mercoledì 26 aprile 2023

Arte e politica alla corte di Borgogna: la scena del Duca

1. La scena del Duca
Come tutti i grandi statisti di ogni epoca, anche Filippo l’Ardito fu un attento mecenate e lo fu a tutto tondo investendo molto nell'Arte allo scopo di stabilire e chiarire le sue ambizioni dinastiche.
Oltre a ristrutturare e ad ampliare il Palazzo ducale di Digione, Filippo fondò la Certosa di Champmol, appena fuori città, come mausoleo per sé e per i suoi discendenti che da allora in poi diventò l’edificio simbolo dei Valois di Borgogna. Molti degli artisti dei quali si servì provenivano dai Paesi Bassi, di cui egli era erede in seguito al suo matrimonio con Margherita di Fiandre nel 1369. Tra i più eminenti c'erano lo scultore Claus Sluter di Haarlem e i pittori Melchior Broederlam di Ypres, Jean de Beaumetz di Artois, e Jan Malouel della Gheldria.
Appassionato bibliofilo, come il suo primo fratello Carlo V, e collezionista di opere di ogni genere, come il suo terzo fratello Giovanni di Berry, dal suo principato in poi si formò un'importante biblioteca ducale: comprò copie di pregiati manoscritti, principalmente traduzioni dal greco o dal latino. Commissionò anche opere, come le sue Grandes Heures, così come La Vie de Charles V di Christine de Pisan che gli rivolse una lunga dedica all'inizio delle sue Épîtres d'Othea scritte nel 1401, e ne ricevette anche altre in dono.
Fu il primo protettore e scopritore dei fratelli di Limburgo, cui commissionò una Bibbia moralizzata, rimasta purtroppo incompiuta. Gace de La Bigne, cappellano del re di Francia e autore di un trattato sulla caccia, gli dedicò una sua opera intitolata Le Roman des deduis, cioè Il romanzo delle deduzioni.
Alla sua morte, l'inventario dei suoi beni, redatto nel 1404, elencava ben 700 volumi, un numero considerevole per l’epoca. Nonostante il numero di manoscritti raccolti, la corte del Duca non diventò mai un centro del nascente Umanesimo, paragonabile a quello della corte di Bourges di suo fratello Giovanni di Berry. Del resto lo stesso Filippo non conosceva il latino se non quello liturgico e le sue opere preferite – chanson de geste, romanzi cavallereschi, trattati didattici – mostrano che egli conservava gusti letterari ancora medievali ed era soprattutto rivolto all’azione politica. Per spirito cavalleresco partecipò attivamente alla preparazione della crociata di Nicopoli che si concluse però con un fallimento nel 1396.
Artisticamente la situazione fu invece molto diversa.
Attraverso il suo mecenatismo, Filippo incoraggiò lo sviluppo di una cultura artistica diversificata in cui l'influenza fiamminga giocò un ruolo significativo, continuato dai suoi successori.
Incoraggiò la musica ed ebbe una cappella e un complesso strumentale e vocale, il cui numero continuò ad aumentare, fino a raggiungere una ventina di elementi fra quelli vocali e strumentali.
In Borgogna, le residenze appartenute a Filippo l’Ardito e a Margherita de Fiandre, ancora conservate sono purtroppo rare, si trattava di ville principesche ricche spesso di sontuosi giardini, ma la sua residenza ufficiale era il Palazzo Ducale di Digione.
Appena giunto in città nel 1363, Filippo intraprese molto rapidamente la ristrutturazione dell’antico palazzo che era stato dei duchi capetingi, un notevole esempio di permanenza di sede del potere politico fin dall'antichità: la sua storia risale infatti alla prima cinta muraria di Digione, costruita nel III secolo d.C., su cui si stabilì, dopo il Mille, la residenza dei Duchi capetingi di Borgogna.
Non si sa quasi nulla delle costruzioni che precedono il Trecento. Si sa solo che la Sainte-Chapelle, costruita per volontà del duca Ugo III nel 1171, era l'unico elemento del palazzo Capetingio sopravvissuto nei secoli, finché non fu anch'essa distrutta nel 1802 in età napoleonica per costruirvi un teatro.
Oggi il Palazzo dei duchi si presenta come un insieme architettonico piuttosto organico, composto da più parti ad incastro fra loro. Di questo insieme la maggior parte fu costruita nel Seicento e soprattutto nel Settecento, in uno stile classico che diede unità all’insieme. (fig. 1)
Ma osserviamo ora, per quello che è possibile, quanto rimane della residenza principesca secondo le intenzioni di Filippo l’Ardito e dei suoi tre discendenti: Giovanni senza Paura, Filippo il Buono e Carlo il Temerario. (fig. 2,3,4 e 5)





Il sontuoso palazzo dei Duchi di Borgogna fu interamente ricostruito a partire dal 1365 e partendo dall'antico castello ducale con la Tour de Bar nel cuore stesso di Digione, capitale del Ducato di Borgogna, da parte del primo Duca di Borgogna della Casa di Valois, Filippo II di Borgogna, l’Ardito e dei suoi tre successori: facciata sgargiante, dimora ducale dal 1448 al 1455, grande sala dei banchetti e cucina ducale con 30 cuochi nel 1433.
La costruzione più antica è il Palazzo ducale del Trecento e del Quattrocento, in stile gotico fiammante, che comprende ancora un'abitazione, le cucine ducali e due torri: la Torre di Bar, fatta costruire da Filippo, nel 1365 da un certo Belin de Comblanchien di cui si conosce solo il nome e la torre della terrazza, e la Torre di Filippo il Buono voluta da suo nipote il terzo Duca di Borgogna (fig.6)

La Torre di Bar aveva una funzione residenziale, a tre piani con ampie sale con grandi camini ai piani superiori ed è l'unica parte del Palazzo ducale rimasta del periodo del Duca Filippo. La torre ricevette l'attuale denominazione di Torre di Bar in seguito alla prigionia del re Renato d'Angiò, duca di Bar, dal 1431 al 1437.
Vanno evidenziati ora alcuni altri elementi principali del Palazzo dei Duchi di Borgogna. Filippo l’Ardito fece costruire la Torre Nuova nel 1365 da tale Belin de Comblanchien. (Fig. 7)
Questa torre residenziale a tre piani dispone di vasti ambienti dotati di grandi camini. Il piano terra con chiavi di volta scolpite fungeva da sala capitolare della Sainte-Chapelle. Nota oggi come Torre di Bar perché servì come prigione per il re Renato d'Angiò, duca di Bar e di Lorena.
Re Renato, ultimo re angioino di Napoli, fu fatto prigioniero nella battaglia di Bulgnéville il 21 luglio 1431 e fu trattenuto dal duca Filippo il Buono fino al 1 maggio 1432. Dopo aver lasciato i suoi due giovani figli come ostaggi a Digione durante il suo rilascio, si consegnò prigioniero nel 1435, e, divenuto duca d'Angiò, conte di Provenza, re di Napoli e di Sicilia, e rimase fino all'8 novembre 1436 al secondo piano di questa torre, che prese poi il nome di torre Bar.
Della Sainte Chapelle non rimane traccia ma sappiamo che l'ala orientale era costituita dalla cappella privata dei principi di Borgogna, la Sainte-Chapelle, così denominata quando Filippo il Buono vi depose nel 1454 l'ostia miracolosa raffigurante l'immagine insanguinata di Cristo, donata da papa Eugenio IV.
La facciata della cappella era stata decorata dalla bottega di Claus Sluter, che aveva prodotto un San Giovanni Evangelista in pietra di Asnières alto 2,60 m, un quadrante e uno stemma della Borgogna la cui decorazione pittorica era stata affidata al Maestro Arnoul Picornet.[1]
Al primo piano della dimora ducale si trova La sala delle guardie, grande salone nella parte del palazzo ristrutturata di Filippo il Buono (1450-1455) dove oggi è collocato il monumento funebre di Filippo l’Ardito e di sua moglie Margherita di Fiandre. (fig 8)

