lunedì 19 aprile 2010

Giorgio Scerbanenco sguardo lucido sulla Milano noir di C. Donnarumma, M. di Martino, G. Esposito, A. Liguori, M. Sembrano e S. Sorrentino.

Scerbanenco (1911 – 1969), sebbene sia ancora piuttosto riduttivo, può essere considerato il padre del poliziesco italiano, colui al quale Lucarelli, Machiavelli e Pinketts debbono più di una semplice ispirazione: non a caso alcuni tra i maggiori registi italiani di gialli si siano cimentati nell’adattamento delle opere di Scerbanenco per il grande schermo.
Oggi che il panorama del giallo italiano è sempre più contaminato da influenze estere, che si moltiplicano gli scrittori, ma sembrano mancare i veri autori, è il caso di riscoprire un classico ancora poco conosciuto, capace di parlare all’Italia di oggi, nonostante faccia riferimento a quella di ieri.
Nunzia Monanni Scerbanenco, giornalista e scrittrice, ricorda Giorgio Scerbanenco e il suo Duca Lamberti nel volume “Il ritorno del duca” in questi termini Duca Lamberti, creatura nata dalla penna di suo marito: «Per Scerbanenco, mio compagno di vita, Duca Lamberti era il suo alter ego, quello che lui avrebbe voluto essere sia fisicamente sia psicologicamente. Giovane, bello, alto magro, bruno, forte: un romagnolo esplosivo e irriducibile, senza paura con lo sguardo cattivo, ma dolcissimo negli affetti familiari. Sicuro e deciso. Unica sua incertezza la difficile scelta fra l’essere poliziotto o medico».
Con l'antologia “Il ritorno del Duca”, edita da Garzanti a cura di Gian Franco Orsi, sedici 16 giallisti riportano in vita Duca Lamberti, il medico investigatore nato dalla fantasia di Scerbanenco. Sedici autori dei giorni nostri rendono omaggio a Scerbanenco con sedici storie, ciascuna delle quali rappresenta in maniera personale il personaggio di Duca Lamberti e reinterpreta le atmosfere "noir" evocate da Scerbanenco, autore chiave della storia del noir europeo.
Oltre agli inediti di Scerbanenco, tracce di romanzi che l'autore non riuscì a scrivere, l’antologia propone i racconti “Medicina nera” di Alan D. Altieri, “Temendo l'inverno imminente” di Matteo Bortolotti, “L'anniversario” di Alfredo Colitto, “Duca e l'invertito” di Leonardo Gori, “Non si impara niente” di Carmen Iarrera, “Preludio a un massacro di inizio anno” di Diana Lama, “Lo sguardo di Mussolini” di Ernesto G. Laura, “La bionda della valanga” di Nunzia Monanni Scerbanenco, “Salto nel buio” di Giancarlo Narciso, “La faccia del vincitore” di Ben Pastor, “E i modenesi alla domenica” di Giuseppe Pederiali, “Duca e il professore” di Patrizia Pesaresi, “La morte risale a ieri sera” di Biagio Proietti, “L'ultima donna e la prima televisione” di Claudia Salvatori, “Bassa stagione” di Giampaolo Simi, “Duca Lamberti in crociera” di Diego Zandel.
Perché questo tardivo omaggio a Scerbanenco? Perché i quattro romanzi del ciclo di Duca Lamberti, pubblicati fra il 1966 e il 1969, rivoluzionarono la letteratura noir italiana e sono divenuti nel tempo pietre miliari di riferimento per più generazioni di lettori e narratori. In quelle storie come ben sottolineava nel 1968 il critico del giornale francese Le Combat: «soffocata dal caldo, madida di pioggia o persa nella nebbia ma sempre velenosa, Milano diviene una grande città mitica!». A più di quarant’anni dalla sua nascita, l’eroe protagonista di quelle storie di Scerbanenco riappare in quest’antologia speciale che contiene non solo sedici omaggi di autori italiani contemporanei, ma anche le trame complete del quinto e del sesto romanzo che avrebbero proseguito quella saga, se solo Scerbanenco non fosse prematuramente scomparso nel 1969.
I titoli di queste opere sono: “I pulcini e il sadico”, ma l’autore aveva anche ipotizzato “I signori muoiono in silenzio”, “So morire da me” e “Safari per un mostro”.
Nella prima storia scopriamo che Duca Lamberti, riammesso nell’ordine dei medici si sarebbe sposato con la sua amata Livia Ussaro: si segue così, passo a passo, la luna di miele dei neosposi in Francia, un luogo non particolarmente amato da Duca. Il loro viaggio in auto si trasforma, però ben presto in un incubo, visto che i due si troveranno ad occuparsi, loro malgrado, del caso di un assassino e seviziatore di bambini, abituato ad abbandonare i corpi delle sue vittime in riva ai fiumi.
Nel secondo abbozzo di romanzo “Le sei assassine”, del quale è proposto in volume oltre alla sinossi anche il primo capitolo autografo rimasto incompiuto, Lamberti è alle prese con un giallo enigmatico: l’omicidio del playboy Goffredo Borsaris, della cui morte sono sospettate sei misteriose donne a causa di un’enigmatica lettera anonima.
Le due trame preparate da Giorgio Scerbanenco sono molto precise e dettagliate ed è molto probabile che lo scrittore, come era nel suo stile, le avrebbe seguite nel minimo dettaglio.
Per quanto riguarda invece i racconti-omaggio contenuti ne “Il ritorno del Duca”, il curatore del volume Gianfranco Orsi spiega come tutti gli autori coinvolti abbiano aderito immediatamente con entusiasmo all’operazione. «C'è chi ha privilegiato il personaggio di Mascaranti; chi ha fatto incontrare Arthur Jelling e con Duca Lamberti; chi ha sdraiato Duca sul letto dello psicanalista Musatti; chi lo ha coinvolto nel periodo più buio del terrorismo; chi ha imbarcato un Duca Lamberti avanti negli anni su una nave da crociera nel Mediterraneo; chi lo ha ringiovanito agli anni universitari e chi a quelli dell’infanzia, mettendone già in risalto le doti di investigatore...».
Ed è sintomatico che molti dei racconti puntino sul ruolo di medico di Duca Lamberti a partire da “Medicina Nera” di Sergio Altieri che apre la raccolta. Duca è divenuto consulente di patologia forense e ci appare nelle prime pagine, mentre rende omaggio alla tomba della sua Livia Ussaro. «Un eroe bruciato - come racconta Sergio Altieri - oltre la soglia di un ennesimo “Secolo Maledetto”. Un guerriero ormai canuto. Ma che comunque non esita a “scrutare nell’abisso”».
Un medico capace di combattere con le sue stesse armi un terribile caif della mafia nigeriana, un uomo molto diverso da quello che ci appare in una storia come “La bionda della valanga” di Nunzia Monanni, in cui lo vediamo all’opera «in un reparto di chirurgia d’urgenza, dove ha a che fare non solo con incidenti, traumi e malattie acute, ma anche con vittime, e artefici di crimini violenti; e, naturalmente, con la polizia».
Lo sceneggiatore e regista Biagio Proietti ha ripercorso nel suo racconto “La morte risale a ieri sera” la lavorazione cinematografica dell’adattamento de “I milanesi ammazzano al sabato” da lui stesso sceneggiato nel 1970. Sul set del film si aggira proprio Duca Lamberti che assiste alla realizzazione di una fiction dedicata a una delle sue più drammatiche indagini e si trova a muoversi fianco a fianco del regista Puccio Binari, sotto le cui mentite spoglie Proietti cela il vero Duccio Tesseri, che gli chiede di fare da consulente per la realizzazione della pellicola. E sempre Duca si troverà anni dopo sull’ambulanza che troverà morto suicida l’attore Mark, nel quale è facile riconoscere il Frank Wolff della realtà, che aveva interpretato il suo ruolo al cinema. In queste tre storie sintomatiche troviamo tre elementi basilari del dna di Duca: la rabbia, il coraggio e la pietà.
Si è detto all’inizio che sarebbe riduttivo considerare Scerbanenco solo uno scrittore di genere, nello specifico del noir ma Giorgio Scerbanenco oltre che lo “scrittore e giornalista italiano di origine ucraina” è stato un autore dotato di incredibile prolificità e versatilità e, soprattutto, poliedrico ed eclettico, capace di muoversi a suo agio tra i generi più disparati. Giocando con i tutti i “colori” della letteratura di genere, egli mischia tranquillamente il giallo con il rosa e con il rosso del sangue e della passione, spruzzando su tutto un po’ di nero. Così, nei suoi libri, l’amore va a braccetto con la morte, le lame affilate dei coltelli si alternano alla dolcezza dei baci appassionati e la felicità può essere raggiunta solo pagando l’altissimo prezzo di un sacrificio estremo. Scerbanenco ha spaziato in ogni campo della narrativa, perfino nel western e nella fantascienza, ma Milano ed i suoi ambienti sono i veri protagonisti dei suoi romanzi: sarebbe incomprensibile lo scarto letterario di Scerbanenco se non si tenesse conto del ruolo privilegiato che egli conferisce agli ambienti milanesi, che trasudano di odio, d’amore e di una violenza talora efferata, incrociata con la lussuria, ma essi sono anche ricchi di dolcezza e di poesia, con punte di struggente lirismo. Le stesse tematiche dei suoi romanzi, prostituzione, bullismo, traffico d’armi, alcolismo, aborto ed eutanasia fanno di Scerbanenco, più volte definito dispregiativamente “macchina per scrivere” un lucido osservatore della società nella quale è vissuto ed uno scrittore profetico, capace di individuare problematiche che sarebbero diventate poi scottanti nella realtà odierna.
Nato a Kiev, nell'allora Russia imperiale, da padre ucraino e da madre italiana, in tenera età, Scerbanenco si trasferì in Italia, dapprima a Roma, poi a 16 anni a Milano, al seguito della madre: suo padre fu ucciso durante la rivoluzione russa, sua madre morì pochi anni più tardi. Costretto per motivi economici ad abbandonare gli studi, egli praticò molti mestieri, l’operaio, il conduttore di ambulanze, il fresatore, il magazziniere ed il fattorino, prima di arrivare al mondo dell'editoria.
Scerbanenco collaborò a numerose riviste, tra cui noti settimanali femminili, come "Novella", "Bella" e "Annabella": su quest’ultimo ha tenuto la famosa rubrica "La posta di Adrian", come correttore di bozze, ed ha inoltre ricoperto importanti incarichi redazionali e direttivi in alcuni settimanali femminili, sempre ritenendosi di lingua madre italiana e soffrendo l'essere considerato "straniero", nonostante i suoi romanzi fossero pubblicati dai più grandi editori italiani ed il successo di pubblico.
Da un po’ di anni a questa parte è in corso la riscoperta di Scerbanenco con la conseguente pubblicazione di molte delle sue opere.
Il suo esordio narrativo è del 1935 con Gli uomini in grigio, cui seguirono nel 1938 Il terzo amore presso Rizzoli e nel 1939, Il paese senza cielo.
Negli anni Quaranta per il ciclo Supergiallo Mondadori, ideò la figura di Arthur Jelling, un archivista della polizia di Boston, il suo primo romanzo giallo fu “Sei giorni di preavviso” del 1940, cui seguirono altri quattro romanzi: La bambola cieca del 1941, Nessuno è colpevole del 1941, L’antro dei filosofi del 1942 ed Il cane che parla del 1942.
Nel frattempo negli anni Cinquanta Scerbanenco inizia un altro ciclo di Romanzi detto “Il ciclo messicano”, che comprende “Il grande incanto” del 1948, “La mia ragazza di Magdalena” del 1949, “La luna messicana” 1949 ed “Innamorati” del 1951.
Solo dal dopoguerra, tuttavia, la vena artistica di Scerbanenco potè scatenarsi senza impedimenti, offrendo al lettore il ritratto di un’Italia malinconica e crudele, terribilmente simile a quella dei giorni nostri, un’Italia cui lo scrittore guardava con l’occhio attento di un critico, che non si lascia ingannare dalle false promesse del boom economico e della rinascita: a poco a poco arrivano le industrie, gli elettrodomestici, il progresso, ma il degrado resta quello di sempre, anzi, aumenta, come aumenta la criminalità.
Scerbanenco parlava di questo degrado: a lui bastavano poche righe per tratteggiare perfettamente l’universo delle periferie, delle grandi città, Milano in primo luogo, congestionate dal traffico, dalla folla, freddi polmoni d’acciaio imbevuti di egoismo, dove i giovani crescono circondati da fabbriche e da palazzoni antiestetici, dove non c’è futuro, dove si muore per pochi spiccioli e dove anche sognare diventa una colpa da espiare.
In un posto come questo, a contatto con ladruncoli e bestemmiatori, sono nati e cresciuti Duilio e Simona nel romanzo “Al mare con la ragazza” del 1950 che, nonostante tutto, hanno imparato ad amarsi. Il loro unico desiderio è quello di poter, un giorno, vedere il mare che da piccoli confondevano con l’acqua fangosa delle pozzanghere in cui sguazzavano. Un desiderio semplice, innocente che li porterà a scontrarsi con l’amara realtà di un destino tragico; per andare al mare ci vogliono soldi e i soldi, purtroppo, in un simile contesto, non si possono racimolare che in modo illecito: una rapina, un colpo di rivoltella, il sangue, il sedile grigio che diventa sempre più scuro e Simona, immobile. Per inseguire una speranza Duilio si ritrova così a guidare come un automa, con il cadavere della fidanzata chiuso nel bagagliaio e la polizia alle calcagna.
Scerbanenco non lascia spazio alla consolazione, nessuno può salvarsi da un abbrutimento quasi fisiologico: Milla, nel romanzo “La ragazza dell’addio” del 1956, non è bella, ma ha tutto quello che una ragazza della sua età potrebbe desiderare: una splendida villa, amici, soldi e il grande affetto di suo padre, eppure passa le giornate a struggersi d’amore per Martino, un bravo ragazzo di estrazione umile e che, dal canto suo, non sa se frequentarla spinto da un sentimento sincero o da interesse. La profonda indagine psicologica è la reale protagonista di questo romanzo: l’autore scava nell’animo dei personaggi, traendone delle figure tristi e appassionate, attanagliate da continui dubbi e incapaci anche solo di scorgere una felicità che parrebbe offerta su un piatto d’argento.
Secondo l’idea di Scerbanenco anche i ricchi soffrono, e del resto, egli nei suoi libri non fa sconti a nessuno. Ad esempio Emanuela Sinistalqui, protagonista del romanzo “Dove il sole non sorge mai”, ha quasi sedici anni ed è una contessa, ma questo non impedisce che sia accusata, per un errore, di aver aiutato tre criminali a compiere una rapina e che sia rinchiusa prima in un sudicio riformatorio, tormentata da cimici e altri insetti, e poi in un severo istituto di correzione, insieme a piccole delinquenti e ragazze difficili, umiliata e controllata a vista da istitutrici-secondine. Scerbanenco racconta una discesa all’inferno: gli interrogatori avvilenti, i dialoghi sboccati delle compagne di stanza, gli sguardi di disprezzo, il terrore di rimanere confinata per sempre in un luogo dove appunto il sole non sorge mai; infine, racconta il turpe retroscena della vicenda: una nonna, rispettabile e stimata nobildonna, che riceve uomini e trasforma la sua casa in uno squallido bordello.
Le armi con le quali Scerbanenco combatteva la società che aveva di fronte, i suoi lati oscuri, le perversioni, le ossessioni che la inquinano sono l’ironia ed il sarcasmo e, nel corso degli anni, regala ai lettori centinaia di altri personaggi tutti ugualmente indimenticabili.
