mercoledì 16 febbraio 2011

La diseroicizzazione dell’eroe medievale: dall’epica cavalleresca al romanzo borghese. Autori, pubblico e luoghi di produzione di Massimo Capuozzo

Questo approfondimento mira ad osservare l’evoluzione di un “genere letterario[1], il poema epico dalla crisi del mondo classico alla nascita della modernità, epoca in cui il poema si dissolse per far posto ad una nuova forma narrativa: il romanzo moderno.
La lettura critica dei testi segue il fondamentale rapporto fra autore, pubblico e luoghi di produzione culturale.
In epoca medievale, quando la civiltà della scrittura entrò in crisi a causa delle invasioni barbariche e della disgregazione dell’impero romano, fiorì nuovamente un tipo di epica, basata su procedimenti propri dell’oralità, che segnò l’inizio delle varie letterature nazionali.
Le “canzoni di gesta” nacquero nell’ambiente dell’aristocrazia feudale: scrit­te in “lingua d’oïl”, trattavano, in componimenti tra i 1000 e 2000 versi, di personaggi e di episo­di leggendari del tempo di Carlo Magno, rivissuti e ricostruiti secondo la mentalità del mondo feudale e della cavalleria, attribuendo al passato remoto i valori della società dei secoli XI e XII:
1. la fedeltà del vassallo al proprio signore
2. l’esaltazione dell’im­presa gloriosa, dell’eroismo e del sacrificio ed anche l’ideolo­gia cristiana della guerra santa contro gli infedeli.
Le storie raccontate nelle canzoni di gesta, raggruppate in cicli[2] si diffusero ampiamente, prima attraverso la trasmissione orale poi in testi scrit­ti, costituirono un patrimonio comune delle culture neolatine e germaniche.
Lo spinto delle Chanson de geste non riflette quello dei secoli VIII e IX, cioè il perio­do della formazione del Sacro Romano Impero in cui sono ambientate, ma rappre­senta gli ideali che si vennero consolidando nei secoli successivi, in seguito allo svolgimento delle Crociate, che contrapposero in una lunga lotta Oriente e Occidente. La mancanza di prospet­tiva storica è una caratteristica del Medioevo, come se gli uomini di quel tempo non si rendessero conto della diversità del passato e tendessero ad appiattire gli eventi, attribuendo caratteri­stiche a loro contemporanee: il riferimento al passato eroico dei paladini di Carlo Magno, visti come strenui difensori della cristianità dall'assalto degli infedeli, che rappresentavano nel­l'“immaginario collettivo” il pericolo per eccellenza, divenne importante per autoesaltare la casta guerriera del tempo, in un periodo in cui essa aveva raggiunto la massima espansione.
Il pubblico cui l'argomento delle Chanson de geste doveva essere rivolto era rappresentato principalmente da vassalli guerrieri che, nelle piazze e nelle corti dei nobili, ascoltavano le imprese gloriose di un passato ormai lontano, ma anco­ra interessante per i valori che esprimeva, raccontate da cantori o giullari, spes­so persone di fine cultura, autori essi stessi delle pagine epiche che cantavano.
La letteratura in volgare con l’epica cavalleresca, che trattava delle imprese dei cavalieri ed anche dei loro amori galanti, nacque, infatti, nella corte e sulla vita che lì si svolgeva. La “Chanson de Roland” prima e l’“Ivano” poi sono le opere più rilevanti di questo genere che esaltava le virtù cavalleresche: spregiudicatezza, quindi ricerca dell’avventura per mettersi alla prova, avventure fatta di scontri con altri cavalieri come di incontri con gentili dame.
Si osservi il momento conclusivo della “Canzone di Roland”[3] in cui è narrata la morte di Orlando[4].
CLXXIII
Orlando sente che la morte lo invade,
dalla testa sul cuore gli discende.
Sotto un pino se ne va correndo,
sull’erba verde s’è coricato prono,
sotto di sé mette la spada e il corno.
Ha rivolto il capo verso la pagana gente:
l’ha fatto perché in verità desidera
che Carlo dica a tutta la sua gente
che da vincitore è morto il nobile conte.
Confessa la sua colpa rapido e sovente,
per i suoi peccati tende il guanto a Dio.
CLXXIV
Orlando sente che il suo tempo è finito.
Sta sopra un poggio scosceso, verso Spagna;
con una mano s’è battuto il petto:
“Dio! Mea culpa, per la grazia tua,
dei miei peccati, dei piccoli e dei grandi,
che ho commesso dal giorno che son nato
fino a questo giorno in cui sono abbattuto!”.
Il guanto destro ha teso verso Dio.
Angeli dal cielo sino a lui discendono.
CLXXV
Il conte Orlando è disteso sotto un pino,
verso la Spagna ha rivolto il viso.
Di molte cose comincia a ricordarsi,
di tante terre che ha conquistato il prode,
della dolce Francia, della sua stirpe,
di Carlo Magno, suo re, che lo nutrì;
non può frenare lacrime e sospiri.
Ma non vuol dimenticar se stesso,
proclama la sua colpa, chiede pietà a Dio:
“Padre vero, che giammai smentisci,
tu che resuscitasti Lazzaro da morte
e Daniele salvasti dai leoni,
salva l’anima mia da tutti i pericoli
per i peccati che in vita mia commisi!”.
A Dio ha offerto il guanto destro:
san Gabriele con la sua mano l’ha preso.
Sopra il braccio teneva il capo chino;
con le mani giunte è andato alla sua fine.
Dio gli manda l’angelo Cherubino
e San Michele del pericolo del mare;
insieme a loro venne san Gabriele:
portano in paradiso l’anima del conte.
Questo è l’episodio forse più famoso del poema. Il paladino, ferito a morte nella stretta gola di Roncisvalle, avverte che la sua fine è giunta.
Il brano è molto intenso ed emblematico per la commistione tra sacro e guerresco, che si fondono senza alcun contrasto ideologico, secondo il pensiero tipico dell’epica medievale: l’eroe combatte per la patria e per il credo cristiano contro un popolo di infedeli: Orlando ricopre, infatti, il duplice ruolo di paladino fedele all'imperatore, prode in guerra, fautore della gloria di Carlo e della Francia, e di difensore degli ideali cristiani, incarnati nel Sacro Romano Impero.
