mercoledì 16 luglio 2014

La pittura metamorfica di Carlo Carrà di Massimo Capuozzo


A Brigida, che sa stimolare in me
lo slancio verso il metafisico.

Dalla mostra monografica che si tenne alla Galleria d'Arte Moderna di Roma nel 1994, sull'opera di Carlo Carrà (1881 – 1966) è scesa una sorta di rimozione, responsabile di aver allontanato il grande pittore dal pubblico degli appassionati dei fatti artistici.
Carrà, uno dei massimi pittori che hanno contraddistinto la scena artistica internazionale della prima metà del secolo, è stato uno dei pochi artisti italiani che hanno saputo interpretare con indipendenza creativa i momenti più significativi del Novecento: la sua lunga esperienza artistica si è sviluppata nel primo quarto del Novecento come ricerca originale di un linguaggio pittorico, coerente con la sua idea di arte moderna, evitando di aderire stabilmente ai dettami delle avanguardie e non riuscendo, sostanzialmente, a condividere con altri artisti le svolte estetiche, che rendono invece originale e significativa la sua opera.
Il solitario lavoro di Carlo Carrà – protagonista dei grandi movimenti d'avanguardia, senza mai però restarne tout court coinvolto – fu un punto di riferimento per generazioni di artisti: partito dalla scomposizione divisionista dei colori, aderì completamente alle acrobazie futuriste compiute nel credo di Marinetti e finì atterrando dai deserti metafisici di Ferrara ai solitari approdi sulle spiagge della Liguria e soprattutto della Versilia.
Critico attento sulle pagine de L’Ambrosiano (1922 -1944), Carlo Carrà, oltre che ascoltare la sua anima, sapeva interpretare il proprio tempo, tanto che nelle diverse stagioni della sua arte è davvero possibile – come scriveva Roberto Longhi, che di Carrà è stato il critico e lo storico più attendibile – comprendere il lungo corso di un vero pittore italiano. Legatosi d’amicizia con Soffici  e Papini, Carrà cominciò un intenso periodo di meditazione sulla pittura italiana del ‘300 e del ‘400 che sfociò nei sorprendenti scritti su Giotto, Paolo Uccello, Piero della Francesca e Masaccio. Il recupero in chiave moderna dei primitivi, e in primo luogo di Giotto, lo condusse a una pittura – come egli stesso disse – di «forme primordiali», dove la natura si rivela in tutta la sua essenza spirituale. Sintesi, forza plastica, spazialità, architettura accordata a colori tonali: cominciava su queste basi la terza, più lunga e più intensa stagione, quella del «realismo mitico».
Carlo Dalmazzo Carrà nacque a Quargnento, in provincia di Alessandria, nel 1881, in una famiglia di artigiani. Per circa dieci anni lavorò come decoratore murale nelle città di Valenza Po, Milano, Parigi, Londra, Bellinzona.

Le prime prove pittoriche sono legate al divisionismo postimpressionista, che segna il passaggio tra il XIX e il XX secolo, in cui, oltre al tratto francese, è forte l’influenza di Turner, come testimonia il dipinto La via di casa del 1900.
Nel 1906 entrò all'Accademia delle Belle arti di Brera: dopo un'esperienza da autodidatta a Parigi e a Londra, si era formato frequentando lo studio del pittore Cesare Tallone (1853-1919), titolare della cattedra di pittura.
Qui Carrà fu ammesso direttamente da Tallone a frequentare il terzo anno comune, evento riservato agli allievi particolarmente promettenti. Dai registri ufficiali di Brera si evince, inoltre, che l’insegnamento impartito da Tallone dovesse risultare oltremodo fondante per il giovane Carrà, essendo imperniato sulla pittura del Quattrocento italiano e svolto nello spirito della bottega rinascimentale. Tallone attribuiva, infatti, importanza fondamentale al disegno del vero, ed era implacabile nell’esortare gli allievi dicendo che «il disegno deve essere tre volte perfetto, ma sembrarlo una sola volta […] a furia di imitare, si crea». Insegnava a «pensare in grande», riferendosi naturalmente non solo al formato al naturale, cui era improntata la sua pittura, ma alla concezione stessa del dipinto, mirando sempre alla semplicità e alla forza espressiva dei grandi pittori antichi, che non distraevano con eccessi: «Il pittore deve saper togliere, non aggiungere», era solito raccomandare. L’insegnamento di Tallone rimase fondamentale per tutta la carriera artistica di Carrà.
All’Accademia incontrò i giovani pittori Aroldo Bonzagni (1887 – 1918), Romolo Romani ( 1884  1916) Ugo Valeri (1873 – 1911) e soprattutto Umberto Boccioni (1882 – 1916).
Del 1909 è l’affascinante dipinto Uscita dal teatro, intriso di chiazze di luce che si rifrangono sugli scialli che trasformano i corpi in fantasmi fluttuanti su di un selciato acquoso.
Se Uscita dal teatro e Piazza del Duomo a Milano anch’esso del 1909 testimoniano ancora una sensibilità divisionistica attraverso gli effetti di rifrazione della luce, di contro si comincia ad affermare una nuova concezione dello spazio, dove tutto si mescola, con un colore denso ed una pennellata filamentosa, in una visione sincronica. Immagini cariche di fascino, dove il movimento della città moderna si esprime nella felice combinazione di danzanti linee oblique. Tuttavia anche Piazza del Duomo a Milano è una veduta che parte dagli intenti divisionisti del primo Carrà. Frequentatore della Galleria Grubicy de Dragon, Carrà guardava soprattutto a Giovanni Segantini  (1858 –1899) e a Gaetano Previati (1852 – 1920), nella cui pittura individuava vivi fermenti di rinnovamento artistico e sociale. L'individuazione delle componenti umane della folla è qui annullata, mentre si intuiscono piuttosto i rumori, gli spostamenti caotici delle persone, la tensione nell'atmosfera urbana, rischiarata artificialmente dalle luci della piazza. A contatto con le atmosfere urbane, il divisionismo sembrava indirizzare a nuove ricerche sulla resa di movimenti di soggetti collettivi.
