorso a sé merita la lirica latina che si sviluppò soprat­tutto nei centri umanistici di Siena, Firenze e Napoli e che vis­se all’interno di un ristretto gruppo di intellettuali.
Dopo la molteplicità delle esperienze quattrocentesche, nel nuovo secolo la produzione lirica sembra incanalarsi verso l’assunzione del modello petrarchesco; questa tendenza, dapprima incer­ta, trova una consacrazione definitiva nell’o­pera di Pietro Bembo e porta, dopo il 1530, a una vera esplosione della produzione lirica. Bembo propone infatti il linguaggio del Canzoniere di Petrarca come modello assoluto della poesia lirica, ma anche le situazioni, le mille sfumature della contemplazione, del sogno, del pen­siero amoroso, i modi in cui l’amore si manifesta come gioia, nostalgia, ricordo. Il dissidio di fondo della poesia petrarchesca rimane estraneo a questa lettura che sicuramente ap­piattisce l’opera di Petrarca, ma nello stesso tempo la trasfor­ma in un formidabile «serbatoio» cui attingere temi, imma­gini e anche rime, aggettivi e interi versi. Il fenomeno, chiamato petrarchismo, trionfa ben presto in Italia e in Europa e tra­valica i limiti del Cinquecento; esso fornisce un modello e delle regole così precise, funzionanti e applicabili a infinite si­tuazioni tanto che la produzione lirica diventa un fenomeno di massa, nel senso che tutti coloro che in qualche modo han­no a che fare con la letteratura scrivono poesia, magari utilizzandola come scuola di apprendimento della lingua lette­raria o come strumento da usare nei rapporti mondani. Naturalmente ci sono anche poeti che pur nell’alveo del pe­trarchismo espressero una loro originalità; tra questi ricordiamo le voci di Giovanni Della Casa, Luigi Tansillo, Michelangelo Buonarroti, e fra le poetesse Gaspara Stampa e Veronica Franco.
Anche la produzione lirica risente fortemente dei mutamen­ti culturali che percorrono il Cinquecento. Dopo la metà del secolo si afferma una poesia religiosa; inoltre la grande quantità di accademie letterarie promuove la compo­sizione di tante poesie che nascono per celebrare i diversi mo­menti della vita accademica: la lirica d’occasione già diffusa nelle corti, trova quindi un ulteriore sviluppo.
Da ricordare infine che accanto alla lirica d’amore e a quella impostata su toni alti, continua a essere presente nella prima parte del secolo una produzione burlesca che ebbe in France­sco Berni l’autore più interessante.

Storia della novella: il Rinascimento - Nei primi decenni del Cinquecento, la produzio­ne di novelle è scarsa e non riesce ad af­francarsi dall'imitazione del modello boccaccesco. Il genere trova una nuova vivacità nella seconda metà del Cinque­cento grazie ad autori che propongono soluzioni narrative di una certa novità: ricordiamo i nomi del piemontese Matteo Bandello, del ferra­rese Giambattista Giraldi Cinzio, del toscano Anton Fran­cesco Grazzini detto il Lasca.

