lunedì 14 maggio 2012

Raffaello e la pala Baglioni


Siamo a Perugia nei primi anni del ‘500 quando la nobile Atalanta Baglioni, commissiona ad un giovane Raffaello, che a Firenze aveva appena ammirato le opere di Leonardo e di Michelangelo, la realizzazione di una pala d’altare per la Cappella del Salvatore, nella chiesa perugina di San Francesco al Prato. Nasce uno dei capolavori del Rinascimento: La deposizione di Cristo.
Erano anni di violentissime contese cittadine per il potere che avevano insanguinato varie città italiane e che a Perugia avevano visto Grifonetto Baglioni, figlio di Atalanta, partecipare ad una congiura contro parte della sua stessa famiglia, trucidando il giovane Astorre Baglioni la notte stessa delle sue nozze e, in seguito lo stesso Grifonetto fu trucidato dalla fazione avversa. La madre Atalanta, che lo aveva maledetto per l’eccidio di cui si era macchiato, era accorsa alla fine accanto al figlio morente, perdonandolo e rendendo un tributo al proprio dolore di madre tramite l’opera di Raffaello.
Raffaello, allora poco più che ventenne, ma già molto noto e ricercato, si cimenta per la prima volta con un tipo di rappresentazione destinato a rimpiazzare, nella pittura italiana, l’interpretazione tradizionale: con la Pala Baglioni e soprattutto con La deposizione di Cristo, il giovane maestro inaugura, infatti, la stagione della narrazione storica dell’evento descritto, inserendolo in uno spazio prospettico dinamico, sottolineato dalla drammaticità della narrazione. L'elaborazione dell'opera segna quindi il passaggio da una figurazione statica ad una figura­zione dinamica, da una rappresentazione sacra ad una rappresentazione storica. Il soggetto stesso de La deposizione di Cristo serve a commemorare un evento storicamente accaduto: la tragica morte di Grifonetto Baglioni che, dopo aver sterminato diversi membri della propria famiglia, è a sua volta ferito a morte e spira, stringendo la mano della madre – particolare quest’ultimo riportato nel dolcissimo gesto della Maddalena ritratta nell’atto di sostenere la mano esanime di Gesù.
Quest’opera impegnò molto il giovane pittore per la grande complessità dello schema compositivo e della sovrapposizione dei piani narrativi: il gruppo della Vergine e dalle pie donne sulla destra in secondo piano, mentre il Cristo è trasportato su di un lenzuolo dai personaggi della narrazione evangelica. In uno dei portatori, la figura centrale del poderoso giovane portatore impegnato a reggere il corpo di Cristo e fissato in un incisivo profilo, si identificano comunemente le fattezze di Grifonetto Baglioni, mentre nella Madonna addolorata si identificano le fattezze della committente Atalanta Baglioni, madre di Grifonetto.
Il dipinto nacque come una Deposizione, ma in seguito Raffaello scelse il più dinamico Trasporto che gli permetteva di articolare il quadro in due scene: quella di sinistra con Giuseppe d'Arimatea, Giovanni, Nicodemo e Maria Maddalena e quella a destra, leggermente in secondo piano, con Maria, sorretta e circondata dalle pie donne, che sviene per il dolore. Sebbene il dipinto sia la somma di due temi iconografici distinti – una Deposizione e uno Svenimento della Madonna – l'artista lo propone come unità, collegando le due parti con il grande portatore a destra, che è, di fatto, la figura dominante, e al tempo stesso, quella che meno esprime un particolare affetto, anzi, egli appare come una figura palesemente «ideale» com'è suggerito dalla chioma investita da un vento che non tocca le altre figure. Questa figura «ideale» che domina le espressioni addolorate delle altre figure e che stabilisce tra i due episodi un'unità di tempo e di luogo che già riflette l'osservanza dei principi della Poetica di Aristotele, testo fondamentale dell'estetica del Cinquecento.