Nel 1910 fu per Carrà un anno importante: il giovane pittore conobbe, infatti, Filippo Tommaso Marinetti  (1876 – 1944) che nel 1909 aveva pubblicato il Manifesto del Futurismo. Il carismatico Marinetti lo persuase a rinunciare alle luminosità e ai paesaggi ottocenteschi, per impegnarsi in una battaglia di avanguardia contro l'accademismo ancora imperante e a favore, invece, di un'arte completamente moderna. Nella Milano, agli inizi del 1910 i giovani artisti emergenti sono Bonzagni, Romani, Valeri e Boccioni, i maestri sono Marinetti, Giacomo Balla (1871 - 1958) e Gino Severini (1883 - 1966).
Carrà visse in prima linea l'avanguardismo dominante dei primi due decenni del Novecento: nel 1910 insieme a Umberto Boccioni, Luigi Russolo (1885 – 1947), Giacomo Balla e Gino Severini (1883 - 1966), diede vita al Manifesto tecnico dei pittori futuristi. Rivolto ai giovani artisti, il Manifesto li esortava ad un rinnovamento del linguaggio espressivo e teorizzava l'interesse per i valori plastici e per il dinamismo: da qui nacque l’arte futurista, movimento di cui Carrà visse da protagonista la fase di espansione, guidata dal carismatico Marinetti.
La sua pittura, allora, mise da parte il simbolismo pittorico di tipo divisionista e inaugurò il concetto di simultaneità dinamica degli stati d'animo – come si legge nel testo programmatico contenuto nel catalogo della mostra dei pittori futuristi a Parigi, alla Galerie Bernheim-Jeune nel febbraio 1912 – che portarono Carrà a rappresentare la sensazione della realtà nel suo perenne riproporsi al soggetto. Si ha così "lo smembramento degli oggetti, lo sparpagliamento e la fusione dei dettagli". Si ha altresì una riproduzione ottico-schematica del movimento: "la vibrazione ed il movimento moltiplicano innumerevolmente ogni oggetto". Carrà concludeva il suo manifesto La pittura dei suoni, rumori e odori, pubblicato in Lacerba del 1° settembre 1913, fondamentale per l'enunciazione sinestesica: «Sappiatelo dunque! Per ottenere questa pittura totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi, pittura-stato d'animo dell'universale, bisogna dipingere, come gli ubriachi cantano e vomitano, suoni, rumori e odori!» 
Il tema urbano si ripropone ancora in Notturno in piazza Beccaria del 1910, dove la luce elettrica ed il tram rischiarano la buia atmosfera di Milano, facendo apparire le sagome umane come pure apparizioni spettrali.  È ancora individuabile una certa sensibilità divisionista, ma ormai essa si è radicalizzata con l'inclusione del concetto di ritmo e di flusso nel sistema dei colori e nella concezione formale.
In Sobbalzi del fiacre, eseguito fra il 1910 e il 1911, Carrà rappresenta un brano della vita cittadina, che coinvolge nello spazio atmosferico certe tensioni dinamiche prodotte dal moto di una carrozza. I colori tendono a fondersi in una visione unica, nella quale però gli oggetti e le persone rimangono riconoscibili.
Della stagione futurista sono i capolavori del 1911 La donna e l'assenzio, Ciò che mi ha detto il tram che, pur non raggiungendo la perfezione compositiva del contemporaneo I funerali dell’anarchico Galli, eppure, fin dal titolo, è una riuscitissima sintesi della poetica e dell’estetica futurista quanto Ritmi di oggetti del 1911-12 è una felice sintesi della lezione di Picasso e Braque, la cui scomposizione geometrica dell’immagine è filtrata attraverso un uso personale di linee curve e sinuose.
L'episodio a cui si riferisce il dipinto I funerali dell’anarchico Galli, oggi al MoMA di New York, era avvenuto nel 1904 e Carrà era stato testimone dell’avvenimento e dei tumulti che accompagnarono il funerale dell’anarchico ucciso durante uno sciopero generale a Milano nel 1904. Si riconoscono le figure dei manifestanti, che corrono e che si divincolano, delle guardie a cavallo che intervengono con violenza. Attraverso la disposizione delle linee emerge innanzitutto il forte dinamismo e la scomposizione del movimento, che ricorda da vicino l’analisi spaziale cubista e che lascia percepire l'impressione di caos. Il ruolo dei colori è altrettanto importante e risente della tecnica divisionista di accostamento dei complementari: il rosso domina su tutti e accentua il carattere aggressivo e caotico della scena. L’azione assordante e tumultuosa si propaga confusamente sulla tela, dove si riconoscono i contorni di figure umane a piedi e a cavallo che si fronteggiano su opposte spinte compositive, aumentandone il dinamismo. Carrà era rimasto molto colpito da quell’ evento ed appena ritornò a casa realizzò un disegno della scena, ma il dipinto fu realizzato sette anni più tardi.
Dopo il 1911 spazio e tempo sono definitivamente annullati, travolti nel vortice di turbinanti composizioni. «Canteremo il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che fumano;...le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come enormi cavalli d'acciaio.  Il Tempo e lo Spazio morirono ieri Noi viviamo già nell'Assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente» aveva proclamato Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909.
