sabato 17 settembre 2022

Vita e morte nei ‘Geroglifici degli ultimi giorni’ di Juan de Valdés Leal di Massimo Capuozzo

Un esempio importante e fra i meglio conosciuti di rappresentazione della morte nella pittura barocca si trova a Siviglia.
Sotto il coro della Chiesa dell'Hospital de la Santa Caridad ci sono due inquietanti dipinti di Juan de Valdés Leal 
(1622-1690), noti nel loro insieme come i Geroglifici degli ultimi giorni.
Il loro autore fu un pittore attivo a Cordova e soprattutto a Siviglia, dove trascorse gran parte della sua vita e dove insieme con Murillo (1618 – 1682) fondò l'Accademia del Disegno. Nel 1667 Juan de Valdés Leal entrò nella Confraternita della Carità di Siviglia cui appartenne per tutto il resto della sua vita, e per essa, tra il 1671 e il 1672, dipinse le sue opere più famose. Nonostante il carattere difficile con cui questo maestro è raccontato nelle fonti, l’opera di Valdés Leal è piuttosto varia ed è perfettamente consona con la pittura del suo ambiente. Il suo lavoro, tranne un breve periodo a Cordova, si svolse a Siviglia e senza interruzioni, nonostante la crisi generale vissuta dalla città per tutta la seconda metà del Seicento, non rimase mai a corto di commissioni per i diversi ordini religiosi e per le chiese locali. Poco prima di morire, una malattia gli impedì di continuare a lavorare e lo costrinse a lasciare le commissioni in corso a suo figlio, anch’egli pittore nella sua bottega.
Artista prolifico e fantasioso, Valdés Leal era molto versatile sia nell'applicazione del colore sia nell'uso di luci vividamente contrastate, mostrando talvolta una pennellata veloce e pastosa anche se qualche volta era discontinuo nella rifinitura delle sue opere.
La sua tecnica, così vicina ad altri artisti della sua generazione – come per esempio a Francisco Herrera el Viejo (1590 – 1654), dal quale aveva tanto imparato – sapeva trasmettere l'impulso vibrante che amava dare alle sue composizioni, piene di movimento e di dinamismo, spesso costruite all'interno di sontuose architetture.
Valdés Leal è noto principalmente per i Geroglifici degli ultimi giorni.
Queste due tele sono legate al tema squisitamente barocco delle vanitas, diffuso in gran parte dell'Europa, e sono due allegorie che illustrano diligentemente le riflessioni del nobile visionario Don Miguel Mañara Vicentelo de Leca (1627 – 1679), il grande riformatore della Confraternita de la Santa Caridad di Siviglia e che il grande benefattore volle esprimere in forma coerente nel suo trattato Discorso della Verità, pubblicato nel 1671, e al quale Valdés Leal fu legato per tutta la vita.
Accanto alle numerose opere caritative, Mañara aveva promosso anche il completamento dei lavori di costruzione della chiesa, cominciati fin dal 1647, ma rallentati a causa della grande epidemia di peste che imperversò a più ondate su Siviglia e fece realizzare a sue spese il programma iconografico, nel quale si contestualizzano le due tele di Valdés Leal.
Il programma iconografico della chiesa riflette fedelmente la spiritualità barocca sivigliana di quel momento e soprattutto il pensiero di Mañara: la prima parte del suo trattato è infatti un ammonimento rivolto a coloro che basano la loro esistenza sul raggiungimento delle gioie e delle vanità della vita terrena.
Mañara aveva acquisito questo forte e drammatico senso dalla morte in seguito all’improvvisa scomparsa di sua moglie nel 1661 e, alla luce di quell’idea, aveva composto il suo trattato in cui si opponeva alla vanitas della vita e sottolineava l'importanza di vivere nell'umiltà e nella pratica della carità.
