giovedì 29 maggio 2014

Il Palazzo reale di Quisisana di Manuela Montuori

La reggia di Quisisana, situata nelle colline di Castellammare di Stabia, è un Palazzo Reale di antichissima tradizione che prende il nome dal volgare Casasana tradotto più tardi dal Re Carlo II d’Angiò con Qui-si-sana che darà il nome alla frazione di Castellammare di Stabia.
La struttura originaria risale al XIII secolo e, nelle varie epoche storiche, ha cambiato spesso la sua destinazione d’uso: da palazzo reale a collegio, poi albergo fino all’abbandono e al conseguente restauro.
La zona collinare, nella quale fu realizzata la struttura, è nota per essere salubre e per offrire un bellissimo scorcio sul panorama del golfo di Napoli. Nel 1268 esisteva a Quisisana la casa di re Carlo I d'Angiò e, poiché gli Angioini avevano conquistato il Regno di Napoli soltanto due anni prima, è ipotizzabile che la costruzione del Palazzo Reale possa risalire, quanto meno, a Federico II. Durante il periodo Angioino (1266 – 1442), il titolo di Qui-si-sana fu favorito anche da Carlo II d’Angiò che, risiedendo già dal 1268 in una casa costruita in prossimità della Reggia, guarì da una seria malattia. Grazie alla bellezza del palazzo, inoltre, per diversi anni questo fu meta preferita per la residenza estiva dei regnanti. Successivamente Roberto d’Angiò ampliò la struttura dotandola di un’apertura verso il mare e di un immenso giardino. Il Palazzo contava, quindi, tre edifici semi-indipendenti a due piani e a forma ortogonale, disposti a poca distanza l’uno dall’altro. Nei secoli successivi non vi furono modifiche né abbellimenti. Poi nel 1401, in seguito ad una violenta epidemia di peste, Ladislao di Durazzo si rifugiò con la sua famiglia nel Palazzo Reale di Castellammare, luogo che rimase immune da ogni contagio. Stessa storia si verifica nel 1420 sotto il regno di Giovanna II. Molti visitatori sceglievano così la collina per riposare e trovare ristoro. Le cronache di Napoli di quel tempo segnalarono numerose guarigioni che aumentarono la fama di Quisisana. Tra i tanti visitatori, i più illustri furono: Giovanni Boccaccio, che frequentò e conobbe molto bene la frazione fino ad ambientarvi alcune novelle del suo Decameron.
Nel 1541 il Palazzo diventò proprietà della famiglia Farnese insieme a tutto il feudo di Castellammare e da quel momento cominciò il periodo di abbandono e degrado.
Non si hanno notizie rilevanti fino a quando nel 1734 Carlo III di Borbone salito sul trono di Napoli e Sicilia, portò in dote le proprietà di sua madre Elisabetta, ultima discendente dei Farnese e tra queste anche il Casino di Quisisana, considerato il sito reale più antico del Regno.
Durante il Regno Borbonico cominciò il periodo di massimo splendore del palazzo al quale i sovrani diedero l’aspetto che oggi possiamo ammirare. Tra il 1758 e il 1764 il palazzo fu oggetto di ampliamenti e abbellimenti: Ferdinando IV avviò la prima fase di lavori che inglobarono ed ampliarono i vari volumi saldandoli fra loro ottenendo un elemento ad L che permetteva un migliore invito verso Castellammare e consentiva la visione di un panorama unico. Nel 1796, il parco interno alla villa raggiunse una splendida sistemazione: a complemento d’arredo furono allestite quattro fontane, chiamate, le fontane del re, furono collocati sedili di marmo, statue e furono creati dei belvedere da dove si poteva vedere tutta la città di Napoli.
Anche napoleonidi Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat, re di Napoli, e Carolina Bonaparte, sorella di Napoleone e moglie di Gioacchino Murat, soggiornarono per lungo tempo presso il Palazzo.
Francesco I amò particolarmente questo luogo dove spesso organizzava sfarzosi festeggiamenti durante i quali i viali del parco erano aperti al pubblico e passava lunghi periodi a Castellammare godendo anche del suo mare.
La sistemazione definitiva del palazzo fu data da Ferdinando II il quale sistemò il parterre della villa secondo uno schema tipicamente anglosassone. Il declivio della collina permise poi la definitiva sistemazione dell’involucro murario creando, in tal modo, il grande porticato e l’elemento ad U che lo completava a valle, riuscendo a trovare spazi per le scuderie e le cucine.
Al piano nobile fu creata una loggia, che era specificatamente adibita al diletto di sua Maestà, il quale così poteva sparare alle quaglie. Si aggiunse un ulteriore piano al blocco prospiciente il mare che faceva da completamento ideale a quella facciata neoclassicheggiante che vedeva un basamento pronunciato reggersi sul solido portico e dal quale si dipartivano una serie di paraste corinzie che intervallavano, con una cadenza irregolare una facciata finita a stucco ed intonaco.
Inoltre, la reggia è circondato da un giardino all'italiana di circa 20.000 metri quadrati: si possono ammirare diverse specie di alberi come il pino d'Aleppo, il tasso, il leccio, l'abete bianco, il bosso, il cedro del Libano, l'asfodelo, il pungitopo, il corbezzolo e il platano, mentre come fiori si trova il ciclamino, la ginestra dei carbonai e il biancospino.
Durante il restauro si è pensato anche alla sistemazione del giardino con la creazione di sentieri in terra battuta e lastricati di basoli, lastre di roccia di origine vulcanica o calcarea di notevole peso e dimensioni (spesso 50x50 cm o 60x60 cm), impiegata per le pavimentazioni stradali. Intorno al complesso della reggia sorge un grande parco che si estende su buona parte del versante stabiese del monte Faito.
Il parco della reggia di Quisisana, realizzato nel XIII secolo dai sovrani Angioini, si estende dalla zona che va dal rivo San Pietro al rivo della Monache sull'asse est-ovest e dal monte Faito alla statale Sorrentina sull'asse nord-sud. Nel 1759, grazie a Ferdinando IV, il parco visse il massimo periodo di splendore: furono infatti realizzate delle imponenti opere murarie che lo circondavano lungo tutto il suo perimetro, si regolarizzò il flusso delle acque, con la costruzione di un impianto costituito da fontane che si innestavano in una sorta di tridente di assi, oggi non più funzionante, ma ancora ben visibile, e fu aperti una serie di viottoli talvolta con lo scopo di godere dello splendido panorama sul golfo; fu costruita una torre e poi scale, panche in marmo e viali; tutti i contorni delle aiuole furono rifiniti in pietra di tufo e fu creato un sistema di cinque fontane, che si snodavano lungo il viale principale che era costeggiato da due file di platani ed ippocastani.
Il complesso di fontane prende il nome di Fontane del Re: tre sono a vasca, una in pietra lavica finemente decorata, incassata in un terrapieno ed una in marmo bianco, di dimensioni più piccole rispetto alle altre e mancante dei due piedistalli in marmo. Purtroppo oggi queste fontane versano in uno stato di totale abbandono.
La flora presente all'interno del parco è costituita da alcuni alberi monumentali tra cui un pino d'Aleppo dalla circonferenza di 4,95 metri, ma anche nespoli del Giappone, palme delle Canarie, eucalipti, pini marittimi, cipressi italiani, camelie e magnolie; nella zona dove sorgeva la masseria sono presenti dei frutteti, mentre nella zona della selva castagni, carpini, olmi e lecci. 
Durante il periodo borbonico il Casino Reale ospitò reggenti, personaggi illustri e amici dei Borbone, confermando sempre la sua natura di luogo ameno e salutare. Ma con la fine del Regno Borbonico la Reggia fu abbandonata e depredata dai briganti: tutti gli interni furono saccheggiati e distrutti; le statue, i quadri, gli ori, gli oggetti e i tessuti sparirono. La Reggia, o almeno quello che restava, entrava a far parte dei Beni Riservati della Corona di Casa Savoia.
Dal quel momento cominciò lo stato di abbandono della Reggia di Quisisana: alla morte di Vittorio Emanuele II, con regio decreto di autorizzazione del 24 luglio 1878, il palazzo e la tenuta furono ceduti al Comune di Castellammare di Stabia; il 31 maggio del 1877, grazie alla proposta del Ministro Depretis, la Regia fu declassata a Demanio dello Stato. Le proprietà immobili costituivano un totale di 49.400 mq. Oltre al palazzo, che con i suoi due piani e ammezzati, cappelle e due terrazze contava circa cento stanze, vi erano altri cespiti. Una cereria, il maneggio, due scuderie, due rimesse, due sellerie, una masseria, una casa colonica, una torre, una chiesa e vari alloggi per il personale. Il parco, invece, misurava 19.100 mq. Castellammare, che nel frattempo era diventata una delle tappe del Grand Tour, continuò a mantenere un turismo stagionale che trovava meta soprattutto nelle cure termali. Probabilmente l’idea di destinare ad uso di albergo l’ex Casinò reale di Quisisana nacque in seguito alle svariate richieste pervenute al sindaco di Castellammare di poter prendere in fitto un quartierino proprio in questa villa. Come risulta da una guida di Castellammare del 1898, l’albergo prese il nome di Hotel Margherita, in omaggio forse alla regina d’Italia. Ma, a quanto pare, non ebbe lunga vita se già nel 1902 risultava dismesso.
Nelle estati del 1909 e 1910 ospitò il Collegio della Nunziatella di Napoli e allo scoppio della Prima Guerra Mondiale fu adibito ad ospedale militare alloggiare i feriti durante e dopo la guerra e ad alloggio per il Corpo Reale Equipaggi.
Il palazzo rimase in stato inattivo fino al 1923, quando, per volere del sindaco Francesco Monti, il complesso che conta circa 200 camere, riaprì i battenti con un nuovo nome: Royal Hotel Quisisana elencato nella Guida d’Italia del Touring Club come albergo di 1° ordine con 140 posti letto.
Allo scoppio del secondo conflitto mondiale, nel 1940, fu nuovamente requisito dalle autorità militari come ospedale e tale fu il suo utilizzo fino alla fine della guerra.
Dal 1960 in poi, la mancanza di qualsiasi forma di manutenzione e tutela, condusse nuovamente il Palazzo in uno stato di abbandonato e di degradato.
Il terremoto del 1980 provocò diversi crolli sia nella struttura portante sia nei solai e nelle scale, dando il colpo di grazia al glorioso fabbricato.
Nel 1994 l’Amministrazione comunale guidata da Catello Polito chiese, tramite la Regione Campania, il finanziamento per restaurare la Reggia di Quisisana e destinarla a Museo e a Scuola di restauro. Nell’agosto del 1995 il CIPE finanziò il restauro per complessivi 38 miliardi di lire, per combattere la crisi d’occupazione nell’area torrese-stabiese. Nel 1996 il Comune di Castellammare di Stabia e la Soprintendenza archeologica di Pompei firmarono una convenzione per stilare il progetto esecutivo di restauro. Nel 1997 una Conferenza di servizi ha licenziato il progetto di restauro del Palazzo, che sarebbe poi stato approvato definitivamente dalla Giunta comunale nel giugno 1998. Nel 1997 l’Ufficio Tecnico del Comune di Castellammare di Stabia ha redatto il progetto di consolidamento e di restauro dell’ex Casino Reale del Quisisana, immobile di proprietà comunale per destinarlo a Museo e Scuola di Restauro. L’attività di progettazione risultò notevolmente complessa, in particolare perché occorreva rendere compatibili la tecnica costruttiva antisismica con l’esigenza di conservazione e di recupero delle caratteristiche strutturali proprie dell’edificio monumentale.
Oggi il Palazzo Reale è interessato da numerosi progetti: il primo ospitare un Museo Cittadino, per raccogliere i reperti provenienti dagli scavi di Stabiae, e un’Accademia di Restauro di altissimo livello; la seconda opzione sarebbe quella di destinarla ad una funzione ricreativa e la terza, infine, sarebbe quella di realizzare un casinò. Nel frattempo che si trovi un’adeguata opzione, all’interno della Regia si svolgono incontri di tipo letterario in inverno, mentre in estate, nel giardino, viene tenuto il Quisisana Festival cioè concerti di musica classica.
Manuela Montuori