Il trattato: il Rinascimento - La dimensione e la vitalità della cultura umanistica si rispecchia con evidenza nella produzione di trattati che fu assai vasta e riguardò soprattutto argomenti filosofici, letterari, linguistici e po­litici. Una delle for­me di trattato più diffusa fra gli umanisti è il dialogo: l’auto­re immagina una situazione e un luogo, in genere una casa o un giardino, nel quale fa incontrare un certo numero di per­sonaggi, reali o immaginari, e fa sì che il discorso si indirizzi su un argomento. Ognuno dei personaggi espone una pro­pria tesi, in modo che il discorso procede per verifiche successive, attraverso mediazioni o scontri di opinioni. La con­clusione non è, quindi, l’affermazione certa di una verità; è il lettore che deve ricavare dal confronto delle idee gli elemen­ti per una personale elaborazione dell’argomento. È questa una delle strade che gli umanisti intrapresero rinnovando profondamente la tradizione medievale del trattato e dando ad esso una nuova eleganza e un’impostazione più libera dello sviluppo delle argomentazioni. Fino agli ultimi decenni del Quattrocento la lingua principe del trattato rimane il latino, ma nella seconda metà del seco­lo si afferma anche una trattatistica in volgare impegnata nel­la riflessione teorica sulle varie «arti» e sulle tematiche civili. Figura centrale di questa riconversione del trattato dal latino al volgare fu Leon Battista Alberti il quale indicò i due filo­ni tematici all’interno dei quali la trattatistica in volgare si af­fermò con maggior forza nella seconda metà del Quattrocen­to: la riflessione sulla dimensione familiare e civile dell’indi­viduo e la riflessione teorica sull’arte. Nel Quattrocento i trattati in latino e in volgare diedero voce al dibattito attra­verso il quale si affermò la cultura umanistica. Il genere continua nel Cinquecento ad avere un ruolo di primo piano, trasformandosi in relazione ai mutamenti del­le tendenze culturali: da una parte continua la trattatistica in latino che circola in ambiti specialisti­ci, dall’altra compare una nuova trattatistica, l’espressione più viva e interessante del momento culturale; scritta in ita­liano, riguarda diversi settori e tende a fissare la fisionomia della nuova cultura, a scriverne le «regole». In particolare nei primi decenni del secolo alcuni intellettuali fanno compiere un salto qualitativo di grande importanza al dibattito culturale, fissando con i loro trattati le coordinate dell’intera civiltà ri­nascimentale in Italia e in Europa. Il trattato si afferma così come luogo privilegiato nel quale vengono posti i fonda­menti della letteratura, della politica, della lingua, del com­portamento sociale.
· I libri che fondarono una civiltà - La politica e l’«arte del governare» ebbero una nuova definizione in Italia proprio nel momento storico in cui la penisola veniva contesa da Francia e Spagna e avveniva la trasformazione di alcune signorie in principati, ma incontrando difficoltà nel dare un’organizzazione moderna allo Stato. Niccolo Machiavelli col Principe e Francesco Guicciardini con gli scritti storici e i Ricordi pon­gono le basi della politica come scienza laica.
· I trattati sulla lingua altrettanto netto è il salto di qualità delle Prose della volgare lingua (1525) di Pietro Bembo, il trattato che disegna il volto della lingua letteraria del Cinquecento e dei secoli successivi.
Un’altra opera fondamentale per la civiltà del Cinquecento è il Cortegiano del 1528 di Baldassar Castiglione. La discussio­ne sulla figura e sulle specifiche funzioni e caratteri dell’in­tellettuale di corte costituiva un argomento nuovo, moderno, reso urgente dai rapidi mutamenti del ruolo delle corti dal­l’ultima metà del Quattrocento ai primi anni del Cinquecen­to. Il Cartesiano forniva indicazioni che furono prese come modello in tutte le corti d’Europa e fecero di questo trattato un testo letto, studiato, imitato dall’Inghilterra alla Spagna. Dal libro del Castiglione si sviluppò un’ampia trattatistica sui costumi e sul comportamento del cortigiano che, sotto una veste letteraria a volte frivola, affrontò il tema, molto serio, del rap­porto fra intellettuale e potere.

Niccolo Machiavelli
La vita
- Machiavelli nacque a Firenze nel 1469. Nella sua biografia si possono distinguere tre periodi: il periodo della formazione, che giunge fino al 1498; il periodo dell’attiva militanza politica, dal 1498 al 1512; il periodo della riflessione politica che va dal 1512 alla sua morte.

La formazione di Machiavelli, come quella di tutti i giovani di buona famiglia del suo tempo, fu di tipo umanistico: studiò il latino e lesse i classici. Ma fin da allora il suo interesse non era di natura estetico-letteraria, ma contenutistico; i classici lo interessavano non per il loro pregio artistico, ma nella misu­ra in cui trovava riflessi nelle loro opere i propri sentimenti e le proprie emozioni, e gli offrivano esperienze utili per la vita pratica. Questo spiega la sua predilezione per gli storici.
Nel 1498 entrò nell’amministrazione della Repubblica fiorentina con la carica di Segre­tario della seconda Cancelleria. Negli anni passati al servizio della Repubblica parte­cipò a parecchie ambascerie: fra queste ne ricordiamo due presso Cesare Borgia, due alla Corte papale, quattro presso Luigi XII re di Francia, una presso l’imperatore Massimiliano. Erano contatti che gli davano modo di osservare il comportamento, le astu­zie, le abilità di molti uomini politici, e di acquisire quell’esperienza diretta della poli­tica che gli sarebbe stata preziosa poi nella composizione delle sue opere di teoria poli­tica.
Tornati a Firenze i Medici nel 1512, le cariche tenute da Machiavelli nell’amministra­zione repubblicana gli suscitarono contro i sospetti del nuovo governo: fu allontanato dal suo ufficio, fu indiziato a torto di cospirazione antimedicea, e per questo imprigio­nato e sottoposto a tortura. Rilasciato, si ritirò in un suo piccolo possedimento a San Casciano; e qui, nell’ozio forzato, facendo tesoro delle esperienze acquisite e degli am­maestramenti che gli venivano dalle amate letture degli storici latini, compose le sue maggiori opere di riflessione politica, il Principe e i Discorsi.
Dal 1520, acquistata la fiducia dei Medici, ebbe da loro qualche piccolo inca­rico pubblico. Il che fu sufficiente perché, caduti i Medici nel 1527 e restaurata di nuo­vo in Firenze la repubblica democratica, egli fosse lasciato in disparte dal governo repubblicano. Morì a Firenze nel 1527.