Il grande salone del palazzo, conosciuto fin dal Settecento come sala delle guardie. È lungo 18 m, largo 9 m e alto 9 m. Era lo scenario dei grandi festeggiamenti della corte di Borgogna. Dotato di una galleria per i musicisti e i cantori e di un camino monumentale coperto da una cappa verticale con trafori sgargianti realizzati da Jean Dangers nel 1504 dopo l'incendio che devastò il palazzo nel 1503.
La stanza fu ricostruita in occasione della visita del re Enrico II, nel 1548 e comunica con la Torre di Bar e gli appartamenti del primo piano. (Fig. 9)
Alta 46 metri, originariamente chiamata la Torre della terrazza, la torre di Filippo il Buono è costituita da sei piani e fu costruita tra il 1450 e il 1460 dall'architetto Jean Poncelet, sull’antica torre Brancion del XII secolo che a sua volta doveva essere stata costruita su un'antica torre di un castrum gallo-romano, domina ancora oggi l'intero centro di Digione. Torre di avvistamento che dominava la città, diventò a poco a poco una torre simbolo del potere e della potenza dei duchi di Borgogna e dello Stato borgognone. Dalla terrazza infatti si domina tutta Digione.
Questa torre ha una forma trapezoidale leggermente curva su una facciata. I suoi ultimi piani hanno mensole e finestre e sono trasformati in un appartamento. L'ultimo piano in particolare è molto curato, con un camino monumentale e belle finestre. Lo scalone è riccamente decorato con tralci di vite, foglie d'acanto, lumache e gli emblemi del duca, l'accendino e la pietra focaia. L'insieme termina con una colonna elicoidale decorata da finissime nervature, in una volta a costoloni.
Anche le cucine ducali (1430-1435) furono ricostruite da Filippo il Buono nel 1433. Si tratta di una grande stanza quadrata di 12 m di lato, i cui 3 lati sono enormi camini doppi, sostenuti da otto colonne. Il fumo è evacuato attraverso le pareti appuntite che si affacciano su una moderna chiave di volta. La quarta parete è aperta da grandi finestre. Fu ampliato da un altro fabbricato che raggruppava le riserve, il forno, la pasticceria e un cortile con pozzo, tuttora esistente. Questa parte fu distrutta nel 1853, ma dà l'idea della centralità delle cucine nella volontà dei duchi di organizzare immense feste, e maestose feste a palazzo.
Queste cucine appartengono alla famiglia dei cosiddetti camini a pianta centrata.
La corte di Borgogna fu un microcosmo privilegiato nel tessuto della società occidentale della fine del Trecento e del Quattrocento. Nelle residenze del duca, della sua famiglia e del loro seguito, nacque un piccolo stato nello stato. La corte di Borgogna era caratterizzata da una grande mobilità e da una politica di presenza del duca nelle regioni dove aveva gli interessi più importanti.
Lo scopo immediato del duca di Borgogna era quello di recitare un ruolo di primo piano, con il re di Francia, lo sfortunato Carlo VI il Folle.
La vita alla corte dei duchi di Borgogna era scandita da feste, ricorrenze religiose del ciclo liturgico e celebrazioni di liete ricorrenze familiari, matrimoni o nascite.
Banchetti, giostre e tornei potevano durare diversi giorni e i tornei si concludevano solitamente con un grande banchetto.
Il fulgore della corte di Borgogna, fortemente condizionato dalla creazione artistica, si distingueva allora dagli abiti dalle forme particolari caratteristiche di questo periodo. Questi abiti di corte trasformavano il corpo e gli davano una silhouette completamente artificiale, attraverso l'esagerazione di certi volumi: indossare abiti così costosi significava affermare ostentatamente la propria appartenenza a una società lussuosa e raffinata.
L'arte orafa affermò più che mai il proprio ruolo e come nelle corti italiane, i principi amavano adornarsi con splendidi gioielli. Gli orafi borgognoni e parigini traboccano di fantasia per soddisfare questa facoltosa clientela. Lo smalto fece la sua comparsa sulla scultura in oro a tutto tondo: Margherita di Fiandra commissionò uno di questi gioielli smaltati, raffigurante un Calvario, per il dono natalizio del 1403 a suo marito. Questi preziosissimi oggetti di devozione erano opere principesche per eccellenza.
Le feste date alla corte di Borgogna erano generalmente accompagnate da tornei e giostre: i nobili francesi, che passavano il tempo a banchettare, volevano organizzare giostre e tornei come si praticava alla corte di Borgogna.
I cortei offrivano quindi una forma raffinata in un'ambientazione inedita; la giostra era un combattimento unico a cavallo, con lancia; il torneo era una lotta collettiva, in cui si scontravano almeno due campi. I gruppi di cavalieri lasciavano la loro residenza e attraversavano la città, accolti da finestre e balconi da dame, nobili o borghesi. Arrivavano sul luogo del combattimento, spesso la piazza principale. Gli spalti erano pieni di spettatori. Le bandiere dei combattenti erano sontuosamente decorate con i loro stemmi. Suonarono le trombe, i cavalieri galopparono intorno alla piazza e si toccarono. Se uno di loro correva il pericolo di essere ucciso dall'avversario, il duca o qualche altro arbitro scagliava una freccia o il suo bastone e il combattimento cessava. Questo nobile intrattenimento per eccellenza, tuttavia, non era privo di pericoli. I vinti spesso avevano bisogno di aiuto per lasciare il luogo del combattimento. Questi giochi sportivi erano in realtà un allenamento per i reali combattimenti futuri.
I simboli sontuosamente ripetuti sulle coperte dei cavalli, sugli abiti dei cavalieri e su quelli dei loro compagni esigevano di essere decifrati. Al termine del gioco, i premi sono stati assegnati dalle donne.
Quando i cavalieri non erano impegnati in giochi cavallereschi in cui immaginavano di difendere l'onore di una gentile damigella in un mondo esotico, potevano rivivere lo stesso tipo di avventure nei romanzi. Accanto alla moda dei romanzi dei cicli classici e della crociata dei secoli precedenti, ancora in voga, la corte di Borgogna vide fiorire una letteratura di opere pseudostoriche, come romanzi d'avventura biografie orientali o cavalleresche, sotto l'influsso dello spirito crociato. Alla corte di Borgogna, come nel resto d'Europa, si passava il tempo anche a comporre poesie e canti di amor cortese, tema rinnovato alla corte di Francia. Ci furono molto poeti legati alla corte di Borgogna o ad essa vicini, come il tournese Pierre de Hauteville.

2. Storia della Certosa di Champmol
La costruzione della Certosa di Champmol per volontà di Filippo l’Ardito fu una delle poche imprese grandiose in un periodo di grande contrazione economica per l’Europa.
Sulla strada per Parigi, appena uscendo da Digione, l’allora trentaseienne Filippo l’Ardito aveva scelto il luogo che per lui era degno di ospitare la sepoltura sua e quelle della sua stirpe.
Era il 1378 quando il Duca acquistò per 800 franchi un'area che appartiene a Hugues Aubriot un sito allora chiamato La Motte de Champmol letteralmente "Motta[2] del campo molle" la cui paludosità, quindi la mollezza del terreno, si spiegava con la prossimità del fiume Ouche che spesso e volentieri si impaludava.
Molto religioso, come tutti in famiglia, Filippo nutriva una particolare venerazione verso l’Ordine Certosino e impegnò ingenti somme di denaro per la costruzione e l'abbellimento del grande complesso monastico che purtroppo fu saccheggiato e in gran parte distrutto durante la Rivoluzione francese.
Della Certosa oggi esistono purtroppo solo poche vestigia: il Portale della chiesa, la Torre d’accesso all'oratorio ducale e quel che rimane del Pozzo di Mosè.
Alcune parti e opere d’Arte appartenute alla Certosa oggi sono sparse per Digione e i dipinti che un tempo appartenevano alla chiesa, alla sacrestia, alla sala capitolare e alle celle dei monaci, oggi si trovano nella Cattedrale di Saint-Bénigne dove per un certo periodo furono trasferite anche le Tombe dei duchi di Borgogna prima di essere restaurate e collocate nella Sala delle guardie del “Museo delle Belle Arti” che occupa parte del Palazzo dei Duchi. Altre parti e opere sono infine disperse in alcuni musei del mondo, altre ancora sono andate perdute.
I lavori di costruzione della Certosa incominciarono solo nel 1383 per il reperimento dei fondi: a luglio furono scavate le fondamenta e ad agosto fu solennemente posata la prima pietra dalla duchessa Margherita e da suo figlio Giovanni, il giovane conte di Nevers allora appena dodicenne che sarebbe passato alla Storia come Giovanni senza Paura.
Di impulso il Duca aveva voluto creare un sacrario che rivaleggiasse con quello dei Re di Francia nella Basilica di Saint-Denis a Parigi, ma la Certosa si caricava di ancor più profondi significati politici. Con la sua fondazione, Filippo manifestava un duplice desiderio: quello di dimostrare la sua pietà religiosa e quello di atteggiarsi a grande mecenate. Politicamente la storia della Certosa di Champmol è quindi intimamente legata a quella di uno Stato borgognone. Fondandola, Filippo sottolineava che la capitale dei suoi Stati era Digione e non più Lilla.
L'edificio inoltre diventava anche il sepolcreto dei Duchi di Borgogna Valois, venuti dopo di lui, rompendo così la tradizione dei suoi predecessori poiché i duchi capetingi di Borgogna fino allora si erano fatti seppellire nell'Abbazia di Cîteaux, e affermava, di fatto, la specificità della nuova dinastia borgognona da lui inaugurata.
Come tutte le certose, il progetto prevedeva la realizzazione della chiesa, del monastero, di due chiostri, uno piccolo e uno grande, e questo di Champmol, lungo cento metri per lato, doveva essere ornato da una fontana centrale a forma di Calvario sul chiostro grande su cui si affacciavano le celle dei monaci spaziose e ben pavimentate (nessuna certosa infatti secondo la Regola di San Bruno può avere affacci all’esterno di essa), e ancora la Sala capitolare e la Sacrestia. (Fig. 1)
Il cantiere impegnò più di duecentocinquanta lavoratori di varia provenienza geografica e di ogni settore dell’edilizia: scultori, pittori, piastrellisti, vetrai, carpentieri, fonditori, ciascuno affidato a maestri nel proprio campo.
I fonditori lavoravano agli ordini di Mastro Colart, l'artigliere del duca, che fu incaricato della fabbricazione delle campane della certosa. Il mastro carpentiere Jean de Liège, da non confondere con l’omonimo scultore, era responsabile dei telai e dei lavori di legno come le impalcature; i mastri tegolai erano Perrin de Longchamps e Jean de Gironne, e i mastri vetrai erano Robert de Cambrai ed Henri Glumosack. Tutti questi nomi emergono dai puntualissimi archivi ducali.
Della decorazione pittorica fu incaricato un artista del nord della Francia “Jean de Beaumetz”, mentre “Jean Malouel”, proveniente da Nimenga nel ducato di Gheldria, si occupava della policromia degli elementi scultorei. Quando de Beaumetz morì nel 1396, Jean Malouel prese il suo posto nella carica di pittore di corte e lo stesso accadde nella scultura dove a capo della bottega si avvicendarono prima il lussemburghese Jean de Marville, poi gli olandesi di Haarlem Claus Sluter e infine suo nipote Claus de Werve.
Jean de Beaumetz, Drouet de Dammartin e con lo scultore Claus Sluter, partecipavanoanche alla decorazione di altri edifici ducali come i castelli di Rouvres e di Argilly e soprattutto del Castello di Germolles, l’unico rimasto pressoché intatto dai tempi dei duchi Filippo e Margherita e al quale dedicherò una prossima lettura.
I lavori di costruzione del complesso monastico procedevano alacremente e nel maggio 1388, cinque anni dopo l’inizio, la chiesa fu consacrata dal Vescovo di Troyes e i monaci si trasferirono nel chiostro nell'ottobre dello stesso anno.
La struttura architettonica fu guidata dallo scultore e architetto francese Drouet de Dammartin che, nato nel Trecento e non si riesce neppure ipotizzare intorno a quale anno, e morto nel 1413, fu particolarmente attivo in Francia e, prima di approdare alla corte di Digione, in Borgogna nella seconda metà del Trecento. Dammartin era celebre ai tempi: aveva fatto parte del gruppo di artisti che, sotto la direzione di Raymond du Temple, dal 1362 aveva lavorato all’ammodernamento del vecchio Castello del Louvre, la cui costruzione risaliva a Filippo II Augusto, e aveva collaborato alla sua trasformazione in un Palazzo reale di residenza per il re Carlo V, fratello maggiore del Duca, pertanto era diventato un architetto di fama e di prestigio: nel 1362, Dammartin si era dedicato particolarmente alla costruzione della grande scala a chiocciola innestata nella parete del sotterraneo, detta la grande vite, e poi aveva scolpito un portale e le armi della regina consorte Giovanna di Borbone. Nel 1375, insieme al fratello Guy, era stato impegnato da Giovanni di Berry, terzo fratello di Carlo V e di Filippo nella costruzione a Bourges del Palazzo ducale. (Figg. 2, e 3 )