Nel passo ci sono molti rinvii a questo duplice aspetto del personaggio. In primo luogo, la sua dedizione al sovrano emerge dalla puntigliosa rassegna di tutti i territori conquistati e fedel­mente consegnati all'imperatore; costui è al vertice di una gerarchia sociale, in cui i paladini cre­dono ciecamente; essi combattono, da vassalli, guerre di conquista, che spesso si configurano esse stesse come guerre sante, in nome del trionfo della cristianità contro gli infedeli. Il tema della guer­ra è però in stretta relazione con quello della religiosità: Orlando, campione del suo imperatore, si comporta anche come campione della fede. Nel passo le due dimensioni si mescolano e si contaminano. L’elemento che sembra unirle è la spada Durendala: essa è stata donata da Carlo al paladino come ricompensa per i suoi servigi, ma Dio tramite un angelo l'ha fatta avere a Carlo; inoltre essa, indistruttibile e invincibile, con le reliquie contenute nell'elsa testimonia la fede sincera del mondo feudale che gravita attorno alla figura dei cavalieri cristiani. Orlando stesso, poi, muore da perfetto cristiano, recitando le preghiere degli agonizzanti, chiedendo perdono a Dio e ottenendo un’immediata e visibile salvezza dell'anima.
Se questo era quello che offriva il mondo laico al genere epico, di contro il clero, pur essendo l’unica classe sociale a gestire la parola scritta, non partoriva più solo testi agiografici, che sono considerabili l’“epica” dei valori cristiani: l’agiografia era incentrata sulle vite dei santi, nelle quali erano poste tutte le virtù del perfetto cristiano e la “Canzone di Orlando”, nata in ambiente clericale, presenta le caratteristiche agiografiche arricchite di nuovi valori dettati nella cavalleria.
La produzione di nuovi testi e di nuovi valori ebbe il suo centro nella Francia provenzale, dove il fenomeno delle corti era più diffuso. La corte, residenza del signore, comin­ciò ad essere anche un centro culturale, do­ve si crearono le condizioni per la nascita di una cultura laica capace di differenziarsi e talvolta anche di contrapporsi a quella ec­clesiastica. Le corti dei grandi feudatari che conquistarono una vasta autonomia dall’autorità reale o imperiale nel XI seco­lo, necessitavano di funzionari e intellet­tuali alle dipendenze del signore, il quale chiedeva loro anche opere letterarie per esaltare e celebrare i valori feudali, gli ideali della cavalleria, i costumi e il gusto che nobilitavano il mondo del signore, dei “cavalieri” e delle “dame della corte.
Nacque così una nuova figura, quella del “letterato di corte che abbandona il latino della cultura ecclesiastica per il volgare e che trasferisce e trasfigura in prosa e in poesia i valori della “cortesia, cioè l’insieme dei comportamenti, delle regole, degli ideali che contraddistinguevano la cerchia privilegiata delle grandi corti, prima proven­zali poi anche di quelle tedesche e dell’Italia settentrionale.
I motivi dell’antica epica medievale furono successivamente ripresi nelle varie letterature eu­ropee. In Italia, regione europea particolarmente atipica, a partire dal XV secolo, si operò una fusione tra il “ciclo carolingio” e il “ciclo breto­ne”: Orlando e Rinaldo, eroi carolingi, diventano protagonisti di vicende avventurose ed amorose, che attestano l’avanzata dell’”umanità” rispetto al primato della “divinità”.
Dal connubio dei due “cicli” nacque il “poema cavalleresco” italiano, una creazione originale, sebbene rielabori la materia delle canzoni di gesta e del romanzo cavalleresco, diffusa anche in opere anonime e trasmesse per lo più oralmente nei “cantàri”, in cui lo sfondo storico medievale è molto sfumato e prevalgono gli elementi fantastici. Questo patrimonio di storie che si arricchì progressivamente di vicende amorose, intrighi, tradimenti, avventure, divenne la “materia” del poema cavalleresco, che, però, fin dagli esordi, si presentava come testo scritto destinato alla lettura di un pubblico borghese o più spesso cortigiano e con caratteri letterari definiti.
L’opera di maggior rilievo e che dà inizio alla grande tradi­zione del poema cavalleresco è l’ “Orlando innamorato[5] di Boiardo. Mentre nella borghese Firenze Luigi Pulci aveva assunto la materia cavalleresca con intenti spregiudicatamente parodici, dando vita con “Il Morgante al “poema eroicomico[6] e con Agnolo Poliziano anche poemi epici e allegorici ispirati ai modelli classici o medievali, come nel caso della “Stanze per la giostra”, gravido di citazioni neoplatoniche, nell’aristo­cratica Ferrara della signoria estense il conte Matteo Maria Boiardo si fece interprete e specchio idealizzante dei gusti di una corte in cui la famiglia ducale, che nella propria biblioteca aveva raccolto un vasto patrimonio di romanzi d’argomento bretone e carolingio, si compiaceva non a caso di perpetuare nomi di anagrafe cavalleresca.
Per i «Signori e cavalier» della corte padana, Boiardo scrisse un poema che, fin dal titolo, si offrì come il desiderato luogo d’incontro, all’insegna dell’amore, dell’elemento epico-eroico del ciclo carolin­gio e di quello cortese ed avventuroso del ciclo bretone: come sintesi degli ideali di «amore», «forza» e «cortesia», che erano per l’appunto patrimonio nostalgico e insieme aspirazione di una ben precisa élite aristocratica.
L’autore, vissuto a lungo alla corte di Ferrara, intese offrire al “pubblico di corte” le belle storie, tramandate dal­la tradizione popolare in una rielaborazione letteraria raffi­nata, nella quale si affacciano l’atteggiamento di ironia con cui si guarda ormai a quelle antiche imprese, il gusto per il me­raviglioso.