Le opere - Agli anni della militanza politica di Machiavelli appartengono alcune ope­rette su specifici argomenti politici che rappresentano il frutto delle osservazioni da lui fatte durante le ambascerie cui partecipò e i soggiorni presso le varie corti. Fra le più acute e famose ricordiamo la Descrizione del modo tenuto dal Duca Valentino nell’ammazzare Vitellozzo Vitelli, ecc., in cui è già visibile il suo interesse per Cesare Bor­gia che nel Principe sarà poi proposto come modello ai politici italiani, il Ritratto delle cose della Magna e il Ritratto delle cose di Francia, scritte rispettivamente dopo i suoi soggiorni in Germania e in Francia.
Agli anni della relegazione in San Lasciano appartengono, come abbiamo detto, le sue opere maggiori: i Discorsi sulla prima Deca di Tito Livio, iniziati nel 1513, in cui, com­mentando i primi dieci libri delle Storie di Livio, trae da esse riflessioni che reputa ancora attuali e valide per i suoi tempi; e il Principe, scritto di getto nel 1513, interrompendo la stesura dei Discorsi, in cui si propone di mettere al servizio di un principe che abbia la ca­pacità di creare a un vasto e forte stato in Italia, la propria esperienza politica e di illu­strargli le leggi che devono guidare la sua azione.
Sempre degli anni dell’esilio sono i libri Dell’arte della guerra, dove sono trattati pro­blemi di tecnica militare, ed è ribadita la superiorità delle milizie cittadine su quelle mercenarie; e una commedia La mandragola, tagliente e amara satira della corruzione dei costumi contemporanei.
Nel periodo in cui ricominciò a lavorare per i Medici, compose, su commissione del cardinale Giulio dei Medici, le Istorie fiorentine, che espongono la storia di Firenze fino alla morte di Lorenzo il Magnifico nel 1492.