A completamento del discorso iconografico, per il quale Murillo aveva già dipinto le sue tele con sei delle opere di carità, a Valdés Leal commissionò i due dipinti che dovevano apparire all'ingresso della chiesa che, come tutti i dipinti del genere vanitas, alludono alla banalità della vita terrena e all'universalità della morte, ma in queste due opere avviene in maniera più eloquente.
Le opere di Murillo integrano le due tele di Valdés Leal e spiegano simbolicamente che la paura e le preghiere non bastano per ottenere la salvezza, ma si devono anche compiere opere di misericordia per equilibrare nel modo giusto la bilancia del giudizio.
Il ciclo iconografico, ricollegandosi poi all'obiettivo originario della Confraternita – seppellire i giustiziati e gli indigenti – fu completato con la realizzazione di un complesso plastico raffigurante la Sepoltura di Cristo dello scultore Pedro Roldán (1624 - 1699), parte inferiore del magnifico e spettacolare retablo dell'altare maggiore, opera dello scultore e architetto Bernardo Simón de Pineda (1637- 1703 circa)​​, che ricordava la settima delle opere di carità, seppellire i defunti.
Queste opere, pur essendo state realizzate da artisti così diversi fra loro, formano un ciclo iconografico perfettamente organico e coerente che Mañara ideò in piena sintonia con il suo pensiero religioso e per il quale scelse personalmente gli artisti per realizzarlo.
I due inquietanti e superbi dipinti di Juan de Valdés Leal riflettono in pieno la spiritualità del committente e realizza le sue opere più famose e più intense, caratterizzate dall’elemento macabro che tuttavia ne causarono anche la sinistra quanto ingiustificata fama di pittore della morte una fama che in realtà non gli si attaglia: sarebbe infatti riduttivo considerarlo solo come un pittore di soggetti oscuri, caratterizzato da un esasperato realismo anche se realmente aveva una particolare capacità di rappresentare soggetti carichi di angoscioso realismo. Per poter comprendere più complessivamente il suo stile occorrerebbe piuttosto prendere in considerazione la sua intera produzione pittorica, perché nella sua lunga e fortunata carriera produsse opere di grande vivacità stilistica, e tenere conto del fatto che in queste due opere si preoccupò solo di eseguire rigorosamente le esigenze del suo committente, ottenendo un risultato di grande impatto visivo e nello stesso tempo di forte spiritualità.
A sua volta Mañara commissionò le due tele a Juan Valdés Leal, perché sapeva che aveva una particolare propensione alla rappresentazione allegorica e che poteva realizzarle come un inno alla disillusione della vita, adatto alla sua visionaria spiritualità ne conosceva bene lo stile stridente di Valdés Leal e sapeva che era quello perfetto per rappresentare la morte e per produrre panico negli spettatori, come conosceva lo stile armonioso di Murillo che era quello ideale per rappresentare la carità e la salvezza.
J
uan Valdés Leal durante la sua carriera aveva già realizzato altre opere su un tema simile che Mañara doveva ben conoscere: forse Mors imperat (L'impero della morte), oggi nella Collezione Cremer a Dormum in Germania che però è stato recentemente espunto dal catalogo del pittore, la Allegoria della Vanità, oggi al Wadsworth Atheneum ad Hardford negli Stati Uniti e l'Allegoria della salvezza[2], oggi alla York Art Gallery in Inghilterra.

In Spagna, durante tutto il Barocco, le vanitas erano abbastanza comuni sia nella scuola di Siviglia sia in quella di Madrid. Pereda era forse l'esponente più famoso a Madrid per queste scene, mentre nella scuola sivigliana Valdés Leal era l'artista più famoso per aver dipinto questo tipo di immagine. L'Allegoria della Salvezza era il pezzo complementare dell'Allegoria della Vanità.
L'Allegoria della vanità allude alla fugacità dei piaceri terreni e all'inutilità della ricchezza e del potere. Nella Allegoria della Salvezza Valdés Leal fa riferimento alla salvezza dell'anima come unica aspirazione per l'essere umano. Questo è il motivo per cui un angelo è raffigurato mentre indica una corona circondata da un'iscrizione che recita Ciò che Dio ha promesso mentre tiene una clessidra nell'altra mano per alludere alla natura effimera della vita.