Queste ultime pubblicazioni, appartenenti al cosiddetto ciclo di romanzi "neri", sono le opere più famose di Scerbanenco e quelle per cui ancora oggi è ricordato tra i migliori autori di genere giallo italiano. Non vi è dubbio, infatti, che Scerbanenco sia da considerare tuttora il maestro ideale dei giallisti italiani, almeno dagli anni settanta, ma i suoi romanzi, oltre ad essere dei piccoli gioielli del noir, riletti oggi, appaiono anche come uno spaccato umano ed amaro dei nostri anni Sessanta, che rivelano un’Italia difficile, persino cattiva, ansiosa di emergere, ma disincantata, certo lontana dalla immagine edulcorata e brillante, che spesso è data degli anni del boom economico. È un’Italia reduce dalla seconda guerra mondiale, una nazione falcidiata dai bombardamenti, le città sono in ginocchio moralmente ed economicamente e la ricostruzione del paese appare lenta e difficoltosa.
Vent’anni più tardi, una sequela di avvenimenti riguardanti la storia economica ed industriale Italiana portano la nazione verso un progressivo arricchimento, tale che all’inizio degli anni ’60 si giunge a definire quel momento storico il “Miracolo economico”, ma, mentre si verifica in tutta Italia il “Boom Economico”, se da un lato vi è l’aspetto positivo del boom, dall’altro nel capoluogo lombardo è coltivata una violenza sempre meno romantica e sempre più cinica.
Milano si scopre città violenta, dura e aspra, che cresce su se stessa, perdendo la propria identità. Il tempo della “ligera”, la mala romantica e senza pistola è finito e Milano è diventata come Chicago. La “ligera”, principalmente composta di ladri, truffatori, rapinatori, piccoli estorsori e papponi, ha poco a che fare con le grandi potenze del crimine organizzato italiano, anche se si può dire che dalle sue file sono usciti criminali del calibro di Renato Vallanzasca e Luciano Lutring.
Giorgio Scerbanenco descrive Milano e gli anni ‘60 in maniera diversa, capta i processi violentissimi provocati dalla modernizzazione, riversando nelle pagine dei suoi romanzi, senso morale e senso di indignazione. Milano è lo specchio scuro del Boom.
Il successo di Scerbanenco arrivò però con la serie dedicata a Duca Lamberti, perché solo con questi romanzi Scerbanenco iniziò nel 1966 a diventare affermato al grande pubblico, appena tre anni prima della sua morte.
“Venere Privata” è un romanzo nato da una sfida che Scerbanenco volle lanciare al suo editore Garzanti, dichiarandogli che avrebbe inviato un manoscritto, un giallo, così, per gioco.
Oreste del Buono, allora responsabile di “Gialli Garzanti” rimase colpito dalla vena tagliente, cinica, spietata, straordinariamente “noir”, di uno scrittore fino ad allora considerato di genere per la sua produzione “rosa”, sebbene di “rosa” Scerbanenco non abbia mai scritto.
Era il 1966 e con quel romanzo della sua seconda nascita letteraria, Scerbanenco si guadagnerà gli appellativi di “Maigret dei Navigli” “Simenon della Scala”, personaggio ed autore non assimilabili all’italo-ucraino, fondatore di un nuovo modo di scrivere, solo a torto e riduttivamente considerato il “padre” del giallo italiano: in effetti, Scerbanenco non scrive gialli, come non scrive romanzi rosa, ed il suo modo di raccontare non assomiglia nemmeno al noir americano francese ed inglese. Scerbanenco si inventa un modo completamente nuovo e diverso di raccontare le sue storie, storie nere fatte da uomini soli e da situazioni cupe, dalle quali sembra non esserci nessuna via di scampo al di fuori del vivere.
Questa è la chiave di lettura per capire Scerbanenco: a lui non bastava creare dei personaggi, egli li viveva, si immedesimava in loro, spesso erano proprie proiezioni, altre volte erano resoconti di vite altrui che solo un grande ascoltatore di anime poteva racchiudere in 100 o poche più pagine.
Questa brevissima digressione, riguardante lo Scerbanenco uomo-scrittore è necessaria per introdurre “Venere privata”, il primo romanzo della tetralogia di Duca Lamberti.
Il romanzo è ambientato nella Milano degli anni Sessanta, una Milano violenta e spietata, dominata dai trafficanti di droga e dal mercato della prostituzione. Il prologo iniziale dà un saggio dello stile di Scerbanenco: dialoghi diretti e brevi, uno stile rapido ed incalzante, non privo tuttavia di particolari descrittivi.
«"Come si chiama lei?"
"Marangoni Antonio, io sto lì, alla Cascina Luasca, sono più di cinquant'anni che tutte le mattine vado a Rogoredo in bicicletta.”.
"Non state a perdere tempo con questi vecchi, torniamo al giornale.”.
"E' lui che ha scoperta la ragazza, ce la può descrivere, se no dobbiamo passare all'obitorio e siamo in ritardo."
"Io l'ho vista quando è arrivata l'ambulanza, era vestita di celeste."
"Vestita di celeste. Capelli?"
"Scuri, ma non neri."
"Scuri, ma non neri."
"Aveva dei grandi occhiali da sole, rotondi."
"Occhiali da sole, rotondi."
"Non si vedeva quasi niente del viso, era coperto dai capelli."
"Andate via, non c'è niente da vedere."
"Non c'è niente da vedere, l'agente ha ragione, torniamo al giornale."
"Andate via, andate via. Non dovevate andare a scuola?"
"Già, qui è pieno di ragazzini."
"Quando sono arrivato io si sentiva odore di sangue."
"Dica, dica, signora Marangoni."
"Si sentiva odore di sangue."
"Naturale, era dissanguata."
"Non si sentiva nessun odore, era passato troppo tempo, siamo arrivati qui con la camionetta."
"Dica, dica, agente."
"In questura vi dicono tutto, io sono qui per tenere lontano questa marmaglia, non parlo coi giornalisti. Ma non c'era odore di sangue, non ci può essere."
"L'ho sentito io, e ho il naso buono. Sono sceso in bicicletta perchè dovevo spandere acqua, ho appoggiato la bicicletta in terra."
"Dica, dica, signora Marangoni."
"Mi sono avvicinato a quei cespugli, ecco, proprio quelli, e così ho visto la scarpa, il piede insomma."
"Andate via, circolate, non c'è niente da vedere, tutta questa gente per vedere un pezzo di prato vuoto."
"Io al principio ho visto solo la scarpa, il piede dentro non lo vedevo, ho allungato la mano."
"Alberta Radelli, ventitré anni, commessa, trovata a Metanopoli, località cascina Luasca, il cadavere è stato scoperto alle cinque e mezzo del mattino dal signor Marangoni Antonio, abito celeste, capelli scuri ma non neri, occhiali rotondi, io comincio a telefonare questo, poi torno a riprenderti."
"Allora ho sentito che dentro la scarpa c'era il piede e sono rimasto male, ho scostato tutte quelle erbacce e l'ho vista, si capiva subito che era morta."»
Duca Lamberti è figlio di un poliziotto di origini romagnole che, dopo aver prestato servizio in Sicilia, dov’era stato accoltellato in servizio da un mafioso, che lo aveva privato dell'uso di un braccio e lo aveva relegato a lavori di ufficio, fu trasferito a Milano, presso la Questura di via Fatebenefratelli.
Grazie ai sacrifici del padre e dietro la sua spinta, Duca consegue la laurea in medicina ed inizia ad esercitare la professione medica presso una rinomata clinica. Il giovane medico ha in cura un'anziana signora, ormai allo stadio terminale e, dietro sua esplicita richiesta, le somministra un'iniezione letale. Duca è processato per aver praticato l'eutanasia ed è condannato a tre anni di carcere che sconta a San Vittore.
Il padre di Duca non riesce a sostenere gli eventi e muore a pochi giorni dalla sentenza. Duca Lamberti è dunque prima di tutto un uomo, un uomo particolare, che comincia a presentarsi, parlandoci del suo passato. Duca Lamberti esce dal carcere. Dopo tre anni con una sigaretta accesa ad osservare i sassolini che costituiscono il ciottolato dei lunghi viali di Milano, immensi, per chi non vede spazi aperti da qualche anno.
Scerbanenco dosa i fatti come è nel suo stile, con tempi cinematografici, con lunghissime pause, in cui il lettore non è oggetto passivo ma attivissimo spettatore di un film.
Durante la carcerazione, Càrrua, amico e collega del padre, si occuperà del sostentamento della sorella di Duca, Lorenza e della piccola Sara, nata da una relazione illegittima di Lorenza. Appena Duca esce dal carcere è aiutato da Càrrua, che gli procura un incarico molto confidenziale. Duca trasforma la particolare situazione in una vera e propria indagine poliziesca, andando contro ogni superficialità e perbenismo. Durante questa indagine è affiancato dall'agente Mascaranti che d'ora in poi sarà al suo fianco in ogni indagine. Duca incontra anche la giovane laureata Livia Ussaro, tragicamente coinvolta nell'indagine e che diventerà la sua compagna.
In “Venere privata” sono dunque presentati tutti o quasi i personaggi che fanno parte del breve ciclo dell’investigatore milanese.
Ciò che è fondamentale per capire l’essenza del ciclo di Duca e quello dei racconti della Milano nera è l’unicità con cui l’autore sa afferrare gli stati d’animo dei suoi personaggi, tutti metaforicamente raggruppati in una stanza e pronti ad esplodere al primo contrasto interiore, alla prima piccola nevrosi, senza eccedere nella psicanalisi, ma avendo comunque un substrato filosofico. I filosofi che attraggono Scerbanenco traspaiono nelle sue pagine, in “Venere privata” ad esempio Livia Ussaro per Duca-Scerbanenco “è un po’ troppo Kantiana” dietro le cui parole “c’erano degli imperativi categorici e dei prolegomeni a qualunque metafisica futura voglia presentarsi come scienza”.
Duca, uomo dalla grande moralità e dalla grande umanità, che non riesce a rimanere indifferente da poliziotto quale si sente di fronte ai casi che mano a mano si trova ad affrontare è invece di altra natura.
Molto appropriato è, infatti, quanto sostiene Andrea G. Pinketts nel documentario “Scerbanenco Noir”[1], il quale afferma che la differenza sostanziale tra gli investigatori italiani creati dalle penne di altri noiristi e Duca Lamberti è che quest’ultimo “si incazza”.
Ciò non è cosa da poco, non solo per il contesto sociale nel quale esso si ritrova, siamo nel periodo del Boom e l’Italia si sta risollevando, ma soprattutto perché a differenza di altri personaggi totalmente positivi, a tratti quasi super eroici, Duca Lamberti è uomo, con tutti i suoi limiti, ma dotato di sentimento, di passione, di cuore. Duca Lamberti si rivela un “Poliziotto solitudine e rabbia” e, grazie al suo autore, rivoluziona le regole e gli stilemi del noir, ispirando non solo gli scrittori che verranno in seguito, ma anche una generazione di registi, come ad esempio Duccio Tessari e Fernando Di Leo che, in modo più o meno diretto, renderanno sempre omaggio al maestro Scerbanenco, reo di aver rappresentato, una città, Milano in rapida evoluzione, che cresce su se stessa smarrendo la propria identità, una città dove la malavita non colpisce più di fioretto, ma dove ormai con in braccio un mitra si può rivoltare l’ordine sociale: insomma, Scerbanenco anticipa e racconta l’Italia che verrà.
Nella prima indagine descritta in Venere privata, Duca Lamberti è appena uscito dal carcere e Càrrua gli procura la prima occupazione: dovrà aiutare Davide Auseri ad uscire dal tunnel dell'alcolismo. Davide è il figlio dell'ingegner Auseri, importante industriale della plastica della Brianza. È un ragazzo tanto ricco quanto solo, ma ben presto Duca scopre che Davide è un ragazzo normale e solo un trauma potrebbe averlo spinto a cercare un solitario rifugio nel whisky: Davide, infatti, confessa di sentirsi responsabile per il suicidio di un'occasionale prostituta, Alberta Radelli, da lui accompagnata in un rapido viaggio da Milano a Roma e ritorno. Un anno prima, Davide aveva conosciuto casualmente Alberta e dopo aver passato una giornata insieme l'aveva abbandonata presso Metanopoli. Il giorno seguente Davide aveva letto su “La Notte” del ritrovamento del cadavere della ragazza con le vene tagliate.
Alberta aveva fatto cadere sulla Giulietta del ragazzo un piccolo oggetto, sconosciuto per Davide, e che solo ora Duca riconosce come il rullino fotografico Minox.
La stampa delle foto rivela le pose nude della bruna Alberta e di un'altra ragazza bionda. Da qui parte la vera indagine poliziesca, che porta Lamberti ed Auseri ed i reali investigatori di polizia Càrrua e Mascaranti a ricostruire la triste vicenda degli omicidi di Alberta Radelli e di Maurilia Arbati, la bionda presente nelle foto di nudo, ritrovata annegata nel Tevere nei giorni seguenti alla scoperta del suicidio inscenato per Alberta.
L'indagine porta Duca a fare la conoscenza di Livia Ussaro, una giovane laureata amica di Alberta. Livia si limiterà a riferire le confidenze di Alberta in merito al servizio fotografico, Duca Lamberti scopre che le due ragazze, oltre ad essere prostitute occasionali, posavano entrambe come modelle per foto pornografiche in un fantomatico studio gestito da un tedesco, ma offrirà persino la sua collaborazione a fare da esca per cercare di individuare qualcuno degli organizzatori del traffico internazionale di prostituzione che si cela dietro a tutta questa storia.
Nel successivo romanzo, “Traditori di tutti”, Duca è coinvolto nell'indagine sulla morte dell'avvocato Sompani, suo compagno di carcere e riesce a smascherare una banda dedita al traffico d'armi e di droga. Durante questa indagine Duca acquista la consapevolezza di essere tagliato per fare l'investigatore e decide di accettare la proposta di Càrrua e di diventare poliziotto presso la Questura di Milano.
Duca Lamberti ha conosciuto l'avvocato Sompani in carcere, ma non ha mai stretto amicizia con quel personaggio "repellente".
Turiddu Sompani è stato trovato nel naviglio pavese: è annegato all'interno di una Fiat 1300 assieme ad Adele Terrini. È una strana coincidenza: l'avvocato, infatti, era in carcere perché ritenuto responsabile dell'annegamento di un suo amico, ritrovato nella sua auto insieme con una donna, nel Lambro, vicino alla Conca Fallata. In Piazza Leonardo da Vinci la primavera entra nell'appartamento di Duca, ma la quiete è interrotta. Chi è il signor Silvano Solvere, che si presenta a casa di Lamberti come un caro amico di Turiddu. Chi sarà la misteriosa signorina per cui Solvere chiede di eseguire un delicato intervento chirurgico, offrendo un'elevata ricompensa e un particolare interessamento per la riammissione di Lamberti all'ordine medico?
Duca è coinvolto suo malgrado in una vicenda tragica e complicata: subito intuisce che sarà necessario il sostegno e l'aiuto di Càrrua. L'accordo è fatto, seguito dal fido agente Mascaranti, Duca esegue l'imenoplastica su Giovanna Marelli, una giovane commessa originaria di Romano Banco, presso Buccinasco. Dopo l'intervento, la ragazza deve rimanere ferma e riposare, ma non dorme e racconta la sua vicenda al dottore. Giovanna il giorno seguente dovrebbe sposare Ulrico Brambilla, il ricco macellaio proprietario della macelleria di Ca' Tarino e di altre tre tra Milano, Romano Banco e Buccinasco. Lei non lo ama, il suo uomo è Silvano. Poche ore dopo Giovanna lascia l'appartamento e sale sull'auto dove Silvano l'aspetta.