Per Raffaello, l'equilibrio tra umanità e natura – problema dibattuto nel trascolorante Quattrocento – non si ottiene soltanto nella contemplazione, ma anche nell'azione e nel dramma, pertanto si comprende chiaramente che, per muoversi in questa direzione, la guida etica di Michelangelo gli appaia più sicura di quella tanto raffinatamente intellettuale di Leonardo: il Cristo morto è una chiara citazione della Pietà di San Pietro, mentre la donna che sostiene la Madonna svenuta è una diretta derivazione del Tondo Doni. Il profilo dei monti, perfino le nuvole in cielo, seguono e ribadiscono il movimento delle figure denunciando il debito contratto da Raffaello con il mondo figurativo fiammingo, in termini di splendore cromatico, sottigliezza luministica, nitida evidenza ottica e di gusto della veduta paesaggistica e del dettaglio naturalistico.
Raffaello dunque conosce l’arte del suo tempo e ne trae spunto per creare un’opera forte, coinvolgente, quasi teatrale, se una critica può essere mossa al dipinto è che esso è rappresentativo di troppi stati d’animo: nelle quattro teste che formano un arco intorno al volto di Cristo morto, l'artista vuole manifestare quattro momenti o varietà del dolore, dolore che diventa schianto nella parte destra del dipinto. Ma ilpathos non deve giungere ad alterare il bello che costituisce il senso universale della sembianza. Quel bello che egli ha ritratto nella figura centrale del giovane « ... Grifonetto Baglioni col suo giustacuore trapunto, il berretto gemmato e i ricci in forma di acanto, che uccise Astorre con la sposa e Simonetto col suo paggio, e che era di una tale bellezza che, quando giacque morente nella piazza gialla di Perugia coloro che l'avevano odiato non potevano trattenere le lacrime e Atalanta, che l'aveva maledetto, lo benedisse » come lo descrive Wilde in Il ritratto di Dorian Gray.
È lui il personaggio principale del dipinto ed a lui affida il suo credo classicista.

La Cappella Cerasi e la Conversione di San Paolo di Caravaggio

La Roma in cui ha operato Caravaggio – siamo nell’ultimo scorcio XVI ed all’alba del XVII secolo – era un luogo ed un momento cruciale della cultura italiana: ancora dolorante per il traumatico scisma luterano, il Concilio di Trento (1545-1563) si era concluso con un’altrettanto brusca riorganizzazione teologica ed ecclesiastica, la Controriforma che, con le sue miserie e con i suoi splendori, segnò tutta la successiva evoluzione del cattolicesimo. Roma risplende del mecenatismo dei papi e si sviluppa, con sempre maggiore vigore, attraverso il regno di quattro importanti Pontefici: Clemente VIII Aldobrandini, Paolo V Borghese, Gregorio XV Ludovisi, Urbano VIII Barberini. Questo momento irripetibile durò circa un quarantennio, dal 1595 al 1635, e dagli avvenimenti accaduti in quest’arco di tempo dipese gran parte dello sviluppo artistico europeo che si protrasse fino alla fine del Seicento. Sull’onda del mecenatismo papale fiorirono le botteghe sempre attive, per soddisfare le esigenze di papi e cardinali, nonché delle loro famiglie.
In questa Roma, gravida di fermenti e ricca di botteghe, Caravaggio era giunto dalla Lombardia tuffandosi con la sua ribollente vita quotidiana in quella non meno agitata vita romana, campo di fazioni e tumulti, tenuti a freno da leggi taglione e da uno stato di polizia. Inizialmente Caravaggio conobbe momenti di miseria, lavorando con il Cavalier d'Arpino e con Prosperino delle Grottesche, finché non conobbe il potente cardinal Del Monte, che accolse Caravaggio nella sua dimora a Palazzo Madama gli commissionò numerosi dipinti e lo aiutò ad ottenere importanti commissioni come quella per la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi. Nel palazzo di Del Monte Caravaggio buttaporò finalmente un periodo di tranquillità dopo le difficoltà finanziarie dei primi anni romani ed ebbe modo di entrare in contatto con gli intellettuali e con i mecenati più illustri.