martedì 27 maggio 2014

Ribera e le sue presenze nella Cattedrale di Castellammare di Stabia di Rosaria Esposito

Jusepe de Ribera è stato un pittore e incisore spagnolo nato a Jàtiva, in provincia di Valencia, nel 1591 dove si formò sotto la giuda di Francesco Ribalta. Noto anche come lo Spagnoletto per la sua bassa statura, egli è considerato uno dei maggiori esponenti della scuola partenopea della prima metà del ‘600.
Sul Ribera giovane ci sono poche notizie certe, anche perché l'artista spagnolo, fino ai venticinque anni, non usava firmare le sue opere. Successivamente però in Italia il suo grande talento non passò inosservato e gli procurò subito committenze importanti e la sua pittura influenzò, infatti, tutta la pittura europea nel XVII secolo.
Per seguire il padre, soldato spagnolo a servizio in Italia, lo Spagnoletto lasciò la Spagna per trasferirsi in Italia. Inizialmente visitò il Nord dove inseguì le orme di Caravaggio e realizzò copie e imitazioni di Tintoretto e di Correggio: visitò Cremona, poi Milano e, dopo un breve soggiorno a Parma nel 1610, su invito del marchese Mario Farnese, rientrò a Roma, accolto nell’Accademia di San Luca.
A Roma, Ribera fu attento non solo alla rivoluzione caravaggesca, ma anche ai molteplici fermenti presenti in quel crogiuolo artistico che era la Roma dell’epoca, dal classicismo dei Carracci e di Guido Reni alle suggestioni fiamminghe derivate da pittori come van Baburen e Terbruggen, attirati a Roma dal realismo di Caravaggio: soprattutto, questo ricco patrimonio pittorico fu adattato da Ribera alle proprie esigenze e coordinate culturali.
A Roma Ribera rimase fino al 1616 qui dipinse le sue prime opere, la serie dei Cinque Sensi: la Vista oggi al Museo Franz Mayer di Città di Messico, il Gusto al Wadsworth Atheneum di Hartford, l’Olfatto nella collezione D. J. Abelló di Madrid, il Tatto alla Norton Simon fundation di Pasadena, l’Udito oggi disperso e noto solo da copie. La serie dei sensi dimostra la sua adesione al naturalismo caravaggesco, interpretato con accentuato realismo e forte intensità emotiva. Fondamentali per comprendere alcuni aspetti del peculiare naturalismo dello Spagnoletto i Sensi, sono straordinari ritratti a mezzo busto di marcato realismo e di grande spessore psicologico, ampiamente copiati e venduti in tutta l’Europa. Proprio attraverso copie erano noti fino al 1966 quando Roberto Longhi rintracciò Il Gusto, a cui fece seguito il ritrovamento degli altri quattro dipinti del ciclo, ora conservati in giro per il mondo.
Il celebre e ancora controverso Giudizio di Salomone della Galleria Borghese a Roma, a cui appartengono anche il Mendicante e la Liberazione di San Pietro dal carcere e ancora la serie degli Apostoli della Collezione Longhi a Firenze e il San Pietro e San Paolo, custodito in una collezione inglese. Una straordinaria successione di apostoli, padri della Chiesa o filosofi dell’Antichità, sfila in un nucleo di opere databili tra il 1614 e il 1615, tra cui l’Origene di Urbino, il Sant’Antonio Abate di Barcellona e il Sant’Agostino di Palermo e lo splendido Ritratto d’uomo della Gemäldegalerie di Berlino.