Subito, sin dall’e­sordio della «bella istoria», è dichiarata — per il tramite dell’ostentata centralità dell’amore — la riproposta della civiltà cortese come prati­cabile codice ideologico e letterario. La sovrapposizione di passato e presente trova il suo luogo di saldatura di tipo encomiastico nella figura del paladino Rugiero, presunto fondatore della stirpe degli Este.
Nel poema si intrecciano, tra maghi, incantatrici, giganti e draghi, sfarzosi scenari fiabeschi e scene di coraggio guerriero: elementi meravigliosi e prove di forza fisica, di onore e lealtà. In un accumulo di episodi e di particolari che ci riportano ad una letteratura di gusto tardogotico.
Si legga il passo introduttivo dell’ “Orlando innamorato”.
1.
Signori e cavalier che ve adunati
per odir cose dilettose e nove,
stati attenti e quieti, ed ascoltati.
la bella istoria che ‘l mio canto muove;
e vedereti i gesti smisurati,
l’alta fatica e le mirabil prove
che fece il franco Orlando per amore
nel tempo del re Carlo imperatore.
2.
Non vi par già, signor, meraviglioso
odir cantar de Orlando inamorato,
ché qualunche nel mondo è più orgoglioso,
è da Amor vinto, al tutto subiugato;
né forte braccio, né ardire animoso,
né scudo o maglia, né brando affilato,
né altra possanza può mai far diffesa,
che al fin non sia da Amor battuta e presa.
3.
Questa novella è nota a poca gente,
perché Turpino istesso la nascose,
credendo forse a quel conte valente
esser le sue scritture dispettose,
poi che contra ad Amor pur fu perdente
colui che vinse tutte l’altre cose:
dico di Orlando, il cavalliero adatto.
Non più parole ormai, veniamo al fatto.
4.
La vera istoria di Turpin ragiona
Che regnava in la terra de orïente,
Di là da l’India, un gran re di corona,
Di stato e de ricchezze sì potente
E sì gagliardo de la sua persona,
Che tutto il mondo stimava nïente:
Gradasso nome avea quello amirante,
Che ha cor di drago e membra di gigante.
5.
E sì come egli avviene a’ gran signori,
Che pur quel voglion che non ponno avere,
E quanto son difficultà maggiori
La desïata cosa ad ottenere,
Pongono il regno spesso in grandi errori,
Né posson quel che voglion possedere;
Così bramava quel pagan gagliardo
Sol Durindana e ‘l bon destrier Baiardo.
Il proemio chiarisce il tipo di pubblico cui si rivolge, un pubblico colto e raffinato, chiamato ad ascoltare una storia che lo divertirà. Boiardo mette subito in risalto la novità dell’opera: egli racconterà imprese di valore guerriero, le cui origini non sono motivate dalla fede, ma dalla passione d’amore, che coinvolge tutti gli uomini, anche i più potenti e valorosi.
Per rendere in qualche modo verosimile la storia, Boiardo immagina che Turpino, arcivescovo di Reims, ipotetico autore di una storia delle imprese di Carlo Magno, non abbia voluto rendere note queste avventure, per non dare un dispiacere ad Orlando ed ai suoi ammiratori nel raccontare che anche questo nobile guerriero sia stato vinto dall’Amore.
La novità di Boiardo è quella “consapevolezza” di aver composto un’opera, creando un miscuglio di elementi appartenenti a cicli “bretone” e “carolingio” e per questo parla di cose “nove”.
Boiardo apre la strada successivamente percorsa da Ariosto trionfalmente: con la “contaminazione” dei due cicli medioevali Boiardo attribuisce ai paladini di Carlo Magno, che nelle antiche chanson erano impegnati senza distrazioni e umane debolezze nella difesa della patria e della fede, le passioni “umane” e soprattutto la passione amorosa, caratterizzanti gli eroi del ciclo bretone. Rispetto a quanto accadeva nel passato, Boiardo ha voluto dare grande importanza all’amore, facendolo assurgere a tema portante dell’opera, infatti, il fatto che Orlando si innamori è così innovativo e notevole, che l’autore cita proprio questo inaspettato cambiamento agli spettatori, con i quali vi è un rapporto molto diretto come si nota in alcuni dei versi iniziali.
Il grande successo ottenuto dall’“Orlando innamorato fin dalla sua comparsa, alla fine del Quattrocento, produsse una vera esplosione del gene­re: decine e decine furono i poemi cavallereschi composti nei primi decenni del Cin­quecento, indice del successo di pubblico del genere letterario.
Se, in virtù di tale «contaminazione», nel poema di Boiardo Orlando era diventato “innamorato, in quello di Ariosto diventerà addirittura “furioso, cioè paz­zo per amore. Il processo di smitizzazione dell’eroe medievale raggiunge qui la sua compiutezza: la tematica è ancora quella amorosa, ma Ariosto la integra alla tematica della follia e l’amore è considerato come una forza distruttiva, capace di rendere folli come nel caso di Orlando, folle per amore: Ariosto stesso si presenta come un uomo innamorato che perde l’ingegno a causa dell’amore per la sua donna.
La comparsa dell’“Orlando furioso di Ludovico Ariosto dimostrò tutte le potenzialità artistiche di questo tipo di narrazione in versi, provocando immediatamente una lunga serie di imitazioni.
Si legga il passo introduttivo dell’“Orlando furioso”.
1
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
2
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai, né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sì saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ‘l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sarà però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
3
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
4
Voi sentirete fra i più degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensieri cedino un poco,
sì che tra lor miei versi abbiano loco.
5
Orlando, che gran tempo innamorato
fu de la bella Angelica, e per lei
in India, in Media, in Tartaria lasciato
avea infiniti ed immortal trofei,
in Ponente con essa era tornato,
dove sotto i gran monti Pirenei
con la gente di Francia e de Lamagna
re Carlo era attendato alla campagna,
Il primo elemento che balza evidente nel proemio ariostesco, rispetto al modello boiardesco, è l’abbassamento di tono della materia cavalleresca: esso, sebbene si muova secondo i canoni tradizionali, articolandosi nella protasi, nell’invocazione e nella replica, presenta sensibili variazioni.