Lo stesso spirito domina in La stazione di Milano del 1911, dove la struttura dello spazio diventa più frammentata e l’artista rappresenta un aspetto della vita cittadina attraverso il coinvolgimento nello spazio atmosferico delle tensioni dinamiche. I colori scuri, ravvivati da poche macchie luminose, tendono a fondersi in una visione unica, dove la rappresentazione del dinamismo si muove secondo uno schema di forze centrifughe.
Il gruppo dei futuristi conobbe bene e in modo diretto i cubisti in occasione della citata mostra parigina del 1912. Carrà incontrò tra gli altri Braque, Picasso e Modigliani. In parecchi scritti i pittori italiani sottolinearono le differenze tra la loro ricerca di rappresentazione degli spazi prospettici, tesa a coinvolgere anche il movimento degli oggetti, e quella più statica e strutturale dei pittori francesi.
In Donna al balcone, del 1912-1913 e in La galleria di Milano del 1912 la struttura dello spazio diventa più frammentata e si fa chiaro l'interesse di Carrà per il cubismo. Sembra che egli voglia ampliare la spazialità del dipinto, semplificando la composizione, che si organizza in un movimento meccanico e in un colorismo metallico, ricordando i quadri cubisti di Fernand Leger  (1881 – 1955). Il soggetto richiama anche due opere di Boccioni del 1911 La strada entra nella casa e Visioni simultanee, che tuttavia sfruttano una tavolozza cromatica molto più irruente ed utilizzano la teoria futurista delle linee-forza, in base alla quale, siccome la linea agisce psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa, collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e diventa forza centrifuga e centripeta, mentre gli oggetti, i colori e i piani si sospingono in una catena di contrasti simultanei, determinando la resa del dinamismo universale.
Agli inizi del 1913, il movimento futurista diventò punto di riferimento anche per il gruppo fiorentino de la Voce, che stava dando vita alla nuova rivista Lacerba (1913 – 1915), diretta da Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879- 1964). Lo stesso Carrà era un abituale collaboratore della rivista Lacerba, con la realizzazione di articoli e disegni.
Nello stesso periodo Carrà strinse rapporti con i cubisti francesi e nel 1914 si trasferì per alcuni mesi a Parigi.
Dopo il 1914, però, nelle sue opere si intravedono i segni di un ripensamento di molti dei dogmi futuristi: il dinamismo ad oltranza, l'attivismo estremo e il cinismo politico sociale. Stava maturando in lui la crisi del futurismo: i collage che disegna sono un primo chiaro segno del distacco dal movimento marinettiano. Il quadro Composizione TA del 1916 annuncia la svolta metafisica dopo il periodo futurista, cubista dei collage paroliberisti. Nessuna delle precedenti esperienze va perduta, infatti Carrà scorse la possibilità di operare una fusione delle diverse scritture, attraverso una sintesi, che agiva in senso metafisico. Tuttavia il suo nuovo pensiero si chiarì a Ferrara con l’incontro con De Chirico.
Chiamato alle armi, Carrà aveva trascorso un periodo a Pieve di Cento ma, per motivi di salute, fu ricoverato nell'ospedale militare di Ferrara dove incontrò De Chirico: era la Ferrara del 1917 e, nel pieno del disastroso conflitto mondiale, un gruppo di artisti ancora giovani – Giorgio De Chirico (1888-1978), Alberto Savinio (1891-1952), Carlo Carrà e Filippo De Pisis (1896 – 1956) e lo scrittore Corrado Govoni  (1884  1965)reagiva alla realtà traumatica, cercando un senso più profondo delle cose, attraverso un'arte che ritornasse ad essere prima di tutto un'esperienza interiore.
Per il richiamo alla tradizione e al recupero di valori poco prima disconosciuti dall’impeto delle avanguardie, questo episodio fu destinato ad avere esiti determinanti. Dalla fantasia erudita dei De Chirico, corroborata dall’assidua frequentazione di Filippo De Pisis e delle sue stanze segrete ubicate nel palazzo di via Montebello – peraltro visitate in quegli anni anche da Ardengo Soffici – prese forma l’immaginario metafisico sprigionato nelle prime tele di De Chirico create presso una stanzetta dell’Ospedale Neurologico Militare della città. Qui ricoverato per nevrastenia, fu presto raggiunto da Carrà, al quale furono diagnosticati depressione e deperimento organico. Senza contare che, proprio da Ferrara, proveniva anche il pittore Roberto Melli  (1885 - 1958), fautore con Mario Broglio (1891 – 1948) della nascita di Valori Plastici (1918-1921), un coagulo di contributi teorici di personalità orientate allo spirito di ricerca sorto nel primo dopoguerra, quali appunto Carrà e De Chirico, ma anche De Pisis, Melli, Savinio, Clavel. Ad affiancare e suffragare il dibattito interveniva la divulgazione di opere di artisti soprattutto francesi e reduci dall’esperienza delle avanguardie. Accanto a Picasso, Derain, Severini, Braque, figuravano anche esponenti della Nuova Oggettività come Georg Schrimpf, al quale Carrà dedicò una monografia e alcuni ritratti databili al principio degli anni Venti.
In questo contesto nacque la pittura metafisica.
La svolta metafisica di Carrà va letta non come una semplice reazione ai suoi trascorsi futuristi, bensì come la confluenza di parecchi ideali che si facevano impellenti nella sua percezione dell’arte. Innanzi tutto la definizione di una nuova immagine dell'arte, attraverso la quale egli afferma l'indivisibilità della coppia stabilità/movimento, il che significa anche la stretta interdipendenza tra modernismo e tradizione. Poi la reintroduzione dei valori tipici della pittura italiana del primo Rinascimento, con la conseguente accezione dello spazio secondo la geometria euclidea, essendo l'architettura delle forme  la fonte primaria di significato. Infine la necessità di confermare una dimensione spirituale nelle opere d’arte, assente nel naturalismo della seconda metà del XIX secolo e ancor più nelle opere d'avanguardia dell'inizio del XX. Carrà avanza l'ipotesi che tale dimensione debba realizzarsi nell'estrapolazione delle forme dai fenomeni sensibili.