Dammartin aveva quindi un curriculum di tutto riguardo quando il 10 febbraio 1383 Filippo l'Ardito lo nominò maestro generale delle opere murarie di Borgogna: produsse quindi per lui i lavori di costruzione della Certosa di Champmol nel frattempo diresse la costruzione della potente fortezza della Ècluse nelle Fiandre, di cui non rimane che la memoria storica, poi nel 1387 lavorò con il suo collaboratore Jacques de Neuilly al Portale della Sainte-Chapelle di Digione che durante la Rivoluzione fu saccheggiata e distrutta con il chiostro annesso per costruirvi un teatro.
È molto difficile poter esprimere un giudizio su questo maestro perché delle sue opere rimane solo il Portale della Certosa, sviluppato fra l’altro insieme a Jean de Marville, il cui progetto fu in seguito modificato da Claus Sluter.
Per quello che è possibile attribuire a Dammartin e a de Marville, sia pure solo in controluce, essi appaiono molto condizionati dall'Arte che si produceva a Parigi negli anni Settanta del Trecento: questo portale è infatti fortemente ispirato a quello della Chiesa dei Celestini, completato a Parigi nel 1370. (fig. 4)

3. Il Portale della Certosa.
Sulla facciata principale della chiesa Claus Sluter scolpì, sulle tracce di Jean de Marville, un grande portale con statue raffiguranti Filippo l’Ardito e sua moglie Margherita di Fiandre inginocchiati ai piedi della Vergine e entrambi presentati da due santi intercessori, San Giovanni Battista e Santa Caterina d’Alessandria. (fig. 1)

Questo magnifico insieme, la cui inventiva rompe con l'impianto più tradizionale del portale trecentesco francese si conserva ancora oggi.
Come Jean de Marville, Claus Sluter e suo nipote Claus de Werve che si erano susseguiti nella direzione dell’officina di scultura di Champmol, molti altri scultori del nord erano giunti ad esercitare il loro talento a Digione, a volte dopo un soggiorno a Parigi. Le loro eccezionali opere non mancarono di ispirare committenti e scultori locali – alcuni di questi ultimi formati a Champmol – creando intorno alla Certosa una vera e propria dinamica nel campo della scultura.
Questo superbo portale è legato a tre artisti: “Drouet de Dammartin” e “Jean de Marville”, che avevano ideato, come ho già detto, un portale che si ispirava a quello parigino dei Celestini, e ultimo “Claus Sluter” che in parte modificò il progetto iniziale.
Gli storici attribuiscono il progetto originario del portale all'architetto Drouet de Dammartin e allo scultore Jean de Marville che disegnarono insieme il portale nel 1388.
Jean de Marville vi incominciò a lavorare nel 1388, ma della sua opera rimangono soltanto le due consolle interne poste nelle pareti laterali che richiamano lo stile che gli artisti di Carlo V avevano creato a Parigi.
Claus Sluter non arbitrariamente, ma solo per esplicito desiderio del Duca, ampliò il progetto originario del portale e la sua realizzazione: secondo alcuni avrebbe realizzato lui tutte e cinque le statue entro il 1393. Non tutti gli studiosi sono tuttavia d’accordo con questa ipotesi infatti alcuni storici dell'Arte sono fermamente convinti che la “Vergine col Bambino” sia opera di Jean de Marville, che lavorò al portale fino alla sua morte nel 1389.
Di certo si sa solo che il portale sia stato ampliato rispetto al progetto iniziale su richiesta del Duca, forse quando Sluter successe a de Merville alla guida della bottega che aggiunse le figure dei duchi e dei santi intercessori che sono certamente di sua mano.
Il portale della cappella sviluppa un'iconografia frequente nei portali parigini durante il regno di Carlo V: i donatori inginocchiati sono presentati alla Vergine da un santo intercessore, a sinistra il duca Filippo in ginocchio ha alle sue spalle San Giovanni Battista, a destra, la duchessa Margherita anche lei in ginocchio ha alle sue spalle Santa Caterina d’Alessandria, al centro c’è la Vergine che sorregge il Bambino Gesù, rappresentata sul trumeau che occupa lo spazio tra due aperture. (fig 2 e 3)


Le cinque statue sono a tutto tondo e la “Vergine col Bambino” attira l'attenzione dell’osservatore soprattutto per la sua torsione dinamica e per le complesse pieghe del panneggio della sua veste. (fig.4)

Il modo con cui i loro volumi si stagliano dalla facciata, la convergenza degli sguardi verso Gesù Bambino tra le braccia della madre, il movimento delle mani e le pieghe dei drappeggi creano una tensione e un'unità che conferiscono al portale uno spiccato senso drammatico.
Su ogni lato la Sacra conversazione della Madonna col Bambino è affiancata dai donatori, Filippo l’Ardito e sua moglie Margherita delle Fiandre in preghiera e con i loro santi patroni. 
L'insieme crea una prospettiva pulita, finalmente liberata dal verticalismo ancora gotico della porta.
Le mensole aggettanti su cui si appoggiano le figure laterali sono decorate con figure di dottori della Chiesa.
Le statue dei committenti a grandezza naturale sono molto probabilmente autentici ritratti, poiché mostrano realisticamente i difetti fisici del Duca e della Duchessa come il famoso doppio mento di Margherita di Fiandre e il naso molto pronunciato di Filippo.

I panneggi e gli abiti, di grande impatto, sono trattati con molto dinamismo, e anche le espressioni dei personaggi sono improntate a grande realismo.

Il Pozzo di Mosè
Il capolavoro di Claus Sluter è sicuramente il Pozzo di Mosè del 1395 collocato al centro del chiostro grande della Certosa e caratterizzato da un design nuovo e del tutto audace: le possenti figure, i sei profeti e i sei angeli, sono caratterizzate da un nuovo grandioso realismo e da una notevole caratterizzazione psicologica.
Il pozzo originariamente era la base di un “Calvario” [3] cioè di un monumento che comprendeva una croce e altri due o più gementi ai piedi della croce.
Per questa enorme opera d’arte Filippo l’Ardito incaricò Claus Sluter e successivamente il nipote di Sluter, Claus de Werve per la scultura, e Jean Malouel per la decorazione policroma.
Quest’opera grandiosa aveva un’altezza complessiva di tredici metri, ma alla fine del Settecento andò parzialmente distrutta in seguito al crollo dell’edicola che aveva la funzione di proteggere l’opera dalle intemperie. Per questo motivo di quest’opera oggi rimane oggi solo la parte inferiore, il cosiddetto Pozzo di Mosè, costituito da una vasca esagonale sormontata da sei bellissime statue di profeti dell'Antico Testamento cariche di realismo e di espressività. Solo pochi frammenti del sovrastante Calvario furono invece ritrovati nel 1842, durante la pulitura del pozzo e oggi sono conservati nel “Museo Archeologico” di Digione. Si tratta di un “busto di Cristo”, la cui attribuzione a Sluter è stata però messa in discussione da qualche storica, le “gambe di Cristo”, mozzate alle ginocchia, nonché delle “braccia incrociate” di Maria Maddalena o della Vergine. Cristo, rappresentato con gli occhi chiusi, la bocca semiaperta e le guance infossate è molto realistico. 