Pur riprendendo il virgiliano “Arma virumque cano…”, Ariosto pone al primo posto le donne: egli esprime in tal modo l’intenzione che anima il poema, che non sarà un poema cavalleresco, secondo i canoni della tradizione, quanto piuttosto, pur volendo continuare l’opera di Boiardo, che aveva già fuso i due cicli “carolingio” e “bretone”, vuole fare qualcosa di nuovo.
La collocazione storica è inventata, in quanto continuazione di quella dell’“Orlando innamorato”. Agramante e Troiano esistono nella “fantasia” ariostesca, non nella tradizione. I “giovenil furori” di Agramente, contrapposti al re Carlo, rappresentano il giovane che ardisce di mettersi contro l’imperatore. Il tono epico è rinvenibile nella struttura dell’ottava, composta da un solo periodo, ma, mentre nei proemi tradizionali era di solito invocata una divinità, la musa di Ariosto è una donna, la sua donna Alessandra Benucci Strozzi.
Tutto ciò comporta una diversa dimensione assunta dalla vita terrena nell’immaginario individuale e collettivo, la diversa posizione della donna nella poesia ariostesca ed infine una diversa posizione della donna nelle scelte letterarie di Ariosto.
Il carico di ironia della dedica balza evidente quando Ariosto si definisce “servo”, condizione mentale completamente assente nel pensiero ariostesco, e nella “recusatio”, quando proclama “so fare poco, vi do quello che so”, in cui si sminuisce. Come Boiardo, Ariosto dice che da questi amori avrà origine la stirpe estense, spiegando così la causale dell’argomento, la discendenza già teorizzata da Boiardo. L’antifrasi “vostri alti pensieri” presenta ancora la smaccata ironia di Ariosto, che sottolinea come la poesia sia considerata un’attività secondaria rispetto a quella politica ed il fine del suo poema è “solo” quello di intrattenere il pubblico.
L’“Orlando furioso”, nato nella Corte estense e dedicato al cardinale Ippolito d’Este, si rivolge all’ambiente della Corte e viene incontro al suo desi­derio di svago e al suo gusto raffinato e maturo. Questa «udienza» signorile è sempre presente sia al poeta che al lettore, per il quale es­sa acquista concreta evidenza nelle frequenti apostrofi che Ariosto rivolge ai suoi ascoltatori, nelle informazioni che da loro, alla fine di alcuni canti, sul futuro svolgi­mento dell’azione, o nelle considerazioni che accompagnano il racconto di vicende e il comportamento di personaggi, e che si sentono nate da un’intesa esistenziale e culturale comune al poeta e a chi lo ascolta.
La materia cavalleresca del poema era dunque già di casa alla Corte estense. Ma mentre Boiar­do aveva recuperato vicende e personaggi con commossa ammirazione e con seria ade­sione agli ideali che il mondo cavalleresco aveva rappresentato, Ariosto vede in esso una realtà ormai troppo remota da quella dei suoi tempi, la stessa realtà feroce da cui nasceva il pensiero di Machiavelli. Rievoca perciò questo mondo come una favola bel­la e improbabile; e di essa si avvale per esprimere la sua concezione della vita, che poi è la concezione del Rinascimento.
Se la materia romanza alimenta prevalentemente la molteplice varietà delle vicende dell’“Orlando Furioso”, nel poema concorrono altre «fonti», cioè episodi e situazioni tratte dagli autori classici. Ma tutti gli apporti esterni acquistano originalità per il modo con cui sono rielaborati dall’autore, e per lo spirito nuovo che in essi è infuso.
Per Ariosto il mondo cavalleresco, nel quale egli non crede più, è un veicolo per esprimere la sua visione della realtà e per rappresentare le perenni e molteplici passioni, i «vari ap­petiti» degli uomini: attraverso i personaggi ed i loro comportamenti, la natura umana è ritratta nella sua molteplice varietà. Il bene coesiste accanto al male, la generosità accanto alla grettezza, l’eroismo accanto alla viltà ed Ariosto attribuisce al bene e al male, al bello e al brutto, uguale spazio e interesse, nella matura coscienza che la vita, o, come dice il suo contemporaneo Machiavelli, «la verità effettuale» è fatta di questi contrasti e la funzione del poeta non è tanto di giudicarla, ma di capirla e di ritrarla.
Nella seconda metà del XVI secolo cominciano a rivelarsi alcune incrinature in quella fiducia assolu­ta nell’uomo, nelle sue capacità e nei valori terreni, che era stata la connotazione fondamentale del trionfante Rinascimento e che aveva trovato l’espressione più matura nel pensiero di Machiavelli e nella poesia di Ariosto.
È un mutato stato d’animo cui ha concorso non poco la situazione politica italiana, dove le speranze machiavelliane di dar vita ad un forte stato autonomo sono del tutto fallite e dove è ormai in atto il lento declino sotto le dominazioni straniere.
In questo periodo si va sottilmente insinuando nelle coscienze il dubbio inquietante che non tutto sia possibile all’uomo, neppure all’uomo eccezionalmente dotato, e che egli debba fare i conti con forze ostili che incombono su di lui, assai più oscure e misterio­se della machiavelliana «fortuna», e perciò ben più difficili da affrontare.
Questo stato psicologico apre naturalmente la via alla dimensione religiosa e perciò costituisce il terreno propizio all’affermarsi della Controriforma e alla rin­novata religiosità che essa si propone di instaurare: una religiosità peraltro spesso im­posta dall’esterno con strumenti di pressione come il “Tribunale dell’Inquisizione” e l’“Indice dei libri proibiti”, generato­ri negli spiriti più sensibili o più deboli, di sconcerto e di turbamento. La produzione intellettuale risente certamente di questo nuovo clima, oscillan­do tra desiderio di integrazione nel sistema e contestazione.
Di questo periodo, in cui il Rinascimento ormai al tramonto e i suoi valori terreni non del tutto spenti si scontrano spesso dolorosamente con una rivalutazione dei valori religiosi e quindi con un’antitetica concezione della vita, Torquato Tasso è la voce poeti­ca più alta e drammatica: la sua tormentata psicologia riflette, infatti, il lento spegnersi del Rinascimento, con il venir meno delle basi culturali e politiche che lo avevano giustificato e alimentato.