L'agente Morini su un'auto civetta segue i due, mentre costeggiano il naviglio pavese verso Buccinasco. Scoppia un violento temporale ed accade l'imprevisto. L'auto di Silvano, incrociando un'altra auto è crivellata di proiettili e ormai fuori controllo piomba nel naviglio.
Duca non sa ancora nulla dell'accaduto, quando inizia a ricostruire i dettagli di quanto raccontato da Giovanna. Presto l'indagine vera e propria decolla e porta Duca a scoprire i traffici che ruotano attorno al ristorante La Binaschina, vicino alla Certosa di Pavia.
Con “Traditori di tutti”, Scerbanenco vinse nel 1967 a Parigi il premio francese “Grand prix de littérature policière”, prestigioso riconoscimento letterario francese per il genere giallo, fondato nel 1948 dal critico e scrittore Maurice-Bernard Endrèbe, premio che l’autore non ritirò per timidezza.
Nel terzo e penultimo romanzo, “I ragazzi del massacro”, Duca Lamberti si aggira, forse meno del solito, nella sua Milano Nera, ma ricalca le orme del suo predecessore, Arthur Jelling, archivista per la polizia di Boston che riusciva a risolvere gli enigmi più complicati, rimanendo seduto alla sua scrivania, investigando più l’umano che quanto gli sta attorno.
“I ragazzi del massacro” è il romanzo più “logico” di Scerbanenco, meno noir e per certi versi più classico, ma non per questo scontato. “I ragazzi del massacro” sfiora il romanzo sociale, entra nella dissertazione pedagogica, portando sotto gli occhi del lettore un’inconfutabile verità, la realtà di una certa parte della popolazione ai margini, border-line.
Un'aula scolastica, una lavagna piena di parolacce e disegni osceni e il cadavere di una giovane donna completamente nuda, orrendamente massacrata di botte, i suoi abiti sparsi dappertutto. La vittima è Matilde Crescenzaghi, fragile e delicata signorina della piccola borghesia dell'Alta Italia, "insegnante di varie materie e anche buona educazione" nella scuola serale Andrea e Maria Fustagni. Un ambiente non molto raccomandabile, visto che spesso gli studenti sono già passati per il riformatorio o vengono da famiglie difficili.
Duca Lamberti è alle prese questa volta con un ambiente insolito, morboso, feroce. I ragazzi di Scerbanenco, pur non essendo “I ragazzi di vita” di Pasolini, a tratti, torna quello stesso vissuto periferico. Tra le righe l’autore da una parte denuncia la realtà, ma allo stesso tempo la compatisce, ma non la giustifica: Scerbanenco tramite Duca si infervora, combatte, finché non riesce a risolvere la complicata trama, che si è venuta a comporre all’interno di quelle quattro mura “sporche” e buie di una piccola e misera aula scolastica serale.
La bellezza nei romanzi di Scerbanenco, in realtà, non sta alla fine, nella soluzione del “giallo, ma negli spiragli, in quelle zone d’ombra dei sentimenti umani che pochi sanno capire e che pochissimi sanno descrivere: Scerbanenco sapeva quanto fosse disperato il male della gente comune, sapeva si, descrivere perfettamente i meccanismi della mala, ma allo stesso modo era a conoscenza del fatto che la mala, intesa come organizzazione non avesse un cuore, il cuore, inteso, però come luogo in cui alloggia l’umano vivere.
Scerbanenco amava sondare, perchè il vero investigatore, era proprio lui, un uomo che non si limitava a raccontare delle storie per il gusto di scrivere, la sua necessità “a tratti fisica” era quella di “vivere” gli altri, entrare nelle loro storie, far sapere anche alla persona più sola al mondo che qualcuno, in fondo si interessava a lei. Scerbanenco, trasmette questa sua indole “alla Adrian” anche al suo investigatore Lamberti.
L’umanità di Duca, in particolar modo ne “I ragazzi del massacro” traspare in due occasioni: la prima è autobiografica e riguarda la sua nipotina, mentre la seconda è inerente al trattamento non propriamente “legale” che Duca fa della custodia di uno dei ragazzi, è, infatti, proprio narrando il periodo “casalingo”di Duca, che ne trasale l’indole vera ed informale del poliziotto.
La cura del dettaglio è importantissima, con poche essenziali righe, l’autore ci permette di visualizzare perfettamente l’ambiente da lui immaginato: sebbene le aule e la casa di Duca non abbiano molto spazio all’interno del libro eppure riescono ad essere costantemente presenti, sinergiche e dinamiche. Il ritmo narrativo come negli altri episodi si mantiene alto, la scrittura di Scerbanenco è ferma e decisa, barocca quanto basta nei suoi dettagli truculenti.
Come sempre non c’è la presunzione da parte di Scerbanenco di dare la morale, ma il lettore ha tutti gli elementi per indignarsi senza che qualcun altro lo guidi nel farlo.
In quegli anni, all’epoca della pubblicazione della tetralogia di Lamberti, Andrea Camilleri sosteneva che Scerbanenco avesse “[…] un’immaginazione rivolta al male […]”, quando invece come riconobbe lo stesso in seguito “[…] aveva capito tutto. Aveva preceduto tutti di decenni.” Ed ancora “quando lessi la Milano Nera di Scerbanenco presi coraggio e cominciai a conferire anche io nelle mie storie dei nomi Italiani ai personaggi.”.
In «I milanesi ammazzano al sabato», Duca Lamberti, alla sua ultima apparizione, deve fronteggiare la sete di giustizia del Signor Amanzio Berzaghi, che ha visto scomparire improvvisamente da casa, sua figlia Donatella, ventottenne, alta quasi due metri, del peso di un quintale circa, lunghissimi capelli biondi le circondano un viso gentile e un sorriso strano, da bambina.
Donatella ha ventotto anni, ma pensa come una bambina di sei, è una minorata mentale, che sorride a tutti, soprattutto agli uomini, è incontrollabile così suo padre, ex camionista dal passato “segnato” da un incidente sul lavoro è costretto a tenerla nascosta in casa tra bambole e dischi musicali; Donatella è bellissima, sembra una svedese, con lunghi capelli biondi e quel profilo d’altri tempi, talmente bella da far paura, soprattutto al suo povero padre, costantemente in pensiero per quella sua unica e sventurata figlia.
Donatella è sparita da casa, nonostante la sorveglianza del vecchio padre. Della ricerca si occupa Duca Lamberti che si getta in questa indagine tra case d’appuntamento, magnaccia, atrocità e squallore. Su tutti, su Duca, sul vecchio camionista, sugli assassini, sui magnaccia e sulle prostitute, domina una Milano splendida nella sua ferocia in un tiepido inizio d’autunno, una Milano diversa da quella che gli stessi milanesi conoscono. Una città lontana dagli stereotipi e per questo ancora più viva.
Ne “I milanesi ammazzano al sabato” l’intrigo giallo è forte, Scerbanenco, pur rimanendo ben saldo alla sua matrice noir riesce, come con il precedente “I ragazzi del massacro”, a tessere gli uni con gli altri, elementi d’indagine ed elementi deduttivi, creando un humus quasi documentaristico, quando deve setacciare le case d’appuntamento milanesi tramite il proprio alter ego Duca.
Milano è una città vivace, povera, animata da grandi speranze, che si è affacciata agli anni Cinquanta con un proletariato affamato, costretto dalle condizioni economiche a dover commettere piccoli furti e modesti crimini per “guadagnarsi” da vivere con un’attività considerata allora “d’ingegno”.
Tra queste attività potremmo annoverare la figura del “macrò” termine gergale che indica colui che sfrutta donne che si prostituiscono.
Qui però, non abbiamo a che fare con il Luca Canali di “Milano calibro 9”, che raccoglie ventidue racconti neri di Scerbanenco, ventidue storie dure, disperate, di morti ammazzati e di traffici oscuri, con impreviste pieghe di tenerezza e sconcertanti sussulti d'amore, ventidue frammenti di vita, fulminei e feroci, che parlano dell'atrocità, della miseria, dell'assurdità di questo mondo. L'immaginazione di Scerbanenco pare volersi superare in ogni racconto, la sua fantasia raccoglie spunti e svolge trame in qualsiasi parte d'Italia. Ma è a Milano che torna sempre, e a Milano si svolgono quasi tutti questi racconti: una città sentina di vizi e di misfatti, odiosa e odiata ma irresistibile, scoperta e ricreata con un tono inconfondibile di verità. Come non abbiamo a che fare con “La mala ordina”, il film del 1972, diretto da Fernando Di Leo, ma siamo di fronte ad un’organizzazione ben strutturata e radicata sul territorio, nella quale cadono allo stesso modo, ma con ruoli diversi povere ragazze senza speranze e ricchi industriali in cerca di giochi particolari. Così, ci troviamo di fronte ad un’ampia galleria di “vizietti”, c’è chi vuole la minorenne, chi quella affetta da nanismo, chi la bella esotica di colore e chi la gigantessa.
La narrazione di Scerbanenco riguardante la descrizione del fenomeno “prostituzione” ha piuttosto diversi punti in comune con la successiva indagine cinematografica compiuta da Carlo Lizzani con il suo “Storie di vita e malavita”. Infatti, i due approcci spesso combaciano, il lettore/spettatore partecipa anch’egli in prima persona al viaggio, ma non ne viene mai moralmente coinvolto.
I personaggi che fanno da contorno a tutti suddetti ambienti hanno sì dei lati pietosi, ma si rivelano poi intaccati dal marciume che li circonda ed incapaci di un qualsiasi tipo di abnegazione.
Con fare da poliziotto vecchio stampo e coadiuvato dal fedele Mascaranti, Duca si inoltrerà in questa sua ultima apparizione in una Milano “centrale del vizio”, il lettore, può cogliere, grazie alle diverse sfaccettature del romanzo, il rapporto tra alte e basse sfere della criminalità.
La fonte del male però, è spesso da ricercare negli ambienti più prossimi e familiari ed anche questo “caso” confermerà la regola, riuscendo a spiazzare grazie alla grande abilità dell’autore anche il lettore più abituato.
Per quanto riguarda la figura di Lamberti, è evidente che il romanzo non fosse stato concepito come pietra “tombale” della tetralogia: in questo episodio, Duca prosegue, infatti, la sua “relazione” con Livia Ussaro, ma non compie alcun passo significativo nell’arco dello svolgimento dei fatti.
Con la sua scrittura semplice ma rigorosa, con lo scorrere fluido della narrazione in una trama in cui si intersecano i fili di passato e presente, Scerbanenco si impone, con questo e gli altri romanzi, protagonista Duca Lamberti, tre dei quali furono portati sullo schermo rispettivamente da Fernando Di Leo, Duccio Tessari e da Yves Boisset Due tra i più affermati autori contemporanei di noir come Carlo Lucarelli e Andrea J. Pinketts hanno per questo tributato il giusto omaggio all’opera dello scrittore. Romanzi, come I milanesi ammazzano al sabato, che, a distanza di oltre trent'anni dalla loro pubblicazione, rimangono attualissimi soprattutto per l’atmosfera che l’autore riesce a evocare.
Nell’Italia degli anni ’60, nella Milano capitale del boom economico, Scerbanenco individua primi i segnali della crisi della società di massa che esploderà di lì a pochi anni. Indifferenza, disillusione, cinismo non dominano solo gli squallidi ambienti della delinquenza, comune e non, descritti con rigore chirurgico dagli occhi dell’ex medico Duca Lamberti, questi mali pervadono, infatti, tutta la società moderna, dalle famiglie alto borghesi, come in “Venere privata” ai giovani immigrati che vivono di espedienti nella palude metropolitana. Un’aria malsana che inquina Milano e tutte le città d’Italia, ma che non ferma coloro che hanno ancora voglia di giustizia, pur nella consapevolezza dell’inutilità dei propri sforzi, come Duca Lamberti, uno dei più riusciti del panorama letterario poliziesco, che unisce alla capacità analitica di Maigret un’umanità tutta lombarda, nascosta sotto un carattere apparentemente ruvido, ma sempre presente, pronta a venire fuori in ogni occasione, purché sia quella giusta.
Giorgio Scerbanenco quindi chiude con anticipo il ciclo di Duca Lamberti proprio nel momento in cui era prossimo a “sfornarne” un nuovo capitolo dedicato alle indagini milanesi dal provvisorio titolo “I pulcini e il sadico”.
L'anno successivo, nel momento culminante della sua carriera, morì improvvisamente a Milano.
Nel 1970, nella serie ‘Suspence’ di Longanesi, uscì postumo ‘Al servizio di chi mi vuole’, primo ed unico romanzo d’una serie che avrebbe dovuto avere come protagonista la figura d’un “para” italiano, Ulisse Orsini, soldato di ventura.
Nel 1994 sono dati alle stampe "I milanesi ammazzano al sabato", "Noi due e nient' altro", "Appuntamento a Trieste" e "Cinquecentodelitti".
Nel 1995, "Lupa in convento", "Cinque casi per l'investigatore Jelling", "Principesse di Acapulco", "Spie non devono amare", "Al mare con la ragazza" e "Non rimanere soli".
Nel 1996, "Ladro contro assassino", "Millestorie" e "Storie dal futuro e dal passato".
Nel 1999, "Ragazzi del massacro", "Al servizio di chi mi vuole" e "La Ragazza dell'addio".
Nel 2004, infine, "La mia ragazza di Magdalena" appartenente al "ciclo del nuovo Messico".
Nel 1993, alla memoria di Scerbanenco è dedicato il più importante premio per la narrativa gialla italiana, il Premio Scerbanenco.
Nel 2006 è stata realizzata una docufiction sulla sua vita, con interviste e testimonianze di chi l'ha conosciuto, ad opera del regista Stefano Giulidori, presentata con successo al Noir in Festival di Courmayeur.
Oltre ai Romanzi citati si fornisce la bibliografia completa dei Romanzi di Scerbanenco non citati nell’articolo:
1941: L’amore torna sempre (Sacse)
1941: Oltre la felicità (Sacse)
1941: Quattro cuori nel buio (Sacse)
1942: È passata un’illusione (Sacse)
1943: Cinque in bicicletta (Mondadori)
1943: Il mestiere di uomo (Aragno 2006)
1943: Si vive bene in due (Mondadori)
1944: Il cavallo venduto (Rizzoli)
1945: Johanna della foresta (Rizzoli)
1947: Ogni donna è ferita (Rizzoli)
1948: Quando ameremo un angelo (Rizzoli)
1949: La sposa del falco (Rizzoli)
1950: Anime senza cielo (Rizzoli)
1952: I giorni contati (Rizzoli)
1952: Il fiume verde (Rizzoli)
1952: Il nostro volo è breve (Rizzoli)
1953: Amata fino all’alba (Rizzoli)
1953: Appuntamento a Trieste (Rizzoli)
1953: Uomini e colombe (Rizzoli)
1954: Desidero soltanto (Rizzoli)
1954: La mano nuda (Rizzoli)
1955: Mio adorato nessuno (Rizzoli)
1956: I diecimila angeli (Rizzoli)
1956: Via dei poveri amori (Rizzoli)
1957: Cristina che non visse (Rizzoli)
1958: Elsa e l’ultimo uomo (Rizzoli)
1958: Il tramonto è domani (Rizzoli)
1959: Noi due e nient’altro (Rizzoli)
1961: Viaggio di nozze in grigio (Rizzoli)
1963: La sabbia non ricorda (Rizzoli)
1969: Milano calibro 9 (Garzanti)
1970: Il centodelitti (Garzanti)
1974: I sette peccati capitali e le sette virtù capitali (Rizzoli)
1974: Né sempre né mai (Sonzogno)
1975: La notte della tigre (Rizzoli)
1976: L’ala ferita dell’angelo (Rizzoli)
1985: Romanzo rosa (Rizzoli)
1989: La vita in una pagina (Mondadori)
1993: Il falcone e altri racconti inediti (Frassinelli)
2000: Basta col cianuro (Cartacanta)
2002: Uccidere per amore (Sellerio)
2005: Racconti neri (Garzanti)
2006: Uomini ragno (Sellerio)
[1] (contenuto all’interno del dvd Raro/Nocturno di Milano Calibro 9