Per Ribera, il periodo tra il 1615 e il 1616 fu punteggiato da viaggi nella capitale del Viceregno, preparatori forse del suo matrimonio con Caterina. Appartengono a questa fase opere con filosofi, apostoli e crudeli martirî, ancora di schietto realismo e di straordinaria resa pittorica come il Democrito o Geografo sorridente; il Sant’Andrea in preghiera e il Martirio di san Bartolomeo di Firenze, commissionato nel 1617, quando Ribera si era appena trasferito a Napoli.
Il gioiello del periodo è il grande Calvario di Osuna, dipinto verso la fine del 1618 per la moglie del viceré di Napoli, affiancato da altre due pitture di historie sacre, attribuite solo recentemente a Ribera: la Resurrezione di Lazzaro del Prado e la Negazione di San Pietro, proveniente dalla Galleria Corsini.
Una Madonna col Bambino che consegna la Regola a san Bruno, dipinto da Ribera nel 1624 alle soglie della maturità, chiude la rassegna. Ma per ammirare i capolavori del pittore, basta salire al piano di sopra del museo napoletano e fare un giro nelle sue collezioni.
Nel 1616 Ribera sposò Catalina, figlia del pittore Giovanni Bernardo Azzolino, e si trasferì a Napoli.
Dal 1616-1620 Ribera passò sotto la protezione del viceré e grande statista Duca di Osuna. Le prime opere che eseguì a Napoli, gli Apostoli della Quadreria dei Girolamini e i SS. Pietro e Paolo, sono collegate alle opere che eseguì a Roma. Il suo modo di dipingere è caratterizzato da una completa adesione al luminismo caravaggesco; la sua è una pittura drammatica e tenebrosa, ricca di vistosi effetti chiaroscurali.
Nel 1626, Ribera eseguì il Sileno ebbro, dipinto celebre per il suo grottesco umorismo e per i violenti contrasti di luce.
Alla morte del Duca di Osuna nel 1626, Ribera passò sotto la protezione del Duca d'Alba per il quale realizzò anche incisioni e disegni che lo resero uno degli artisti più prestigiosi d'Europa.
Dopo aver ricevuto a Napoli la visita di Jusepe Martinez, Pacheco e Diego Velazquez (1599 - 1660), Ribera rifiutò di tornare in Spagna.
Importante fu il suo incontro con Velazquez  che avvenne a Napoli nel 1630 e che determinò un cambiamento nella sua pittura che divenne più pacata e quotidiana caratterizzata dall'uso di un colorismo più chiaro.
Nelle opere più tarde dell'artista la composizione diventò più libera e i colori più chiari, riuscendo a rappresentare atmosfere più delicate, nelle quali la vita interiore dei personaggi diventa l'elemento principale, come ne La Pietà e l'Apollo e Marsia, entrambi del 1637, che rivelano uno stile elegante, con suggestioni di Van Dyck, e il passaggio dalla maniera di Caravaggio a quella barocca.
Intorno agli anni '30-'40 a Roma si iniziò a diffondere la cultura-neoveneta che influenzò notevolmente la pittura di Ribera, come si può notare dalle tele come Venere e Adone o Giacobbe e Isacco.
Nei primi anni '40 Ribera, seppure gravemente malato, continuò ad esercitare la sua attività, realizzando capolavori come il Matrimonio mistico di Santa Caterina, l'Adorazione dei pastori di Castellammare Di Stabia e la Comunione degli Apostoli di San Martino.

La maggior parte delle sue opere fu eseguita a Napoli, anche se lasciò alcuni lavori anche ad Aversa, per la precisione nella chiesa di San Francesco delle Monache, dove dipinse sull'altare maggiore della chiesa l'Estasi di San Francesco. Il dipinto, datato 1642 e firmato dall'artista, è sempre stato lodato dai critici.
In questi anni il suo lavoro è quasi sconosciuto all'estero ed ignorato anche in Spagna, tanto che quando nel XVIII secolo la regina Elisabetta Farnese censì le perdite subite a causa di un incendio, le opere di Ribera furono erroneamente attribuite a Murillos. Jusepe de Ribera morì a Napoli nel 1652, anno in cui realizzò la sua ultima opera, Lo Storpio, nel quale l'abilità nel ritrarre la personalità del soggetto segnò un punto di rottura con le idealizzazioni del Manierismo e fu la principale eredità che Ribera lasciò all'arte spagnola dei secoli seguenti.
Ribera fu sepolto nella Chiesa di Santa Maria del Parto nel quartiere Mergellina a Napoli.

Rosaria Esposito

Giuseppe Bonito e La consegna del mandato nella Cattedrale di Castellammare di Stabia di Teresa Capezza