Ottenere la corona simboleggia la salvezza dell'anima: la preghiera, la penitenza, la castità e le pie letture sono la via per raggiungerla. Per questo un uomo è raffigurato alla sua scrivania mentre legge un testo sacro e riflette su ciò che ha letto. Ha un rosario in mano e sul tavolo ci sono una frusta e vari libri religiosi insieme a un vaso contenente un giglio che simboleggia la purezza e la castità. Sulla parete di fondo c’è un dipinto della Crocifissione in un'elegante cornice che contiene angeli ed elementi della Passione di Cristo. Valdés Leal utilizza una gamma di toni freddi che corrispondono all'intenzione morale dell'immagine. Solo il mantello rosso dell'angelo contrasta con i colori tenui che sono stati applicati con tratti rapidi e vibranti per creare un magnifico effetto abbozzato.

Il dittico di Valdés Leal ha un precedente nell'allegoria dell'Albero della vita di Ignacio de Ríes, ma se lo stile di quest’ultimo era apparentemente ingenuo e realizzato con colori forti, in Valdés Leal vediamo affrontato lo stesso tema con lo stesso simbolismo, ma tutto è rappresentato nel modo più bizzarro e più macabro possibile. Il tenebrismo, la forza naturalistica, il movimento sfrenato e la leggerezza del tatto, si alleano con una illuminazione drammatica e teatrale, dando origine a queste due opere di chiaro senso moralizzante in cui la ricchezza dei dettagli degli oggetti rappresentati non spezza la macabra violenza delle scene, ma anzi le rafforza e le esalta.
Juan de Valdés realizzò il dittico col titolo complessivo Los jeroglificos de las postremias, in italiano I geroglifici degli ultimi giorni, entrambe poi intitolate in latino, il primo In ictu oculi e il secondo Finis gloriae mundi.
I dipinti – olio su tela centinata di 220 x 216 cm – sono due nature morte, classificabili nel sottogenere delle vanitas di cui forse sono i più straordinari esempi nella pittura spagnola del Seicento.
La vanitas è un tipo di pittura ad alti contenuti moralizzanti che si prefigge di evidenziare la caducità della vita: di solito nelle vanitas il teschio è l'elemento iconografico che allude più direttamente alla morte, accompagnato da fiori, da carte da gioco, da strumenti musicali, da libri o da orologi e de quant’altro esaltava la preoccupazione per una buona morte piuttosto che un'esistenza edonistica e frivola.
Ma le due opere di Valdés Leal sono molto di più.
Di oscura lettura, sono una visione icastica del Discorso della verità la cui linea di pensiero si può riassumere in queste sue righe: “Ricordati, uomo, che sei polvere e che polvere tornerai. È la prima verità che deve regnare nei vostri cuori: polvere e cenere, corruzione e vermi, sepolcro e oblio. Tutto finisce: oggi siamo e domani non sembriamo; oggi falliamo agli occhi della gente; domani saremo cancellati dal cuore degli uomini”.
Tutto il misticismo spagnolo, fin dal Medioevo, fu permeato da quest’idea: già il maiorchino Ramon Lullo” (1232 circa – 1316) aveva infatti sollevato l’angoscioso quesito: "a cosa serve adornare e abbellire le cose che la malattia, la vecchiaia e la morte sfigurano e sporcano?".
Nel fregio dell’area sotto il coro in maiuscolo sono riportate alcune parole di Gesù, tratte dal capitolo 25 del Vangelo secondo Matteo, quando Gesù, riferendosi ai beati nel Giudizio Finale, dice: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti? Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me.
Poi dirà a quelli alla sua sinistra: Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli. Perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e non mi avete dato da bere; ero forestiero e non mi avete ospitato, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato. Anch'essi allora risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Ma egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l'avete fatto a me. E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna».