Incontro con l’autore: Francesco Petrarca di Massimo Capuozzo

Petrarca è il primo poeta dell’amore terreno della letteratura italiana. In lui l’amore è vissuto come tormento.
Se Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella «Commedia» tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatu­ra terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il «Canzoniere» è illuminato da questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la natura della Provenza, medi­terranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più inten­si della raccolta.
“L’ascesa al monte Ventoso: l’interiorità[1]
Dalle Familiares di F. Petrarca
[2]
A Dionigi da Borgo San Sepolcro dell’ordine di Sant’Agostino e professore della sacra pagina. Sui propri affanni.
C’è una cima più alta di tutte, che i montanari chiamano il «Figliuolo»; perché non so dirti; se non forse per anti­frasi[3], come talora si fa: sembra infatti il padre di tutti i monti vicini. Sulla sua cima c’è un piccolo pianoro e qui, stanchi, riposammo. E dal momento che tu hai ascoltato gli affannosi pensieri che mi sono saliti nel cuore mentre salivo, ascolta, padre mio, anche il resto e spendi, ti prego, una sola delle tue ore a leggere la mia avventura di un solo giorno. Dapprima, colpito da quell’aria insolitamente leggera e da quello spettacolo grandioso, rimasi come istupidito. Mi volgo d’attorno: le nuvole mi erano sotto i piedi e già mi divennero meno incredibili l’Athos e l’Olimpo[4] nel vedere coi miei occhi, su un monte meno celebrato, quanto avevo letto ed udito di essi. Volgo lo sguardo verso le regioni italiane, laddove più inclina il mio cuore; ed ecco che le Alpi gelide e nevose, per le quali un giorno passò quel feroce nemico del nome di Roma rompendone, come dicono[5], le rocce con l’aceto, mi parvero, pur così lontane, vicine. Lo confesso: ho sospirato verso quel ciclo d’Italia che scorgevo con l’anima più che con gli occhi e m’invase un desiderio bruciante di rivedere l’amico[6] e la patria anche se, in quello stesso momento, provai un poco di vergogna per questo doppio desiderio non ancora virile; eppure non mi sarebbero mancate, per l’uno e per l’altro, giustificazioni confermate da grandi testimonianze. Ma ecco entrare in me un nuovo pensiero che dai luoghi mi portò ai tempi. «Oggi - mi dicevo - si compie il decimo anno da quando, lasciati gli studi giovanili, hai abbandonato Bologna[7]: Dio immor­tale, eterna Saggezza, quanti e quali sono stati nel frattempo i cambiamenti della tua vita! Così tanti che non ne parlo; del resto non sono ancora così sicuro in porto da rievocare le trascorse tempeste. Verrà forse un giorno in cui potrò enume­rarle nell’ordine stesso in cui sono avvenute, premettendovi le parole di Agostino[8]: ‘Voglio ricordare le mie passate turpi­tudini, le carnali corruzioni dell’anima mia, non perché le ami, ma per amare te, Dio mio’. Troppi sono ancora gli interessi che mi producono incertezza ed impaccio. Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho men­tito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta[9]: ‘Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia’.
Non sono ancora passati tre anni da quando quella volontà malvagia e perversa che tutto mi possedeva e che regnava incontrastata nel mio spirito cominciò a provarne un’altra, ribelle e contraria; e tra l’una e l’altra da un pezzo, nel campo dei miei pensieri, s’intreccia una battaglia ancor oggi durissima e incerta per il possesso di quel doppio uomo che è in me »[10]. Così andavo col pensiero a quel passato decennio. Rivolgendomi all’avvenire, mi domandavo : « Se ti accadesse di prolungare per altri due lustri questa vita che fugge e di avvicinarti alla virtù nella stessa proporzione in cui, in questo biennio, per l’insor­gere della nuova volontà contro la vecchia, ti sei allontanato dalla primitiva protervia, non potresti forse allora, se non con certezza almeno con speranza, andare incontro alla morte sui quarant’anni e questi residui anni di una vita che già declina verso la vecchiezza, trascurarli senza rimpianti?». Questi ed altri simili erano i pensieri, padre mio, che mi ricorrevano nella mente. Gioivo dei miei progressi, piangevo sulle mie imperfezioni, commiseravo la comune instabilità delle azioni umane; e già mi pareva d’aver dimenticato il luogo dove mi trovavo e perché vi ero venuto, quando, lasciate queste riflessioni che altrove sarebbero state più opportune, mi volgo indietro, verso occidente, per guardare ed ammirare ciò che ero venuto a vedere: m’ero accorto infatti, stupito, che era ormai tempo di levarsi, che già il sole declinava e l’ombra del monte s’allun­gava. I Pirenei, che sono di confine tra la Francia e la Spagna, non si vedono di qui, e non credo per qualche ostacolo che vi si frapponga, ma per la sola debolezza della nostra vista; a destra, molto nitidamente, si scorgevano invece i monti della provincia di Lione, a sinistra il mare di Marsiglia e quello che batte Acque Morte[11], lontani alcuni giorni di cammino; quanto al Rodano, era sotto i nostri occhi. Mentre ammiravo questo spettacolo in ogni suo aspetto ed ora pensavo a cose terrene ed ora, invece, come avevo fatto con il corpo, levavo più in alto l’anima, credetti giusto dare uno sguardo alle Confessioni di Agostino, dono del tuo affetto, libro che in memoria del­l’autore e di chi me l’ha donato io porto sempre con me: libretto di piccola mole ma d’infinita dolcezza. Lo apro per leggere quello che mi cadesse sott’occhio: quale pagina poteva capitarmi che non fosse pia e devota? Era il decimo libro. Mio fratello, che attendeva per mia bocca di udire una parola di Agostino, era attentissimo. Lo chiamo con Dio a testimonio che dove dapprima gettai lo sguardo, vi lessi: «e vanno gli uomini a contemplare le cime dei monti, i vasti flutti del mare, le ampie correnti dei fiumi, l’immensità dell’oceano, il corso degli astri e trascurano se stessi ». Stupii, lo confesso; e pregato mio fratello che desiderava udire altro di non disturbarmi, chiusi il libro, sdegnato con me stesso dell’ammirazione che ancora provavo per cose terrene quando già da tempo, dagli stessi filosofi pagani[12], avrei dovuto imparare che niente è da ammirare tranne l’anima, di fronte alla cui grandezza non c’è nulla di grande.
Soddisfatto oramai, e persino sazio della vista di quel monte, rivolsi gli occhi della mente in me stesso e da allora nessuno mi udì parlare per tutta la discesa: quelle parole tormentavano il mio silenzio. Non potevo certo pensare che tutto fosse accaduto casualmente; sapevo anzi che quanto avevo letto era stato scritto per me, non per altri; tanto più che ricordavo ciò che di se stesso aveva pensato Agostino quando, aprendo il libro dell’Apostolo, come lui stesso racconta[13], lesse queste parole : « non gozzoviglie ed ebbrezze, non lascivia e impudi­cizie, non risse e gelosia, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, e non seguite la carne nelle sue concupiscenze ». La stessa cosa era già accaduta ad Antonio quando, leggendo nel Vangelo «se vuoi essere perfetto, va’, vendi quello che possiedi e dallo ai poveri; vieni, seguimi e avrai un tesoro nei cieli», come se quelle parole fossero state scritte per lui (lo dice Atanasio[14] autore della sua vita), si guadagnò il regno celeste. E come Antonio, udite quelle parole, non chiese altro; e come Ago­stino, letto quel passo, non ardo oltre, così anch’io raccolsi tutta la mia lettura in quelle parole che ho riferito, riflettendo in silenzio quanta fosse la stoltezza degli uomini i quali, tra­scurando la loro parte più nobile, si disperdono in mille strade e si perdono in vani spettacoli, cercando all’esterno quello che si potrebbe trovare all’interno; pensando a quanta sarebbe la nobiltà del nostro animo se, di per sé tralignando, non si allon­tanasse dalle sue origini e non convertisse in vergogna le doti che Dio gli diede in suo onore. Quante volte quel giorno — credilo — sulla via del ritorno ho volto indietro lo sguardo alla cima del monte! Eppure mi parve ben piccola altezza rispetto a quella del pensiero umano, se non viene affondata nel fango delle turpitudini terrene. Ed anche questo pensiero mi venne quasi ad ogni passo: se non ho esitato a spendere tanta fatica e sudore per accostare solo di un poco il mio corpo al cielo, quale croce, quale carcere, quale tormento potrebbero atterrire un’anima nel suo cammino verso Dio, mentre calpesta le superbe vette della temerarietà e gli umani destini; e que­st’altro: quanti non vengono distratti da questo sentiero per timore dei patimenti o per amore dei piaceri? Veramente felici, se pur ce ne sono, coloro dei quali credo volesse dire il poeta[15]: e felice chi potè scoprire il perché delle cose e tiene sotto di sé calpestato ogni timore e il destino implacabile e lo strepito dell’esoso Acheronte». Ma quanta fatica dovremo durare per tenere sotto i piedi non una terra più alta, ma le passioni che si levano da istinti terreni!
Tra questi ondeggianti sentimenti del mio cuore, senza ac­corgermi del sassoso sentiero, nel profondo della notte tornai alla capanna da cui m’ero mosso all’alba, e il chiarore della luna piena[16] ci era di dolce conforto, nel cammino. Mentre poi Ì servi erano affaccendati nel preparare la cena, mi sono ritirato tutto solo in un angolo della casa per scriverti, in fretta e quasi improvvisandole, queste pagine; non volevo in­fatti che, differendole, magari mutando con i luoghi i senti­menti, mi si spegnesse il desiderio di scriverti. Tu vedi dunque, amatissimo padre, come io non ti voglia nascondere nulla di me, io che con tanta cura ti svelo non solo tutta la mia vita, ma tutti i miei segreti pensieri, uno per uno; prega per essi, te ne supplico, perché erranti e incerti da tanto tempo, final­mente si arrestino, e dopo essere stati trascinati inutilmente per ogni dove, si rivolgano all’unico bene, veramente certo e duraturo. Addio.
26 aprile, Malaucena.

Esercizi1. Individua la struttura generale del brano, ponendo in evidenza situazione iniziale, complicazione, evoluzione della vicenda conclusione della vicenda. Individua il numero delle macrosequenze del brano, classificandole secondo la loro natura, dando un titolo breve a ciascuna macrosequenza infine per ogni macrosequenza scrivi un riassunto, costituito da un periodo di non oltre 30 parole.
2. Individua dell’epoca storica in cui si svolgono i fatti di ciascun racconto (se non vi sono indicazioni dell’epoca per quale motivo) se il tempo è: Indeterminato, Chiaramente espresso, Individuabile tramite elementi interni al testo. Individua degli indicatori temporali precisi, le unità di tempo (giorni, mesi, ecc.) se vi sono: Datazioni esplicite, Riferimenti a personaggi realmente esistiti, Descrizione di abitudini e modi di vivere propri di una certa epoca; Individua l’ordine del tempo e per quale motivo vi sono delle variazioni rispetto all’ordine cronologico, Retrospettive, Anticipazioni.3. Individua lo spazio geografico in cui è ambientata la vicenda del brano, (e se questo non è indicato per quale motivo), Individua la descrizione dei luoghi se essi sono: a) Luoghi reali o immaginari, Chiusi o aperti, Limitati o illimitati, Ristretti o ampi, quali oggetti si trovano; b) trova eventuali collegamenti tra situazioni (di tensione, gioia, aspettativa) e spazi, c) relazioni tra luoghi e personaggi (come i personaggi vivono il luogo, vi sono analogie o discordanze tra i tipi di personaggio e il luogo in cui si trovano); d) relazioni tra i luoghi (ad esempio opposizione tra spazi vicino/lontano, aperto/chiuso, ecc.) Individua la funzione rivestita nella descrizione degli spazi: se si tratta di: Ambientazione Narrativa Simbolica spiegando le ragioni della tua scelta.
4. Individua tutti i personaggi presenti nel brano. a) I personaggi principali che agiscono nel brano sono presentati in maniera diretta o indiretta, (attraverso le loro azioni, i loro comportamenti, i loro discorsi) ed argomenta la tua risposta delineando il modo di essere dei personaggi con i tratti caratterizzanti del suo aspetto fisico, psicologico, sociale, culturale, ideologico; b) di ciascun personaggio indica la sua funzione narrativa se è Protagonista: Antagonista Oggetto Aiutante o Oppositore, argomentando la tua risposta.
5. Esponi a parole tue il contenuto di ciascun testo proposto, individuane il tema centrale e come esso esposto, quali sono, se ci sono, i temi secondari e come sono esposti, evidenziando i nessi di relazione fra il tema-centrale e gli eventuali temi secondari. Analizza in dettaglio, enunciandone però la trattazione, una situazione o un personaggio o qualche particolare immagine presenti in ciascun brano, spiegandone la relazione con il tema centrale del componimento. Di ogni testo indica se si fa leva principalmente su descrizioni, su ragionamenti, su emozioni, indicando successivamente se l’autore punta ad una particolare precisione ed evidenza delle immagini. Di ogni testo individua qualche immagine particolarmente curata ed illustra come essa è espressa.


Il conflitto tra anima e corpo
dal Secretum
[17]