In contrapposizione alla stabilità di un poeta come Ariosto, legato per quasi tutta la sua vita alla città dove risiede la sua corte, Tasso si distingue invece per una perenne agitazione, che lo porta a spostamenti continui, fughe improvvise, ritorni frustranti. Con la conclusione di un cinquantennio quasi ininterrotto di guerre, alla libertà e allo slancio creativo delle corti è subentrato il clima cupo e culturalmente stagnante della dominazione spagnola: la figura di Tasso è emblematica del nuovo difficile rapporto che si viene instaurando tra letterato e corte, che ha perduto le caratteristiche le sue caratteristiche peculiari di originalità e di produttività dell'età rinascimentale, configurandosi ora in modo più accentuato come luogo di intrigo, di dissimulazione e di adulazione. Tasso vorrebbe viverla alla maniera rinascimentale, come centro di poesia e di arte per eccellenza, ma ne resta deluso, al punto da definirla iniqua nel suo poema e da contrapporvi un ritorno alla purezza incontaminata della natura.
Quasi a segnarne emblematicamente il mutato clima culturale, anche il genere letterario subì una nuova trasformazione, con la nascita del “poema eroico”, la cui finalità non era più il diletto, come nel “poema cavalleresco”, ma l’esaltazione di un ideale di interesse generale, che può essere il sentimento patriottico o religioso, come nella “Gerusalemme liberata di Torquato Tasso, la cui posizione, anche sul piano dell'arte non può essere pacifica. Essa si mosse tra spinte contrastanti: l'arte intesa come ricerca del bello da un lato, come esigenza moralizzatrice imposta dalla Controriforma dall'altro, per questo l'arte, la poesia, dovevano soprattutto insegnare, guidare la vita ed i comportamenti dell'uomo.
Lo sforzo di Tasso fu quello di giungere ad un compromesso tra queste due spinte contrastanti, una ricerca spasmodica che lo impegnò nei suoi anni più fecondi, fino alla morte.
Stimolato dalle riflessioni sui generi letterari particolarmente vive al suo tempo, Tasso era convinto della necessità di superare la formula ariostesca del “poema cavalleresco”, il cui tema centrale era la ricerca amorosa: oggetto di poesia doveva essere il “verosimile”, cioè quanto sarebbe potuto avvenire.
Il poema epico, per otte­nere l'effetto del verosimile, doveva attingere i suoi contenuti dalla storia, pur riser­vandosi uno spazio di immaginazione fantastica. Quindi l'argomento scelto non poteva riferirsi ad un periodo storico troppo vicino ai tempi in cui viveva il poeta, in quanto il margine per l'invenzione non potrebbe sussistere, ma non poteva essere neppure troppo lontano nel tempo, perché non avrebbe riscosso l'interesse del lettore.
Il fine del poema voluto da Tasso era morale e pedagogico, in quanto le idee diffuse dalla Controriforma consideravano prioritaria l'elevazione spirituale dell'arte. Ma la poesia non può limitarsi a insegnare, a dare solo precetti morali con il grosso rischio di perdere i suoi lettori. Allora, per rendere efficace l'intervento educativo, era necessaria una poesia che interessasse, che recasse diletto, ricorrendo, tuttavia non al “meraviglioso” dei poemi epici tradizionali, come poteva essere un viaggio sull'Ippogrifo o un duello combattuto con arti magiche, ma al meraviglioso cristiano, fatto di interventi di angeli, di demoni, di riferimenti alle verità della fede.
Queste in sintesi furono le novità pro­poste da Tasso per rendere il poema epico adatto ai tempi e al clima culturale in cui egli viveva, anzi, per trasformare il poema epico, che aveva fatto il suo tempo e sembrava non essere più adatto alla cultura del tardo Cinquecento, in poema eroico.
Proprio con Tasso, tuttavia, si assiste ad una sorta di retromarcia rispetto al processo di smitizzazione che si era avviato con Boiardo e che si era concluso con Ariosto. Il poema di Tasso è epico tradizionale: anch’esso scritto in ottave, celebra la chiesa, l’eroismo guerresco e le idealità religiose. L’autore narra una vicenda che ha un fondo di veridicità storica, sebbene arricchita di motivi fantastici, che, pur continuando a voler divertire ed interessare il lettore, ma il suo scopo è l’insegnamento morale del lettore che è ad un tempo educato e dilettato. Abbandonando i modelli medievali, Tasso, per conferire maggiore solennità al suo poema, utilizza come modello l’epica classica nello specifico, Omero con l’Iliade e l’Odissea e Virgilio con l’Eneide e di quest’ultima l’“arma virumque cano” iniziale, sembra tradurre di peso il primo verso di abbrivio del poema.
L’abbrivio dell’opera si svolge in cielo: nel sesto anno della I crociata, Dio invia a Goffredo di Buglione l’arcangelo Gabriele a causa della distrazione dei soldati: Goffredo è eletto capo dei soldati e le sue esortazioni a loro sono rafforzate e sostenute dalle parole di Pietro l’Eremita e si conclude con la visione di Gerusalemme e delle truppe pagane, messe in campo da Aladino.
Si legga ora il brano iniziale della “Gerusalemme liberata
1
Canto l’arme pietose[7] e ‘l capitano
che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.
Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,
molto soffrí nel glorioso acquisto;
e in van l’Inferno vi s’oppose, e in vano
s’armò d’Asia e di Libia il popol misto.
Il Ciel gli diè favore, e sotto a i santi
segni[8] ridusse i suoi compagni erranti.
2
O Musa[9], tu che di caduchi allori
non circondi la fronte in Elicona[10],
ma su nel cielo infra i beati cori
hai di stelle immortali aurea corona,
tu spira al petto mio celesti ardori,
tu rischiara il mio canto, e tu perdona
s’intesso fregi al ver, s’adorno in parte
d’altri diletti, che de’ tuoi, le carte.