Attualmente il Pozzo di Mosè si trova nel parco dell’Ospedale di salute mentale di Digione protetto da una struttura architettonica.
I lavori di costruzione di questo capolavoro incominciarono nel 1383, si intensificarono tra il 1396 il 1405 e terminarono ad opera di Claus de Werve nel 1410, dopo la morte del Duca e dello stesso Sluter. Quest’opera, anche così com’è, non ha mai smesso di stupire i suoi visitatori, con il suo realismo e la bellezza delle sue decorazioni al punto che gli studiosi lo considerano non tanto un capolavoro della scultura gotica internazionale, quanto piuttosto un felice precedente dell'Arte rinascimentale in area nordica nonché una grande fonte di ispirazione per molti artisti della sua epoca o perfino di artisti contemporanei. Alla fine del Settecento, già prima del 1789 l’edicola che proteggeva l’opera crollò e trascinò con sé la croce e le sue statue, che poi scomparvero quando, durante la Rivoluzione, la Certosa fu venduta come proprietà nazionale.
La Borgogna francese patì con la Rivoluzione francese quello che le sue province fiamminghe patirono con il Beeldenstorm del 1566.
Precedentemente quest’opera era conosciuta semplicemente come il Grande calvario, dopo la scomparsa della parte superiore fu chiamato il Pozzo dei Profeti, infine il Pozzo di Mosè. Anche questo Calvario, segnato da numerosi simboli certosini, mostra il legame tipologico cioè le connessioni strette tra Antico e Nuovo Testamento [4] e inoltre, una serie di indizi ne fanno un'opera di propaganda a favore del duca di Borgogna.
Il Pozzo di Mosè era in effetti il piedistallo del “Calvario”, che era collocato su una struttura esagonale che eleva l'attuale monumento ad un'altezza di circa sette metri dal suolo. Il palo della croce era conficcato nella vasca d'acqua, profonda quattro metri, che era alimentata direttamente dalla falda freatica. Ciascuna delle facce di questa vasca presentava lo stemma di Filippo II di Borgogna, dipinto al centro di un sole radioso, ma di essi solo due sono oggi ancora visibili.
La parte superiore del piedistallo su cui poggiano i profeti, è separata da un gocciolatoio e sormontata da un cornicione ricoperto di roccia piena rappresentante il Golgota. Questa parte è costituita da diciassette blocchi di pietra, che formano otto strati orizzontali incastrati l'uno nell'altro ed è decorata con le sei statue di profeti dell'Antico Testamento.
Ogni statua è collocata in una nicchia poco profonda decorata con archi trilobati.
Le statue sono separate l'una dall'altra da una colonnina con capitello decorato a fogliame e su ciascuna delle quali poggia un angelo. I sei angeli hanno il compito di collegare i profeti e il Calvario e di aiutare lo spettatore, al quale essi si rivolgono, a comprendere il momento supremo della Passione di Cristo. (fig. 4)

Le statue dei profeti sono a tutto tondo, alte circa due metri ciascuna, poste su una mensola anch’essa decorata con foglie diverse. Un'iscrizione sotto ogni mensola designa il nome del profeta. Tutti i profeti recano un filatterio contenente un estratto dei loro scritti in lettere gotiche latine, ma non ebraiche come di solito sono scritti i filatteri, che annunciano la passione di Cristo.
Mosé è raffigurato con due corna sulla fronte e una lunga barba che arriva fino al petto. Nella destra tiene le tavole della Legge e nella sinistra il testo: "Immolabit agnum multitudo filiorum Israhel ad vesperam". Indossa una tunica rossa tenuta da una cintura con fibbia e un mantello d'oro foderato di azzurro.

Il Re David, che indossa una corona di gigli, tiene un'arpa nella mano destra, in parte coperta dal suo mantello. Sul rotolo nella sua sinistra è scritto il salmo: “Foderunt manus meas et pedes meos, numerarunt ossa”. La statua è decorata con un mantello di panno dorato foderato di ermellino e una tunica blu tagliata a lunghe strisce. L'azzurro del mantello è tempestato di soli radiosi: simbolo del re Carlo VI e di Filippo l'Ardito e questo ricorda la vicinanza tra il Duca e i Re di Francia, di cui il Duca era figlio, fratello e zio, nonché reggente.

Geremia ha un libro dal quale scende cade un filatterio con queste parole: "O vos omnes qui transitis per viam, attendite et videte si est dolor sicut dolor meus" tratto dalle “Lamentazioni”. La statua una volta indossava occhiali e un mantello d'oro foderato di verde e una tunica viola. È l'unico profeta ad indossare questi colori e non il blu come gli altri. Il viola è il colore della carità e della penitenza ed è anche un colore molto vicino ai velluti cremisi spesso indossati dal Duca sui suoi abiti. Probabilmente Sluter attribuì a Geremia proprio le sembianze di Filippo di Borgogna: si nota infatti una somiglianza tra il volto di Geremia e quello della statua del duca nel portale della chiesa della Certosa scolpita sempre da Sluter, ma anche con altri noti ritratti di Filippo. Come il Duca, la statua di Geremia è raffigurata priva di barba, insolito nelle raffigurazioni medievali di un profeta dell'Antico Testamento e anche il Duca portava gli occhiali, proprio come la statua in origine. Inoltre, questa rappresentazione potrebbe essere spiegata dal fatto che Geremia era considerato il profeta più importante per i certosini, con i quali essi si identificavano frequentemente.[3]


Zaccaria” apre le braccia con in mano una penna e nell'altra un calamaio e sul suo filatterio sembra aver scritto: “Appenderunt mercedem meam triginta argenteos”. Indossa un berretto che scende fino agli occhi, una tunica rossa e un mantello azzurro, ricamato con grandi foglie dorate.

Il profeta Daniele è rivolto verso Isaia al quale sembra stia parlando. Indossa un cappuccio blu, una cappa d'oro ricamata e foderata di azzurro. Le sue calze sono marroni ricoperte da un sandalo con cinturini e suole dorate. Il suo filatterio recita: “Post hebdomadas sexaginta duas occidetur Christus”.

Isaia” è leggermente proteso verso Daniele, a capo scoperto, un libro sotto il braccio: la sua sopravveste di stoffa d'oro era intessuta di rosso e di blu. Sotto il libro porta alla cintura una borsa decorata con sei nappe, da cui fuoriesce un pezzo di pergamena: “Sicut ovis ad occisionem ducetur, et quasi agnus coram tondente se obmutescet et non aperiet os suum”.
La forma complessiva del Calvario rimane ancora oggi controversa: le ipotesi avanzate inizialmente consideravano tre statue ai piedi della croce cioè quelle della Vergine, di San Giovanni e di Santa Maria Maddalena. Secondo la professoressa Nash invece vi era collocata solo la statua di Maria Maddalena, inginocchiata e di fronte a Cristo, le cui braccia incrociate sono i resti sull’attico del pozzo poco spazioso per potervi inserire diverse statue.
La disposizione di una semplice statua ai piedi della croce è frequente nei Calvari di questo periodo: un'identica scena della crocifissione si trova in una tavola del citatissimo Polittico Orsini di Simone Martini, che si trovava in Borgogna dalla fine del Trecento.

Tuttavia, l’ipotesi della Nash di un'unica statua ai piedi della croce è contestata da altri storici dell'Arte e in particolare dall'americana Sherry Lindquist, altra specialista sulla scultura della Certosa.
Inoltre, sono avanzate anche nuove ipotesi sulla disposizione complessiva della croce. Tale croce avrebbe potuto raggiungere l'altezza complessiva di sei metri, quindi l'altezza complessiva del monumento doveva essere di circa tredici metri. Nel disegno del Calvario, la policromia è importante quasi quanto la scultura stessa. Jan Malouel, originario come Sluter dei Paesi Bassi del Nord dovette lavorare in stretta collaborazione con lo scultore.
Tra i pigmenti usati da Malouel vi sono il carbonato di piombo, il tetrossido di piombo, il solfuro di mercurio, l’ossido di piombo, il carbonato di rame, l’ossido di ferro che essi ovviamente chiamavano in modo diverso e inoltre foglie d'oro e di stagno. I pigmenti azzurri, sebbene la maggioranza nelle vesti dei profeti particolarmente costosi rilevano la presenza di azzurrite o blu oltremare, è a base di lapislazzuli. I colori delle vesti dei profeti sono scanditi secondo la scultura dei drappi: i drappi più panneggiati, ricchi e dinamici hanno una colorazione più sobria (Mosè, Geremia e Daniele), mentre i drappi più semplici e statici hanno una policromia più ricca (David, Zaccaria, Isaia).