Giuseppe Bonito nacque a Castellammare di Stabia nel 1707, ancora fanciullo, fu accolto nella celebre scuola dell’abate Solimena, una sorta di sodalizio formato dai migliori allievi del tempo che, in omaggio al loro maestro, vestivano tuniche marroni, in cui è confutata, per la prima volta, anche la presunta povertà della famiglia Bonito, sostenuta sia da Giuseppe Cosenza, sia da Bruno Molajoli e da altri. Del folto gruppo di allievi, furono privilegiati i pochi che riuscirono ad emergere, per talento e tenacia, tra cui, in modi e tempi diversi, Sebastiano Conca, Domenico Antonio Vaccaro, Francesco De Mura, Corrado Giaquinto e Giuseppe Bonito, il quale, nella sua lunga attività, fu insignito di onorificenze ambitissime che lo posero in una condizione di sovrana e pubblica considerazione, monopolizzando per molto tempo l’attenzione sia della corte, sia di privati collezionisti.
Giuseppe Bonito, pur inquadrandosi, con le caratteristiche diverse, nell’ambito del solimenismo, dal quale assorbì la densità del colore e gli effetti contrastati della luce, in un secondo tempo si orientò verso l’accademismo classicizzante romano, forse anche per rispondere ai gusti di una committenza sempre molto più esigente ed erudita.
Le prime opere di Bonito furono un Angelo Custode e l'Arcangelo Raffaele e Tobia per la chiesa di S. Maria Maggiore di Napoli (terza cappella a destra): firmate e datate 1730, furono nello spirito di Solimena per quanto riguarda la corrispondenza, ma più asciutte nell'esecuzione. Allo stesso periodo appartengono Cristo che consegna le chiavi a San Pietro della Cattedrale di Castellammare di Stabia, e il San Vincenzo Ferrer nella chiesa di San Domenico a Barletta, firmato e datato 1737. La prima tra queste, molto bella, fu acquistata dal comune di Castellammare di Stabia, dietro sollecitazioni di Domenico Morelli e Benedetto Croce che consideravano Bonito una vera gloria nazionale.
Fra il 1738 -1740 Giuseppe Bonito si distinse, oltre che nella pittura di genere, nella ritrattistica – in mancanza della fotografia, nobili e personaggi facoltosi si facevano ritrarre da pittori – tentando di conciliare l’esigenza del ritratto iconografico, rappresentativo della istituzione, specie il sovrano, secondo una certa visione specialmente di Mengs, con la tradizione napoletana di naturalismo espressivo, evidenziando aspetti psicologici e sentimentali. Questo suo “nuovo” modo di fare “ritrattistica”, dove le figure erano “vive”, popolari, persone note e familiari nel quartiere, nella zona, nella corte, piacque molto e gli procurò grandi soddisfazioni morali e materiali. In questo anno ricordiamo il Ritratto di Maria Amalia di Sassonia, moglie di Carlo di Borbone e regina di Napoli. Fra il 1736 e il 1742 Giuseppe Bonito, sotto la committenza di Carlo di Borbone, fu impegnato per la decorazione a fresco delle sale della Reggia di Portici; mentre, quando a Napoli arrivò l’ambasciatore di Tripoli, egli fu incaricato di eseguire un ritratto dell’ambasciatore stesso.
Fra il 1736 e il 1742 Giuseppe Bonito, sotto la committenza di Carlo di Borbone, fu impegnato per la decorazione a fresco delle sale della Reggia di Portici.
Sempre nel 1742 egli eseguì la Carità sul soffitto della Sacrestia del Monte di Pietà a Napoli.
Il 29 marzo 1751 Carlo III lo nominò pittore di camera di S. R. Maestà, carica che non comportò uno stipendio fisso, ma certo un considerevole prestigio.

Il 23 aprile del 1752 fu eletto membro dell'Accademia di S. Luca a Roma. Non datate, ma probabilmente dei primi anni del quinto decennio, furono le tele per la piccola chiesa di S. Maria delle Grazie (la Graziella) a Napoli: sull'altare maggiore la Vergine della Mercede e la Vergine che appare a San Carlo Borromeo sull'altare di sinistra.
Nel 1755 Bonito diventò Direttore Dell’Accademia del disegno a Napoli, con l'incarico di "riconoscere e opinare sopra ogni sorta di pitture antiche", ufficio che egli doveva poi ricordare in una supplica, alla morte di C. Ruta (1767), per diventare "pittore di camera con soldo".
Nel 1757 Bonito entrò più decisamente nello spirito del Rococò con due deliziose tele per gli altari laterali della chiesa dei SS. Giovanni e Teresa: sulla sinistra una Crocifissione, sulla destra una Sacra famiglia con Sant’Elisabetta e San Giovannino e anche l'ovale sopra l'altar maggiore, la Madonna col Bambino.
Quando nel 1758 si iniziò la lavorazione della serie di arazzi per la reggia di Caserta, a Bonito furono affidati numerosi soggetti: i dipinti che egli eseguì per la fabbrica degli arazzi di Carlo III, si avvicinano molto alla pittura di genere; tre di essi sono conservati nel palazzo reale di Napoli: Don Chisciotte contro i mulini a vento, per cui fu pagato nel 1759; Don Chisciotte e la regina Micomicona, pagato nel 1761; Don Chisciotte che beve per mezzo di una canna, nel 1761.
Quadri di genere e ritratti attribuiti a Bonito, ma non documentati, sono oltre che in numerose collezioni private, a Bari, Pinacoteca provinciale (tre); Barletta, Pinacoteca comunale; Barnard Castle (contea di Durham), Bowes Museum; Madrid, palazzo reale; Napoli, musei di Capodimonte e Filangieri; Rodez, Musée des Beaux-Arts; Roma, Galleria nazionale d'arte antica (due); Sorrento, Museo Correale.
Fra il 1765-1770 si ricorda oltre all’autoritratto, conservato agli Uffizi, si conoscono tre ritratti di gruppo del 1765 firmati, già della collezione Lignola di Napoli di cui due si trovano nella badia di Cava dei Tirreni e uno presso gli eredi Lignola, e un Ritratto di Fanciullo, firmato, già nella collezione Tesorone sempre a Napoli.
Nel 1768 fu nominato condirettore Francesco De Mura.
Nel 1770 alle dimissioni di De Mura, Bonito chiese l'emolumento di cui godeva De Mura in aggiunta al suo.
Nel 1772 Vanvitelli fu incaricato di proporre con il Bonito un piano di riorganizzazione dei corsi. Intanto Bonito era occupato in commissioni importanti: nel gennaio 1752 firmò il contratto per gli affreschi nella chiesa di S. Chiara a Napoli, che la critica concorda nel considerare le sue opere più importanti (l'ultimo pagamento è del febbraio 1756). Distrutti completamente dai bombardamenti del 1943, essi raffiguravano Salomone che fonda il tempio al centro della volta e intorno, in pannelli, Davide, Salomone, S. Gregorio e S. Gerolamo; quattro pannelli più piccoli recavano decorazioni simboliche. Nel Museo nazionale di Capodimonte resta però il bozzetto dell'affresco centrale.
Dal 1775 Bonito diventò membro della congregazione che aveva sede nella chiesa di Santa Maria della Salvazione dei Bianchi della Morte, alla quale donò un altare marmoreo e la pala con San Giuseppe e Gesù bambino firmata "Ios Bonito P. A quest'ultima fase del Bonito, appartengono, anche se non sono datate, per i loro toni slavati e per il suo senso di languido abbandono, La Madonna che appare a San Carlo Bartolomeo e a San Giovanni Nepomuceno, sull'altare della prima cappella a sinistra nella chiesa di S. Paolo Maggiore dei teatini, a Napoli.