3
Sai che là corre il mondo ove piú versi
di sue dolcezze il lusinghier Parnaso[11],
e che ‘l vero, condito in molli versi,
i piú schivi allettando ha persuaso.
Cosí a l’egro fanciul porgiamo aspersi
di soavi licor gli orli del vaso:
succhi amari ingannato intanto ei beve,
e da l’inganno suo vita riceve[12].
4
Tu, magnanimo Alfonso[13], il quale ritogli
al furor di fortuna e guidi in porto
me peregrino errante, e fra gli scogli
e fra l’onde agitato e quasi absorto,
queste mie carte in lieta fronte accogli,
che quasi in voto a te sacrate i’ porto.
Forse un dì fia che la presaga penna
osi scriver di te quel ch’or n’accenna.
5
È ben ragion, s’egli averrà ch’in pace
il buon popol di Cristo unqua si veda,
e con navi e cavalli al fero Trace
cerchi ritòr la grande ingiusta preda[14],
ch’a te lo scettro in terra o, se ti piace,
l’alto imperio de’ mari a te conceda.
Emulo di Goffredo, i nostri carmi
intanto ascolta, e t’apparecchia a l’armi.
Nel proemio si affronta il tema epico-cavalleresco, cui si salda il tema religioso e cui si deve aggiungere, con tono lirico, il tema amoroso.
Il proemio è nettamente diviso in tre parti.
La protasi mette in evidenza la serietà della materia trattata. Il poeta canta imprese “pietose” in quanto volte alla liberazione del Sacro Sepolcro. I versi 1-2 esprimono la priorità dell’eroismo sull’amore, a differenza di ciò che accade nell’”Orlando Furioso”: in entrambe le opere l’amore è visto come una forza disgregatrice e centrifuga, poiché impedisce le gesta eroiche, ma, mentre in Ariosto e Boiardo gli eroi hanno un fine individualistico e mondano, in Tasso vi è un fine collettivo, attestato dalle “arme pietose”. L’io narrante è spostato all’inizio del proemio (“Canto”). Il narratore è onnisciente ed è al di sopra delle azioni, come un “deus ex machina”. Tasso si rifà all’Eneide, l’espressione “popol nostro” è disgiuntiva e si contrappone all’omogeneità cristiana.
Ma la citazione dell’epica greca e latina continua: Goffredo di Buglione (“Capitano”) accoglie in sé tre caratteristiche: la pietà di Enea (“arme pietose”), l’intelligenza di Ulisse (“senno”), la forza di Achille (“mano”), pertanto Goffredo risulta una perfetta fusione tra eroe classico e eroe cristiano.
L’invocazione è ricca di informazioni sulla poetica di Tasso: la Musa che egli invoca è cristianizzata tramite un meccanismo sincretistico, ossia è un sistema costituito dalla fusione di principi e filosofie molto diverse, tipico della letteratura e della cultura medievali.
Tasso fonde al “vero” il “diletto”: quest’ultimo, subordinato al “vero”, ha una funzione psicagogica: il poema di Tasso narra la conquista di Gerusalemme e la liberazione del Santo Sepolcro nel 1099, durante la prima crociata, da parte dell’esercito guidato da Goffredo di Buglione. Il racconto quindi, anziché su una storia leggendaria, si basa su fatti storici realmente accaduti, ma lontani nel tempo in modo tale che l’autore possa inserire fantasia e finzione. L’episodio trattato dal Tasso è attuale. Infatti, in questo periodo si ha l’avanzata dei turchi nel Mediterraneo e la loro sconfitta a Lepanto nel 1571 come ugualmente furono sconfitti durante la I crociata per liberare il Santo Sepolcro.
L’atteggiamento precettistico di Tasso, tipico della seconda metà del XVI secolo, si riverbera anche nel rapporto con le unità aristoteliche, soprattutto nel rispetto dell’unità di azione: ogni intreccio si basa sull’assedio di Gerusalemme e sulla conquista del Santo Sepolcro e gravita intorno ad un eroe centrale, Goffredo di Buglione, che riesce a contenere tutte quelle azioni disgregatrici che allontanano gli altri eroi dal campo cristiano. Emblematica è l’immagine di Goffredo che riconduce sempre i guerrieri nel campo cristiano ed ai loro doveri morali a specchio del rispetto di Tasso per l’aristotelica “unità d’azione”. Questo non implica nel poema l’assenza di azioni secondarie, dovute alle avventure dei diversi personaggi, però ogni avventura secondaria è sempre dominata dall’azione principale. Quest’antitesi fra «amore» e «onore», cioè fra le umane passioni ed il dovere ed i condizionamenti etici, è il tema fondamentale e struggente nella Liberata, opera in cui è ben presente la dimensione religioso-controriformistica.
In tutto il poema il «dovere» si configura concretamente nella lotta contro gli infedeli e si contrappone alle terrene passioni dei crociati, siano esse la brama di personali conquiste e domini, o, assai più frequentemente, la passione amorosa. Ne nascono situazioni di alta drammaticità psicologica che si risolve in complessità e intensità poetica.
La dedica ad Alfonso II d’Este fa anch’esso parte della tradizione. Ai versi 3-4 vi è una nota autobiografica, con la quale l’autore si paragona ai “cavalieri erranti”, per i quali Alfonso rappresenta una forza centripeta al pari dell’eroe protagonista per le forze cristiane.
Nella dedica del poema si nota l’archetipo letterario dell’“exul immeritus”, il perseguitato dalla sorte: Tasso, infatti, condannato dalla mediocrità degli uomini, si riscatta con la stesura del poema epico.
Il proemio presenta una serie di copie antitetiche tra forza e debolezza (= capitano – compagni erranti ; medico – egro fanciul ; Alfonso – poeta).
Mentre Tasso portava a compimento la “Gerusalemme liberata”, un’opera estremamente complessa nella sua gestazione (basti pensare al “Gierusalemme” iniziale ed alla “Gerusalemme conquistata” finale, i teorici della letteratura indicavano il poema come uno dei generi «nobili», sul quale esercitarono tutto il loro scrupolo per fissarne le norme sulla base dei grandi modelli dell’antichità.