In definitiva Carrà ipotizza che la pittura sia una pura operazione mentale ed applica al suo pensiero la formula di Giambattista Vico (1668 – 1744), secondo cui: «Il vero poetico è un vero metafisico a petto del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso». Egli si giustifica del prestito dal filosofo napoletano dicendo: «Ho interpretato questa frase di Vico attribuendole il significato che il mondo delle apparenze degli oggetti non giunge alla sua autentica realtà che in conspectu aeternitatis, sotto forma di allegoria metafisica della sua realtà fisica, che altro non è che un incidente offerto quasi per caso alla percezione dei nostri sensi».
I dipinti e i disegni generati da questi pensieri sono caratterizzati essenzialmente da un misterioso carattere esoterico, se non ermetico. Non si tratta più di rappresentazione nel senso classico, cioè in riferimento al mondo reale e a ciò che si chiama Natura, ma di complesse associazioni di idee e di immagini: «Cercavo nelle mie tele [...] di creare una sintesi di forme che avesse dei sottintesi di carattere metafisico, come in una realtà percepita nella meditazione o nel sogno». È evidente che l'attività del pittore e la sua produzione sono vissute e trasmesse in ciò che hanno di più taumaturgico e magico, come espressione superiore dello spirito umano, come teatralità della cultura.
«Intanto – racconta Carrà – la vita d’ufficio mi diventava sempre più insopportabile e parallelamente anche lo stato della mia salute peggiorava, finché si rese necessario ricoverarmi in un neurocomio fuori Ferrara. Il direttore dell'ospedale, vero scienziato in materia di malattie nervose, mi usò molti riguardi e mi fece assegnare una cameretta acciocché io potessi dipingere, pensando egli giustamente che oltre le cure mediche, il lavoro a me caro avrebbe contribuito a rinfrancarmi nel fisico e nel morale. In questa camera dipinsi: Solitudine, La camera incantata, Madre e figlio, (un tema sul quale con profonda diversità di accenti tornerà negli anni Venti) e la Musa metafisica». L’adesione alla metafisica di De Chirico è contraddistinta dalle predette opere del 1917, seguite da L’ovale delle apparizioni, l’unico dipinto del 1918.
Solitudine dipinto nel 1917, segna l’incontro con De Chirico, avvenuto nell’aprile del 1917. Fino a tutto il 1918 tra i due maestri ci sarà una perfetta intesa e affinità. Giorgio De Chirico già dal 1913 aveva sviluppato le tematiche metafisiche attraverso solitarie immagini di piazze e manichini, e il suo dipinto Il filosofo e il poeta, del 1915, costituisce il diretto modello di Solitudine. Carrà adattò la complessa costruzione di De Chirico ad uno spazio pittorico semplificato, rispetto alle prospettive multiple di De Chirico, utilizzando, però, gli stessi elementi emblematici della lavagna, del manichino di spalle sul parallelepipedo e della stanza vuota dal pavimento ligneo. Qui Carrà torna ai colori squillanti e all’architettura visiva che allude al reale, superandone però i limiti di stabilità in una ricerca costruttiva illogica che esprime disagio ed estraneità. Il senso di spaesamento e lo schema compositivo metafisico sono frutto di un gioco calcolato: le superfici dipinte sono ben definite e ogni sfumatura tonale risponde ad una volontà sistematica espressa in un significato rigoroso.
Nel dipinto La camera incantata, realizzato nel 1917, si nota subito un manichino che rappresenta la madre, morta quando lui aveva nove anni; lavorava come sarta, infatti il manichino non ha né braccia, né gambe, né faccia, poiché l’autore non si ricordava le gambe, gli abbracci e il volto della madre. Accanto al manichino c’è un cilindro di cuoio con sopra un parrucchino, che rappresenta il padre, che in effetti lavorava come calzolaio. Sotto la madre e il padre, è disegnato un set da pesca, rappresentante l’hobby di Carrà e di suo padre. Inoltre sono raffigurate molte forme geometriche. Dietro tutto c’è, un po’ nascosta, una porta buia, di cui Carlo Carrà ha molta paura poiché rappresenta la guerra. Il maestro fu favorevole alla guerra e vi partecipò, ma la morte di alcuni suoi compagni – Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia, Carlo Erba – e gli orrori che aveva visto gli causarono dei problemi psicologici: la realizzazione di alcune tele fu infatti il risultato della terapia che gli era stata consigliata per esternare il suo dolore e disagio.
La musa metafisica è particolarmente esemplificativa di questa scelta poetica. L'opera fu composta, insieme a quelle citate dallo stesso maestro, nel periodo di forzata immobilità nell’ospedale militare, dove,  nella sua stanzetta, gli fu concesso di dedicarsi alla pittura ed esprime nitidamente e chiaramente il senso della poetica metafisica. Nello spazio chiuso della stanza si stagliano, in un apparente disordinato ammasso di oggetti, emblema di stati d'animo, di ricordi, di associazioni oniriche. Il quadro  che rappresenta un paesaggio urbano, la cassetta con la carta geografica in rilievo e il bersaglio, il grande prisma policromo, l'enigmatica figura della giocatrice di tennis, il cui aspetto oscilla fra la statua antica e il manichino (la sua testa vuota di organi suscita un innegabile turbamento), la prospettiva accelerata, le aperture che danno su uno spazio uniformemente nero, sono elementi che si uniscono tutti a comporre un reticolo sottile e labirintico di metafore figurative. L'opera si ricollega sicuramente ad una meditazione più generale complessa e più espressivamente strutturata sulla riunione allegorica di uno spazio interno (la stanzetta, sorta di camera incantata del pittore) e di una serie di spazi esterni, evocati nelle forme inusuali degli oggetti  (il paesaggio urbano del quadro, le terre emerse nella carta geografica, la presenza disumanizzata della tennista, il solido poliedrico come richiamo alla pluralità prospettica del reale). La musa metafisica si configura quasi terapeuticamente come evasione poetica che, dalle ore di desolazione militare, diventa una forma di resurrezione creativa.