Nei suoi ultimi anni Bonito dipinse cinque tele per l'abside della chiesa dell'Annunciata a Vico Equense: Presentazione al Tempio, Sposalizio della Vergine, Natività, Circoncisione e, al centro, l'Annunciazione, firmata e datata 1788.
Nel 1789 Bonito fu nominato cavaliere di grazia dell'Ordine costantiniano di San Giorgio ed eseguì una delle sue ultime opere l'enorme Immacolata Concezione per l'altare maggiore della Cappella Palatina della Reggia di Caserta, opera che corona gli ultimi anni della sua attività che Bonito dipinse per sostituire la pala di Sebastiano Conca, che non piaceva al re.
Teresa Capezza

domenica 25 maggio 2014

Le tele di Giovan Vincenzo Forli nella Cattedrale di Castellammare di Stabia di Rosaria Esposito

Nella cappella di San Nicola della Cattedrale di Castellammare di Stabia, ci sono due tele di Giovan Vincenzo Forli. 
Giovan Vincenzo d’Onofrio da Forlì, noto come Giovan Vincenzo Forli, nacque a Campobasso nella metà del Cinquecento, non si conoscono gli estremi anagrafici di questo pittore originario di Forlì del Sannio. L'Associazione Giovan Vincenzo Forli ha effettuato ricerche durate anni in Campania per ricercare notizie inerenti il pittore fin quando sono state fatte scoperte le numerose opere che Forli ha prodotto e che si trovano nelle Chiese più importanti dell'epoca, però nonostante l'importanza artistica che egli abbia rivestito nella Napoli del '600, non sono state rinvenute monografie o testi interamente dedicati al pittore.
Definito pittore di prima classe per i suoi tempi, fu eletto Console dell'Arte dei Pittori insieme ad altri artisti, tra cui Teodoro d’Errico, nella Napoli di fine '500. Qui vi fu attivo tra l'ultimo decennio del XVI secolo e il quarto decennio del XVII. A capo di una bottega particolarmente attiva nell'esecuzione di pale d'altare, Forli venne incontro per lo più alle esigenze devozionali del ceto borghese cittadino e delle innumerevoli parrocchie e confraternite di provincia con una produzione caratterizzata da un eclettismo accomodante e privo di slanci creativi.
Tra il 1592 e il 1594 Forlì strinse importanti rapporti di lavoro con i governatori della Casa Santa dell'Annunziata, uno degli enti assistenziali più potenti della città, impegnandosi a realizzare alcune tele, oggi perdute, destinate ad integrare le decorazioni dell'altare maggiore e del soffitto cassettonato della chiesa annessa a tale istituto. In quest'ultima impresa, compiuta nel 1594, Forli ebbe l'incarico di dipingere Angeli con i simboli delle litanie mariane accanto ad A. Mytens, J. Snyers, G.A. D'Amato, Curzio di Giorgio, Giulio dell'Oca e sotto la sorveglianza diretta di Fabrizio Santafede, a sua volta impegnato nella realizzazione di uno dei quadri grandi insieme con W. Cobergher, G. Imparato, G.B. Cavagna.
Tale circostanza, che vide Giovan Vincenzo Forlì lavorare a stretto contatto con i pittori più affermati a Napoli in quel momento, contribuisce a chiarire gli orientamenti stilistici delle sue prime opere nelle quali sembrano condensarsi le principali tendenze della pittura napoletana degli anni Novanta.
L'Apparizione della Vergine a S. Giacinto e tavolette con Storie della vita del santo in S. Domenico Maggiore e la Madonna degli Angeli tra i SS. Francesco e Caterina d'Alessandria in S. Francesco a Padula, databili entrambe al 1595, palesano, all'interno di una costruzione solida e bilanciata, sicuramente al corrente delle posizioni riformate del Santafede, levità cromatiche baroccesche, nelle quali la compattezza della materia si stempera in una serie di effetti atmosferici, secondo la linea seguita anche dall'Imparato. Agli inizi del nuovo secolo Forli eseguì l'Annunciazione per la napoletana chiesa della Croce di Lucca del 1600 e l’Annunciazione per la chiesa dello Spirito Santo a Napoli del 1602, le tele con la Natività e l'Assunzione della Vergine, già nella cappella De Caro in S. Lorenzo Maggiore e ora nella Cattedrale di Castellammare di Stabia (1604 circa), e la Madonna degli Angeli con i SS. Francesco e Stefano per la chiesa di S. Michele a Piano di Sorrento del 1606. In queste opere Forli sembra allinearsi, come G. Balducci, I. Borghese e G.B. Azzolino, alle tendenze moderatamente realistiche richieste dal clima devozionale della Controriforma con una particolare attenzione verso i modi di Santafede e di Belisario Corenzio. La ricerca di una visione più domestica dei fatti religiosi è tradotta da Forli in uno stile sobrio e monumentale e in un colorito dai toni più vicini al naturale.

Tali orientamenti furono in vigore a Napoli fino alla venuta di Caravaggio nel 1606 che, come è noto, scatenò negli ambienti del tardo manierismo locale una crisi destinata a coinvolgere tutti i pittori, aggravata dalla repentina scomparsa di alcuni dei protagonisti della cultura del decennio precedente come Girolamo Imparato nel 1607, Francesco Curia nel 1608, Luigi Rodriguez nel 1609.
Tra il 1607 e il 1608 Forli fu chiamato a dipingere per il Pio Monte di misericordia la tela con Il buon Samaritano, da affiancare alla pala dell’altare maggiore dipinta poco tempo prima da Caravaggio e dalla quale l’opera di Forli copia, in chiave più monumentale, classicheggiante e atteggiata il gruppo divino circondato dagli angeli. Certo rispetto alle fisionomie stupendamente umane, di una soda bellezza popolana, del gruppo divino e degli angeli di Caravaggio presenti nella pala con Le sette opere di misericordia nella stessa chiesa, Forlì sfodera fisionomie più convenzionali e stereotipate, di una bellezza piuttosto tipica che reale. La parte di maggiore sincerità espressiva diviene allora lo splendido paesaggio ombroso, illuminato da improvvisi bagliori, secondo la tradizione fiamminga che Paolo Brill aveva introdotto a Napoli e che aveva conquistato anche Imparato e Santafede. Forli appare influenzato dalla tela di Caravaggio della quale cita alcuni particolari tradotti in una sostanziale riaffermazione del formulario manieristico; inoltre, i toni bassaneschi dell'atmosfera notturna e l'accentuazione dei contrasti luministici avvicinano Forli alla pittura veneziana come contemporaneamente avviene anche nell'opera di Santafede, in particolare nella Resurrezione dipinta per il Monte di pietà nel 1608.
Tra il 1610 e il 1612 Forli eseguì la tela raffigurante La circoncisione per la Chiesa di S. Maria della Sanità: parte della critica ipotizza o un primo intervento di Caravaggio sulla tela, in seguito completata da Forli, o una commissione assegnata al pittore lombardo raccolta in seguito da Forlì. È innegabile che a partire dal primo decennio del Seicento Forli tenda ad includere elementi caravaggeschi nella propria produzione pittorica come si può notare ad esempio nella figura di vecchia in basso a sinistra nella pala della Sanità, desunta da quella dipinta da Caravaggio nella Crocifissione di Sant’Andrea del Museum of Art di Cleveland, la Circoncisione è oggi esposta presso la Chiesa di Santa Maria della Sanità di Napoli.
Intorno al 1617 Forli eseguì le tele per il soffitto della Chiesa dell'Annunziata di Capua e il Crocifisso per la Chiesa dell'Annunziata di Arienzo. In queste opere Forli, pur ancorandosi a schemi disegnativi tradizionali, sembra approfondire l'indagine luministica e trarre ispirazione dalla pittura di Carlo Sellitto e Battistello Caracciolo.
Tra il 1620 e il 1622 Forlì eseguì la decorazione del soffitto della Chiesa dell'Annunziata di Giugliano, purtroppo molto rovinata, e, nel 1621, quella del soffitto del duomo di Napoli. Dai documenti si sa con certezza che Forli fu attivo ancora per circa un ventennio, ma non sono noti il luogo e la data della sua morte.
Giovanni Previtali in La pittura del Cinquecento a Napoli e nel vicereame gli attribuisce una Madonna con Bambino che appare ai Santi Francesco, Agostino, Biagio e Antonio da Padova nella chiesa del Gesù delle Monache. Lo stesso Previtali dice di Forli che egli «al pari di altri artisti italiani e spagnoli prima di adeguarsi alle nuove rivoluzionarie tendenze naturalistiche, avrebbe partecipato al gran corale baroccesco di fine secolo». La corrente baroccesca, che prende nome da Federico Fiori detto il Barocci si sviluppa in sintonia con un modo di dipingere pastoso. Il pittore molisano è insomma legato al tardo-manierismo, come Santafede, caposcuola della cultura riformata a Napoli, e Azzolino.
Rosaria Esposito