Con il ‘500 si esaurì la produzione epica, probabilmente per il venir meno di una visione eroi­ca dell’esistenza. Di lì a qualche tempo il romanzo in prosa prese il posto del poema epico e ne assunse la duplice funzione di intrattenimento e di espressione della visione del mondo di una determinata epoca.
Esemplare l’opera di Cervantes “Don Chisciotte della Mancia[15], di cui uno dei passi più noti ed emblematici è quello celeberrimo dei mulini a vento.
«Ed ecco intanto scoprirsi da trenta o quaranta mulini da vento, che si trovavano in quella campagna; e tosto che don Chisciotte li vide, disse al suo scudiere: «La fortuna va guidando le cose nostre meglio che noi non oseremmo desiderare. Vedi là, amico Sancio, come si vengono manifestando trenta, o poco più smisurati giganti? Io penso di azzuffarmi con essi, e levandoli di vita cominciare ad arricchirmi colle loro spoglie; perciocché questa è guerra onorata, ed è un servire Iddio il togliere dalla faccia della terra sì trista semente. — Dove, sono i giganti? disse Sancio Pancia. — Quelli che vedi laggiù, rispose il padrone, con quelle braccia sì lunghe, che taluno d’essi le ha come di due leghe. — Guardi bene la signoria vostra, soggiunse Sancio, che quelli che colà si discoprono non sono altrimenti giganti, ma mulini da vento, e quelle che le paiono braccia sono le pale delle ruote, che percosse dal vento, fanno girare la macina del mulino. — Ben si conosce, disse don Chisciotte, che non sei pratico di avventure; quelli sono giganti, e se ne temi, fatti in disparte e mettiti in orazione mentre io vado ad entrar con essi in fiera e disugual tenzone.» Detto questo, diede de’ sproni a Ronzinante, senza badare al suo scudiere, il quale continuava ad avvertirlo che erano mulini da vento e non giganti, quelli che andava ad assaltare. Ma tanto s’era egli fitto in capo che fossero giganti, che non udiva più le parole di Sancio, né per avvicinarsi arrivava a discernere che cosa fossero realmente; anzi gridava a gran voce: «Non fuggite, codarde e vili creature, che un solo è il cavaliere che viene con voi a battaglia.» In questo levossi un po’ di vento per cui le grandi pale delle ruote cominciarono a moversi; don Chisciotte soggiunse: «Potreste agitar più braccia del gigante Briareo, che me l’avete pur da pagare.» Ciò detto, e raccomandandosi di tutto cuore alla Dulcinea sua signora affinché lo assistesse in quello scontro, ben coperto colla rotella, e posta la lancia in resta, galoppando quanto poteva, investì il primo mulino in cui si incontrò e diede della lancia in una pala.
Il vento in quel mentre la rivoltò con sì gran furia che ridusse in pezzi la lancia, e si tirò dietro impigliati cavallo e cavaliere, il quale andò a rotolare buon tratto per la campagna.
S’affrettò Sancio Pancia a soccorrerlo quanto camminava il suo asino, e quando il raggiunse lo trovò che non si poteva movere; così fieramente era stramazzato con Ronzinante. «Dio buono! proruppe Sancio, non diss’io alla signoria vostra che ponesse mente a ciò che faceva, e che quelli erano mulini da vento? Li avrebbe riconosciuti ognuno che non ne avesse degli altri per la testa. — T’acqueta, amico Sancio, rispose don Chisciotte; le cose della guerra sono più delle altre soggette a continuo cambiamento; massimamente perché stimo, e così senza dubbio dev’essere, che il savio Frestone, il quale mi svaligiò la stanza e portò via i libri, abbia cangiati questi giganti in mulini per togliermi la gloria di restar vincitore; sì dichiarata è l’inimicizia ch’egli mi porta! ma alla fine dei conti non potranno prevalere le male sue arti contro la bontà della mia spada. — Faccia il signore quello che sia per il meglio», rispose Sancio Pancia, e l’aiutò ad alzarsi ed a montare sopra a Ronzinante che stava mezzo spallato.»
Il romanzo, al di là del suo pregio artistico, possiede una chiave di lettura di carattere storico-sociale: il declino della Spagna di fine Cinquecento – che con sé travolse il suo enorme impero – un declino che, con Filippo II, vide la fine dei sogni di grandezza, simbolicamente rappresentata dalla sconfitta dell’Invincibile Armata da parte della flotta inglese nel 1588. La crisi economica, sociale e politica della Spagna corrispose ad una crisi di valori nell’Europa del tempo, travagliata da lotte di potenza imperialistica e da uno sviluppo sempre maggiore del capitalismo.
Il cavaliere dalla “triste figura” si scontra con un mondo che non ha più i suoi punti di riferimento e che non condivide più i suoi ideali di hidalgo e di cavaliere, mostra come al cavaliere errante si sostituisca il picaro.
Cervantes trova nella visione ironica l’atteggiamento equilibrato e positivo, in risposta alla sensazione di declino e di delusione suscitata dal contesto storico, accettando l’interpretazione di tutti i “segni” della vita e applicando la tolleranza.
L’ironia dell’opera di Cervantes, è rintracciabile anche nell’“Orlando Furioso”, sebbene l’unica cosa che accomuni le due opere è la materia cavalleresca: il capolavoro di Cervantes è l’espressione di una società già completamente lacerata nelle sue strutture e senza speranze nel futuro, già presagita nell’“Orlando Furioso”, che esprime una società giunta all’estremo del suo equilibrio, ma che difende i suoi valori e li esprime in un consapevole gioco ironico. Senza bisogno della follia di Orlando, la società di Don Chisciotte ha bisogno della sua follia: l’ultimo cavaliere errante, testimone di una grandezza passata, ha ancora il compito di richiamare ai propri principi una società in disfacimento, caduta perché aveva scambiato la nobiltà con la vanagloria.
Nel Seicento il poema cavalleresco tradizionale perse d’importanza, mentre il poema epico, sull’onda di Tasso, diventò sempre più frequentemente un poema epico-religio­so: su modello tassiano si scrissero, infatti, anche poemi che traevano ispirazione dalla scoperta dell’America e dalle epopee dei navigatori.