Il pensiero politico1) La politica come scienza autonoma - È opera di Machiavelli la formulazione del principio che la politica è una scienza autonoma che mira a fini propri e obbedisce a proprie leggi. Il fine della politica è la costituzione e il mantenimento dello Stato; le sue leggi quelle che, applicate con capacità ed energia, consentono al politico (e cioè al principe, perché nel principato Machiavelli vede la forma politica adeguata ai suoi tempi) di pervenire a tale meta. In tal modo la politica, coerentemente con lo spirito rinascimentale, non è più con­cepita in funzione religioso-morale, cioè come guida al retto vivere sulla terra in prepa­razione della beatitudine nell’Aldilà; ma si prende atto che, nella concreta realtà, la politica e la morale si muovono in ambiti diversi: la politica nell’ambito dell’utile, la morale nell’ambito del buono e del giusto.
2) La «verità effettuale» - La presa di coscienza della realtà effettiva in cui si trova ad operare (di quella che Machiavelli chiama «verità effettuale»), la capacità di valutar­la con occhi snebbiati, senza illusioni, è condizione necessaria al successo del principe. Solo se si renderà conto lucidamente della situazione storico-politica in cui è immerso, se saprà prendere atto che gli uomini sono generalmente malvagi, infidi, avidi, crudeli, e al massimo grado lo sono gli uomini politici coi quali deve misurarsi; e se saprà poi agire di conseguenza, ed esse­re a suo volta malvagio, infido, avido, crudele, solo in questo caso il principe potrà ot­tenere successo. Al senso concreto e disincantato della verità effettuale, Machiavelli contrappone quella che egli chiama l’immaginazione della cosa, cioè l’illusione che il mondo non sia quello che è ma quello, migliore, che ci piacerebbe che fosse. Illusione nefasta per il principe, perché lo costringe a lottare coi suoi avversari ad armi impari. «Elli è tanto discosto da come si vive a come si doverebbe vivere che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parti professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni».
3) Il principe e la virtù - Solo se saprà adeguarsi intelligentemente ai suoi tempi e agli uomini con i quali deve cimentarsi, il principe sarà virtuoso. La parola virtù va inte­sa ovviamente in una accezione che non ha più niente in comune con quella cristiana. La «virtù» di un principe è, infatti, esclusivamente di natura politica, e significa capa­cità di successo politico. Pur di raggiungere la meta che gli compete, cioè di costituire e mantenere il suo Stato, il principe può commettere tutte quelle azioni che sono conside­rate riprovevoli nei privati: può uccide­re, tradire, non mantenere la parola data, ecc. Su tali presupposti si capisce come Machiavelli possa proporre come modello ai principi Cesare Borgia, personaggio feroce, infido, corrotto, ma che era giunto vicino alla costituzione di uno stato vasto e forte. Il principe cesserà di essere virtuoso solo quando il suo comportamento, magari onesto e santo dal punto di vista morale, gli causerà la perdita dello stato. Viene dunque posta una netta distinzione fra morale pubblica, cioè la morale del politico, e morale privata, cioè la morale dell’uomo quotidiano, che per il Machiavelli rimane quella tradizionale.
4) Le leggi della politica - Per raggiungere il successo il principe deve conoscere le leggi che regolano la politica e sapersene valere. A tali leggi si perviene sperimentalmente, partendo dall’analisi dei fenomeni politici, cioè delle azioni e dei comportamenti tenuti dagli uomini politici nelle più diverse situazioni. Come avviene per le scienze naturali, le leggi che in questo modo si possono formulare saranno tanto più valide e universalmente applicabili quanto maggiore sarà il numero dei «fenome­ni», cioè dei fatti, presi in esame. Perciò il politico dovrà prendere in considerazione non soltanto le situazioni e le azioni politiche contemporanee che egli può conoscere di­rettamente di persona esperienza delle cose presenti, ma anche quelle del passato, di cui verrà a conoscenza mediante lo studio delle storie esperienza delle cose passate.
5) Le milizie - Strumento indispensabile al successo del principe è un esercito efficiente. E tale non può essere un esercito formato da milizie mercena­rie, pronte a vendersi al migliore offerente, e neppure da milizie ausiliarie, cioè fornite da un altro principe e perciò pronte a tradire a suo vantaggio. Il principe deve dunque possedere milizie proprie, cioè formate dai cittadini del suo Stato debitamente adde­strati alle armi.
6) Virtù e fortuna - Alla virtù del principe, cioè alla sua energia, intelligenza, spregiudicatezza, capacità di successo, si contrappone spesso la fortuna. In lei gli uomini del Rinascimento non vedono più, come vedevano i me­dioevali, una forza provvidenziale voluta da Dio per mantenere l’equilibrio del mondo, ma una forza ostile che mira quasi sempre a sconvolgere i piani degli uomini virtuo­si. Dalla fortuna il principe dovrà sapersi difendere prevenendone i trabocchetti, così come gli uomini che vivono presso fiumi impetuosi si difendono dalle piene costruendo dighe che le prevengano.
7) Il principe e il popolo - La concezione politica del Machiavelli è molto aristocra­tica e individualistica. La politica dì uno Stato è per lui tutta nelle mani del principe che, uomo eccezionalmente dotato, lo costruisce e lo regge secondo criteri propri insin­dacabili dai sudditi. I sudditi, la massa cioè del popolo, non hanno voce; sono usati dal principe strumentalmente per la costruzione del suo edificio politico. Questo disprezzo per la massa dei cittadini, chiamati sprezzantemente vulgo, è uno dei limiti maggiori, proprio in sede politica, del pensiero machiavelliano: una massa non educata, ma semplicemente e arbitrariamente sfruttata, si rivelerà alla fine debole e inefficiente anche come strumento politico.