A. Non posso più stare a sentire queste sciocchezze. Dal momento che ammetti che ella può morire prima di te, che cosa dirai se muore?
F. Che altro, se non che io, infelicissimo per la sventura attuale, trarrò tuttavia conforto dal ricordo del tempo trascorso? Ma se le porti via il vento queste nostre parole, disperdano le tempeste questo presagio.
A. O cieco, e non comprendi ancora che pazzia è questa di assog­gettare in tal modo il tuo animo agli oggetti mortali, che lo accen­dono con le fiamme del desiderio e non sanno dargli requie né pos­sono durare sino alla fine, e con agitazioni continue tormentano quell’animo che promettono di blandire?
F. Se hai qualche argomento più efficace, tiralo fuori, che con queste parole non riuscirai mai a spaventarmi : né infatti ho as­soggettato l’animo a un oggetto mortale, come credi tu, né ti risulta che di lei io abbia amato il corpo tanto quanto l’anima[18], attratto da un modo di vivere che trascende l’umano, il cui esempio mi fa immaginare come si vive tra i celesti. Vuoi dunque sapere che farei, se ella mi abbandonasse, morendo per prima? (il solo ascoltare una cosa del genere è un tormento per me) : allevierei la mia infelicità con Lelio, il più saggio dei Romani : « La virtù di lui ho amato, che morta non è »[19]. Questo direi, e l’altro che, a quanto sento, egli disse dopo la fine di colui che aveva avuto straordinariamente caro.
A. Tu rimani saldo nella rocca inespugnabile dell’errore, dalla quale farti sgombrare è fatica non indifferente. E poiché ti vedo talmente preso, da esser disposto ad ascoltare con molta più tolle­ranza qualsiasi cosa su di te, che non una parola un po’ più franca su di lei, ricopri pure la tua donnicciola di tutte le lodi che vuoi, che non mi opporrò affatto; sia pure una regina, una santa, «addi­rittura una dea o la sorella di Febo, o una della famiglia delle ninfe»[20]; comunque, la sua virtù straordinaria giustificherà assai poco il tuo errore.
F. Aspetto la nuova disputa che vai preparando.
A. Non si può dubitare che le creature più belle siano spesso oggetto di un turpe amore.
F. A questo ti ho già risposto prima[21]. Se il volto dell’amore che domina in me si potesse vedere, apparirebbe non dissimile dal volto di colei di cui ho fatto lodi grandi, è vero, ma sempre inferiori al dovuto. Questa, che assiste al nostro colloquio, è testimone che nel mio amore non c’è stato mai nulla di brutto, nulla di vergognoso, nulla di biasimevole, insomma, se non l’intensità. Moderalo un poco, e non si potrà immaginare cosa più bella.
A. Potrei risponderti con le parole di Tullio: «tu cerchi di mo­derare il vizio»25.
F. Non il vizio, ma l’amore.
A. Anche lui, quando diceva così, parlava dell’amore. Ricordi il passo?
F. Come no? L’ho letto nelle Inscultine. Ma egli alludeva al­l’amore comune degli uomini, mentre nel mio c’è qualcosa di ecce­zionale.
A. In effetti, gli altri avrebbero forse la stessa impressione, per quel che concerne loro stessi; la verità è che sia nelle altre passioni, sia, e specialmente, in questa, ognuno è chiosatore benevolo delle cose sue. Né a torto si esaltano le parole di quel poeta, per quanto volgare: « Si tenga ciascuno la sua sposa, io mi tengo la mia; a cia­scuno il suo amore, a me il mio »[22].
F. Vuoi, se il tempo lo consente, che ti descriva alcuni dei suoi molti pregi, che susciteranno in te ammirazione e sorpresa?
A. Credi non sappia che « chi ama si costruisce delle chimere »? " È un verso famosissimo in tutte le scuole; ma rincresce sentire di tali sciocchezze dalla bocca di uno che dovrebbe pensare e parlare in maniera più elevata.
F. Una sola cosa non tacerò, sia essa dovuta al mio senso della gratitudine o alla mia insipienza: io, tal quale mi vedi, piccolo quanto vuoi, esisto grazie a lei[23]; né avrei mai raggiunto questo grado di notorietà o di gloria — valga esso quello che vale — se ella non avesse alimentato con il suo nobile amore il gracilissimo seme di virtù posto dalla natura nel mio cuore. Ella tenne lontano il mio animo giovanile da ogni bruttura e lo ritrasse con un uncino, come suoi dirsi[24], e lo costrinse a nutrire nobili desideri. E perché non avrei dovuto trasformarmi per adattarmi ai costumi di lei, che amavo? In effetti non si è mai trovato un offensore tanto mordace da attaccare con dente acuminato la fama di lei, che osasse affermare di aver trovato qualcosa di riprovevole non dico nelle azioni, ma nei gesti e nelle parole di lei; talché coloro che nulla avevano mai lasciato intatto, non toccavano questa, pieni di ammirata venerazione. Non c’è dunque da meravigliarsi affatto se questa fama tanto rinomata fece nascere pure in me l’aspirazione a una fama più alta e addolcì le fatiche durissime con cui cercavo di soddisfare il mio desiderio. Che altro desideravo, da giovane, se non piacere a lei, anzi a lei sola, che sola era piaciuta a me? Per ottenere questo, tu lo sai a quante pene e fatiche mi sono sottoposto prima del tempo, disprez­zando le lusinghe di mille piaceri. E vorresti che la dimenticassi o che l’amassi di meno, lei che mi ha tenuto lontano dalla massa del volgo[25]; lei che, guidandomi sempre nel mio cammino, ha dato di sprone alla mia fiacca natura e ha risvegliato il mio animo quasi ad­dormentato?
A. O misero, quanto sarebbe stato meglio tacere, che parlare! È vero che anche se tu tacessi ti vedrei dentro qual sei, ma l’afferma­zione in sé stessa, così ostinata, mi muove la bile e mi da la nausea.
F. Perché, scusa?
A. Perché, se credere il falso è indizio d’ignoranza, sostenerlo impudentemente è indizio d’ignoranza e di orgoglio.
F. Che cosa dimostra che io ho pensato o sostenuto un tal falso?
A. Ma è chiaro, tutto quello che hai ricordato! e soprattutto la tua affermazione di essere quello che sei grazie a lei. Se intendi dire che è lei che ti ha permesso di essere così, sei nel falso di sicuro; se invece vuoi dire che non ti ha consentito di essere di più, sei nel vero. Oh che uomo potevi riuscire, se lei non ti tirava indietro con le lu­singhe dell’avvenenza![26] Dunque, quello che sei te l’ha dato la bontà della natura; quello che potevi essere te l’ha portato via lei; anzi tu stesso te lo sei portato via, che lei è innocente. Gli è che la sua bellezza ti è parsa così attraente, così dolce, da distruggere in te con le fiamme di un desiderio ardentissimo e la pioggia incessante delle lagrime tutta la messe che i semi innati delle virtù avrebbero pro­dotta. Quanto poi all’averti ella preservato da ogni bruttura, te ne vanti a torto: te ne ha preservato da molte, forse, ma ti ha spinto in più gravi sventure. In verità, non può dirsi tuo liberatore piuttosto che tuo uccisore, né chi ti ha consigliato di evitare una strada insoz­zata da brutture di ogni genere, se poi ti ha condotto in un precipi­zio, né chi, mentre sanava le piaghe meno gravi, t’inferiva alla gola una ferita mortale. Anche costei, che tu vai celebrando come tua guida, allontanandoti da molte brutture, ti ha sospinto in uno splen­dido baratro. L’averti poi ella insegnato ad avere nobili aspirazioni, l’averti tenuto distinto dalla massa, che cos’altro è stato se non far sì che tu pensassi solo a lei, e disprezzassi ogni cosa (in quanto preso dalla dolcezza di un solo oggetto), e tutto prendessi a noia e trascu­rassi? che, come sai, è l’atteggiamento che più da fastidio nella società umana. Ma quando dici che ella ti ha coinvolto in fatiche senza nu­mero, allora soltanto dici la verità. Qual grazia tanto apprezzabile trovi poi in tutto questo? pensaci. Ci sono già tante fatiche di vario genere che non è possibile evitare : che pazzia andarsene a cercare volontariamente di nuove! Quanto poi al tuo vantarti di esser dive­nuto, grazie a lei, avido di una più nobile fama, ho proprio compas­sione del tuo errore. Fra tutti i pesi che gravano sul tuo animo, ti dimostrerò che non ce n’è nessuno più micidiale. Ma non siamo an­cora arrivati a parlare di questo.
F. Il combattente instancabile minaccia e ferisce. Io però sono tur­bato e dalle ferite e dalle minacce, e incomincio ormai a barcollare forte.
A. Quanto più forte barcollerai quando ti avrò inferto la ferita più grave! Ma è proprio questa che vai esaltando, cui affermi di do­vere ogni cosa, è questa che ti ha portato alla rovina.
F. Dio buono, come potrò persuadermene?
A. Ha distolto l’animo tuo dall’amore del divino e dal Creatore lo ha indirizzato a desiderare la creatura32. Questa, e solo questa, è stata la via più rapida verso la morte.
F. Non dare un giudizio affrettato, ti prego: l’amore per lei mi ha consentito di amare Dio, non c’è dubbio.
A. Ma ha invertito l’ordine.
F. In che senso?
A. Nel senso che ogni creatura dev’essere amata per amore verso il Creatore, mentre tu, invece, preso dal fascino della creatura, hai amato il Creatore non come si conviene: tu hai ammirato l’artefice come se non avesse creato niente di più bello, mentre l’avvenenza fisica è l’ultima delle cose belle.
F. Chiamo a testimone questa che è qui presente, e accanto a lei la mia coscienza, che — l’ho già detto prima — di lei non ho amato il corpo più che l’anima[27]. Potrai capirlo da questo: quanto più lei è andata avanti negli anni (questo è un colpo irreparabile per la bellezza fisica), tanto più saldamente sono rimasto fermo nella mia idea. Sebbene infatti col passar del tempo il fiore della giovinezza s’illanguidisse visibilmente, aumentava con gli anni la bellezza del­l’animo, che mi diede la perseveranza per continuare nel mio amore, come mi aveva dato la spinta ad amare. Del resto, se mi fossi lasciato trascinare dal corpo, il tempo di mutar proposito sarebbe venuto da un pezzo.
A. Ti prendi gioco di me? Ma se il medesimo animo avesse sede in un corpo rugoso e angoloso, ti sarebbe piaciuto ugualmente?
F. Non oso certo affermarlo, che vedere l’animo è impossibile, né l’aspetto esteriore me l’avrebbe promesso tale. Ma se l’animo si mostrasse allo sguardo, ne amerei senza dubbio la bellezza, anche se fosse posto in una dimora brutta.
A. Tu vai cercando un sostegno nelle parole, che se puoi amare soltanto quello che appare alla vista, dunque hai amato il corpo. Non potrei negare tuttavia che anche l’animo e il modo di vivere di lei abbiano alimentato la tua fiamma, dal momento che, come di­rò fra poco, il nome stesso ha certamente dato un contributo non trascurabile, anzi grandissimo, a questo tuo furore. Come in tutte le passioni dell’animo, specialmente in questa avviene che da piccolissime scintille si sviluppi spesso un violento incendio[28].
F. Vedo dove mi spingi: ad ammettere, con Ovidio, che «ho ama­to l’animo insieme col corpo»[29].
A. Devi ammettere anche quel che segue: che non hai amato né l’uno né l’altro con bastante moderazione, né l’uno né l’altro come si conveniva.
F. Dovrai ben tormentarmi per farmelo ammettere.
A. Un’altra cosa ancora: che a causa di questo amore sei caduto in gravi disgrazie.
F. Questo non lo ammetterò nemmeno se mi metti alla tortura.
A. Anzi, tra breve ammetterai tu stesso l’una cosa e l’altra, se segui i miei ragionamenti e le mie domande[30]. Dimmi dunque : ti rammenti degli anni dell’infanzia, oppure nella massa degli affanni attuali ti è svanito il ricordo di tutto quel periodo?

Esercizi
Il brano proposto è un un testo argomentativo[31], ovvero esso si svolge basandosi sull'analisi della struttura dell'argomentazione[32].
1. Esponi a parole tue il contenuto del testo ed indica qual è il problema generale[33] affrontato nel brano e quali sono gli eventuali sotto-problemi affrontati?
2. Spiega qual è la tesi[34] di fondo sostenuta e quali sono gli argomenti[35] a sostegno della tesi generale.
3. Indica se sono presentate antitesi[36] o argomenti altrui non condivisi: se vi sono, quali sono le antitesi ed attraverso quali argomenti sono eventualmente confutate.
4 Classifica le prove di validità degli argomenti, indicando quali fra di esse sono dati oggettivi (fatti, nozioni, leggi generalmente valide, testimonianze, pareri o citazioni di esperti) e quali sono dati soggettivi (opinioni personali dell'autore, suoi giudizi, sue interpretazioni, opinioni di persone diverse dallo scrivente o di determinati gruppi)
5. A quale conclusione[37] giunge l'autore?

La lirica medievale[38]: il Canzoniere[39] di Francesco Petrarca
Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
1. Il sonetto è un consuntivo dell'esperienza amorosa del poeta, presentata come un vaneggiare da cui è stato necessario liberarsi per divenire un uomo nuovo, libero dall'errore.
2. Petrarca ammette che l'amore per Laura era una forma di allontanamento dalla via dell'amore divino e che era indispensabile cambiare la propria prospettiva interiore, non lasciandosi impantanare nell'idolatria delle cose terrene e riconoscendo completamente la grandezza di Dio. per poi annullarsi in essa.
3. Petrarca mostra di voler intrecciare il messaggio morale e filosofico di impronta agostiniana con un orientamento poetico legato ai modelli stilnovisti.

Voi[40] ch'ascoltate in rime sparse[41] il suono
di quei sospiri ond'io[42] nudriva 'l core
in sul mio primo giovenile errore[43]
quand'era in parte altr'uom da quel ch'i' sono,

del vario stile in ch'io[44] piango et ragiono
fra le vane speranze e 'l van dolore,
ove sia chi per prova[45] intenda[46] amore,
spero trovar pietà, nonché perdono[47].

Ma ben veggio or sì come al popol tutto
favola fui gran tempo[48], onde sovente
di me mesdesmo meco[49] mi vergogno;

et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto,
e 'l pentersi, e 'l conoscer chiaramente
che quanto piace al mondo è breve sogno.

Era il giorno
1. Il sonetto evoca il venerdì santo del 6 aprile del 1327, in cui il Petrarca vide Laura per la prima volta e se ne innamorò. Il giorno doloroso della liturgia cattolica avrebbe dovuto suggerirgli pensieri diversi da quelli d’amore; ma egli non pensò a difendersi da que­sto sentimento, che così insorse in lui violento e non trovò ad opporglisi alcuna resistenza.

Era il giorno ch’al sol si scoloraro
per la pietà del suo fattore i rai[50],
quando i’ fui preso[51], e non me ne guardai[52],
che i be’ vostr’occhi, donna, mi legaro[53].

Tempo non mi parca[54] da far riparo[55]
contr’ a’ colpi d’Amor, però[56] m’andai[57]
secur, senza sospetto[58]: onde i miei guai
nel commune dolor[59] s’incominciaro.

Trovommi Amor del tutto disarmato,
et aperta la via per gli occhi al core[60],
che di lagrime son fatti uscio e varco[61].

Però, al mio parer, non li fu onore[62]
ferir me di saetta[63] in quello stato[64],
a voi armata[65] non mostrar pur[66] l’arco.


Movesi il vecchierel
Movesi il vecchierel canuto et bianco[67]
del dolce loco ov'à sua età fornita[68]
et dalla famigliuola[69] sbigottita
che vede il caro padre venir manco;

indi traendo poi l'antiquo fianco[70]
per l'estreme giornate di sua vita,
quanto più pò, col buon voler s'aita[71],
rotto dagli anni, et dal cammino stanco;

et viene a Roma, seguendo 'l desio,
per mirar la sembianza[72] di colui
ch'ancor lassù nel ciel vedere spera[73]:

così, lasso[74], talor vo cerchand'io,
donna, quanto è possibile, in altrui[75]
la disïata vostra forma vera.


Solo e pensoso
Solo et pensoso[76] i più deserti campi
vo mesurando a passi tardi et lenti,
et gli occhi porto per fuggire[77] intenti
ove vestigio human[78] l'arena stampi.

Altro schermo[79] non trovo che mi scampi
dal manifesto accorger de le genti,
perché negli atti d'allegrezza spenti
di fuor si legge com'io dentro avvampi[80]:

sì ch'io mi credo omai che monti et piagge
et fiumi et selve sappian di che tempre
sia la mia vita[81], ch'è celata altrui.

Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so ch'Amor non venga sempre
ragionando con meco, et io con lui[82].

Padre del ciel
Padre del ciel, dopo i perduti giorni,
dopo le notti vaneggiando[83] spese,
con quel fero desio[84] ch'al cor s'accese,
mirando gli atti per mio mal sì adorni[85],

piacciati omai col Tuo lume ch'io torni
ad altra vita[86] et a più belle imprese,
sì ch'avendo le reti indarno tese,
il mio duro avversario se ne scorni[87].

Or volge, Signor mio, l'undecimo anno
ch'i' fui sommesso al dispietato giogo
che sopra i più soggetti è più feroce.

Miserere[88] del mio non degno affanno;
reduci i pensier vaghi a miglior luogo[89];
rammenta lor come oggi fusti in croce.

Chiare fresche dolci acque
Chiare, fresche et dolci acque[90],
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna[91];
gentil ramo ove piacque
(con sospir[92] mi rimembra) sospiro
a lei di fare al bel fianco colonna[93];
erba et fior che la gonna
leggiadra ricoverse[94]
con l'angelico seno[95];
aere sacro, sereno,
ove Amor co' begli occhi il cor m'aperse[96]:
date udïenza insieme
alle dolenti mie parole estreme[97].

S'egli è pur mio destino[98]
e 'l cielo in ciò s'adopra,
ch'Amor quest'occhi lacrimando[99] chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra[100],
et torni l'alma al proprio albergo ignuda[101].
La morte fia men cruda[102]
se questa speme porto
a quel dubbioso passo[103]:
ché lo spirito lasso[104]
non poria mai in più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata et l'ossa[105].

