martedì 25 giugno 2013

La nascita dell'Estetica moderna di Massimo Capuozzo

La nascita dell’estetica moderna: Baumgarten, Burke, Winckelmann e Kant Di Massimo Capuozzo
Nella considerazione dell'arte l'Illuminismo mantenne un grande interesse per le regole tradizionali di composizione, ma operò anche un rilevante spostamento verso il problema del gusto, cioè verso l'ottica di chi fruisce dell'opera d'arte.
Si spiega così come proprio nel '700 si può parlare con il filosofo tedesco Alexander Gottfried Baumgarten (1714-1762) di fondazione dell'estetica come scienza autonoma. Il termine Estetica comparve per la prima volta, nel significato moderno di Teoria del Bello e dell'Arte, nel 1750, come titolo dell'opera Aesthetica di Baumgarten: il termine deriva dal verbo greco αισθάνομαι (aisthànomai) che significa percepire con i sensi, provare sensazioni, ma anche comprendere. Per questo motivo molti hanno individuato con questa pubblicazione il vero atto di nascita dell’estetica come scienza autonoma, tale da raccogliere in modo unitario le diverse riflessioni intorno al bello e alle arti mettendo a fuoco un insieme di concetti nuovi: gusto, genio, sentimento.
L’idea di estetica come scienza moderna è tuttavia un luogo comune. Non c’è dubbio che prima del Settecento si ha generalmente a che fare con osservazioni sparse, non certo con un discorso teorico unitario sull’arte e, pur essendo vero che la cultura estetica è un fenomeno essenzialmente moderno, sei-settecentesco, tale cultura non nacque dal nulla: essa si radicò in un contesto sociale e culturale che almeno dal Rinascimento in poi aveva iniziato a legittimare una determinata esperienza dell’arte. Si pensi ad esempio alla Poetica di Aristotele e ai suoi commenti cinquecenteschi, allo stesso Platone e a Plotino.
Con Baumgarten però il termine estetica fu per la prima volta esplicitamente usato e definito. Esso era già apparso nel 1735, nelle Riflessioni sul testo poetico, al posto dell’espressione, fino allora consueta, di critica del gusto. Nel 1750 Baumgarten diede il titolo a un’opera intera: esso designa quella scienza della conoscenza sensibile che avrebbe come oggetto centrale l’analisi del bello e delle arti. L’estetica è scienza della perfezione della conoscenza sensibile come tale, cioè della bellezza. L’estetica è teoria delle arti perché è nelle arti che tale perfezione si realizza. È proprio in questa identificazione della sfera del sensibile con quella della bellezza, e dell’idea di bellezza con l’idea di arte, che è stato indicato uno dei momenti fondamentali della cultura dell’estetica in quanto scienza moderna. A Baumgarten spetterebbe il primato della fondazione dell’estetica, intesa come specifica disciplina filosofica. Quanto al primato della scoperta dell’estetica, ci si accorge che altri filosofi sono ritenuti altrettanto essenziali. Vico, per esempio, o lo studioso inglese Edmund Burke (1729-1797) che, ne La ricerca filosofica sull’origine delle idee del sublime e del bello del 1755, aveva individuato il sublime come un elemento contrapposto al bello. Si tratterebbe cioè di quel sentimento di sgomento che l’uomo prova di fronte al terrore, all’oscurità, alla potenza, alla privazione, alla vastità, all’infinità, alla difficoltà, alla magnificenza.
Il concetto di Sublime è correlato e contrapposto a quello di Bello. Nell'idea di Burke è Sublime "Tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in un certo senso terribile o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore", il sublime può anche essere definito come "l'orrendo che affascina". La natura, nei suoi aspetti più terrificanti, come mari burrascosi, cime innevate o eruzioni vulcaniche, diventa dunque la fonte del Sublime perché “produce la più forte emozione che l'animo sia capace di sentire”, un'emozione però negativa, non prodotta dalla contemplazione del fatto in sé, ma dalla consapevolezza della distanza insuperabile che separa il soggetto dall'oggetto.
Altra posizione importante è quella dello storico dell’arte tedesco Winckelmann nella cui opera si individua non solo l’inizio del neoclassicismo, ma anche un grande contributo alla nascita dell’estetica.
Nel suo libro più famoso, la Storia dell’arte nell’antichità del 1764 Winckelmann sancì la superiorità dell’arte greca su tutte le altre e vi elaborò l’idea che l’armonia e la bellezza fossero il risultato di un’operazione di razionalizzazione e di controllo delle passioni realizzata dall’artista, sentendo con grande intensità e con vivo entusiasmo e tenne sempre presente, il momento primario e insieme terminale dell’arte che è la bellezza.
Winckelmann, teorizzò il concetto di bellezza ideale, che è una sintesi perfetta di umano e divino e che può derivare solo dal superiore controllo delle passioni e dei sensi, riassumendo le caratteristiche fondamentali dell’arte classica nella seguente formula: “La nobile semplicità e la calma grandezza”. Il primo sintagma si riferisce all’eleganza di quest’arte, che deriva essenzialmente dalla sua semplicità; il secondo, invece, rimanda a un significato più profondo: Winckelmann pensava che l’arte greca trasmettesse sempre un messaggio di tipo etico, quello secondo il quale l’uomo, pur accettando la parte emozionale della sua natura, debba costantemente esercitare un controllo razionale sulle proprie passioni in modo da mantenere equilibrio interiore e serenità d’aspetto. L’artista contemporaneo, quindi, non deve limitarsi a imitare le forme dell’arte classica, ma deve accettare e far propri i suoi valori, sentiti come ancora attuali, ed esprimerli nelle sue opere.
In conformità a tale concezione, l’equilibrio dell’arte classica si propose come modello di fusione tra lo spirito e il corpo. Lo studioso tedesco identifica l’attività dell’artista con un procedimento di autocontrollo che renda l’opera capace di suscitare nell’animo il pathos che ne costituisce l’unicità. Tal eccezionalità prende il nome di “sublime.
Le riflessioni di Burke e di Winckelmann ebbero qualche eco nell’opera di Immanuel Kant (1724-1804), che, nella Critica del giudizio del 1790 sostenne che si ha un giudizio estetico quando, commossi per la contemplazione di uno spettacolo della natura o di un oggetto d'arte, proviamo un piacere che non ha legami con la conoscenza intellettuale. Tale piacere deriva dalla corrispondenza tra il bello cui assistiamo e le nostre più profonde aspirazioni. Il Bello deve produrre armoniosa quiete e Kant distingue fra il semplice bello e il sublime, vale a dire quello che appare in oggetti di potenza e proporzioni smisurate. Di fronte a spettacoli sublimi, l'uomo non può non percepire, da un lato la propria insignificanza ma, dall'altro, la coscienza della propria superiorità morale e del proprio destino soprasensibile. Kant sosteneva inoltre che il bello è dettato da un libero gioco delle facoltà intellettive, per cui al vedere un bel paesaggio proviamo piacere perché è come se esso si adeguasse spontaneamente alle nostre categorie intellettive; per il sublime, invece, Kant – che aveva in mente il cielo stellato, le catene montuose, il mare in tempesta – intende qualcosa di ambiguo, che desta al contempo piacere e senso di smarrimento: l'oggetto in questione – il mare in tempesta, il cielo stellato o le montagne – non si adegua spontaneamente a noi e alle nostre facoltà conoscitive, ma ci incute timore perché manifesta la sterminata grandezza e la sterminata potenza della natura di fronte alla sterminata piccolezza e impotenza dell'uomo; mentre il bello è univocamente positivo, il sublime è positivo e negativo al tempo stesso.
Massimo Capuozzo

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