Ho riportato per intero il passo del Vangelo in modo tale che il messaggio dei due dipinti diventi ancora più chiaro: solo infatti coloro che hanno praticato le opere di carità otterranno la salvezza eterna.
La citazione dei due brani facilita la comprensione delle due opere.
Occorre ora spiegare perché si chiamano geroglifici e che cosa si intende con l’espressione gli ultimi giorni.
Il termine geroglifico deriva da Clemente Alessandrino che lo definì erroneamente come lettere sacre incise. Nel corso dei secoli però il termine acquisì un significato figurato, per indicare qualcosa di difficile da decifrare. L’espressione gli ultimi giorni indica invece i quattro Novissimi cioè le cose ultime a cui l'uomo, secondo il disegno della Divina Provvidenza, va incontro alla fine della sua vita in base all’escatologia cristiana: la Morte, il Giudizio, l’Inferno e il Paradiso. Secondo il catechismo cattolico è inoltre considerato peccato mortale non credere nei Novissimi.
In entrambe le opere del dittico, si fa riferimento al problema del raggiungimento della salvezza o della dannazione eterna, pertanto essi ci presentano i due aspetti della morte, quello della fine della vita terrena e quello dell’inizio della vita futura. In sintesi estrema, il dittico esprimeva la brevità della vita, l'universalità della morte e la vanità della gloria.
Situate nella parte bassa della chiesa, queste opere servivano come deterrente per coloro che le contemplavano, affinché dessero priorità alla salvezza della propria anima, evitando così la dannazione eterna attraverso le opere di carità dipinte da Murillo lungo la navatella. Pertanto questo memento mori è posto intenzionalmente alla base di tutto il ciclo decorativo della chiesa.
La lettura dei dipinti deve essere eseguita da sinistra a destra, poiché I Novissimi espongono così le loro vicende: la successione di Morte, Giudizio, Inferno e Gloria – e così esse sono raffigurate nelle due tele.
La tela In ictu oculi, espressione latina che significa In un batter d'occhio, rappresenta la morte che rende l'esistenza terrena futile e priva di senso, ma nello stesso tempo nell’altra tela Finis Gloriae Mundi, espressione latina che significa Fine della gloria del mondo, l'anima è pronta per essere giudicata secondo la sua esistenza terrena. Per raggiungere la salvezza però non bastano le preghiere e il pentimento: è implicitamente detto che manca qualcosa per far pendere la bilancia dalla parte della salvezza e questo è rappresentato dalle opere di misericordia che furono realizzate da Murillo.
Tutto il ciclo decorativo acquista così un significato complessivo: la salvezza avviene attraverso l'esercizio delle opere di carità.
I Geroglifici di Valdés Leal ci presentano brutalmente lo spettacolo della morte, sollevano il problema della salvezza ed evidenziano il tema centrale di tutto il ciclo pittorico.
Le tele rappresentano la morte e il giudizio, mentre il paradiso o l'inferno dipendono dalla bilancia, perché per l'anima in bilico fra salvezza e dannazione, le opere di carità diventano fondamentali per garantirne la salvezza. L'idea della carità, come antidoto alla morte eterna e come via di salvezza, collega le tele di Murillo i Geroglifici e con il “retablo dell’altare maggiore, dando unità al programma iconografico.
Nel dipinto In Ictu Oculi, uno scheletro, simbolo della morte ed immagine del male, irrompe nella composizione e avanza leggermente piegato dal peso del suo carico: guarda direttamente verso lo spettatore con un'espressione beffarda, quasi rappresentando un macabro sorriso, e porta sotto il braccio una bara con un sudario, in mano impugna la caratteristica falce e calpesta i resti disordinati di tutto ciò che conta in questo mondo, mentre spegne prepotentemente la fiamma della vita, come sfidando le grida inutili dei vivi.