Tempo verrà ancor forse[106]
ch'all’usato soggiorno[107]
torni la fera bella et mansüeta[108],
et là 'v'ella mi scorse
nel benedetto giorno[109],
volga la vista disïosa et lieta,
cercandomi[110]; et, o pietà[111]!,
già terra in fra le pietre
vedendo, Amor l'inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m'impetre,
et faccia forza al cielo,
asciugandosi gli occhi col bel velo[112].

Da' be' rami scendea[113]
(dolce ne la memoria[114])
una pioggia di fior sovra 'l suo grembo;
et ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l'amoroso nembo[115].
Qual fior cadea sul lembo[116],
qual su le trecce bionde,
ch'oro forbito et perle[117]
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra, et qual su l'onde[118];
qual con un vago errore
girando[119] parea dir: - Qui regna Amore[120]. -

Quante volte diss'io
allor pien di spavento[121]:
Costei per fermo nacque in paradiso[122].
Così carco d'oblio
il divin portamento
e 'l volto e le parole e 'l dolce riso
m'aveano, et sí diviso
dall’imagine vera,
ch'i' dicea sospirando:
Qui come venn'io, o quando?;
credendo d'esser in ciel[123], non là dov'era[124].
Da indi in qua[125] mi piace
questa erba[126] sì, ch'altrove non ho pace.

Se tu avessi ornamenti quant'hai voglia[127],
poresti arditamente
uscir del bosco, et gir[128] in fra la gente.

Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena
Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena[129],
e i fiori e l’erbe, sua dolce famiglia[130],
e garrir Progne, e pianger Filomena[131],
e primavera candida[132] e vermiglia[133].

Ridono i prati, e ’l ciel si rasserena;
Giove s’allegra di mirar sua figlia[134];
l’aria, e l’acqua, e la terra è d’amor piena;
ogni animal d’amar si riconsiglia[135].

Ma per me, lasso!, tornano i più gravi
sospiri, che del cor profondo tragge[136]
quella ch’al ciel se ne portò le chiavi;

e cantar augelletti, e fiorir piagge[137],
e ’n belle donne oneste atti soavi
sono un deserto, e fere aspre e selvagge[138].