La Basilica di Sant'Antonino a Sorrento di Marianna Donnarumma

Da Piazza Tasso, seguendo via De Maio, si arriva alla Basilica di Sant’Antonino, collocata nell’omonima piazza, chiusa sul lato destro dalla basilica.
La Basilica fu costruita nel luogo dove sorgeva un antico oratorio, edificato secondo la tradizione nel IX secolo per accogliere il sepolcro del Santo, che aveva trovato rifugio durante l’invasione longobarda; tuttavia la presenza di alcuni elementi ornamentali dell’XI secolo, come la cornice in tufo bicromo del portale laterale dalle forme romanico-bizantine, fa spostare in avanti la data di edificazione della Basilica.
Dedicata al Santo Patrono di Sorrento, la chiesa fu costruita intorno all’anno Mille e poi interessata da restauri e rinnovamenti tra il XVII e il XIX secolo. Nel 1608, infatti, la chiesa passò nelle mani dei padri teatini e fino alla metà del Settecento furono impegnati nell’opera di ammodernamento, in chiave barocca, dell’intera basilica: nel 1668 fu rifatta la facciata con il campanile, mentre nel corso del XVIII secolo furono aggiunti fregi e stucchi. Nel 1866, con la soppressione dei monasteri, i PP. Teatini dovettero lasciare la chiesa, che fu affidata nuovamente ad un rettore.

Occorre spendere qual parola sul genius loci Sant’Antonino, partono di Sorrento.
Antonino Cacciottolo, noto come sant'Antonino abate o sant'Antonino di Sorrento (Campagna, VI secolo – Sorrento, 14 febbraio 625), fu un benedettino, eremita e abate. Nacque presumibilmente nella seconda metà del VI secolo nel casale S. Silvestro a Campagna d'Eboli. Figlio di Vitale Alessandro Catello (cognome modificato in Cacciottolo per derivazione dialettale) e Adelicia Maddalena De Berea, fra il 555 e il 556 divenne orfano di entrambi i genitori; accolto dai benedettini dell'abbazia di Santa Maria de Strada o di Furano di Campagna, vi rimase iniziando il suo noviziato fino alla fine del 500.
Entrò nel monastero benedettino di Montecassino, (sebbene alcune notizie individuano il monastero presso la sua città natale), ma ben presto, in seguito all'assalto longobardo del 589 dovette riparare a Castellammare di Stabia, ospitato dal vescovo Catello del quale divenne uomo di fiducia e poi vicario diocesano. San Catello desiderava dedicarsi alla vita contemplativa e, quando decise di ritirarsi sul Monte Aureo, affidò a Sant'Antonino la diocesi di Stabia. Durante il periodo di reggenza della diocesi il richiamo alla vita monastica fu così forte che Antonino chiese a Catello di ritornare in sede. Antonino a sua volta si ritirò sul Monte Aureo; visse in una grotta naturale in solitudine cibandosi di erbe. Fu infine raggiunto da Catello che decise nuovamente di ritirarsi sul monte e di dedicarsi alle cure della diocesi sporadicamente.
Un giorno ai due apparve l'arcangelo Michele che chiese che fosse costruita una chiesa in quel posto da dove si dominava il golfo e si ammirava il Vesuvio. Così i due santi cominciarono a costruire una chiesa in pietra e legno nel punto del Faito che ora si chiama Monte S. Angelo o Punta S. Michele.
I due religiosi furono accusati di apostasia e culti idolatrici che misero in allarme papa Sabiniano. Dopo breve tempo, però, furono prosciolti dalle accuse, grazie a papa Bonifacio III e poterono riprendere le loro attività di ampliamento della chiesa sul monte che ben presto divenne meta di intensi pellegrinaggi dalla vicina città di Sorrento.
Antonino fu invitato dai sorrentini a trasferirsi in città e fu accolto dall'abate Bonifacio nel monastero benedettino di S. Agrippino che si trovava dove sorge ora la basilica.
Alla morte di Bonifacio, Antonino divenne suo successore. Si racconta che un giorno un fanciullo che giocava sulla spiaggia di Sorrento fu inghiottito da una balena. La mamma disperata chiese aiuto a Sant'Antonino che si recò sulla spiaggia ed intimò ai pescatori di cercare il mostro marino e di condurlo in sua presenza. Quando ciò avvenne fu aperto il ventre del mostro e ne uscì sano e salvo il fanciullo. Quest'episodio costituisce uno dei miracoli più importanti compiuti in vita dal santo che diventò un riferimento per tutta la città e spiega il motivo della presenza, nell’atrio della basilica, di due ossa di cetaceo.
Antonino morì il 14 febbraio 625 ed i sorrentini eressero la cripta e la basilica sul luogo della sua sepoltura, sul bastione della cinta muraria perché per suo volere fu sepolto né dentro, né fuori la città ma nelle mura della stessa. Da questo scaturì l'episodio noto come Miracolo della costa di Sant'Antonino: durante lavori di scavo delle mura un operaio sarebbe stato colpito ad un occhio da una costa del santo, rimanendo accecato ma, in seguito alla processione ordinata dal vescovo, ci fu la guarigione immediata del malcapitato.
Ammirando i dipinti della basilica si intuisce l'amore di Sorrento per il santo ed i miracoli compiuti: la vittoria navale contro i saraceni, nell'assedio del terribile generale Grillo, la preservazione dalla peste, la liberazione dal colera, la liberazione degli indemoniati.
Si racconta che quando Sorrento fu saccheggiata dai turchi e la statua trafugata, non avendo denaro a sufficienza per farne un'altra i sorrentini vi avevano rinunciato, ma avvenne il miracolo: sant'Antonino si presentò in carne ed ossa allo scultore al quale pagò direttamente la statua.
Importanti lavori di ristrutturazione si ebbero a seguito del terremoto del 1980; mentre sia l’abside sia la cripta sono stati oggetto di altri interventi di restauro, condotti dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storici Artistici ed Etnoantropologici di Napoli e Provincia, tra il 2010 ed il 2011.
La facciata della basilica è in stile romanico[1], in tufo grigio, divisa in due da una trabeazione, mentre delle lesene, la dividono verticalmente in tre parti: nella zona inferiore, al centro, vi è un arco che funziona da ingresso, mentre nella zona superiore si aprono tre grossi finestroni a volta, quello centrale di maggiori dimensioni, rispetto ai due laterali, più piccoli.
Sul fianco destro della Basilica si può ammirare uno splendido portale del XI secolo con un architrave sostenuto da capitelli corinzi di epoca romana.
Sul lato sinistro, incassato nella facciata, vi è il campanile, con la cella campanaria illuminata da quattro monofore.
Superato il portale ad arco, preceduto da quattro gradini, si accede ad un piccolo portico, il quale conserva, nel lato destro, un'urna con le spoglie del rettore, monsignor Francesco Gargiulo. Sul lato meridionale della chiesa si apre una piccola porta, risalente al X secolo, tra due colonne in marmo giallo antico con capitelli in ordine corinzio, sormontato da un arco, all'interno del quale vi è una lunetta con un'incisione di una croce tra due palme.