Le poche citazioni del Calvario nel Quattrocento insistono particolarmente sulla sua bellezza: indubbiamente, infatti, dovette segnare particolarmente i contemporanei, proprio per la sua ricca policromia e la sua doratura..
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[1] NOTA STORICA – La Sainte-Chapelle di Digione, diventò per decisione di Filippo il Buono a Rethel nel gennaio 1432 il “luogo, capitolo e collegio” dell'Ordine del Toson d'Oro. Vi organizzò il capitolo del 1433 e vi fondò una messa solenne e quotidiana detta da un capitolo di ventiquattro canonici, pari al numero dei cavalieri dell'Ordine. Questa messa fu celebrata fino al 1789 con lo scoppio della Rivoluzione. Alla morte di Carlo il Temerario nel 1477, sua figlia Maria di Borgogna portò l'Ordine del Toson d'Oro al marito Massimiliano d'Austria e la cappella dell'Ordine fu trasferita al Palazzo Coudenberg a Bruxelles. Nel 1794 l'intero tesoro dell'Ordine era custodito nella sala del tesoro, la Schatzkammer di Vienna.
[2] NOTA LINGUISTICO TOPOGRAFICA - Una motta è un piccolo rialzo del terreno originato probabilmente da una frana ed è un termine abbastanza diffuso nella toponomastica romanza.
[3] NOTA ICONOGRAFICA – Un “Calvario” è un monumento pubblico che raffigura un Crocifisso, talvolta racchiuso in un’edicola all'aperto. I calvari sono molto diffusi principalmente nelle regioni nord-occidentali della Francia, in Bretagna e in Belgio, ma sono abbastanza comuni anche in Italia e in Spagna, le cui strade presentano ai loro lati questo tipo di monumenti, solitamente protetti da una tettoia. I “calvaire” bretoni sono tra i più noti per la loro complessità e per la presenza di altre sculture che circondano la “Crocifissione” stessa, che in genere rappresentano la Vergine Maria e gli apostoli, ma a volte anche santi e altre figure dell'iconografia cristiana si distinguono da quelli più semplici, composti dal solo crocifisso. Nel nord della Francia e in Belgio, i calvari erano eretti negli incroci delle strade e dei sentieri. Oltre a essere oggetti di culto, servivano anche come punti di riferimento dei viaggi. Fin dal Medioevo essi erano serviti per marcare il paesaggio, in altri termini rappresentavano l'acquisizione simbolica di quel territorio da parte della comunità cristiana, come, nelle epoche precedenti, i monumenti megalitici contrassegnavano i paesaggi della preistoria, secondo i dettami religiosi e ideologici delle comunità del tempo. I calvari erano generalmente collocati nei giardini vicino ad una chiesa o un monastero e solitamente tendono a imitare la topografia del Golgota, quindi erano posti su una rilievo proprio a simboleggiare la collina del Monte Calvario.
[4] NOTA LESSICALE – Il termine “tipologia” nella cultura cristiana indica l'interpretazione di racconti e di leggi cerimoniali dell'Antico Testamento della come “prototipi” o anche come “allegorie” di eventi futuri che sarebbero avvenuti e raccontati nel Nuovo Testamento.

mercoledì 12 aprile 2023

Viaggio nel Ducato di Borgogna: la Borgogna

“Lieto sui colli di Borgogna splende
e in val di Marna a le vendemmie il sole…”

Così Giosuè Carducci dava inizio a un sonetto con la sua rara capacità di far respirare attraverso pochi versi un’intera atmosfera.
Dicono la Borgogna una regione incantevole, caratterizzata da dolci colline ondulate ricoperte di vigne, da paesaggi variegati, formati da boschi incantevoli, da misteriose foreste e da corsi d’acqua che lambiscono abbazie come Cluny, riecheggiante salmodie gregoriane, (se si vuole ascoltare si clicchi qui) castelli di epoca feudale (se si vuole ascoltare si clicchi qui) e villaggi piccoli e quieti. Ma la Borgogna è anche terra di vasti patrimoni storici e culturali, grazie a stupende città d’Arte come Digione, Auxerre, Besançon dove risuonano ancora nella memoria i clamori delle Guerre galliche portate da Cesare in quelle terre. Città ricche di Storia. Ma è soprattutto grazie al suo Duca, Filippo l'Ardito, che la Borgogna diventò una regione culturalmente cosmopolita, dove si sviluppò una scultura caratterizzata da figure immobili e monumentali, dove i volumi semplici, sebbene animati da potenti effetti chiaroscurali e da una minuziosa resa dei dettagli, prevalse sulle cadenze sinuose del “Gotico internazionale”.
Viaggiare nell’Arte borgognona significa incontrare proprio questo Duca, “genius loci” di questa terra, e lasciarci guidare proprio da lui in questa parte di viaggio nel “Gotico internazionale”. La “Borgogna” a suoi tempi era un territorio molto più ampio rispetto a quello odierno ed era diventato quasi un nuovo stato di discreta grandezza, incuneato tra Francia e Germania, concepito dall’Ardito Filippo II di Valois che fu Duca di Borgogna dal 1363 al 1404 e dai suoi discendenti fino al 1478.