Il pensiero di Machiavelli alla luce della realtà politica del suo tempo - Nel pensiero politico machiavelliano è sempre presente, condizionandolo, una esigenza fondamenta­le: che in Italia si costruisca rapidamente uno Stato il più possibile vasto e forte. Machiavelli, infatti, con lucida diagnosi, si era reso conto che l’Italia, divisa in piccoli Stati perennemente in lotta fra loro, non avrebbe potuto resistere alla forza d’urto delle grandi monarchie che andavano consolidandosi in Europa: Francia, Spagna, Impero, che già avevano cominciato a volgere verso l’Italia le loro mire di conquista. Solo uno Stato italiano forte avrebbe potuto contrastarle e salvare l’indipendenza della penisola. La diagnosi era esatta: il sogno politico di Machiavelli non si attuò, e cominciò per l’Italia, come egli aveva previsto, il lungo periodo delle dominazioni straniere.

Un problema rimasto aperto: il rapporto politica-morale - Se Machiavelli ha avuto il merito di individuare l’autonomia reciproca della politica e della morale, sgombran­do il terreno da falsi presupposti, non si è posto però l’essenziale problema di come queste due distinte attività possano, pur nella distinzione, conciliarsi nella coscienza umana; se cioè sia possibile, e come lo sia, attuare una politica che, pur perseguendo fini suoi propri, non contraddica ai fon­damentali principi etici dell’umanità.
È il problema che il Machiavelli ha lasciato aperto ai posteri, e che nella pratica politi­ca ancora non è stato risolto, ma alla cui soluzione l’umanità deve tendere come a me­ta fondamentale.

Ludovico Ariosto
La vita
- Ludovico Ariosto nacque nel 1474 a Reggio Emilia dove il padre era capita­no, in nome degli Estensi, della rocca della città. A dieci anni si trasferì con la famiglia a Ferrara, sede della Corte Estense, uno dei centri culturali più evoluti e raffinati del Rinascimento; ed ivi, dopo aver per qualche anno atteso di controvoglia agli studi di diritto, si volse con passione a quelli letterari.

La morte del padre, avvenuta nel 1500, e, poiché era il primogenito, la necessità di provvedere a una numerosa famiglia di ben dieci fratelli, lo costrinsero a cercare un impiego e ad abbandonare così la vita meditativa degli studi per quella pratica. In una delle Satire così egli rievoca argutamente questo momento della sua vita:
Mi more il padre, e da Maria il pensiero
dietro a Marta bisogna ch’io rivolga.
Si impiegò così presso il cardinale Ippolito d’Este, e divenne funzionario di corte. Ma il lavoro presso il cardinale lo costringeva ad attività troppo lontane dai suoi gusti, dal suo amore per la poesia. La vita stessa di corte, cui pure ambivano la maggior parte degli uomini di cultura del tempo, la sentiva come una necessità alquanto fastidiosa e l’accettava di malavoglia, anche se con bonaria rassegnazione. Vagheggiava per contra­sto una esistenza modesta e pacifica, libera da impegni gravosi e confacente ai suoi amati studi. È un ideale che argutamente esprime in una delle Satire:
In casa mia mi sa meglio una rapa,
ch’io cuoca, e cotta su ‘n stecco me inforco
e mondo e spargo poi di aceto e sapa [mostarda]

che all’altrui mensa tordo, starna o porco selvaggio.
Lasciò il servizio del cardinale Ippolito nel 1517, quando questi fu nominato vescovo di Budapest. Ariosto si rifiutò di seguirlo in un paese che giudicava inospitale per co­stumi e per clima; e soprattutto perché sarebbe stato costretto ad abbandonare, oltre che la sua città («a me piace abitar la mia contrada»), anche la donna amata, quella Alessandra Benucci che, conosciuta nel 1513 a Firenze, fu poi la compagna di tutta la sua vita.
Lasciato il cardinale Ippolito, entrò, nel 1518, al servizio del duca Alfonso I. Anche questa «servitù» non fu leggera. Per volere del duca dovette, dal 1522 al 1525, assume­re l’incarico di governatore della Garfagnana, un paese violento, infestato dai briganti. E, benché amasse rappresentarsi come inetto alle cose pratiche, tenne questo difficile ufficio con fermezza ed equilibrio.
Tornato a Ferrara si ritirò finalmente a vita privata; si comprò una modesta casetta con un piccolo orto, e lì trascorse gli ultimi suoi anni, fra le occupazioni agresti e i di­letti studi, curando soprattutto l’ultima revisione della sua opera maggiore, L’Orlando furioso. Morì nel 1533.