L’interno, a croce latina, è diviso in tre navate da dodici colonne marmoree, sei per lato, provenienti con ogni probabilità da una delle villae maritimae[2] costruite in epoca romana lungo la costa; la stessa provenienza potrebbero avere le due colonne del portale d’ingresso che sorreggono un architrave in marmo e la lunetta affrescata con l’immagine del Santo.

Nella navata centrale, nello spazio tra due archi, sono posti degli ovali, all'interno dei quali sono affrescate scene della vita di sant'Antonino: nel lato destro le raffigurazioni di Sant'Antonino che salva un muratore caduto dal campanile, l'Apparizione del Santo allo scultore che dovrà realizzare la sua statua, la Fuga della flotta saracena, la Consegna di pesci ai suoi devoti, l'Entrata del santo a Sorrento, l'Apparizione a papa Gregorio I che aveva ingiustamente accusato san Catello ed il torchio accesso sulla cima del monte, mentre nel lato sinistro il Salvataggio di una barca dal naufragio, la liberazione di un'indemoniata, la Guarigione di un diacono avvelenato da un serpente, la Salvezza di un capro, la Liberazione di alcuni operai da un macigno.
Altri affreschi sono posti nel cleristorio (zona tra il cornicione ed il soffitto al di sopra degli archi), dove si aprono anche dei finestroni: sono rappresentati il Fanciullo liberato dalla balena, l'Uscita di acqua dal monte Aureo e l'Apparizione dell'arcangelo Michele.
La struttura custodisce tra l’altro dipinti del Seicento di Giovanni Bernardo Lama (pittore attivo principalmente a Napoli nella prima metà del XVIII secolo).

La navata maggiore è coperta da un soffitto decorato con rosoni d'oro su fondo azzurro e dipinto a lacunari che mostra al centro un telone di Giovan Battista Lama con la Storia di Sant’Antonino che libera dal demonio la figlia di Sicardo principe di Benevento, opera 1734.
Lo stesso artista eseguì anche i tondi laterali con San Gaetano da Thiene e Sant’Andrea da Avellino.
Nel transetto ci sono due bei dipinti di Giacomo Del Po (Roma 1652 - Napoli 1726), importanti per il loro valore storico oltre che artistico: nella parte dell'abside, si trova un coro ligneo, con alle pareti quattro tele, tutte opera di Giacomo del Po: nella parte curva le raffigurazioni di sant'Antonino con i santi Baccolo e Atanasio e san Renato e san Valerio, entrambe realizzate nel 1686, mentre nelle pareti laterali, a destra, la Liberazione di Sorrento dall'assedio di Giovanni Grillo del 1648 e, a sinistra, la Guarigione della città dalla peste del 1656. Ritroviamo il pittore romano anche nel catino absidale dove lascia un Riposo nella fuga in Egitto ed un’Estasi di San Gaetano del 1685; le due tele introducono alla calotta con gli affreschi più antichi dei compatroni di Sorrento con Sant’Antonino che schiaccia il Maligno.

Le due navate laterali ospitano ognuna due cappelle con altrettanti altari in marmo: quelle a destra una dedicata originariamente alla Madonna del Rosario ed in seguito a san Giuseppe e a sant'Andrea Avellino, mentre quelle di sinistra una a san Gaetano e l'altra all'Immacolata, con statua della Vergine, risalente al 1848, opera di Francesco Saverio Citarelli; lungo le navate inoltre sono posti otto dipinti, quattro per ogni lato, raffiguranti scene di vita di Sant'Andrea e San Gaetano.
La sagrestia della Chiesa, a cui si accede tramite due ingressi custodisce due tesori preziosi: i frammenti di un antico pavimento maiolicato ed un pregiato esempio di presepio napoletano del '700, attribuito ad allievi della scuola di Sammartino con figure presepiali addobbate da abiti realizzati con stoffe pregiate ed arricchiti da merletti preziosi, voluto da Silvio Salvatore Gargiulo e realizzato da Ciro Finto e Antonio Lebro. Originariamente questo era composto da numerosi pezzi, tutti del XVIII secolo, comprendenti centocinquantadue pastori, di cui sessantacinque animali, e settantacinque pezzi vari, realizzati con i più disparati materiali come argento, avorio, rame, vetro ed oro. Tuttavia nella notte tra il 28 ed il 29 gennaio 1983, tutte le statuette furono rubate e fu possibile realizzare un nuovo presepe solo grazie alle donazioni dei sorrentini, i quali cedettero alla basilica diversi pastori d'epoca di loro proprietà: si tratta di un classico presepe napoletano, con riproduzioni di alcuni scorci di Sorrento, come i ruderi dell'acquedotto romano, le bifore di palazzo Correale e l'antica discesa verso Marina Piccola ed al centro della scena, tra le rovine di un tempio pagano, la natività, mentre intorno sono raffigurate scene ed oggetti di vita quotidiana, tra cui la riproduzione di prodotti tipici culinari come torrone, roccocò e castagne del monaco; caratteristico anche il corteo dei Re Magi ed i loro ricchi doni, con il seguito di schiavi ed odalische oltre che ad asiatici, mongoli e negri.
La cripta, chiamata comunemente Succorpo, si trova in un'area sottostante la chiesa ed ha accesso tramite due scalinate in marmo poste alla fine delle due navate laterali, con balaustre scolpite nel 1753 e decorazioni alle pareti in stucco del 1778 che hanno coperto gli affreschi del 1699, opera di Pietro Anton Squilles: l'ambiente è sostenuto da quattro colonne realizzate con marmo recuperato da antichi templi pagani, le quali sorreggono quattro archi piccoli nella zona dell'altare e quattro più grandi che vanno verso l'esterno; racchiuso in una balaustra vi è l'altare con la statua e le spoglie del santo ed una lampada ad olio in argento, perennemente accesa, ed accarezzata dai fedeli in segno di devozione, in quanto, secondo la tradizione, dopo essersi rotto una gamba, sant'Antonino sognò di prendere dell'olio da un'ampolla su suggerimento della Madonna, risvegliandosi, il mattino successivo, guarito.
Nella cripta vi è un altare centrale con il sepolcro del Santo ed inoltre sono presenti altri due piccoli altari: quello sulla destra presenta un crocifisso in legno ricoperto in argento, portato in processione in caso di calamità o in segno di penitenza, mentre quello sul lato sinistro è abbellito da un affresco della Madonna delle Grazie, risalente al XIV secolo, in origine dipinto sulle mura cittadine e che risulta essere la più antica raffigurazione di Maria a Sorrento.