La morte appare improvvisa, calpestando ogni sorta di glorie e di trionfi terreni che Valdés Leal rappresenta nella parte inferiore del dipinto. Il pittore vuole provocatoriamente suggerire che l'apparizione della morte che esce dallo sfondo scuro, avanzando verso lo spettatore, è inaspettata e conferisce alla scena una più grande teatralità.
Sulla candela, simbolo della vita, compare la frase In Ictu Oculi che dà il titolo all'opera ed è un’espressione tratta dalla prima Lettera di San Paolo ai Corinzi “… in momento, in ictu oculi…” (“in un attimo, in un batter d'occhio”). La frase allude al modo brusco con cui la morte ci cattura, spegnendo la vita umana come la fiammella di una candela. Il piede sinistro dello scheletro poggia su un mappamondo, perché la volontà di morte governa il tutto il mondo senza eccezioni.
Sparsi nella parte inferiore della composizione, alcuni oggetti, simboli del potere ecclesiastico e civile che rappresentano la vanità dei piaceri e delle glorie terrene: una tiara, uno scettro e una corona condividono lo spazio con una spada, con dei libri e con dei ricchi abiti, che rimandano rispettivamente ai fasti delle armi, delle lettere e delle scienze, altrettanto effimere e con altri oggetti, altrettanti simboli che rimarranno sulla terra dopo la morte.
È evidente che neppure le glorie ecclesiastiche sfuggono alla morte – ecco perché compaiono un pastorale, una tiara papale e un cappello cardinalizio – e neppure le glorie dei re – una corona, uno scettro e la porpora.
La morte colpisce tutti allo stesso modo da quando calca la terra.
Non risparmia neppure la sapienza, rappresentata dai libri tra i quali spicca  un'incisione di Theodor van Thulden su un disegno di Rubens raffigurante un arco di trionfo.
La filosofia barocca della vanitas difficilmente potrebbe essere colta meglio di come ha fatto Juan Valdés Leal.
La parte superiore del dipinto è contenuta in un arco e segue un’impaginazione triangolare o piramidale in cui è individuabile un gran numero di diagonali che danno all'insieme un ritmo maggiore e più drammatico.
Lo sfondo scuro e cupo crea un effetto ancor più drammatico e simbolico e suggerisce che la morte esce dal nulla e avanza verso lo spettatore. Il contrasto tra il nero dello sfondo e i toni chiari e la luminosità degli oggetti e dei tessuti creano il forte chiaroscuro, tipico del Barocco.
Sulla base dell'analisi di Ingvar Bergstrom in Natura in posa del 1971 esistono tre categorie simboliche per classificare i motivi visivi che compongono i dipinti delle vanitas. Nella prima ci sono i simboli della vita terrena, che si dividono in tre campi semantici: i simboli della vita contemplativa, i simboli della vita pratica e i simboli delle indulgenze. Alla seconda appartengono i simboli della mortalità umana e, infine, alla terza i simboli della risurrezione alla vita eterna.
In questo dipinto ci sono elementi che simboleggiano la vita contemplativa dove compaiono simboli di saggezza come i libri. Simboli della vita pratica come armature, spade e gioielli e rimandano all'inutilità di questi oggetti di fronte alla morte. Spiccano infine i simboli della mortalità: la candela che si spegne per mano dello scheletro e che allude al passare del tempo.
Nel dipinto Finis gloriae mundi, Valdès Leal rappresenta una «psicostasi» ossia la pesatura delle anime che completa il messaggio preceduto dal primo dipinto in cui arriva la morte.

In questa occasione l’artista mostra una cripta che contiene diversi cadaveri in avanzato stato di decomposizione.
L'opera può essere suddivisa in tre piani visivi principali.
Nel primo appaiono due cadaveri in disfacimento, ciascuno sistemato nella propria bara: il primo è lo scheletro di un vescovo vestito dei suoi paramenti religiosi, circondato da insetti che vi camminano sopra, il secondo è il corpo di un cavaliere dell'Ordine di Calatrava, avvolto nel suo mantello, come testimonia la croce sulla spalla.