Le opere - Nella prima giovinezza l’Ariosto scrisse liriche in latino sul modello dei grandi poeti dell’antichità, Tibullo, Catullo, Orazio. Più importanti sono però le succes­sive liriche in volgare, di argomento prevalentemente amoroso e di timbro petrarche­sco.
Fra gli anni 1507 e 1531 compose per il teatro di corte cinque commedie modellate per la struttura sui classici greci e latini, ma nelle quali spesso si riflettono la vita e la so­cietà contemporanee.
Ad Ariosto dobbiamo la prima commedia originale in volgare in cinque atti, La Cassaria[1], rappresentata nel marzo del 1508, e seguita da I Suppositi[2] (1509), Il Negromante[3] (scritto prima del 1520, ma rappresentato nel 1528), e La Lena[4] (1529). Una quinta commedia, I studenti, fu lasciata incompiuta dall'autore, e continuata dal fratello Gabriele (La Scolastica) e dal figlio Virginio (L'Imperfetta).
Fra gli anni 1517 e 1521 furono stese le sette Satire, componimenti in terzine e in for­ma epistolare. Non sono satire nel senso che è oggi dato al termine, ma conversa­zioni argute e riflessive come le Satire oraziane che Ariosto ebbe a modello. In esse l’autore delinea il proprio ritratto che, se non corrisponde sempre a ciò che egli vera­mente fu nella realtà, coglie però i tratti essenziali della sua natura e del suo carattere: la predilezione per la vita studiosa e appartata, l’insofferenza per la mondanità vacua della corte, l’amore per la sua donna e per la sua città e la sofferenza a staccarsi da en­trambe, l’ammirazione per la cultura classica; e poi le speranze e le delusioni che a lui, come a tutti gli uomini, elargiva la vita: il tutto guardato con maturo e bonario equili­brio.
Ma l’opera che occupò, e nella stesura e nelle successive rielaborazioni, buona parte della vita dell’Ariosto, è l’Orlando furioso, poema cavalleresco in ottave iniziato negli anni 1502-03. La prima edizione, in quaranta canti, uscì nel 1516. Ad essa ne seguì una seconda nel 1521, e una terza aumentata di sei canti nel 1532. Notevolissima l’elabora­zione linguistica e formale che intercorre fra la prima edizione e l’ultima.

Il «Furioso» libro per la Corte - II Furioso, nato nella Corte estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della Corte e viene incontro al suo desi­derio di svago e al suo gusto raffinato e maturo.
Questa «udienza» signorile è sempre presente sia al poeta che al lettore, per il quale es­sa acquista concreta evidenza nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgi­mento dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.

La materia cavalleresca - La materia del poema è cavalleresca ed è enunciata da Ariosto nelle ottave iniziali: egli canterà vicende d’armi e di amori che hanno per protagonisti i paladini di Carlo Magno difensori della cristianità e i Saraceni che, gui­dati dal loro re Agramante, sono giunti con la loro offensiva fin sotto la mura di Pari­gi.
È una materia che Ariosto trae dai due grandi cicli medioevali, il carolingio e il bretone, nonché da numerosi cantari composti successivamente sulla scia dei cicli stessi. Tale materia, in tempi ad Ariosto vicini, aveva ispirato
due altri poeti, Pulci, autore del Margante maggiore e Boiardo autore dell’Orlando inna­morato. Era stato proprio Boiardo ad aprire la strada che poi Ariosto avrebbe per­corso trionfalmente, cioè ad operare la fusione dei due cicli medioevali, il carolingio e il bretone, attribuendo ai paladini di Carlo Magno, che nelle antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane debolezze nella difesa della patria e della fede, quelle umane passioni, e soprattutto la passione amorosa, che avevano caratterizzato gli eroi del ciclo bretone. Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando era diventato innamorato, in quello di Ariosto diventerà addirittura furioso, cioè paz­zo per amore.
La materia cavalleresca era dunque già di casa alla Corte estense. Ma mentre Boiar­do aveva recuperato vicende e personaggi con commossa ammirazione e con seria ade­sione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella dei suoi tempi, che era la realtà feroce da cui nasceva il pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bel­la e improbabile; e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita, che è poi la concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta in modo prevalente la molteplice varietà delle vicende del Furioso, nel poema concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori classici.
Ma tutti gli apporti esterni, quale che ne sia l’origine, acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è infuso.