L'evoluzione della poetica metafisica di Carrà è contrassegnata da un semplificarsi degli elementi pittorici, fino a ridurli ad una emblematica essenzialità.
Nel dipinto L’ovale delle apparizioni l'unico dell'artista del 1918, anno in cui viene edita la rivista Valori plastici, dove Carrà pubblica il saggio Il quadrante dello spirito e in cui l'opera è per la prima volta riprodotta prima di subire alcune modifiche iconografiche. Essa risultava già esposta nella mostra romana  alla Galleria dell'Epoca nel maggio 1918. La forma ovale, che simbolicamente si riferisce ai cubisti, alimenta la tensione allo spirito perfetto cui gli oggetti del dipinto tendono a uniformarsi in sintonia con la contemporanea ricerca metafisica di De Chirico. Nel dipinto è raffigurato un paesaggio con una casa, un pavimento e delle persone, ma le persone non sono persone ma manichini impegnati in qualche attività, il tennis, metà uomini e metà manichino. Le case sono in una prospettiva del tutto inesistente, il pesce non c'entra assolutamente niente ma è solo un elemento ricorrente in questo periodo. Le figure poi sono appoggiate su un pavimento con un andamento prospettico lontano da quello delle case. Tutto quello che sembra reale non lo è. Tutto quello che sembra possibile è impossibile, tutto quello che sembrerebbe spiegabile non lo è. È uno di quei dipinti che lasciano aperta una serie di punti interrogativi e domande alle quali non c'è risposta. Le spiegazioni che si danno sono convenzionali e di comodo, ma realmente sono inspiegabili. La realtà è molto più misteriosa di quello che si suppone, è inquietante.
Nel dipinto La figlia dell'Ovest, del 1919, pur in presenza di alcuni elementi comuni all'opera del 1917 – la tennista, immagine solenne del gioco del vivere, le fredde architetture urbane, le forme geometriche accampate nello spazio di fondo – scompare il ricco assieparsi di oggetti che evocano il rapporto con l'esterno, mentre la realtà naturale assume l'aspetto illusorio di un fondale da teatro,  falsamente luminoso e solare, mentre il volto del manichino si rattrappisce in una minuscola appendice oscura, a testimoniare l'estraneità del soggetto alla vita delle cose.
Un nuovo periodo di crisi interiore e artistica travolse Carrà e da questa crisi riemerse una nuova visione della pittura, indirizzata alla ricerca della semplificazione dell'immagine: Carrà comincia a limitare il caos grazie ad una semplificazione del racconto visivo e ad una focalizzazione sulla forza costruttiva degli elementi plastici. Si intravede dunque un ordine che potremmo definire musicale, al posto degli scomposti schiamazzi cromatici che caratterizzavano il futurismo della fase tarda del movimento.
Il favore che in questa fase Carrà attribuisce al colore, ridimensionando la funzione dello spazio e della scomposizione delle forme, lo porta idealmente ad avvicinarsi alla lezione di Boccioni.
Con serietà e rigore il pittore affronta lo studio della pittura tre-quattrocentesca che riportò su molti dei lavori terminati intorno agli anni venti. Il suo distacco dallo scomposto vitalismo futurista era ormai definitivo e il suo sguardo si rivolgeva alla pittura internazionale, cominciando a dialogare con Cezanne  (1839-1906), Picasso (1881-1973) e Derain  (1880 - 1954). In questa fase oltre a dipingere, Carlo Carrà fu impegnato in un estenuante sforzo teorico col quale cercò di fissare il proprio credo estetico. Il suo programma di ricerca, basato sul recupero della tradizione italiana e delle volumetrie classiche, attraversate da intensità emotive, urta De Chirico scatenando un confronto che costituì uno dei culmini della riflessione sull'arte della prima metà del Novecento. Quando De Chirico fa la pittura Metafisica si serve della pittura come di un mezzo non di un fine. Carrà, pentito del futurismo, considera la metafisica la garanzia per recuperare il valore assoluto cioè la pittura dei valori tipicamente italiani nel passaggio tra Giotto, Masaccio e Paolo Uccello. Quando De Chirico e Carrà parlavano di ritorno al mestiere nella rivista Valori plastici, parlavano del recupero dei valori artigianali, del mestiere inteso in senso rinascimentale, solo che De Chirico lo intendeva come mezzo per esprimere queste sue intenzioni o illuminazioni, mentre Carrà concepiva la Metafisica come un passaggio per raggiungere la finalità della bella pittura, della qualità quasi rinascimentale della bella pittura.