L'Ordine di Calatrava, confraternita religioso-militare dei Templari spagnoli – i cui membri erano pieni di connotazioni positive per l'artista, come il valore e il coraggio che dimostrarono nella loro origine storica, cacciando i Mori dalle terre cristiane – era un omaggio a Mañara che era cavaliere dell’ordine.
Davanti a loro c'è un nastro con la frase Finis Gloriae Mundi che dà il titolo al dipinto.
Sullo sfondo in alto si vede una mano illuminata – allusione al giudizio delle anime – che emerge tra le nuvole in un alone dorato che la illumina e che impugna una bilancia a due piatti. Nell’iconografia tradizionale la bilancia, simbolo dell’equilibrio della giustizia divina, era retta da San Michele Arcangelo, ma in questo caso è retta dalla mano di Cristo stesso, ferita dai chiodi: questa mano tiene l'equilibrio i due piatti recano le iscrizioni non più e non meno che indica l'equità del giudizio divino e ci insegna che il mondo segue una logica implacabile e che solo il libero arbitrio può compensarlo da una parte o dall'altra. E solo nella vita, perché dopo la morte ogni volontà o speranza muore con noi.
Il significato delle due scritte è chiaro: non occorrono più peccati per essere condannati, né meno buone azioni per essere salvati. È il comportamento dell'essere umano che farà pendere la bilancia da una parte o dall'altra: la condanna o la salvezza. Ciò riafferma l'idea che l'uomo ha la capacità di equilibrare la bilancia in base alle proprie azioni e da ciò dipenderà il giudizio alla fine della vita. Ne consegue l'allegoria che la salvezza dell'anima è lasciata al libero arbitrio.
In entrambi i piatti sono rappresentati diversi oggetti.
Nel piatto a sinistra compaiono i simboli dei peccati capitali. Per il suo colore rosso risalta un oggetto che sembra un cuore marcio, in realtà si tratta di una mela, riconoscibile dal suo gambo. Gli animali riconoscibili ad occhio nudo sono: il maiale, simbolo della gola, il pavone circonda la mela con prepotenza, il cane che ringhia si può forse identificare con l’ira e sulla mela c'è un pipistrello appena visibile che può essere ricondotto all'invidia, perché si diceva che non era né un uccello né un topo, avendo invidiato entrambi gli esseri.
Nel piatto di destra si possono notare diversi elementi relativi alla virtù, alla preghiera e alla penitenza: un cuore con il monogramma di Gesù, i libri di preghiere, un crocifisso con i chiodi appuntiti e gli strumenti di penitenze (il flagello, il cilicio e la catena).
Infine, sullo sfondo, da sinistra a destra, si vede un gufo, animale legato all'oscurità, che a malapena riesce a sfuggire alla luce riflessa sul muro, si vedono poi teschi accatastati con varie ossa sparse per terra e un terzo cadavere sdraiato.
Gli elementi che accompagnano questo dipinto forniscono un messaggio moralizzante a coloro che lo vedono e mettono in atto lo scopo della Controriforma per far capire che la salvezza può essere raggiunta attraverso le buone azioni compiute dagli uomini.
La forza allegorica con cui Juan de Valdés compone questi due dipinti sta nella descrizione della verità che il suo mecenate aveva compreso, che imprime nello spettatore un segno o una linea di demarcazione tra i vivi e i morti, tra carità e malvagità, i due percorsi che l'uomo può scegliere e infine il senso della disillusione su tutto ciò che è terreno. Intenzione decorativa che cercava di produrre nello spettatore era una contemplazione che risvegliava la compassione per gli altri, ponendo Cristo Redentore a modello di tutte le virtù.
Il maestro spagnolo nei due dipinti riesce ad ottenere un'atmosfera scioccante usando tutte le sue risorse e dando infine vita al mondo dell’aldilà dotandolo di forza, di oscurità e di mistero.

Massimo Capuozzo

 

Archivio blog