Le vicende - Le complicate e molteplici vicende del Furioso si possono raccogliere in­torno a tre filoni fondamentali che costituiscono l’ossatura del poema:
1) L’amore del paladino Orlando per Angelica, principessa del Catari: amore perennemente deluso perché Angelica, bellissima e irraggiungibile, gli sfugge, e dal quale sarà provocata la pazzia di Orlando.
2) Gli amori del guerriero saracino Ruggero e della guerriera cristia­na Bradamante, che si concluderà, dopo varie vicissitudini in cui hanno gran parte gli incantesimi del mago Atlante, con la conversione di Ruggero al cristianesimo e con le nozze dei due. Ed è questo il filone cortigiano-encomiastico del poema, perché dalle nozze di Ruggero e di Bradamante avrà origine la casa estense; e la narrazione delle lo­ro vicende offre il destro al poeta di elogiare in forma di predizione i maggiorenti della famiglia.
3) La guerra fra Cristiani e Saraceni, che, tema quasi esclusivo delle chanson medioevali del Ciclo carolingio, qui costituisce poco più che lo sfondo a tante variegate vicende private.
Intorno a questi tre temi fondamentali si svolgono innumerevoli vicende collaterali, e agisce una miriade di personaggi: azioni e personaggi mossi da Ariosto con un’abilissima e sicura regia che gli consente di mantenere al poema, pur nella varietà delle sue elemento, un’articolata e salda unità.

La «geografia» e la natura nel «Furioso» - In una delle Satire, ironizzando sui suoi gusti sedentari, il poeta così si rappresenta:
Chi vuole andare a torno, a torno vada,
vegga Inghilterra, Ongheria, Francia e Spagna;
a me piace abitar la mia contrada.
E aggiunge che le terre lontane che non conosce gli basterà percorrerle sulla carta geo­grafica, o, come dice, sulla scorta dell’antico geografo egiziano Tolomeo (II sec. d.C.):
il resto della terra
senza mai pagar l’oste, andrò cercando con Tolomeo,
sia il mondo in pace o in guerra.
Quasi per giocoso contrasto i suoi paladini e le sue dame invece corrono incessante­mente il mondo: Angelica viene dall’Oriente, gira per l’Occidente e poi torna in Orien­te; Orlando, Rinaldo, Ruggero, inseguendo i loro personali programmi, lanciano i ca­valli in terre remotissime, e Ruggero ha addirittura a disposizione un cavallo alato, l’Ippogrifo, per superare più rapidamente le distanze. Alle loro avventure non basta neppure la terra: Astolfo, infatti, venuto in possesso dell’Ippogrifo, affronterà il viag­gio sulla luna per recuperare il senno di Orlando che nel frattempo è impazzito. A questa mobilità dei personaggi si accompagna la varietà degli sfondi naturali nei quali essi si muovono: boschi folti e fioriti o cupi e minacciosi, fiumi e ruscelli, lande desolate e rupi marine, o il mare nella sua violenza quando è sconvolto dalle procelle, o anche l’alone lunare e la fredda struttura dell’astro. Il fascino rinascimentale della natura, di cui abbiamo parlato, ha nel poema ariostesco un esempio tipico e fastoso.