Nel piccolo ma intenso dipinto L'amante dell'ingegnere – ospitato col resto della collezione Mattioli al Museo Guggenheim di Venezia – Carrà affronta una tematica ancora metafisica ma, nello stesso tempo, con esso si conclude per lui la stagione della pittura metafisica in un momento in cui era già interessato a una maggiore concretezza plastica e naturalistica. All’inizio degli anni Venti, egli si stava dedicando, infatti, a una ricerca rigorosa e razionale, come, in questo dipinto, è sottolineato simbolicamente dalla squadra e dal compasso. Lo sfondo scuro contribuisce a evidenziare l’assenza di tempo e di spazio e la dimensione onirica della composizione dove emerge l’enigmatica testa femminile, come un frammento simbolico di un percorso della storia. Una luce vibrante e un tessuto cromatico più emotivo, meno ermetico e freddo, caratterizzano questo rapporto nuovo tra forme metafisiche e spazio prospettico. Sebbene si tratti di una scultura, la testa femminile possiede un soffio di vita segreto, quasi fosse ipnotizzata, con gli occhi chiusi ma la bocca aperta, pronta a parlare. Il collo straordinariamente lungo appare spesso nelle opere di Carrà precedenti a questa. Senza dubbio l’ambiguità tra morte e vita in uno spazio indeterminato interno-esterno, in una luce che precede l’alba, richiama con perfetta concisione un orizzonte onirico, caro alla Metafisica. Il titolo non ha mai avuto una spiegazione, sebbene la squadra e il compasso possano rappresentare la professione dell’ingegnere e la testa in gesso la sua vita segreta. ogni spiegazione troppo specifica impoverirebbe il mistero riccamente evocativo del dipinto. Lo scopo della pittura metafisica, infatti, consisteva nel far sì che oggetti ordinari trascendessero la realtà ed inducessero un nuovo e più profondo stato di consapevolezza.
Il dibattito di Carrà con De Chirico fu il presupposto di una nuova svolta nel percorso artistico di Carrà, la terza stagione della sua ricerca artistica, quella degli anni Venti, il cosiddetto realismo lirico, che iniziò nel 1921 e lo portò ad abbandonare anche la metafisica, spinto dal desiderio di essere soltanto se stesso.  
In questa stagione, quella della maturità artistica «dopo gli errori di gioventù del futurismo e della metafisica», Carrà ritrasse soprattutto paesaggi. «La pittura – sostiene Carrà – deve cogliere quel rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di astrazione» e la contemplazione del paesaggio si risolve allora nella costruzione di un quadro, sia montano sia marino. Entrato definitivamente a contatto con una nuova sintesi tra idea e natura, i soggetti prediletti diventano i paesaggi in cui forte è l’influenza di Giorgio Morandi, sia nelle nature morte, sia nei paesaggi caldi e silenziosi in cui le case e i cui edifici perdono qualsiasi connotazione umana, quasi fossero formazioni rocciose spontanee che intervallano il verde opaco dei campi e dei boschi, come accade esemplarmente in San Giacomo di Varallo del 1924.
Dopo il periodo metafisico, che si concluse intorno al 1919, Carrà collaborò a Valori Plastici, la rivista che si inseriva nel clima generale e internazionale ritorno all’ordine culturale ed estetico. L’artista si avvicinò sempre più ai valori autentici ed essenziali della pittura tradizionale e classicista, scelta per il puro realismo e l’intensa spiritualità. Il suo interesse per Giotto e per i maestri del XV secolo si era già rivelato in modo costante, anche attraverso la pubblicazione di saggi come la Parlata su Giotto e Paolo Uccello, apparsi su La Voce nel 1916.
Nella tela Le figlie di Loth del 1919, la volontà di rifarsi alla tradizione pittorica trecentesca è evidente nella semplicità degli elementi compositivi e nella scelta iconografica, sebbene il racconto biblico è identificabile solo attraverso il titolo, poiché nessun dettaglio fa pensare che le due figure femminili siano le figlie di Loth. La spazialità spoglia, i colori intensi e la costruzione austera delle due donne e dell’animale sono elementi ispirati chiaramente agli affreschi e alle tavole giottesche, nell’impianto formale, dunque, ma anche contenutistico. L’atmosfera è enigmatica, caratterizzata da una sospensione di ascendenza ancora metafisica, dove l’aspetto aneddotico dell’immagine è bloccato in un’immobilità misteriosa. Del dipinto esiste un disegno preparatorio, del medesimo anno, dove si notano parecchi ripensamenti nella disposizione delle figure e nel paesaggio dello sfondo.
Nella sua estate ligure del 1921, Carrà dipinse la vela smarrita di "Marina a Moneglia" e sempre in Liguria, nel 1923, dipinse Vele nel porto.
Opere frettolosamente definite metafisiche come Pino sul mare, L'amante dell'ingegnere del 1921 e L’attesa del 1926 che testimoniano la scoperta di Giotto e già introducono alla stagione novecentista, segnata da opere quali La segheria dei marmi del 1928, Nuotatori del 1929, Il cancello rosso del 1930.