Esercizi1. Svolgi la parafrasi[139] dei testi proposti
2. Individua le figure sintattiche presenti nei testi e, per ogni tipo di figura sintattica, fanne un esempio con la ricostruzione nel linguaggio prosastico, l’analisi logica ed eventualmente l’analisi del periodo.
3. Individua gli scarti linguistici[140] presenti nei testi e per ciascuna tipologia fanne un esempio, classificandolo.4. Individua tutte le figure retoriche di significato presenti nei testi e per ciascuna fanne un esempio esplicitandone il significato.
5. Trascrivi il primo sonetto, mettendo gli accenti tonici su tutte le parole, tranne su quelle atone, e classificandole in:
· Tronche o ossitone
· Piane o parossìtone
· sdrucciole o proparossitone
· Bisdrucciole
· Trisdrucciole
6. Individua e trascrivi tutte le figure fonetiche sillabiche[141] presenti nei testi, classificandole in:
· afèresi
· prostesi
· apòcope,
· epítesi (o paragòge)
· sincope
· epèntesi
7. Individua tutte le figure le figure metriche presenti nei testi proposti trascrivile e classificale, indicando se si tratta di
· Dialefe
· Dieresi
· Sinalefe
· Sineresi
8. Individua tutte le rime[142] presenti nei testi proposti e tutte le figure foniche[143], classificando il sistema metrico di ciascun sonetto.
9. Individua il sistema strofico[144] che costituisce i componimenti.
10 Esponi a parole tue il contenuto di ciascun testo proposto, individuane il tema[145] centrale del componimento e come esso esposto, quali sono, se ci sono, i temi secondari e come sono esposti evidenziando i nessi di relazione[146] fra il tema-centrale e gli eventuali temi secondari. Analizza in dettaglio, enunciandone però la trattazione, una situazione[147] o un personaggio[148] o qualche particolare immagine presenti in ciascun brano, spiegandone la relazione con il tema centrale del componimento.11. Di ogni testo indica se si fa leva principalmente su descrizioni[149] su ragionamenti[150] su emozioni[151] indicando successivamente se l’autore punta ad una particolare precisione ed evidenza delle immagini[152]. Di ogni testo individua qualche immagine particolarmente curata ed illustra come essa è espressa.
12 Inquadramento del testo in un contesto[153]: indica in che epoca è vissuto o vive ciascun autore, in quale ambito culturale o in quale corrente di pensiero si colloca, a quale concezione (religiosa, scientifica, filosofica, letteraria ecc.) si richiami e\o quale si contrappone.
13 Indica come si colloca l'autore nel contesto culturale a lui contemporaneo quali sono le sue idee ha, quale concezione ha della letteratura (poetica) e che fine quale fine le attribuisce. Se si pone in una posizione di continuità o di rottura con la tradizione letteraria (idee e poetica) che lo precede e con la cultura dominante nel suo tempo.
12 Valutando gli aspetti extratestuali[154] individua le caratteristiche salienti delle idee e della poetica dell'epoca in cui vive ciascun autore, rintracciabili nei testi, in che cosa aderisce a quella corrente letteraria ed in che cosa eventualmente se ne distacca.
NOTE
[1] Questa celebre lettera che narra l’ascensione del Petrarca al monte Ventoso in chiave evidentemente allusiva è indirizzata al teologo e letterato frate agostiniano Dionigi da Borgo S. Sepolcro, per il quale G. Billanovich ha ribadito che la composizione della lettera va collocata verso la metà del 1355 e non al 26 aprile 1336, giorno in cui la lettera si finge scritta (l’ascensione sarebbe infatti avvenuta tra il 24 e il 26 aprile di quell’anno) e le sue ragioni sono state generalmente accettate.
[2] Francesco Petrarca: La vita - Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bian­ca, che era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre, ser Petracco, nel 1312 lasciò l’Italia per Avignone, in Provenza, dal 1308 sede del papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di traffici che offriva buone possibilità di lavoro; ser Petracco, infatti, divenne notaio presso la Corte papa­le.
Francesco, insieme col fratello Gherardo, dopo aver appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato allo studio del diritto a Montpellier; passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna, università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad essi preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Tornato ad Avignone dopo la morte del padre (1326), vi trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana. Fu in questo periodo (1327) che conobbe la donna che sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e che avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese che gli studiosi hanno creduto di poter identificare con una Laura de Noves, maritata a Ugo de Sade. Aveva intanto assunto gli ordini minori ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allo­ra, per ottenere una dignitosa sistemazione economica.
Intorno al 1330 entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna che gli fu - come dice lo stesso Petrarca - quasi fratello e padre più che padrone, e si valse di lui per incari­chi congeniali alle sue attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il ‘37 compì, per studio e per diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nel­la Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania, e infine in Italia, dove Roma lo colpì col fascino delle sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, si ritirò a vivere in una casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque», che gli offriva, dopo le dispersioni mondane e dei viaggi, un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi. Pensava di trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per tempera­mento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui soggiornò alternativa­mente in Provenza e in Italia. Fra i motivi che lo spinsero a viaggiare e a soggiornare in Italia, due sono particolarmente importanti: nel 1341 l’incoronazione a poeta confe­ritagli dalla città di Roma, e che ricevette in Campidoglio; e nel 1347 l’impresa di Cola di Rienzo, che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblica­na. Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità e il suo consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento del tentativo di Co­la.
Oltre a Roma, numerose furono le altre città italiane che in questo periodo visitò o in cui addirittura visse per qualche tempo: Parma, Modena, Bologna, Ferrara, Verona, Mantova e Firenze, dove conobbe Boccaccio.
Dal 1353 il suo soggiorno in Italia divenne definitivo. Invitato dall’arcivescovo Giovan­ni Visconti, visse a Milano alla corte viscontea, poi a Padova presso i Da Carrara, a Venezia dove ebbe alti onori dalla Repubblica, quindi di nuovo a Padova. Trascorse gli ultimi anni ad Arquà sui colli Euganei, una località campestre che gli ricordava la rac­colta solitudine di Valchiusa, e qui morì nel 1374.
Le opere - Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare. Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica e opere di ispirazione cristiana.
1. Fra quelle del primo gruppo la più importante è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per argomento la seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto dalle Storie di Livio e si propone come modello poetico l’Eneide di Virgilio. L’opera si incentra sulle gesta di Scipione l’Africano nella seconda guerra punica a Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana. Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magne, fratello di Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di Scipione in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla quale Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà appare modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità dei valori terreni;
2. Fra le opere del secondo gruppo, quelle cioè di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa è il Secretum, in tre libri. È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre giorni e alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro di Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino racconta che Francesco è privo di forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino racconta che Francesco è colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia. Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario, costituito dalle lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che, per la massima parte, riela­borò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse, pur attraverso il diaframma della riela­borazione letteraria, ci consentono di conoscere momenti e situazioni della vita del poe­ta, e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di que­ste lettere sono scritte in versi esametri (Epistolae metricae);
4. È scritto invece in volgare il capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366 componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine, ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura, e costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne nella peste del 1348 (Rime in vita e Rime in morte di Madonna Lau­ra). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia mia e Spirto gentili alcune liriche religiose culminanti nella Canzone alla Vergine; e un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra opera in volgare, I Trionfi, poema allegorico sulla vanità e sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo là dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il trionfo dell’amore racconta l’amore per Laura. Il trionfo della pudicizia racconta che Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il trionfo della morte racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte dove gli toglie un capello e muore. Il trionfo della fama racconta che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi, letterati. Il trionfo del tempo racconta che il tempo cancella le glorie del tempo. Il trionfo dell’eternità racconta che le glorie rimarranno solo a Dio.
Fra Medioevo e imminente Rinascimento: l’inquieta psicologia di Petrarca - Quando Dante moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi sto­rici cronologicamente assai vicini; eppure essi esprimono due momenti di civiltà che vanno ormai diversificandosi, e in gran parte si sono già diversificati. Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo e il Rinascimento, età quest’ulti­ma che pone in primo piano i valori terreni e mondani. Egli infatti è medioevalmente convinto che la vita che conta è quella eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve ten­dere; e invidia coloro - come suo fratello che si è fatto monaco - che sanno comportarsi coerentemente con questi principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso l’at­trazione per i valori mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore: al loro richia­mo non sa sottrarsi, e nello stesso tempo li giudica fuorvianti, e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito petrarchesco, costituisce un motivo ricorrente nella sua vita e nella sua opera.
In una delle più belle fra le Epistole, in cui descrive la scalata sua e del fratello su un monte della Provenza, il Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambi­valente (uterque homo). Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di muovere ver­so il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla cima e vi giunge rapida­mente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle vallette laterali (cioè simbolicamente si lascia attrarre dalle seduzioni mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire; così che quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco e in ritardo.
Analogamente, in quel capolavoro di penetrazione psicolo­gica che è il Secretum, egli individua come male essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino (cioè dalla sua coscienza), circa la sua debolezza di volontà, e circa l’ansia e l’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosa­mente convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subi­to, ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane», perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su dì me. Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto profane»; e ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».
Cultura cristiana e cultura classica di Petrarca - La bivalenza psicologica di Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo «scolastico» San Tommaso, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo, ma Sant’Agostino, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo che rimane la fondamentale irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca ostinatamente testi di autori classici andati perduti durante il Medioevo; confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i vari mano­scritti di una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli errori che ne hanno alte­rata la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico il rapporto di Petrarca coi classici, e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto che egli non subordina il loro mes­saggio alla visione cristiana del mondo, ma vuole invece recuperarlo nella sua autenti­cità e integrità.
[3] Esprimendo in modo figurato un’idea con una parola che significa l’op­posto: qui «figlio» per «padre».
[4] L’Athos, nella penisola calcidica, alto 1935 metri; l’Olimpo, 2918 metri, è la montagna più alta della Grecia.
[5] Come Annibale, nel passaggio delle Alpi, si aprisse la via nella roccia, è detto in Livio, XXI, 37, 2.
[6] Con ogni probabilità nel 1336 Dionigi viveva presso la Curia papale. L’avere immaginato il proprio corrispondente già trasferito in Italia (Dionigi venne chiamato a Napoli nel 1338 da re Roberto) è quindi una finzione posteriore.
[7] Petrarca lasciò Bologna nell’aprile del 1326 in seguito, probabilmente, alla notizia della morte del padre: l’ascensione sarebbe quindi avvenuta nella 1336. Ma sulla funzione simbolica di questa data..
[8] Conf., II, 1, 1.
[9] Ovidio, Amores, III, nb, 35.
[10] Sul motivo della lotta interiore G. Billanovich ha ricordato come Petrarca montasse l’impalcatura di questa lettera in gara con Agostino; né si deve dimenticare che dietro incoraggia­mento di Dionigi il poeta giunse ad ammettere, intorno al 1333, che la vita condotta sino ad allora era stata piena di pericoli. Fu allora che si rese conto, con maggiore consapevolezza, come accanto alla letteratura dell’età classica esistesse una vasta e altrettanto importante letteratura dell’antichità cristiana, nella quale un posto insigne era tenuto da Agostino. Dionigi fu infine colui che donò a Petrarca una minuscola copia delle Confessioni agostiniane, copia che il poeta, dopo averla recata sempre con sé, donò nell’ultimo anno della sua vita al giovane amico Luigi Marsili.
[11] Conf., X, 8, 15. Lo stesso concetto è espresso con parole diverse da Agostino in Secr. II.
[12] Allude a Seneca, 8, 5 : nihil preter animum esse mirabile cui magno nihil magnum est.
[13] Conf., VIII, 12, 29, dove sono riportati i due passi dell’apostolo Paolo (Rom., 13, 13-14) e dell’evangelista Matteo (19, 21).
[14] Vita Ant., 2.
[15] Virgilio, Georg., II, 490-92. Come è noto, i versi virgiliani sono invece un omaggio all’opera di Lucrezio.
[16] Una luna pernox, per es., in Livio, V, 28, 10; XXI, 49, 9, ecc.
[17] Il Secretum – In Petrarca il contrasto tra anima e corpo si complica in un vero e più moderno conflitto interiore tra il desiderio della bellezza del corpo femminile e il senso di colpa.
Lo splendore di Laura turba i sensi del poeta e nello stesso tempo il sentimento del peccato e della fragilità è motivo di tormento. Mentre nella poesia stilnovistica, e soprattutto in Dante, l’amore viene sublimato in una dimensione spirituale, quasi depurato dalla contaminazione con il corpo a vantaggio delle esigenze dell’anima, in Petrarca non è più possibile conciliare questi due termini antitetici, subordinando l’uno all’altro. L’anima e il corpo hanno forza e diritti uguali e convivono nella coscienza del poeta sia pur con voci contrastanti (Francesco e Agostino). Da qui l’esperienza del" doppio uomo" che rende contraddittoria la sua vita interiore. Anche dopo la morte di Laura, Petrarca non arriverà mai al disprezzo per il corpo e quindi ad aderire ad una visione ascetica: il corpo viene apprezzato sempre nella sua bellezza anche dopo la morte.
La principale ragione di interesse e di modernità di quest’opera sta proprio nel suo carattere aperto e problematico. Nel Medioevo, il motivo dello smarrimento trova sempre una risoluzione finale che prevede una ricomposizione etica del protagonista, un ritorno nella logica della virtù e dell’obbedienza alla legge divina. Qui invece permane sino alla fine una sorta di conflittualità interna che sembra ribadire l’incapacità di operare una scelta decisiva.
Nel brano che abbiamo scelto dal Secretum si possono individuare gli elementi innovativi quali, ad esempio, l’ambiguità petrarchesca che emerge negli ossimori, nelle antitesi.
Il tema del brano è l’ambiguo amore di Francesco per Laura, cioè la sua consapevole attrazione per un corpo, mascherata da ragioni ideali e spirituali.
Si ricordi inoltre che il dialogo tra Franciscus e Augustinus, svolto alla muta presenza della Verità, è la lucida, acuta e profonda analisi del Petrarca.
[18] cicerone, De am., XXVII, 102: «e virtutem... amavi illius viri, quae extincta non est », anche in Fam., II, 6,5.
[19]virgilio, Aen., I, 328-329: sono le parole con cui Enea si rivolge a Venere appena apparsagli (cfr. anche, qui nel Secretum, I, nota 3).
[20] virgilio, Aen., I, 328-329: sono le parole con cui Enea si rivolge a Venere appena apparsagli (cfr. anche, qui nel Secretum, I, nota 3).
[21] Cfr. p. 174. La citazione non è testuale: cfr. Tusc., IV, 18, 41: «Qui modum... vitio quaerit, similiter facit, ut si posse putet eum qui se e Leucata praecipitaverit, sustinere se, cum velit». «Sono due versi che Cicerone cita (Ad Att., XIV, 20,3) come di Atilio, poeta comico ch’egli giudica "durissimus" (di qui il giudizio di Petrarca a plebeio... poeta); la citazione dovrebbe essere stata aggiunta da Petrarca in una revisione del Secretum, posteriore al 1345, se è vero che solo in quell’anno egli conobbe le lettere Ad Atticum » (Carrara). I due versi sono citati anche in Fam., XII, 6,
[22] «Sono due versi che Cicerone cita (Ad Att., XIV, 20, 3) come di Atilio, poeta comico ch’egli giudica "durissimus" (di qui il giudizio del Petrarca a plebeio... poeta); la citazione dovrebbe essere stata aggiunta dal Petrarca in una revisione del Secretimi, posteriore al 1345, se è vero che solo in quell’anno egli conobbe le lettere Ad Atticum» (Carrara). I due versi sono citati anche in Fam., XII, 6, 5.
[23] virgilio, Bucai., VIII, 108. È la domanda che si pone Alfesibeo, sperando nell’amore di Dafni. Il verso è citato anche in Far»., VII, 12, 6; XII, 5, 4.
[24] « da mille acti inhonesti l’ò ritratto», Rime, CCCLX, 122; « amor ipse uncos habet et cathenas », Fam., VII, 12, 14, testo y. Cfr. anche ivi, VIII, 9, 10. Questi argomenti saranno subito confutati da Agostino: cfr. p. 186.
[25] «et fatto singular da l’altra gente» (Rime, CCXCII, 4, ricordato dal Carrara).
[26] Un’eco di questo concetto in Rime, CCCLX, 28 segg.
[27] Cfr. p. 180.
[28] Cfr. dante, far., I, 34: «Poca favilla gran fiamma seconda».
[29] Amar., I, 10, 13.
[30] Cfr. infatti p. 194: « id ita esse negare non vako ».
[31] Il testo argomentativo è un testo in cui chi scrive presenta una propria opinione - o tesi -, la spiega ­la dimostra e la difende attraverso opportuni argomenti, allo scopo di persuadere chi lo ascolta o lo legge della validità di quello che dice. I testi argomentativi possono trattare di problemi mollo diversi. ma tutti hanno in comune lo scopo di persuadere chi ascolta e il modo in cui si cerca di raggiungere questo scopo, che consiste nel dimostrare ciò che si dice portando delle prove convincenti.
[32] Il testo argomentativo si articola nelle seguenti parti:
problema
tesi
argomenti a favore della tesi
antitesi
confutazione degli argomenti in favore dell'antitesi
conclusione
Questa struttura. però, ammette delle varianti, con lo spostamento o la soppressione di uno degli elementi che la compongono. In linea di massima, si potrà così avere una delle seguenti possibilità: spostamento della tesi alla fine del testo, omissione della tesi, omissione degli argomenti a favore dello tesi, omissione dell'antitesi.
[33] Il problema,cioè qualcosa su cui premiere una decisione, sta alla base di ogni testo argomentativo
[34] La tesi è l'opinione che l'autore del testo esprime sul problema m questione la propria tesi, cioè la propria opinione.
[35] L’argomentazione è una prova portata dall'autore del testo, allo scopo di convincere i suoi interlocutori a condividere la sua tesi.
[36] L’antitesi per prevenire le possibili obiezioni dei suoi interlocutori, l'autore espone lui stesso la tesi da essi sostenuta e contraria alla sua, cioè l'antitesi; Tu sostieni che un cane farebbe la guardia alla casa e sarebbe più affettuoso di un micio, ma io non sono d'accordo.
[37] Le conclusioni sono la somma della sua argomentazione in una conclusione in cui ribadisce la sua tesi riguardo al problema.
[38] Storia della lirica: Il basso Medioevo - Il panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di esperienze:
1. entro confini più ristretti e con un’influenza decisamen­te minore sui futuri sviluppi della lirica, rimane la poesia reli­giosa, anche se il sentimento religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria che ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più nell’Italia centrale, in Umbria. A partire dal XII secolo, col risvegliarsi di un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di accompagnare il culto non più col canto in la­tino, ma in volgare, a testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componi­menti in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori esponenti del­la poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta per la preghiera è il Cantico delle creature che San Francesco d’Assisi [38] (1181-1226) compose in volgare umbro. Il canto religioso andò progressivamente prendendo la forma della lau­da, un termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano du­rante le funzioni religiose. Questi componimenti venivano eseguiti da confraternite di laici (laudantes) che accompagna­rono la nascita di movimenti religiosi che, a partire dal seco­lo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore religioso soprattutto nelle zone dell’Italia centrale. Solo ver­so la fine del Duecento le laudi cominciarono ad essere rac­colte e trascritte a cura delle varie confraternite, dando così inizio a una tradizione che continuò e s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della rappresen­tazione teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica eccezione il laudario di Jacopone da Todi[38], una personalità poetica di no­tevole rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito ideologico e religioso;
2. In primo piano c’è una lirica di argomento amoroso.
Nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri for­mali (tipi di versi e di strofe, uso della ri­ma, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della corte dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine. Questa poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di letteratura che deve intrattenere e insieme dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono no­vità che segnalano l’affiorare dell’i­dea che la letteratura può avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del trovatore, il poeta (da tobàr che in provenzale significa poetare), è parte inte­grante della corte: molti sono aristocratici e feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la loro attività poeti­ca li eleva socialmente e spesso procura rico­noscimenti o incarichi che danno loro dignità e ricchezza.
La maggior parte dei testi dei trovatori esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor cortese: questo termine riassume un ideale di vi­ta esclusivo dell’ambiente della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il De amore (Sull’amore) di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
· la gioia per il favore accordato da madonna;
· l’affinamento dei valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
· la tensione del de­siderio amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete esperienze di vita) che valeva per la poesia. Possiamo dire che la lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale at­traverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione letteraria europea e italiana.
La poesia dei trovatori nata nelle corti della Francia meridionale fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi (1208).
La Scuola siciliana - La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia dove nacque la prima scuola poetica della letteratura italiana. Quella di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola siciliana» cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia. La poesia sici­liana si sviluppò in un arco di tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i compo­nimenti di Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento). I protagonisti della Scuola erano prima di tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare alla rinasci­ta culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo del­le Colonne, Giacomino Pugliese. La poesia della Scuola siciliana in linea di massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda come modello; e, come la poesia provenzale, è impe­gnata in difficili ricerche tecniche, soprattutto metriche secon­do un repertorio fisso di situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore cortese.