Viaggio nel ducato di Borgogna: Filippo l'Ardito e il Benelux

È giunto il momento di conoscere il mio Anfitrione, in questo viaggio ideale nello “Stato” della Borgogna e nel Gotico internazionale di quella regione.
Ma prima voglio fare delle considerazioni sulla sua preveggenza. Non che fosse un indovino, ma certamente era un uomo lungimirante come i suoi tre discendenti ed Henry Pirenne oggi me ne darebbe atto.
Mi è spesso capitato che, studiando approfonditamente qualche personaggio storico, mi sia affezionato a lui sentendolo come un amico. Mi è capitato tante volte e mi è successo anche con Filippo, principe di Francia che come me amava l’Arte e soprattutto perché la sua lungimiranza e la sua modernità sono straordinarie.
Amo oggi partire dal dove e da un mio ricordo.
Quando si studiava la Geografia europea in Seconda Media, dopo i Paesi confinanti con l’Italia, si studiava la penisola Iberica con i suoi due, anzi tre Stati, e poi si studiava una regione d’Europa che aveva allora per me uno stranissimo nome: il “Benelux”. Allora quasi tutti quelli che andavano a scuola studiavano le pagine che ci assegnavano da imparare perché di rado i Prof. spiegavano la Geografia, troppo presi com’erano dal Latino dall’Analisi logica da quella del periodo e dall’Odissea quella tradotta da Ippolito Pindemonte con costruzione diretta e parafrasi riempiendo pagine e pagine di quaderno.
Noi undicenni, abituati come eravamo al concetto apparentemente semplice di “Stato”, che fra l’altro spesso confondevamo con quello di “nazione” senza troppe complicazioni, ci trovavamo di fronte a un consesso di Stati più o meno piccoli che avevano qualcosa di vagamente unitario e di economicamente comune, e non era una Confederazione come la Svizzera, ma ciascuno Stato conservava una propria dignità nazionale che per me si traduceva con le tre bandiere diverse che lo rappresentavano.
Difficile capire a quell’età una cosa così complicata nella quale entrava l’Economia che ancora non era diventata la teologia dei giorni nostri.
Ora che sto studiando l’Arte fiamminga e olandese – e preferisco distinguerle, nonostante la matrice comune -, mi sono imbattuto in un personaggio di tutto rilievo che ha avuto a che fare con quell’area e mi è tornata immediatamente alla mente la parola “Benelux”, oggi per me meno misteriosa.
E ho approfondito a dovere quel concetto, come sa fare solo uno che non ha l’obbligo di studiare, ma che può percorrere liberamente i sentieri della conoscenza spinto dalle proprie curiosità.
Il personaggio è un Duca, quello di Borgogna per la precisione, il cui pronipote mancò di un soffio la creazione di un altro stato in Europa, proprio una sorta di Benelux del Quattrocento.
Com’è strana la Storia!
A volte con pause di secoli si riannodano fili che potevamo credere spezzati per sempre come questa vicenda del Duca di Borgogna e della sua dinastia mezzo millennio fa e dell’odierno Benelux. Vicende che si presentano con aspetti solo apparentemente diversi.
Ma partiamo dall’inizio di questa storia.
Non dalla notte dei tempi né dal Big Bang, ma da poco successivamente – poco si fa per dire perché si tratta di miliardi di anni – quindi da quando il nostro pianeta ha assunto la sua attuale configurazione.
Di istinto ho sempre avvertito un fascino per i Paesi Bassi come per il Portogallo e per l’antico Ducato di Amalfi i cui popoli, stretti e costretti dal mare, hanno saputo trarre un vantaggio proprio da ciò che maggiormente li limitava. Oggi si usa un termine orribile per l’uomo: la resilienza che, estesa alle necessità economiche, ha assunto il valore di una schiavitù senza molti diritti in nome della resilienza. Un traslato proveniente dalla fisica, che sta bene là e che invece oggi è ideologicamente utilizzato in tutta la sfera sociologica.
Il Regno di Portogallo stretto dal potente vicino iberico, il Ducato di Amalfi e i Paesi Bassi stretti da un territorio ostile, il primo per la presenza di montagne a volte impervie e spesso a picco sul mare, i secondi con un mare che tenta sempre di avanzare e potrebbe inondarli per 2\5, e che a volte ci è tragicamente riuscito: entrambi territori esigui, buona parte dei quali strappati dall’operosità dell’uomo ai monti nel Ducato di Amalfi grazie ai suoi acrobatici terrazzamenti e al mare nei Paesi Bassi grazie alle sue spericolate dighe.
Il nome stesso di Paesi Bassi – che sarebbe meglio tradotto Nederlandia, in assonanza con Groenlandia, o Neerlanda, in assonanza con Irlanda e Islanda, o Nederterra, in assonanza con Inghilterra piuttosto che con Olanda, una sineddoche che individua solamente una delle sette regioni, anche se la più importante, di quelle che costituiscono lo Stato – fornisce la prima indicazione, proprio fisica, della loro peculiarità: i Paesi Bassi, insieme con la Depressione Caspica, sono le terre più al di sotto del livello del mare di tutto il macrocontinente eurasiatico e nelle prime sfociano grandi fiumi dell'Europa centrale e in particolare il Reno con il suo enorme bacino idrografico.
L'attrazione esercitata dal tratto terminale del grande fiume, maggiore arteria navigabile d'Europa, ha reso questo lembo di terra, sebbene perennemente minacciato dal mare, il terzo paese più densamente popolato d'Europa e due motivi hanno fatto di queste terre una Nazione: il primo è di natura antropologica e consiste in quella sfida inesausta tra uomo e natura, nella quale i Neerlandesi hanno trovato la loro più profonda matrice nazionale, il secondo è di natura storica, avendo essi maturato un forte desiderio di indipendenza dalle potenze straniere come attesta la più eclatante manifestazione legata a quegli ottant’anni di guerra sostenuta da questo popolo contro la Spagna, allora prima potenza mondiale, per difendere la loro autonomia.
Uno scontro a dir poco asimmetrico, eppure…
La formazione geologica di queste “terre basse” e pianeggianti è la conseguenza dell'azione dei fiumi, grandi “lavoratori”, soprattutto di quella del Reno. Sfociando in mare essi hanno depositato nei millenni successivi alla fine dell’ultima glaciazione grandi masse alluvionali, creando un territorio che appare una grande pianura che raramente supera i cento metri ed è protetto da dune e da dighe. Batavi e Frisoni in età antica avevano già eretto sbarramenti a difesa dal mare, ma i primi organici sistemi di dighe risalgono all’alto Medioevo.
Con la fine della pirateria dei Vichinghi, dei Normanni e dei Danesi dal X all’XI secolo – attività che tuttavia ben presto appresero anche gli abitanti delle “terre basse” –, le città ripresero a prosperare e ne sorsero di nuove che, unitesi in leghe (le famose “Hansen”), ebbero periodi di grande floridezza economica acquistando privilegi commerciali per sé o impedendo ad altre leghe simili di ottenerne o, in ogni caso, limitandoli.
Come dovunque in Occidente, anche le “terre basse” furono soggette al Feudalesimo con una nobiltà laica ed ecclesiastica i cui membri costituivano l'élite sociale. Questa nobiltà si era sviluppata in territori di pertinenze diverse, taluni appartenenti al Regno di Francia altri all'Impero germanico, e proveniente in ogni caso da famiglie di origini sociali diverse, “ministeriales” o “cavalieri”. Questa nobiltà però era sottoposta a norme legali peculiari da zona a zona, a usi locali ed era insediata in ambienti economicamente molto diversi: per esempio mentre l'Hainaut e il Lussemburgo erano prevalentemente territori rurali, le Fiandre invece erano più urbanizzate.
La maggior parte degli attuali Paesi Bassi e del Belgio, furono riuniti nel ducato di Borgogna, ma prima di questa unificazione da parte del Ducato di Borgogna, i neerlandesi si identificavano più nella città in cui vivevano che nel ducato o nella contea a cui esse appartenevano, e si consideravano, ancora di meno, sudditi del Sacro Romano Impero.
Per questa ragione la feudalità nelle “terre basse” era meno arcigna che altrove forse ancora una volta per motivi territoriali: foci di fiumi più o meno grandi, canali di riflusso delle acque interne e altro ancora avevano contribuito all’insediamento delle diverse etnie che comprendevano francesi lussemburghesi, tedeschi, frisoni, fiamminghi.
I Neerlandesi però non si liberarono mai completamente dai vincoli feudali cosicché le varie aree delle “terre basse”, a partire dal 1381, attraverso una serie di successioni e di crediti acquisiti, incominciarono a unirsi sotto il governo di pochissime famiglie fino a ridursi a una sola, quella dei Borgogna, che, pur lasciando ai comuni gli antichi privilegi di cui godevano, furono signori di tutta la regione.
E a questo punto era entrato in gioco il Duca.
Filippo II di Valois, nipote, figlio, fratello e zio di Re, incominciò a creare uno stato che si incuneava fra regno di Francia e Impero di Germania che, grosso modo, sembra ricalcare ciò che prima del Mille era stato il Ducato di Lotaringia.
Quell’antico ducato ricopriva quasi precisamente gli attuali confini di Belgio, Olanda e Lussemburgo i cui governi in esilio a Londra durante l’occupazione nazista diedero origine al “Benelux”.
L'età borgognona fu anche l'epoca in cui incominciò a formarsi una coscienza nazionale dei neerlandesi.
Nel 1433 Filippo il Buono, terzo duca di Borgogna, conquistò anche la Contea d'Olanda. Il commercio olandese incominciò a svilupparsi rapidamente nel Quattrocento anche grazie ai nuovi sovrani borgognoni che difesero strenuamente gli interessi commerciali dei loro territori. Le navi olandesi sconfissero diverse volte le navi della Lega anseatica. Bruges poi Anversa poi Amsterdam diventarono i principali porti europei dove si distribuiva il grano della regione baltica e questo commercio fu vitale per gli interessi mercantili dei neerlandesi, perché l'Olanda non era in grado di produrre il grano per le proprie esigenze.
Durante la sovranità della casata di Borgogna le “terre basse” raggiunsero un grado di civiltà e di cultura elevatissimo, anche se la politica di espansione in Europa, seguita dai duchi Filippo il Buono (1419-67) e da Carlo il Temerario (1467-77) fu pagata con l'oro anche dei neerlandesi che, dopo la morte di quest'ultimo duca, o si ribellarono, come avvenne nel caso della Gheldria che riacquistò la propria indipendenza, oppure impedirono ai suoi eredi di usare le loro ricchezze per scopi estranei agli interessi del Paese, che con l’imperatore Carlo V erano divenuti mondiali.