Gli «appetiti» degli uomini - Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari ap­petiti» degli uomini.
Attraverso i personaggi e i loro comportamenti, la natura umana vi è ritratta nella sua molteplice varietà: il bene coesiste accanto al male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà, E il poeta da al bene e al male, al bello e al brutto, uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che di questi contrasti è fatta la vita, o, come avrebbe detto il suo contemporaneo Machiavelli, «la verità effettuale». Funzione del poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla e di ritrarla. Scrive Caretti, riprenden­do un giudizio di Croce, che il segreto della poesia ariostesca, e l’ele­mento che da ad essa unità, va ricercato «nel modo adulto e superiore con cui Ario­sto, quasi "occhio di Dio" che scruta e vede e intende l’intero universo, ha saputo con­templare e rappresentare l’armonia cosmica che in sé rilega, senza dissonanza alcuna, tutti gli aspetti della vita, anche i più contraddittori e contrastanti».
NOTE
[1] La Cassaria è una grandiosa contaminazione di elementi plautini e terenziani: dai personaggi alla trama, che ruota attorno alla cassa preziosa alla quale allude il titolo, trafugata dal giovane Erofilo al padre mercante su istigazione del servo Volpino, per darla in pegno al lenone Lucrano e riscattare la schiava da lui amata, alle stesse facezie, che invece dovrebbero rappresentare la vera novità della commedia.
Non mancano alcuni spunti moderni come certe battute furbesche o in lingua zerga del ruffiano al suo servo; un'allusione polemica all'insipienza dei governanti; qualche amara considerazione sulla condizione dei cortigiani, e sulla corruzione della Curia romana: lo stesso luogo dell'azione, Metellino nell'isola di Lesbo, appartiene più al "Levante" dei traffici veneziani che alla Grecia antica, e serve a contenere altri più evidenti e più o meno voluti anacronismi: nomi di monete contemporanee, di un'osteria ferrarese ecc.
Un altro aspetto fondamentale della grande fioritura teatrale estense è quello figurativo e scenotecnico, legato all'impiego di esperti pittori-apparatori, che concorrono anche loro alla fondazione del teatro moderno.
[2] I Suppositi del 1509 costituiscono la tappa successiva nel lungo «itinerario verso il moderno». Gli scambi di persone annunciati nel titolo derivano dalle commedie ricordate nel Prologo: l'Eunuco di Terenzio e i Captivi di Plauto; ma nella commedia si verificano delle novità importanti: azione ambientata non più in Oriente, ma a Ferrara; uso sistematico di situazioni boccaccesche; invenzione di personaggi originali, come l'attempato e benestante notaio Dottor Cleandro, capostipite di tutti i pedanti che popoleranno il teatro rinascimentale.
[3] Il Negromante, rappresentato nel carnevale del 1528 a Ferrara, ricorre ai soliti modelli, Plauto, Terenzio e Boccaccio, ma filtrati attraverso la Calandria del Bibbiena, che fin dalla sua prima rappresentazione nel 1513 dovette diventare un punto di riferimento obbligato per i commediografi successivi: al centro della favola si pongono le beffe dell'Astrologo protagonista ai danni delle sue varie vittime, dell'astuto servo Temolo ai danni dell'Astrologo, e così via. Anche se Il principe sarà pubblicato solo nel 1531, è difficile non pensare al disincantato realismo di Machiavelli ascoltando le compiaciute lezioni dell'Astrologo, uno dei più lucidi e odiosi mascalzoni della scena cinquecentesca al suo servo Nibbio e al giovane Cintio, così come fa pensare a un altro capolavoro di questi anni, l'Orlando furioso dello stesso Ariosto, il sorriso con cui viene sottolineata la credulità e la follia degli uomini: non solo i popolani ignoranti, ma anche grandi uomini, principi e prelati
[4] La Lena del 1529 è senza dubbio il capolavoro teatrale di Ariosto. L'azione è a Ferrara e si nutre di situazioni e luoghi comuni desunti dai comici latini e da Boccaccio. Ma questa volta la città si materializza in una folla di allusioni a luoghi specifici, vie piazze chiese osterie bordelli, e si ha spesso l'impressione che la trama valga soprattutto a metterci in contatto con una realtà urbana colta ai due estremi da una parte i rappresentanti equivoci ed emarginati dei bassifondi, servitori, parassiti, ubriaconi, ruffiani, dall'altra i possidenti, i funzionari e gli sbirri. Nuova è anche l'invenzione principale, che consiste nell'affiancare alla solita coppia di innamorati giovani un "triangolo" di personaggi attempati e di maggior risalto teatrale, il ricco e geloso Fazio, l'accomodante e spregevole Pacifico, e Lena amante del primo e moglie del secondo. Lena combina brillantemente funzioni diverse e spicca nel folto gruppo delle ruffiane che sulla scia delle lenae plautine popolano il teatro del Rinascimento, dall'archetipo tardoquattrocentesco della Celestina all'Aluigia dell'Aretino nella Cortigiana, per l'energia e la coerenza con cui incarna la religione del denaro, alla quale del resto tutti i personaggi della commedia sacrificano. Suo degno antagonista è il servo Corbolo.

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