La lingua usata dai poeti della Scuola siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno strumento al­to, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e regolarizzato nelle forme grammaticali.
Attraverso la me­diazione dei poeti siciliani, ma anche per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello alle espe­rienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità, rispetto alla tra­dizione siciliana, è costituita dalla pre­senza delle tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni. La poesia toscana fu un pun­to di riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, in­sieme con Dante, rappresentano il cosiddetto stil novo.
La scuola toscana - La per­sonalità di maggior rilievo fu Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche intellettuale e uo­mo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ri­cordati Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
La più importante corren­te poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese Guido Guinizelli[38], ma essa si svi­luppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti, come Guido Caval­canti[38], lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie di gusto e da comuni esperienze culturali. Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
· la donna vi è celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
· l’amore è considera­to retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà di nasci­ta, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine della nobiltà feudale;
· la capacità che essi dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili, dell’animo umano;
· un linguaggio raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.
3. Ai margini restano le esperienze, pur interessanti, della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca.
· La poesia realistica è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e Trecento; essa si caratteriz­za soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono al re­gistro che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello tragico e sublime un registro che si associa al linguaggio mediocre e basso. Questi caratteri non devono tuttavia far pensare a una poesia rozza; al con­trario, il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e la caricatura dimostrano una note­vole perizia tecnica. Anche poeti come Dante, Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricor­diamo Cecco Angiolieri, Rustico di Filippo e Folgore da S. Gimignano.
· La poesia giullaresca fu una produzione di livello mo­desto, rivolta a un pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e in parte scrit­ta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento, di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano essere artisti di piazza, canta­storie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente di corte e detentori di una buona preparazione culturale.
1. Nel Trecento ha inizio la tradizione della poesia per musica.
2. L’opera poetica di Dante e più ancora quella di Petrarca do­minano il Trecento; la straordinaria altezza delle loro opere fa sì che non vi siano poeti capaci di creare qualche cosa che ol­trepassi l’imitazione di questi due grandi.
[39] Dalla Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca - Questa ambivalenza psicologica diventa poesia nel Canzoniere. Se Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella Divina Commedia tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatu­ra terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il Canzoniere è illuminato da questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la natura della Provenza, medi­terranea, solare, fra prati e acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più inten­si della raccolta.
[40] Voi: o voi. Vocativo.
[41] in rime sparse: in vari e brevi componimenti poetici.
[42] ond': dei quali; coi quali.
[43] nel tempo degl'inganni della mia gioventù.
[44] in ch': in cui io
[45] per prova: per esperienza.
[46] intenda: conosca
[47] pietà, nonché perdono: non solamente perdono, ma anche compassione.
[48] sì come al popol tutto favola fui gran tempo: per lungo tempo fui materia di discorso e di riso alla gente.
[49] meco: fra me.
[50] Era il giorno... rai: era il venerdì santo, giorno in cui, secondo il racconto dei sacri testi, avven­ne una eclissi di sole, e il sole si oscurò, impietosito dall’agonia di Cristo suo creatore (suo fattore).
[51] fui preso: da Amore.
[52] e non me ne guardai: e non mi difesi da questo insorgente sentimento.
[53] mi legaro: mi legarono, mi avvinsero.
[54] Tempo non miparea: data la giornata di lutto cristiano, non mi pareva necessario.
[55] da far riparo: di dovermi difendere.
[56] però: perciò.
[57] m’andai: nella chiesa di Santa Chiara in Avignone, dove vide Laura per la prima volta.
[58] senza sospetto: delle insidie d’Amore.
[59] commune dolor: nel dolore di tutta la cristianità.
[60] la via per gli occhi al core: la via che, attraverso gli occhi, colpiti dalla bellezza di Laura, giunge al cuore.
[61] che... varco: occhi che ora sono uscio e varco alle lacrime per l’amore non ricambiato.
[62] non li fu onore: non fu cosa onorevole per Amore (/;’ = a lui).
[63] di saetta: con le sue frecce.
[64] in quello stato: mentre ero indifeso, non pensavo a difendermi.
[65] a voi armata: a voi, Laura, armata invece della vostra virtù.
[66] non... pur: neppure.
[67] bianco - sembra alludere al pallore del viso.
[68] del dolce loco ov'a sua età fornita - del dolce paese dove ha trascorso la sua vita.
[69] allontanarsi dalla famigliola. “È partire e morire, come se la casa dovesse restar sempre vota di lui, come se temessero di non vederlo più” (De Sanctis).
[70] indi traendo poi l'antico fianco - trascinando il suo vecchio corpo.
[71] s'aita - si aiuta.
[72] la sembianza - le fattezze del volto insanguinato di Cristo nel panno in cui la Veronica gli asciugò il volto durante l’ascesa al Calvario.
[73] Quanto… altrui: per quel tanto che è possibile (poiché tutte danno di lei un’immagine sbiadita, come il panno della Veronica può darla al volto divino di Cristo).
[74] lasso - misero.
[75] altrui - in altre donne.
[76] Solo et pensoso: Solitario e pensieroso
[77] lo sguardo per fuggire: rivolgo lo sguardo
[78] ove vestigio human: da orma umana
[79] Schermo: rifugio
[80] di fuor si legge com'io dentro avvampi: esteriormente si intuisce come io, nell'intimo, arda d'amore
[81] che monti … vita: che monti, pianure fiumi, boschi conoscano di che tenore è la mia vita.
[82] ch'Amor … con lui: in cui Amore non mi accompagni in ogni istante parlando con e ed io con lui.
[83] Vaneggiando: inseguendo vane passioni.
[84] Con quel fero desio: con la bruciante passione.
[85] mirando… adorni: quando contemplai gli atti così leggiadri e seducenti, per mia sventura, di Laura
[86] ad altra vita: ad una vita radicalmente diversa
[87] sì ch(e)… il mio duro adversario se ne scorni: così che il demonio sia sconfitto
[88] Miserere: Abbi pietà.
[89] reduci… luogo: riconduci al Cielo i miei pensieri che vagano e vaneggiano.
[90] Chiare…. Acque: le acque del Sorga, affluente del Rodano, presso le quali si trova Valchiusa, il soggiorno provenzale caro al poeta.
[91] Ove… donna: nelle quali immerse la sua bella persona colei che per il poeta è la sola donna che esiste al mondo.
[92] Sospir: pena
[93] Lei… colonna: cui Laura appoggiò il suo bel fianco; che fece da appoggio (colonna) al bel fianco di lei.
[94] Ricoverse: ricoprì.
[95] Con … seno: Laura è adagiata fra l’erba.
[96] m'aperse: trafisse
[97] Dolenti…. Estreme: il poeta si sente o si immagina già vicino a morte per la sofferenza amorosa, e chiede agli aspetti del paesaggio che furono testimoni della splendida apparizione di laura di ascoltarlo ( date udienza).
[98] S'egli è pur mio destino: sebbene sia il mio destino
[99] Lacrimando: lacrimanti per le pene d’amore: il gerundio sta per il participio.
[100] Qualche … ricopra: una benevola sorte (qualche grazia) faccia sì che il mio corpo abbia sepoltura, sia ricoperto dalla terra fra voi, in questo luogo
[101] Et torni …. ignuda: e l’anima, priva ormai del corpo ( ignuda), torni alla propria dimora (albergo), cioè al cielo.
[102] Fia … cruda: sarà meno crudele.
[103] Se questa … passo: se porto questa speranza, di essere cioè sepolto in questo luogo, al varco (passo) della morte, varco incerto (dubbioso), perché ignoriamo quale sarà il destino della nostra anima nell’eternità.
[104] Lasso: stanco, perché usurato dalle pene d’amore.
[105] Non porìa … l’ossa: non potrebbe allontanarsi dal corpo travagliato dalla passione (la carne travagliata e l’ossa), lasciandolo in un porto più riposato o in una fossa più tranquilla di quel che no. siano questi luoghi
[106] Tempo …. Forse: è la strofa della speranza proiettata nel futuro, oltre la morte
[107] All’usato… soggiorno: nel luogo dove un tempo soleva soggiornare
[108] La fera … mansueta: Laura, crudele come una fiera nella sua bellezza in quanto fa soffrire con la sua indifferenza il poeta, ma in realtà mansueta, cioè gentile e mite nella sua natura
[109] Nel … giorno: in cui la ncontrai
[110] Volga …. Cercandomi: mi cechi con sguardo lieto e desideroso
[111] O pietà: ahimè
[112] Già terra…. Velo: vedendomi ormai polvere (terra) fra le pietre del sepolcro, sia mossa da amore a sospirare con tanta dolcezza da ottenermi da Dio pietà (mercè m’impetre) e da piegare la severità del cielo stesso (faccia forza al cielo) col gesto pietoso e gentile di asciugarsi col bel velo gli occhi piangenti.
[113] Da’ bei … scendea: cominciano qui i versi del trionfo di Laura; scendea: in quel lontano giorno di primavera.
[114] Dolce … memoria: si svolge ora la sequenza del ricordo
[115] De l’amoroso nembo: della nuvola di fiori, omaggio a Laura della natura innamorata di lei.
[116] Sul lembo: sulla veste di laura.
[117] Oro … perle: oro dei capelli e petali bianchi dei fiori.
[118] Su l’onde: sulle acque del Sorga.
[119] Con un vago … girando: muovendosi nell’aria con un leggiadro errare.
[120] Qui … Amore: questo è il regno di Amore
[121] Di spavento: di sconcertato stupore
[122] Costei … Paradiso: certo (per fermo) questa donna è creatura celeste, non terrena
[123] Ciel: paradiso
[124] non … era: non in Terra dove mi trovavo.
[125] Da indi in qua: da allora in poi
[126] questa erba: questo luogo
[127] Se tu avessi ornamenti quant'hai voglia: se tu, (sott. mia canzone) fossi bella quanto desideri.
[128] Gir: andare
[129] Rimena: riconduce
[130] sua … famiglia: suo dolce seguito
[131] E garrir … Filomena: ed il garrire delle rondini (Progne) ed il canto dell'usignolo (Filomena). Petrarca ricorda questa leggenda raccontata da Ovidio, nelle Metamorfosi, ci ha narrato la fosca avventura toccata a Tereo. Dall’unione del re di Atene, Erittonio, con la ninfa Prassitea nacque Pandione che, alla morte del padre, salì sul trono dell’Attica.
Quando le città vicine mossero guerra ad Atene, Pandione si trovò in condizioni molto sfavorevoli per intraprendere una guerra, ma Tereo, re della Tracia, venne in suo aiuto, e così Pandione ottenne la vittoria su tutti nemici. Per compensare l’alleato, gli diede in moglie la sua primogenita, Progne che visse un po’ di tempo felice col marito e col figlioletto nato dal matrimonio: Iti. Ben presto, però, Tereo si rivelò un uomo crudele, ma Progne lo amava ugualmente e sperava che la loro unione si sarebbe rafforzata.
Pur amando molto suo marito e suo figlio, spesso la giovane sposa sentiva la nostalgia del padre e della sorella ed un giorno pregò Tereo di andare ad Atene e chiedere a Pandione il permesso di condurre Filòmela con sé in Tracia.
Tereo si recò ad Atene e, come vide la cognata se ne invaghì. Egli nascose la sua passione e riferì al suocero il desiderio di Progne di rivedere la sorella. Ottenutone il consenso, s’imbarcò con Filòmela alla volta della Tracia ma, appena sbarcati, s’impadronì con la forza della cognata, la nascose in un rifugio sicuro e, temendo che Filòmela rivelasse quanto era accaduto, le tagliò la lingua. Si presentò poi alla moglie, che si aspettava di veder giungere assieme al marito anche la sorella e che, stupita, gliene chiese notizie; questi mentì dicendole che era morta.
Filòmela, intanto, aveva ricamato la sua triste vicenda su una tela, che riuscì ad inviare a Progne.
Solo in questo modo la fanciulla riuscì a far sapere alla sorella il misfatto compiuto da Tereo, e Progne poté scoprire dove la giovane fosse stata nascosta. Lo sdegno delle due sorelle si tramutò in odio e a fece perdere ad entrambe il senno, a tal punto da concepire un delitto terribile: decisero di vendicarsi di Tereo servendosi del suo innocente figlioletto.
Con una crudeltà attribuibile solo alla pazzia, Progne uccise suo figlio Iti, e poi le due sorelle, insieme, cossero le membra del fanciullo e le servirono in tavola a Tereo.
La moglie assistette in silenzio al pasto del marito; quando egli ebbe finito chiese che gli fosse condotto il figlio, al che Progne rispose: Tuo figlio è già in te.
Tereo, sbalordito, cercava il bambino, perché non aveva ancora afferrato il senso terribile delle parole, ma ecco Filòmela gettò al cognato la testa insanguinata di Iti.
Quando comprese la verità, Tereo impazzì, balzò in piedi, impugnò la spada e si avventò contro Progne e Filòmela per ucciderle.
La reggia si riempì di urla, di imprecazioni, di gemiti, ma prima che il re furente raggiungesse le due donne, intervennero gli dei, che tramutarono Progne in rondine e Filòmela in usignolo.
I due uccelli spiccarono il volo dinanzi agli occhi di Tereo esterrefatto, che ebbe appena il tempo di vederle involarsi nell’aria perché subito dopo anch’egli subì una trasformazione, divenendo la lugubre upupa che nei silenzi notturni fa sentire il suo gemito doloroso.
[132] Candida: limpida
[133] Vermiglia: dai vividi colori
[134] Giove … figlia: Giove si rallegra di vedere la luce di Venere più luminosa.
[135] D’amar si riconsiglia: si dispone ad amare.
[136] Tragge: se ne portò
[137] Piagge: pianure
[138] E ‘n … selvagge: i delicati gesti di belle e decorose donne sono (per me) un'arida realtà, come fiere crudeli e selvagge.
[139] Parafrasi – La parafrasi indica la trasformazione di un testo scritto nella propria lingua, ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico) in prosa nel registro medio e attuale.
Il processo di parafrasi prevede dunque operazioni come:
1. · la ricostruzione sintattica e delle figure sintattiche,
2. la sostituzione degli scarti linguistici (forma linguistica antica, scomparsa o desueta) e degli altri scarti linguistici
3. l’esplicitazione delle figure retoriche di significato
4. la riscrittura in prosa del testo poetico.
Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo: una buona parafrasi include infatti tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere. Poiché il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, quest’operazione si oppone a quella del riassunto.
Come necessario effetto collaterale della parafrasi, il profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e fulcro dei testi poetici finisce normalmente sacrificato.
[140] Scarti linguistici – Si definisce scarto linguistico una trasgressione, un’infrazione ad una norma linguistica di uso comune.Essi si distinguono in:
· Arcaismo – Forma grammaticale, parola o espressione di una fase linguistica anteriore sopravvivente nell’uso, di solito per fini stilistici.
· Barbarismo – Il fenomeno dell’uso di termini stranieri.
· Classicismo – L’insieme dei caratteri stilistici e dei concetti teorici che sono stati ricavati dall’antichità classica e rielaborati formandone un canone proposto come modello supremo per ogni produzione artistica e letteraria.
· Dialettalismo – Vocabolo o espressione di origine dialettale
· Neologismo – Parola o locuzione nuova, o anche nuova accezione di una parola già esistente, entrata da poco tempo a far parte del lessico di una lingua.
· Tecnicismo - Parola o locuzione che fa parte di un linguaggio tecnico.
[141] Figure fonetiche sillabiche – Alcuni fenomeni fonetici, pur non essendo delle vere e proprie figure metriche come la dieresi, la sineresi, la dialefe e la sinalefe, possono avere una rilevanza metrica cioè possono essere utilizzate per ottenere l’esatta misura del verso.
Esse sono:
· afèresi
· prostesi
· apòcope,
· epítesi (o paragòge).
· sincope
· epèntesi
[142] Rima - La rima è l’omofonia, ossia l’identità dei suoni, tra due o più parole a partire dall’ultima vocale accentata, e si verifica per lo più tra le clausole dei versi di un componimento (altrimenti, essa si definisce rima interna).
Nell’analisi metrica, i versi che rimano tra loro sono indicati mediante la stessa lettera.
A seconda del loro schemi rimico, le rime si distinguono in:
· Baciata
· Alternata
· Incrociata
· Incatenata
· Ipermetra
[143] Figure foniche – Oltre alla rima acquistano grande valore le cosiddette figure foniche che riguardano la ripetizione o il parallelismo dei suoni.
Le figure fonetiche sono:
· Allitterazione
· Assonanza
· Consonanza
· Onomatopea
· Paronomasia
· Enjambement
[144] Strofa - La strofa o strofe è l’insieme di più versi, di numero e di tipo fisso o variabile, organizzati secondo uno schema e formanti un periodo ritmico, seguito da una pausa in genere ripetuto più volte.
Per poter definire i vari tipi di strofe occorre prendere in considerazione sia la successione delle rime sia il numero dei versi. La strofa può quindi essere considerata un sistema ritmico, stabilito dalla combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi che la compongono. Le combinazioni strofiche possono essere infinite perché esse, pur essendo legate a regole fisse di decodificazione del testo poetico, sono riferibili anche alla capacità di innovazione e alla libertà del poeta.
La strofa è sinonimo di stanza ed i generi metrici, a seconda del numero dei versi, sono dette:
disticoterzinaquartinasestinaottavaLa strofa può quindi essere considerata un sistema ritmico che è stabilito dalla combinazione delle rime e dalla struttura metrica dei versi che la compongono. Le combinazioni strofiche possono essere infinite. Esse sono legate a regole fisse di decodificazione del testo poetico ma anche alla capacità di innovazione e alla libertà del poeta, tant’è con la rivoluzione si diffuse l’uso della strofa libera.
[145] Il tema è l’argomento di cui si parla, è l'ipotesi di lettura che il lettore fa sull'argomento di un testo. Un testo ha generalmente non solo un tema generale o argomento principale di cui tratta, ma anche dei temi o argomenti secondari, particolari, che si collegano al tema generale.
[146] I nessi di relazione individuano la coerenza del testo cioè la concordanza di significato fra le parti che lo compongono.
[147] La situazione è un complesso di rapporti che legano l'individuo all'ambiente storico-sociale, condizionando e limitando le sue scelte e azioni.
[148] Il personaggio è una persona che agisce in un'opera letteraria, poetica narrativa e teatrale, che assume nel testo un ruolo fondamentale. Gli eventi, concreti o interiori che siano, inevitabilmente coinvolgono uno o più personaggi, siano essi figure umane o, come succede nella poesia o nelle favole, animali o oggetti cui sono attribuite caratteristiche umane. Il personaggio, come soggetto e oggetto delle azioni ed in relazione con tutti gli altri personaggi, riveste un ruolo, una funzione. Il personaggio è spesso il veicolo dei valori comunicati da un autore e le modalità della sua presentazione, il linguaggio con cui il narratore lo fa esprimere rispondono ai modelli e agli interessi dell'epoca in cui il testo è stato prodotto.
[149] La descrizione è una rappresentazione con parole di un oggetto, di una persona, di un evento, indicandone le caratteristiche e gli aspetti che possono darne un'immagine efficace e chiara al destinatario. Descrivere è uno dei modi più comuni per far conoscere qualcosa a qualcuno, cioè per informare; per questo la descrizione è utilizzata quando è necessario per creare l'immagine di un oggetto, di una persona o di un animale, fornendo tutti gli elementi che lo compongono o i particolari che lo caratterizzano, in modo che chi legge o ascolta se ne faccia un'immagine il più possibile precisa. Lo scopo fondamentale di ogni descrizione è informare, ma una descrizione può essere usata a scopo persuasivo cioè per indurre il destinatario a valutare positivamente o negativamente l'oggetto descritto, oppure a scopo espressivo, cioè per esprimere, attraverso la descrizione, emozioni, sentimenti, stati d'animo ecc. Mentre le descrizioni informative devono far conoscere l'oggetto in questione in modo fedele, chiaro e completo, impersonale, senza esprimere alcuna opinione o impressione personale e senza alcuna partecipazione emotiva, le descrizioni persuasive o espressive rappresentano l'oggetto della descrizione in modo personale, dando risalto solo ad alcune caratteristiche, facendo trasparire giudizi mediante l'uso di aggettivi che danno un'immagine positiva o negativa dell'oggetto di descrizione, trasmettendo emozioni attraverso un uso particolare del linguaggio che ricorre frequentemente a espressioni figurate e a paragoni.
[150] Il ragionamento è un'operazione della mente per cui, partendo da alcuni giudizi noti, assunti come premesse, se ne scoprono i reciproci legami e si giunge a una conclusione. Il ragionamento, quindi, è un discorso logicamente condotto in cui chi parla o scrive, attraverso argomentazione (insieme di argomenti con cui si dimostra o si confuta una tesi) e dimostrazione (argomentazione deduttiva per provare la verità di una proposizione sulla base di premesse già accettate come vere), presenta una propria opinione - o tesi - e la sostiene proponendo le ragioni a favore e confutando le opinioni contrarie, allo scopo di convincere della validità di quanto dice.
[151] L'emozione è un intenso moto, un impulso (sentimentale o intellettuale) affettivo di durata relativamente breve (relativo alla sfera dei sentimenti e delle emozioni), piacevole o penoso, accompagnato per lo più da modificazioni fisiologiche e psichiche (pallore o rossore, reazioni motorie ed espressive ecc.) dovuto a forte impressione (a differenza di commozione che ha significato affine, implica o sottintende uno stato di eccitazione interiore); nell'uso corrente, l'emozione è un'impressione viva, un turbamento determinati da approvazione, sorpresa, paura, dispiacere, disgusto, aspettativa, rabbia, gioia. Il concetto di emozione si distingue da quello di sentimento, meno intenso e più durevole che da una particolare tonalità affettiva alle nostre sensazioni, rappresentazioni, idee. Secondo questa definizione, mentre l'emozione è involontaria, il sentimento è, come il pensiero, una funzione razionale. All'origine dell'emozione non vi è uno stato interno dell'organismo, ma una percezione di quanto avviene a livello periferico.
[152] L'immagine è il prodotto di un'attività del pensiero, l'immaginazione, che possiede i caratteri di percezione strutturata di qualcosa di esterno all'individuo e, pur accompagnandosi alla coscienza, costituisce un'autoproduzione. Se le immagini riprodotte appaiono particolarmente precise e rappresentative nelle forme sono dette icastiche: con questo termine si intende la particolare efficacia con cui un'immagine viene resa.
[153] Contesto – I concetti di contesto e di contestualizzazione sono alquanto complessi.
Una buona contestualizzazione deve attenersi strettamente ai dati oggettivi, dedotti attraverso l'analisi testuale. Bisogna, in primo luogo, dare significato ai dati formali e oggettivi rilevati: aspetti linguistici, aspetti strutturali in generale, aspetti metrici, sintattici, narratologici, ecc., in caso di testo letterario, agli aspetti ragionativi in caso di testo non letterario. Questi dati rivelano la loro vera funzione e il loro profondo significato solo quando si dimostra la loro relazione con l'universo umano, sentimentale, ideologico dello scrittore, o con la temperie culturale e sociale di un'epoca. Tale messa in relazione solo in certi casi è operazione semplice: il più delle volte implica diversi passaggi fondamentali: dall’intratesto all’intertesto e dall'intertesto all’extratesto.
[154] Extraresto – L’extratesto è la collocazione dell’opera nel proprio contesto culturale (concezione filosofiche, politiche, religiose di un’epoca) e storico-sociali (avvenimenti storici, struttura della società, ecc.) e comprende condizioni e nozioni di interesse extraletterario, nonché la letteratura critica sul testo e sull'autore presi in considerazione.Lo scopo è di attribuire al testo e allo scrittore in causa la sua relazione attraverso il rilevamento di costanti e di variabili con il contesto extraletterario dell’opera.
Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo Incontro con l’autore: Francesco Petrarca in salotto culturale stabia di massimo capuozzo

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