Il pino sul mare, è una tela ad olio di appena 68 cm. x 52,5, conservata a Rima presso la collezione Casella. Questo dipinto è un’icona della pittura del Novecento. Essa appartiene al periodo in cui Carrà stava passando dalla metafisica vera e propria a quella novecentesca, caratterizzata da un ritorno al linguaggio figurativo sotto l'influsso della tradizione primitiva italiana, in particolare di Giotto, ma anche della lezione post-impressionista di Paul Cézanne. La composizione è classica, ridotta all'essenziale: in primo piano una spiaggia sul mare, sulla sinistra la facciata di una casa fortemente scorciata e sulla destra un pino marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, con un ramo monco e altri due che sorreggono una chioma sproporzionatamente piccola. In mezzo, tra la casa e il pino, uno stenditoio con un panno bianco steso ad asciugare, metafora del cavalletto di un pittore, sul terreno ci sono pochi ciuffi d’erba sparsi. Sullo sfondo, un mare liscio e piatto come un lago e, al di sopra, un cielo bianco e azzurro trasparente, colto nella luminosità del primo mattino. Dietro il pino, in secondo piano, si staglia un promontorio roccioso, con pochi cespugli di misera vegetazione, che ricorda il paesaggio nudo e brullo dell’affresco Il sogno di Gioacchino fra i pastori di Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova, ma con una novità: un profondo incavo nella roccia, entro il quale si apre una porta ampia e bassa sul versante riparato del promontorio, direttamente sull’acqua e proprio di fronte all'osservatore: è impossibile dire di che cosa si tratti. I colori sono chiari, luminosi, tranne il mare straordinariamente scuro e i tre vani artificiali, i due della casa e quello del promontorio, che non sembrano aperture, quanto piuttosto accessi sbarrati e inaccessibili. Poiché l’occhio dell’osservatore corre istintivamente dalla porta sulla sinistra, alla marina al centro, al versante interno del promontorio sulla destra, ne risulta che il quadro è come scandito in tre sezioni molto contrastanti: una chiara, in basso, una molto scura più sottile al centro, che comprende anche la chioma del pino ed un’altra, ancora più chiara, in alto. L’effetto d’insieme è quello di un iperrealismo che sconfina impercettibilmente nel surrealismo di una qualità pittorica a metà strada fra la semplicità giottesca e l’ingenuità di una pittura infantile vicina al Doganiere Rousseau e di una peculiarità espressiva che indugia straordinariamente fra la monumentalità delle forme e il minimalismo dei contenuti, poveri e disadorni come può esserlo la poetica dell'essenzialità di Montale. Ci troviamo, pertanto, di fronte a un paesaggio di tipo metafisico, ma di una qualità metafisica che prelude alla riscoperta dei volumi corposi, delle forme nette e squadrate di tipo cubista che richiamano la grande stagione dell’arte italiana tardo-medioevale e del primo Rinascimento. Un paesaggio metafisico che non ha la qualità angosciosa di quelli di De Chirico, dove incombe il senso dell’attesa di qualcosa che deve accadere: qui, invece, il mistero incombe con leggerezza, ma senza opprimere e soprattutto senza angosciare né spaventare, un mistero domestico e quotidiano con cui si è abituati a convivere, un mistero si potrebbe dire familiare e tranquillamente accettato.
Carrà aveva profondamente assimilato la lezione di Cezanne, procedendo in un vero e propri consolidamento della pittura metafisica, così come Cézanne aveva operato un consolidamento dell'Impressionismo. Anche Carrà, come Cezanne, ha schiarito la sua tavolozza, alla ricerca di un nuovo equilibrio compositivo; anche lui come il pittore provenzale ha scoperto i passaggi e gli stacchi di colore, per esaltare la dimensione volumetrica della forma; anche lui è alla ricerca della massima essenzialità, ma non seguendo la via, come tante avanguardie artistiche, della dissoluzione della figura, bensì per la via opposta, nella riscoperta e nella attualizzazione della grande tradizione fiorentina del Tre e Quattrocento.
Parlare del Pino sul mare significa parlare del rapporto fra Carrà e Giotto, perché uno sguardo anche superficiale a quest'opera particolare e affascinante ci riporta di colpo al senso del primitivo, del  gotico, al primo quarto del Trecento e alla magica atmosfera della Cappella degli Scrovegni.
Oltre a Giotto e a Paul Cézanne, la natura è stata la terza, grande maestra di Carlo Carrà nel guidarlo dalla fase metafisica a quella della sua massima creatività, caratterizzata dalla graduale semplificazione della realtà mediante la sua idealizzazione geometrica in chiave mitica. La natura en plen air, la natura della Liguria, di Forte dei Marmi, della Versilia, di quell'angolo di Italia racchiuso e quasi nascosto fra la montagna ed il mare, dov'egli ha potuto trovare quella spontanea semplificazione del paesaggio cui da tempo era alla ricerca. Nei quadri degli anni Venti, a Carrà sono bastati pochi sassi per ritrarre una montagna; pochi ciuffi d'erba per delineare una vegetazione; un solo albero - per giunta mutilato - per suggerire, anzi, per evocare tutto il mondo della natura dando corpo e sostanza, luce e splendore a un mondo intero, servendosi di mezzi estremamente poveri ed elementari, quasi appena abbozzati, trasfigurando le umili cose d'ogni giorno in un’aura poetica misteriosa e antichissima: realizzando, appunto, la  metamorfosi del contingente nell'assoluto, del provvisorio nel permanente.
Il celebre dipinto Dopo il tramonto del 1927 è totalmente libero dal riferimento a un evento realmente accaduto. Qui c’è la perplessità di un’atmosfera di sogno: il silenzio assolato, la luce anomala, la cui intensità non sembra potersi conciliare con l’ora del giorno espressa nel titolo, portano l’osservatore in una dimensione onirica dal significato indecifrabile. I colori sono profondi e intensi; alla forte contrapposizione dei complementari, si sostituisce una sonnolenta giustapposizione, che sintetizza l’immagine in un’unica prospettiva.
La partita di calcio del 1934, realizzato per la vittoria dell’Italia ai Mondiali di Calcio mondiali di quell’anno, fu esposto per la prima volta alla II Quadriennale di Roma, nel 1935. Il quadro, attualmente conservato presso la Galleria Comunale d'Arte Moderna di Roma, rappresenta alcuni giocatori di calcio impegnati in un'azione di gioco. Il soggetto è dovuto alla grande passione di Carrà, che viveva il calcio come uno spettacolo totale, assolutamente capace di suscitare emozioni al pari di avvenimenti o opere di ben più elevato valore artistico. e il riferimento alla nostra nazionale è evidente nel colore azzurro delle maglie dei giocatori che vi sono raffigurati. L'artista coglie l'azione in un momento concitato: si tratta probabilmente di una mischia in area, con il pallone che finisce vicinissimo alla porta mentre gli attaccanti saltano per colpire di testa e il portiere si slancia nel tentativo di arrivare per primo sulla sfera. Il pallone resta, però, sospeso a mezz'aria, quasi come un'apparizione metafisica, che cattura sia l'attenzione dei giocatori impegnati in campo, sia quella dell'osservatore esterno, cristallizzando in un unico fermo immagine il simbolo stesso del gioco del calcio: la rincorsa,  la cattura, il possesso della palla.