Dopo questa fuga in avanti con il Benelux ritorno ora al mio anfitrione alla fine del Medioevo.
Quando Filippo nacque il 17 gennaio del 1342 nel castello reale di Pontoise, era il quartogenito del futuro re di Francia Giovanni II il Buono e di Bona di Lussemburgo. Nessuno sapeva che questo neonato, subito soprannominato “Filippo senza terra”, sarebbe diventato un giorno una delle figure più potenti del regno di Francia e fra i protagonisti della Storia d’Europa.
Filippo visse durante l’interminabile “Guerra dei Cent'anni” in cui il Regno di Francia, quello che sarebbe stato un giorno di suo padre, e il Regno di Inghilterra, si fronteggiavano senza esclusione di colpi per remote cause dinastiche.
All'inizio del conflitto nel 1337, con le prime battaglie che si svolgevano nel nord della Francia, Pontoise era un posto sicuro, ancora relativamente risparmiato dalla guerra: con le sue possenti mura fortificate e i suoi robusti bastioni che circondavano la ben munita città, il castello di Pontoise era un luogo sicuro per la famiglia reale.
Tuttavia, la famiglia reale non rimase a lungo a Pontoise perché la guerra avanzava rapidamente sul suolo francese e la minaccia inglese si avvicinava sempre di più. Nel 1346, Edoardo III di Inghilterra e il suo esercito giunsero nella contea del Vexin e saccheggiarono tutti i raccolti e i villaggi che lui e le sue armate attraversavano e se Pontoise resisteva dietro i suoi bastioni, la regione era devastata.
Filippo quindi visse la sua infanzia in guerra e la sua giovinezza fu segnata non solo dal conflitto, ma anche dalla “Grande Morte Nera”, la pandemia di peste che da levante attraverso i porti italiani afflisse l'Europa dal 1347 al 1351. Nessuno fu risparmiato, un francese su otto morì e nel 1349 in rapida successione Filippo ad appena sette anni perse la madre e la nonna.
Nel 1350, alla morte del cinquantasettenne re Filippo VI, fu incoronato re suo padre, il trentunenne Giovanni II il Buono mentre la guerra con gli Inglesi era ancora in corso e nel 1356 si stava preparando a Poitiers una delle più sanguinose battaglie di quella guerra.
Il re si era preoccupato di mettere in salvo i suoi figli maggiori il principe ereditario Carlo, il duchino d’Angiò Luigi e il duchino di Berry Giovanni, ma portò con sé il più giovane, l’appena quattordicenne Filippo, il “senza terra”.
La battaglia fu furiosa e i Francesi dovettero cercare la fuga per evitare un probabile accerchiamento. Re Giovanni rimase quasi solo in mezzo agli Inglesi e il giovanissimo principe mostrò un coraggio ineguagliabile, combattendo coraggiosamente a fianco del suo papà sia spada in pugno aiutandolo in uno scontro ravvicinato, sia facendogli da scudiero quando si avvicinava un nemico. Filippo, pur ferito, continuò a guardare le spalle del padre, difendendolo valorosamente.
Giovanni II fu catturato e furono entrambi imprigionati insieme ai più stretti collaboratori del Re e successivamente tradotti in Inghilterra.
Il risultato della battaglia di Poitiers fu un disastro per i Francesi, e non solo in termini militari, ma anche economici: la Francia, per riavere il proprio sovrano, fu costretta a pagare un riscatto per il Re equivalente al doppio delle entrate annue del paese.
Per quattro anni ostaggio degli Inglesi, Filippo mostrò, anche durante la prigionia ardimento e orgoglio unici: una volta schiaffeggiò un coppiere che serviva il Re d'Inghilterra prima del Re di Francia, per punirlo dell’affronto di aver preferito il vassallo al sovrano. Perché giuridicamente il Re di Inghilterra era vassallo del Re di Francia. Un’altra volta rimproverò duramente un cavaliere inglese che secondo lui non era stato adeguatamente rispettoso nei confronti di suo padre, ponendo istintivamente mano alla spada.
Questo coraggio mostrato al suo fianco e il sostegno morale che Filippo diede al padre durante gli anni di prigionia e che mostrava in ogni circostanza gli valse il soprannome di “Ardito” fecero dell’impavido Filippo, il figlio prediletto del Re che, una volta rilasciato, lo dichiarò “primo pari di Francia” che equivaleva all’essere il primo fra i grandi feudatari, cioè dei vassalli diretti della corona di Francia e gli offrì dapprima la Turenna nel 1360, poi, in cambio di questa, il Ducato di Borgogna nel 1363 come ricompensa della sua fierezza.
Da quel momento per la Storia smise di essere il principe “senza terra” e diventò Filippo II di Borgogna che, all’insegna della sua arditezza, inaugurò il carattere eroico della sua stirpe futura.
A quel tempo il titolo di Duca di Borgogna era quasi solo una formalità onorifica, perché quel ducato, posto fin dall'XI secolo nell’ambito della corona reale francese, era solo un frammento dell'antica “Borgogna”. In quel momento il ducato era solo una modesta zona di confine col Sacro Romano Impero di Germania il cui confine passava proprio attraverso la Borgogna lungo la valle del Rodano.
Dall'altra parte di questo confine si trovava la "contea palatina di Borgogna" nota come la Franca contea, che però non era pertinenza del Re di Francia ma degli Imperatori del Sacro Romano Impero.
A quei tempi però c’era il Feudalesimo e i feudatari, a seconda del loro valore individuale, potevano essere, e spesso accadeva, più potenti del Re o dello stesso Imperatore. Nei suoi feudi Filippo infatti si assicurò di regnare da sovrano.
Più a nord sempre nelle pertinenze dell'Impero c’era la potente Contea delle Fiandre, dove i loro conti avevano una ricchezza ineguagliabile, grazie alle loro città mercantili di Bruges, di Gand e di altre ancora.
Ventisettenne Filippo riuscì a realizzare un grande colpo, auspice suo fratello Carlo V che era salito al trono nel 1364: conseguì il migliore matrimonio d'Europa impalmando nel 1369 l’unica figlia di Luigi II de Male, conte di Fiandra. La diciannovenne contessa Margherita III di Fiandra (1350-1405) era già vedova del primo Filippo di Borgogna, l’aveva sposata quando lei aveva appena undici anni e che se l’era portato via la peste nel 1361 estinguendosi così il primo ramo capetingio dei duchi di Borgogna.
Il suo matrimonio con Margherita di Fiandra lo avrebbe reso padrone delle contee di Fiandra e di Borgogna (la Franca contea), Artois e Nevers e ne avrebbe fatto uno dei signori più potenti d'Europa.
Le fonti dell’epoca e i ritratti descrivono Filippo alto, possente, con un mento forte e un naso importante, scuro di carnagione e non bello, ma i suoi contemporanei lo consideravano di grande sapere, instancabile e soprattutto un tenace lavoratore. Ma oltre al suo coraggio, in politica era dotato di un forte senso della misura e di un istinto naturale per il possibile. Lo storico Jean Froissart nelle sue Chroniques dice di lui che Filippo aveva visto lontano, io direi lontanissimo, vista l’attualità.
Con il suo talento politico, molto preso dai suoi doveri, aveva l'ambizione di svolgere un ruolo feudale di primo piano nel regno di Francia, ma lo fece con generosità e munificenza, da illuminato mecenate di tutte le arti, appassionato soprattutto di architettura, ma come tutti i generosi, sempre a corto di denaro.
Dal suo matrimonio iniziò la vorticosa ascesa di Filippo.
Nel 1372, il duca di Borgogna riuscì a mettere mano su varie signorie, che erano state sottratte precedentemente al ducato, ma rimase sempre fedele a suo fratello re Carlo V il Saggio non dimenticando mai di essere soprattutto un principe francese: prestò servizio in guerra, prese parte a numerosi assedi e operazioni militari contro gli inglesi, a fianco del conestabile di Francia, Bertrand Du Guesclin l’alto dignitario militare, al quale era generalmente affidato il comando in capo dell'intero esercito reale quale luogotenente del sovrano, cui spettava però il comando supremo.
Fino alla morte di suo fratello Carlo, Filippo combatté gli Inglesi, e quando Carlo morì nel 1380, Filippo diventò con i suoi fratelli Luigi d’Angiò, Giovanni di Berry, uno dei membri del consiglio di reggenza di suo nipote Carlo VI, allora dodicenne. Da quella posizione il Duca colse l'occasione di rafforzare ulteriormente l’autorità del suocero nelle Fiandre con la sottomissione delle città ribelli nel 1382.
Nel 1381 il Duca aveva acquistato il “castello di Germolles” in Borgogna – l'unico castello dei duchi ancora esistente in Francia –, lo donò alla moglie, che ne fece un buon luogo in cui vivere e una residenza di piacere dei duchi.
Alla morte del suocero nel 1384, Filippo incassò l’eredità di sua moglie: la contea delle Fiandre, che con le città di Gand, Bruges e Lille, era allora una delle province più ricche d'Europa, la contea di Rethel con due feudi attigui al Ducato di Borgogna cioè la Contea di Nevers nella Francia centrale e la contea di Borgogna cioè la Franca Contea che era nelle pertinenze dell'Impero, priva solo di Besançon che era una delle città libere imperiali, e infine la contea di Artois, confinante con le Fiandre.
Quando entrò solennemente con la moglie Margherita a Bruges, Ypres, Messines, Diksmuide, Damme, Mechelen e Anversa, il piccolo quartogenito ''senza terra'' di re Giovanni, era diventato a quarantadue anni l’uomo più potente del regno di Francia, il più influente proprietario terriero del regno e con le roccaforti che controllava dal 1384, partecipò con una posizione ragguardevole ai conflitti che turbavano il regno di Francia alla fine del secolo: la “Guerra dei Cent'anni” e, opponendosi fermamente a Enrico V d'Inghilterra poi allo stesso nipote re Carlo VI e infine agli stessi principi francesi in lotta per la reggenza del regno di Francia perché Carlo VI era considerato pazzo.
Diventato ufficialmente conte di Fiandra prese rapidamente misure militari necessarie e decise di imporre una tassa per finanziare la difesa delle regione. Nominò Guy de Pontailler, prima carica militare della Borgogna, e Jean de Ghistelle, rappresentante di un’antica stirpe fiamminga e stretto consigliere di Luigi II de Male, "governatori del paese delle Fiandre", equilibrando il potere militare borgognone con la continuità politica fiamminga.
Il Duca decise anche un programma di rinnovamento e di consolidamento delle roccaforti, in particolare la costruzione di un castello a Écluse proprio sul Canale della Manica.