Fra le commissioni di questo periodo c’è La conversione di San Paolorealizzata dal pittore per la Cappella Cerasi della basilica romana diSanta Maria del Popolo, autentico compendio dei vari secoli della storia dell’arte e dell’architettura.
Questa cappella, in origine fondata dal cardinale veneziano Pietro Foscari, fu fatta realizzare – come la osserviamo oggi – da Tiberio Cerasi, avvocato concistoriale, che, l’8 luglio 1600, per sublimare la sua ascesa sociale, l’aveva acquistata ed i frati agostiniani gli avevano concesso la facoltà di poterla edificare, elevare e decorare nel modo et forma che egli avesse voluto.
Autorizzato a rimuovere dalla cappella le sepolture già esistenti, Tiberio Cerasi chiamò allora tre grandi artisti, Carlo Maderno – che purtroppo morì pochi mesi dopo a lavori appena iniziati – per la realizzazione architettonica, Annibale Carracci e Caravaggio per la decorazione pittorica.
Sull'altare della cappella, Annibale Carracci dipinse una tela raffigurante l'Assunzione della Vergine fra angeli e santi, ai lati Caravaggio dipinse due tele, una raffigurante il Martirio di San Pietro e l'altra la La conversione di San Paolo: per queste due tele, Maurizio Calvesi ipotizzò che, in ottemperanza alla teologia agostiniana, il committente avesse voluto far rappresentare i "due poli del pensiero agostiniano" – l'Autorità, richiamata dal martirio di Pietro, e la Ragione, richiamata dalla vocazione di Paolo.
Le due tele furono dipinte poco dopo il ciclo pittorico di San Matteo, eseguito per la Cappella Contarelli della Chiesa romana di San Luigi dei Francesi, ciclo che può essere considerato l’immediato precedente delle due tele della Cappella Cerasi.
Ne La conversione di San Paolo, Caravaggio continua il suo percorso rivoluzionario, non solo nel suo originalissimo modo di trattare la luce, ma anche in quello di trattare l’ambientazione delle scene religiose: rinunciando ad una consolidata tradizione iconografica dove compaiono soldati spaventati e cavalli imbizzarriti – si ricordi l’arazzodi Raffaello, l’affresco michelangiolesco nella Cappella Paolina del Vaticano, la tela di Ludovico Carracci ed anche un precedente dipinto su tavola dello stesso Caravaggio – San Paolo non cade da cavallo lungo la via di Damasco, verso la quale si stava dirigendo alla testa di una legione di soldati romani per perseguitare i primi cristiani, ma il fatto miracoloso è ambientato nella penombra di una semplice stalla, una posta poco prima della città di Damasco, dove era diretto.
Caravaggio sceglie un’interpretazione inedita anche per il modello che impersona Saul: è un giovane imberbe, accuratamente vestito, in un abbigliamento dove nulla è lasciato al caso. Lo raffigura con abbondanza di rosso, consegnando allo spettatore in pochi tratti un fedele ritratto di quest’uomo, tutto d’un pezzo sempre all’altezza della situazione, sicuro di essere nel giusto, passionale e portato agli eccessi. Eppure una visione e Saul rimane folgorato. Caravaggio impedisce allo spettatore di vedere ciò che Saul ha visto, ma racconta l’evento come un fatto tutto interiore, capace però, diversamente dalla precedente iconografia, di imprimere sul volto di questo giovanissimo Saul un’aurea di pace.