Queste opere sono da annoverare tra i capolavori dell'arte italiana di quel periodo, nelle quali colpisce la solennità degli spazi, sottoposti ad un lavoro di delicata sintesi che ancora una volta ci costringe a ritornare a Cezanne, a Seurat e agli altri maestri post impressionisti dai quali Carrà idealmente non si era mai distaccato.
La scoperta della Toscana nell’estate del 1925, diede luogo a capolavori come San Martino e Il mulino delle castagne, dove Carrà scopre la luce cristallina della piana toscana.
Forte dei Marmi, dove Carrà giunse per la prima volta nel 1926 invitato dall’amico Arturo Dazzi, diventò la sua seconda patria e protagonista di molti suoi dipinti:
Carrà rimase folgorato dai paesaggi luminosi e solitari, dalle lunghe deserte selvagge spiagge bianche, dai capanni abbandonati dei pescatori le cui reti sono stese ad asciugare, dai fasci di canne, dai gozzi tirati a secco in attesa dell'uscita notturna, dalla banchina del molo popolata dagli ostricari, dalle immense pinete dai monti sul mare. Carrà ritrae una Versilia che purtroppo non esiste più.
La natura e la suggestione dei luoghi, d'altronde, sono per Carrà solo dei punti di partenza, un pretesto. Per lui si trattava di creare una sintesi dialettica di idea e natura, elemento naturale ed elemento mentale, architettura del disegno e libertà del colore, razionalità e sentimento. Del resto, i suoi dipinti, caratterizzati da tratti essenziali e prevalenza di vuoti, da un'atmosfera sospesa e senza tempo, danno vita ad un universo pittorico autonomo dove il riferimento non è alla natura, ma più verosimilmente alla malinconia, alla solitudine, alla memoria.
Concretezza e fantasia, realtà e trasfigurazione, eventi straordinari e piccole  cose ordinarie, «le cose – spiegava Carrà – che esistono quando l'animo s'inarca non sono cose, ma espressione poetica del nostro spirito creatore».
Negli anni Trenta la sua attività pittorica cominciò a rallentare, mentre crebbe il suo desiderio di teorizzare le nuove combinazioni del bello. Inoltre, cominciò ad apparire dominante un approccio disegnativo alle questioni estetiche, spesso stimolato dal confronto letterario.
Le sue opere pittoriche sempre più rare raggiungono una compiutezza straordinaria. La sua misura stilistica permetteva di sfuggire al banale naturalismo e ad un intimismo mieloso e troppo melanconico.
Il dipinto Donna al mare del 1931 ha scritto Elena Pontiggia «offre una testimonianza dell'umanità salda e stondata di Carrà, di evidente ascendenza giottesca». Lo caratterizza una netta contrapposizione cromatica, costituita dalle tinte terrose e avvolgenti della sabbia, del corpo e delle vesti della donna, e i toni raggelati del cielo e del mare agitato. Il dipinto fu acquistato alla XVIII Biennale di Venezia nel 1932. Dal 1926 Carrà frequentava Forte dei Marmi e questo lo aveva certamente influenzato nella predilezione per i soggetti marini. «L'estate – scriveva in quegli anni - non è per me una stagione di riposo, bensì un periodo di lavoro che mi porta a contatto di un paesaggio e di un mare dove il mio spirito artistico ha trovato feconda rispondenza».
Il dipinto I nuotatori, del 1932, appartiene ad una fase della ricerca di Carlo Carrà dedicata ai paesaggi mediterranei. Le figure massicce e tratteggiate in modo sintetico richiamano le forme neo-primitive delle opere dipinte da Carrà alla fine degli anni Dieci. In quel periodo l’artista ritorna alla pittura figurativa e guarda all’arte arcaica come fonte d’ispirazione. Le marine degli anni Trenta uniscono il realismo dei paesaggi osservati da Carrà durante i suoi soggiorni in Versilia, Liguria, Capri e Venezia, ad una sospensione metafisica. L’atmosfera che predomina nel quadro dei Nuotatori è, infatti, sognante, persino un po’ misteriosa, tanto da avvicinarlo alla tendenza artistica del Realismo magico.
In riva al mare, Carrà sembra trovare un senso di quiete che nel quadro è espresso da una composizione rigorosa, ritmata da figure statiche, statuarie. Nel 1940, l’artista affermerà: “Sebbene per natura io non sia un navigatore desideroso di vivere continuamente in paesi marini, tuttavia il mare ha sempre esercitato sul mio spirito una potente attrattiva.”
I vari periodi della pittura di Carlo Carrà non soffrono mai di distacchi drastici, ma si compenetrano al punto che, in un lavoro nel 1934, intitolato Partita di calcio, uno sfondo divisionista, anteriore di un quarto di secolo, è attraversato da un incrocio di corpi che incarnano il movimento, la forza e la velocità futuristi, il tutto tradotto in un linguaggio realista, magico e poetico, che è quello tipico degli Anni Trenta dell’artista, che era convinto sostenitore dell’idea secondo cui «per lo spirito non esistono contraddizioni, ma trasformazioni e sviluppi; mutare una direzione in arte non significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con un altro concetto estetico, scoprire nuovi rapporti ignoti, aprir meglio gli occhi per comprendere una somma maggiore di realtà».
Massimo Capuozzo

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Sitografia di riferimento
http://www.ada.ascari.name/CasaAda/studio/artec/artisti/carra-apparizioni.html

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