Prendendo possesso della contea delle Fiandre, trovò solo la resistenza di Gand subdolamente sostenuta dagli Inglesi. Il Duca non marciò sulla città per evitare un inutile spargimento di sangue, ma isolò la città, bloccò le vie di rifornimento e la sua popolazione fu minacciata dalla scarsità di cibo, tutte condizioni che spinsero gli insorti cittadini di Gand a negoziare, soprattutto perché l’insurrezione durava già da più di sei anni. Filippo sapeva che il suo interesse convergeva con quello dell’intraprendente borghesia fiamminga. Ricevette quindi gli inviati fiamminghi con i quali concluse il trattato di Tournai il 18 dicembre 1385, atto che riportava la pace in tutta la contea delle Fiandre.
Con questo trattato il duca di Borgogna concesse la grazia al popolo di Gand, ne confermò tutti i privilegi in cambio della loro sottomissione e del loro impegno ad essere "sudditi buoni, leali e veri". Seppe essere conciliante, lasciando che ognuno scegliesse la sua obbedienza, o facendo scrivere in fiammingo le lettere della cancelleria. Tutte le Fiandre gli giurarono fedeltà, il che risolse il conflitto.
Durante lo Scisma d'Occidente, Filippo fu molto attento tanto nella sua attività di reggente del povero Carlo VI, quanto nel governo dei suoi possedimenti e degli interessi economici delle città manifatturiere dei suoi stati avvalendosi della consulenza di validi uomini d'affari e di imprenditori tra cui soprattutto Jacopo Rapondi (1350 circa – 1432), suo amico personale.
Filippo, prendendo possesso della contea delle Fiandre nel gennaio 1384 sapeva che per essere accettato dai fiamminghi doveva ripristinare la loro prosperità economica, tanto più che la guerra con suo suocero era durata diversi anni (1379-1385) e aveva devastato il paese.
Il duca decise per una rapida ricostruzione, favorì il ripopolamento dei centri devastati concedendo agevolazioni fiscali. Gli effetti di una tale politica si fecero sentire solo a lungo termine, e alcune città si ripresero solo a fatica, anche se il Duca fu sostenuto nella sua azione dai “Quattro Membri delle Fiandre”, un collegio che rappresentava i sudditi fiamminghi.
La prosperità delle Fiandre dipendeva principalmente dal commercio con l'Inghilterra, che all'epoca era il principale fornitore di lana per l'industria tessile nel nord dei territori che governava, e questo richiedeva il pagamento in monete d'oro. Filippo fece un’audace mossa finanziaria coniando monete fiamminghe contenenti pochissimo oro rispetto alla monetazione inglese. L'effetto fu rapido: l'economia si rianimò e il duca ne trasse cospicui profitti.
L'effetto di questa politica associata al ritorno della pace fu molto favorevole: l'economia si riprese e l’armonia tornò fra i sudditi, che accettarono la tassa, e il sovrano che portava la pace e la prosperità economica.
Seguendo la tradizione feudale, Filippo si occupò di arrotondare i suoi possedimenti e, da principe prettamente francese, diede vita una fase di espansione “francese” a scapito dell'Impero, lanciando sulla scena politica ed economica l'ascesa del suo ducato, che era quindi diventato ricchissimo e potentissimo.
Nelle Fiandre, Filippo mantenne le principali istituzioni amministrative fiamminghe, come l'organizzatissima e antica istituzione del “baliato”, e in particolare quella del “supremo balivo delle Fiandre”, un ufficio che era stato creato da Luigi II de Male: i “balivi” erano gli ufficiali giudiziari del conte incaricati di difendere i suoi diritti e le sue prerogative.
Il Duca, però, avviò un ampio programma di riforme che riguardò soprattutto la cancelleria: dal 1385 il Duca decise riunì le cariche di Cancelliere di Borgogna e Fiandre, il cui titolare diventò “Custode dei Sigilli” e questo fu il primo provvedimento di accentramento che adottò. Il provvedimento riguardò l'organizzazione giudiziaria e finanziaria, che entrò in vigore solo dopo il ripristino della pace nelle Fiandre: dal febbraio 1386 Filippo II istituì a Lille una “Camera del Consiglio” e una “Camera dei Conti” e scelse questa città per motivi linguistici, politici e geografici: situata nelle Fiandre francesi, Lille non aveva partecipato alla rivolta di Gand e la sua posizione, non lontana da Parigi e militarmente poco vulnerabile, ne facevano un luogo ideale.
Istituì due corpi di funzionari: quelli incaricati della giustizia e quelli incaricati dei conti, anche se i due organi talvolta si riunivano congiuntamente. Questa amministrazione si impose rapidamente su tutte le Fiandre e persino sulle signorie senza sbocco sul mare di Anversa e Mechelen e infine vi si sottomise anche la contea di Artois.
Nel suo sistema fiscale si distingue una doppia modalità di incassi e anche in questo Filippo seppe mostrarsi un amministratore di talento dando vita a un sistema fiscale moderno tanto che il suo principato aprì la strada alla moderna tassazione statale.
Filippo gestì il suo principato assistito da un cancelliere al quale delegò in gran parte i suoi poteri. Il Duca era inoltre circondato da un Consiglio Grande e Piccolo che lo seguiva nei suoi viaggi.
Questo consiglio non aveva una composizione fissa durante le sue assenze, Philippe delegò la gestione del suo principato ai suoi governatori e capitani generali.
Un’occasione per lui dolorosa, ma comunque favorevole era la malferma salute psichica del giovane re di Francia e Filippo, in seguito alle prime escandescenze del nipote alla fine degli anni Ottanta, di concerto con il duca di Berry, con un colpo di mano assunse da solo il governo dello Stato, licenziando tutti i consiglieri di Carlo VI destituendo Luigi d'Orléans, fratello del re che trescava palesemente con la regina sua cognata e alle cui spese folli, dettate dalla sua smisurata ambizione, il duca di Borgogna si contrappose rigorosamente.
Da qui nacque quell’insanabile rivalità tra Filippo l’Ardito e Luigi d'Orléans. In questo modo anche nella famiglia reale francese, per non venir meno al detto “parenti serpenti”, ebbe origine di un’enorme ostilità che avrebbe diviso i re di Francia dai duchi di Borgogna per i successivi ottantacinque anni con lo scontro delle due fazioni, quella dei duchi d'Orléans, detta degli Armagnacchi, e quella dei duchi di Borgogna, detta dei Borgognoni.
Nell'aprile del 1402, in assenza di Filippo di Borgogna da Parigi, il duca d'Orleans, fattosi nominare sovrintendente fiscale, impose un tributo estremamente oneroso e, quando Filippo rientrò a Parigi protestò immediatamente e dichiarò di avere rifiutato 100.000 corone come prezzo del suo consenso a tale tassazione: con tale mossa, Filippo l'Ardito acquisì ampia popolarità a Parigi, mostrandosi, rispetto al duca d'Orléans, un principe saggio e riformatore.
Filippo era diventato ormai padrone di una “grande Borgogna”, a cavallo del dominio francese e di quello germanico e alla sua morte nel 1404 lasciò al figlio un vasto dominio che comprendeva la storica Borgogna a sud e le Fiandre a nord: l'unione di questi due ricchi territori diede vita al sogno di un nuovo stato borgognone che tuttavia sarebbe rimasto irrealizzato.
Filippo l’Ardito dominò non solo la Borgogna, ma anche la vita politica francese dell’ultimo ventennio del Trecento e oltre.
I suoi territori erano ricchi, ma eterogenei e per governarli era indispensabile Parigi, snodo delle comunicazioni fra Fiandre e Borgogna.
Per più della metà dell'anno il Duca e la sua corte risiedevano all'”Hotel d'Artois” sull'Ile de la Cité, residenza dei duchi di Borgogna a Parigi fino alla fine del Quattrocento e, in questa funzione, durante i contrasti tra gli Armagnacchi e i Borgognoni rappresentò temporaneamente il centro del potere in Francia.
Dall'”Hôtel d'Artois” molti cavalieri trasmettevano i suoi ordini e quelli del suo Cancelliere, Jean Canard, e in ciascun feudo c’era un'amministrazione, specifica per ogni regione, cosicché il Ducato e la contea di Borgogna, la contea di Nevers e la baronia di Donzy possedessero ciascuno una propria burocrazia, e soprattutto per le regioni fiamminghe, dove bisognava fare i conti con le difficoltà linguistiche, di cui Filippo non parlava la lingua, e con i privilegi delle città.
Intorno al 1385-1387 il Duca centralizzò le istituzioni. A Digione, eletta da lui capitale del Ducato e dalla quale dipendeva un gran numero di ufficiali furono create una “Camera di udienza” e una “Camera di consiglio”.
Sebbene dotato di un acuto senso politico, era poco accorto al denaro e alla sua morte lasciò al figlio Giovanni Senza Paura le casse dello Stato vuote e l'obbligo dell'uso della demagogia, se voleva conservare un partito, quello dei Borgognoni in Francia.
Il Duca non fu più solo un grande feudatario, ma fu il capo di uno stato eterogeneo la cui amministrazione fu modellata su quella del regno di Francia e agì sempre come un principe territoriale preoccupato degli interessi dei suoi sudditi: dal 1376, non smise di promuovere tregue con l'Inghilterra, per difendere l'industria fiamminga, messa in crisi dalla guerra. E se dal 1398 durante il “Grande scisma d'Occidente” si attivò per la neutralità nella lotta fra papi romani e antipapi avignonesi, fu per non dividere i suoi sudditi: i fiamminghi, come gli inglesi, erano sostenitori del Papa di Roma, i borgognoni come i francesi, indulgevano per il Papa di Avignone.
Ma la cornice ristretta di un piccolo stato non bastava alla sua ambizione. Per obbligo, per temperamento e per necessità, Filippo trovò nella direzione del regno di Francia il vero campo della sua politica: alla morte di Carlo V nel 1380, aveva assunto la reggenza di Carlo VI allora appena dodicenne, insieme con i due fratelli, il duca di Angiò e il duca di Berry, che però erano spesso assenti, il primo per rivendicare l’eredità di re di Napoli, il secondo per l’attenzione che nutriva nel suo ducato, e per questo ebbe mano libera. Il governo degli “Anziani del Regno” dal 1388 al 1392, fu l'unica eclissi alla sua influenza. La manifesta follia del nipote Enrico VI nel 1392 e le crisi che seguirono assicurarono il suo definitivo ritorno al potere. Questo dominio sulla Francia coincise perfettamente con la sua ambizione. La stessa cura con cui si vestiva con i velluti più fini e le pellicce più ricche dimostrava chiaramente il suo gusto per la regalità per feste e sfilate.

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