La scena è priva di qualsiasi clamore miracolistico: l’episodio perde, infatti, il carattere di evento pubblico, per tradursi in chiave intima ed interiore si svolge al chiuso, di sera, in una luce attutita ed in assoluto silenzio, dove gli unici testimoni dell’evento soprannaturale sono il cavallo, che occupa inaspettatamente più della metà del dipinto, ed un anziano stalliere che a stento s’intravede sulla destra del dipinto dietro il collo possente del cavallo. Paolo è riverso a terra, rappresentato nell’istante successivo a quella «luce del cielo [che] gli folgorò intorno», abbattendolo al suolo.
Un’ambientazione poverissima, tanto spoglia da apparire ai contemporanei perfino irriverente.
La protagonista della scena è la luce: essa è, infatti, manifestazione della divinità, è teofania che squarcia la tenebra del paganesimo, dell’indifferenza, della persecuzione, della calunnia. È la luce che colpisce Saul che cade e tutto, ogni superficie, la riflette: il mantello vermiglio di Saul, il mantello pezzato del cavallo, i piedi del vecchio stalliere. Tutto è impressionato da quella luce e tutto riverbera da quella potenza. Non è tanto il puro significato simbolico che impressiona e che sbigottisce gli attori di questa scena e lo spettatore, quanto piuttosto l’inquietante realismo di un corpo non ancora completamente caduto, in cui si scorge ancora il moto delle gambe inclinate, delle braccia alzate, degli occhi accecati, delle palpebre serrate per difendersi da quella luce accecante. È il momento finale di un crescendo, tipico del pathos evocativo caravaggesco.
Un discorso a sé stante occorre per il cavallo in una posa singolare: l’unico testimone cosciente, ma impossibilitato a comunicare la dinamica dei fatti, è il cavallo con l’occhio aperto e rivolto al suo cavaliere, mentre lo stalliere è anch’egli accecato dalla folgore divina che ha colpito Saul.
La scena non presenta Cristo nel momento in cui chiedeva «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?», la presenza della divinità è ancora più angosciata, resa nell’assenza, che ci fa percepire la fragilità di Paolo, emblema della “fragilità” umana che ancora non conosce Dio, di fronte alla soprannaturale maestosità del divino.
Qui la struttura compositiva del quadro si carica di significati più profondi: non a caso nella raffigurazione della conversione di Paolo è stato aggiunto un cavallo sebbene negli Atti degli Apostoli – in cui per ben tre volte si narra l’incontro di Paolo sulla via di Damasco con il Signore risorto – non si faccia mai accenno ad un cavallo. Eppure la rappresentazione del cavallo e della caduta a terra di Paolo ha una fortissima carica simbolica che, pur traducendo liberamente il testo biblico, ne permette piuttosto una comprensione più profonda.
Iconograficamente, la pittura e la scultura si sono infatti spesso servite del cavallo per dare un volto al potere smisurato, alla grandezza di un personaggio, alla statura morale, alla compostezza dell’autorità. Chi lo cavalcava, guardando dall’alto gli altri mortali, manifestava così la sua dignità superiore. L’arte ha ripreso questo simbolo in mille raffigurazioni dal Marco Aurelio, a Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini, ai dipintiequestri di Velázquez. Ancora una volta Caravaggio si serve in modo assolutamente personale del motivo iconografico: Saul è disarcionato, non cade semplicemente a terra, ma è sbalzato da ogni suo potere, da tutto il suo orgoglio, precipitando a terra. Dovrà imparare, lui così fieramente attaccato alla Legge e all’illusione che l’uomo abbia una forza tale da potersi salvare con le proprie forze, che niente può l’uomo senza la grazia di Cristo. L’uomo deve ricevere la salvezza, senza alcun merito, la deve accogliere come una realtà che non ha principio primo in lui. È l’interpretazione teologico dottrinale del Cattolicesimo postridentino. Deve ricevere l’amore per poter poi vivere di esso ed in esso. Solo in questo momento Saul di Tarso è diventato Paolo, l’apostolo delle genti.
Questa l’interpretazione di Caravaggio della controversa figura di San Paolo.

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