All'interno della cripta sono esposte sei tele del sorrentino Carlo Amalfi del 1778, raffiguranti san Valerio, san Renato, sant'Atanasio, san Baccolo, san Gennaro e san Nicola e numerosi ex voto, in particolare dipinti, alcuni di autori famosi come Edoardo De Martino, i cui quadri si trovano all'interno di Buckingham Palace a Londra.
Essa inoltre, raccoglie numerose opere d'arte ed ex voto; tra le opere due tavole ad olio, una ritraente la Madonna col Bambino, l'altra San Catello e Sant'Antonino, opera di Luca de Maxo, risalente al 1539, un dipinto della Madonna in stile bizantino e due sculture in legno una del Crocifisso, l'altra della Madonna del Rosario, del XVII secolo. Gli ex voto invece, in passato composti da gioielli, opere pittoriche, sagome di corpo umano, si sono ridotti a poche unità e quelli conservati nella sagrestia sono settantasei dipinti, quasi tutti legati al tema del mare, probabilmente doni di marinai.
Superati cinque gradini si raggiunge la crociera, nel cui soffitto vi è un dipinto dello Spirito Santo, che ha sostituito le antiche pitture dei santi Antonino e Gaetano; nella stessa zona è anche posto l'altare maggiore, proveniente dal Monastero della Santissima Trinità di Sorrento e consacrato il 1º luglio 1814 da monsignor Vincenzo Calà ed alle sue spalle. Sono presenti inoltre due reliquiari del 1608, contenenti uno diciassette reliquie di san Baccolo e l'altro ventuno reliquie di san Placido: questi erano custoditi originariamente nella cattedrale di Sorrento e poi trasferiti nella basilica di Sant'Antonino tra il 1659 ed il 1679. Nella chiesa è inoltre conservata una statua di sant'Antonino in argento, sulla quale è riportata la data di realizzazione ossia il 2 febbraio 1564 e il nome del realizzatore, Scipio di Costantio: la leggenda vuole che una prima statua fosse stata realizzata nel 1494, ma a seguito di un'incursione dei saraceni, il 13 giugno 1558, questa fu depredata e fusa per ricavarne delle armi. Era volontà dei sorrentini realizzarne una nuova, ma mancando i fondi, l'opera tardava ad essere terminata: fu così lo stesso sant'Antonino che apparve all'orafo napoletano che era stato incaricato di compiere l'opera, consegnandogli un sacchetto con il resto della somma mancante e intrattenendosi per diverso tempo, in modo tale da farsi ben osservare affinché la statua fosse quanto più simile a lui. I sorrentini, una volta trovati i fondi e recatisi dall'artigiano, seppero del miracolo e a testimonianza di ciò fecero aggiungere, tra le mani del santo, un sacchetto, simbolo della cifra versata.
Quasi tutti i manufatti fin ora descritti furono voluti dai padri teatini.
Marianna Donnarumma

[1] Il Romanico – La facciata è caratterizzata da tetti poco inclinati e da strette finestre, il portale, costituito da un arco a tutto sesto, generalmente è strombato, cioè svasato verso l’esterno, ed è riccamente decorato con sculture raffiguranti scene religiose o animali simbolici e con fasce decorative di tipo geometrico o floreale, è riccamente decorato con sculture rappresentanti scene religiose e animali selvatici.
Al centro della facciata, in alto, è quasi sempre presente un rosone.
La pianta è a croce latina, generalmente divisa in tre navate. Per la costruzione erano usati materiali semplici e magari di recupero tratti da monumenti semi distrutti: colonne, capitelli e architravi.
L’interno è talvolta intonacato e poi dipinto a fresco. La chiesa romanica ha un aspetto solido e gli storici dell’arte parlano di un buon equilibrio tra i vuoti e pieni. 
[2] Le ville marittime – Intorno alla metà del II sec. a.C., quando la cultura greca comincia ad essere accettata senza più ostacoli dalla classe dirigente romana, appare un nuovo tipo di villa residenziale, di chiara derivazione ellenistica, in cui, accanto alla tradizionale pars rustica, concentrata intorno all'attività di raccolta e trasformazione dei prodotti del fundus, assume sempre maggiore importanza la "pars urbana", destinata a soggiorno del dominus. La tendenza a privilegiare sempre più la parte urbana della villa, intesa ormai non solo come centro di produzione agricola, ma anche come luogo di piacere e riposo, portò alla scelta di siti ameni come zone costiere o pendii panoramici.
Furono quindi aggiunti al corpo principale della residenza portici e percorsi per passeggiate ("ambulationes"). Questo tipo di villa venne ben presto ad accogliere gli "otia" degli uomini politici romani, quando, nelle pause dell'attività politica, potevano dedicarsi alla soddisfazione di vari piaceri o alla coltivazione dei propri interessi culturali.
Tali ville non erano dunque abitate tutto l'anno dai loro proprietari; infatti durante l'assenza di questi ultimi venivano amministrate da liberti incaricati di sovrintendere alle attività dei vari schiavi che risiedevano nella villa.
È proprio sulle coste della Campania, saldamente romanizzata, che sorgono le prime ville di questo genere, per iniziativa degli ellenizzanti Scipioni, i quali possedettero tutti ville d'otium intorno al Golfo di Napoli.
È importante distinguere tra ville "costiere", poste in prossimità della linea di costa, ma prive di costruzioni sul mare, e ville "marittime", legate ai porti, peschiere o ad altre strutture. Le ville marittime, in particolare, godettero di largo favore presso l'aristocrazia romana soprattutto fra il I sec. a.C. ed il I sec. d.C., quando il possedere una villa con peschiere divenne, oltre che una moda, anche un simbolo di ricchezza. Da un punto di vista architettonico si possono individuare due sistemi fondamentali: da un lato le cosiddette "ville a peristilio", che richiamano le planimetrie dei palazzi reali ellenistici e dall'altro le "ville a portico", che discendono dai modelli dell'edilizia domestica del mondo orientale.
Questo tipo di villa fu il più utilizzato, nel mondo romano, per l'edilizia costiera, poiché meglio si adattava a seguire il pendio collinare e ad offrire un vasto panorama. Somme enormi erano profuse nell'allestimento delle sontuose ville: a riprova di ciò si diffuse un costoso hobby, la piscicultura, tra i ricchi senatori, alimentando capricciose follie per l'allevamento di rarità ittiche; il termine "piscinarius" divenne sinonimo di vizioso scialacquatore. Ma la piscicultura poteva rivelarsi anche un investimento oculato: su di essa, ad esempio, costruì la propria fortuna Sergio Orata, con i suoi vivai di ostriche nel Lucrino.
Con il periodo delle guerre civili inizia il declino della nobilitas tradizionale e l'ascesa di uomini nuovi che ebbero la possibilità, grazie alle proscrizioni ed alle confische, di mettere le mani sul patrimonio dei ricchi senatori del partito avverso. Nel III secolo la generale crisi economica e politica dell'impero romano provocò l'abbandono di gran parte delle ville; seguì un periodo alquanto florido che favorì il rifiorire delle grandi residenze patrizie, ma fu di breve durata. Era ormai imminente il crollo dell'Impero romano e, con esso, la scomparsa delle grandi ville d'otium.

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