L’opera-guida del Seicento rimane tuttavia l’Adone[16] di Giambattista Marino[17] che non può essere accostato a nessuno dei poemi precedenti perché infrange ogni regola ed ogni tradizione, all’insegna del gusto barocco, di cui Marino fu il maggior promotore ed assertore.
La poetica della «meraviglia», secondo la definizione che Marino stesso fornì nella “Murtoleide[18], guida lo sperimentalismo dell’autore, che rifiuta l’aristotelismo a favore di una poesia capace di catalogare e di esprimere, i molteplici aspetti del reale.
Con assoluta disinvoltura, Marino passa dal sublime al comico, dallo stile encomiastico a quello satirico, dalla devozione all’invettiva, il suo «plurilinguismo» mira ad una sua amplificazione quantitativa, direttamente finalizzata alle possibilità di un successo capace di scuotere la cosiddetta «svogliatura» del secolo, l’interesse di un pubblico ormai prevalentemente rivolto alla ricerca di sensazioni inedite: in nome della poetica della “maraviglia”, intesa come “fine” del poeta, marino scopre nuove regioni dell’inusitato e dello strano e, come un matematico che tira le conseguenze di una serie di equazioni, egli mira a stupire il raziocinio del lettori.
Su questi valori si basa anche il rifiuto delle regole, come scrive in una lettera del 1624: «Intanto i miei libri, che sono fatti contro le regole, si vendono dieci scudi il pezzo a chi ne può avere; e quelli che son regolati, se ne stanno a scopar la polvere delle librarie».
Nella biografia dell’autore le sue turbolenze e le sue intemperanze sottolineano la difficile conquista di un’indipendenza economica e di un ruolo sociale, che sono il frutto del proprio mestiere di scrittore, oltre che della protezione, spesso incerta e malfida, dei potenti: egli fu un professionista, un letterato che viveva della sua penna per cui doveva essere attento al proprio pubblico, che doveva stupire con gli argomenti e con le proprie capacità tecniche.
Su questo difficile e spericolato equilibrio si basa la sua opera letteraria, che svaria dai toni di un sensualismo voluttuoso agli argomenti imposti dalla pietà devozionale. Non tanto importa la qualità del contenuto, quanto la possibilità di ricavare dal linguaggio sorprendenti effetti di stupore e sorpresa.
Uno stesso gusto dell’analogia sorregge l’atteggiamento di Marino nei confronti della poesia del passato: egli non rifiuta il principio dell’imitazione, ma lo trasforma, rendendo l’imitazione emulazione, una specie di gara tesa a superare l’autore da cui Marino trae lo spunto. Da questo nasce la possibile supremazia dei moderni nei confronti degli antichi, che supera l’atteggiamento di riverente ossequio dimostrato dalla civiltà rinascimentale verso la tradizione classica per inserirsi in una «querelle» destinata ad avere ampia risonanza nell’Europa del secolo XVII.
A questi intenti obbedisce soprattutto l’opera più impegnativa, l’Adone che aveva arricchito via via di episodi e digressioni. Ne risultò alla fine una «fabrica risarcita» e prodigiosamente estesa, con cui Marino si propose di gareggiare con Tasso, rinnovandone e allargan­done il successo. L’operazione gli riuscì perfettamente, e i riconosci­menti non furono soltanto nazionali. Per ottenere lo scopo, Marino rinunciò definitivamente a ogni progetto di poema epico: alla guerra sostituì decisamente l’amore, sciogliendo in ciò le riserve di Tasso e spostando le caratteristiche dell’opera verso un netto preva­lere dell’elemento romanzesco. Rispetto a Tasso Marino non attribuì alcuna importanza al principio dell’unità d’azione: l’azione è pressoché inesistente, rima­nendo limitata all’amore di Venere per Adone e alla morte del gio­vane, ucciso da un cinghiale aizzatogli contro dal geloso Marte. Su questo spunto mitologico si innesta una serie di altri racconti e digressioni, che costituiscono una narrazione di altre vicende mitologiche, oppure si soffermano su una descrizione di realtà raffinate e sensuose.
Si osservino le prime ottave del poema
1
Io chiamo te, per cui si volge e move
la più benigna e mansueta sfera,
santa madre d’Amor, figlia di Giove,
bella dea d’Amatunta[19] e di Citera[20];
te, la cui stella, ond’ogni grazia piove,
dela notte e del giorno è messaggiera;
te, lo cui raggio lucido e fecondo
serena il cielo ed innamora il mondo,
2
tu dar puoi sola altrui godere in terra
di pacifico stato ozio sereno.
Per te Giano[21] placato il tempio serra,
addolcito il Furor tien l’ire a freno;
poiché lo dio del’armi e dela guerra
spesso suol prigionier languirti in seno
e con armi di gioia e di diletto
guerreggia in pace ed è steccato il letto.
3
Dettami tu del giovinetto amato
le venture e le glorie alte e superbe;
qual teco in prima visse, indi qual fato
l’estinse e tinse del suo sangue l’erbe.
E tu m’insegna del tuo cor piagato
a dir le pene dolcemente acerbe
e le dolci querele e ‘l dolce pianto;
e tu de’ cigni tuoi m’impetra il canto.
4
Ma mentr’io tento pur, diva cortese,
d’ordir testura ingiuriosa agli anni,
prendendo a dir del foco che t’accese
i pria sì grati e poi sì gravi affanni,
Amor[22], con grazie almen pari al’offese,
lievi mi presti a sì gran volo i vanni
e con la face sua, s’io ne son degno,
dia quant’arsura al cor, luce al’ingegno.
5
E te, ch’Adone[23] istesso, o gran Luigi[24],
di beltà vinci e di splendore abbagli
e, seguendo ancor tenero i vestigi
del morto genitor[25], quasi l’agguagli,
per cui suda Vulcano, a cui Parigi
convien che palme colga e statue intagli,
prego intanto m’ascolti e sostien ch’io
intrecci il giglio tuo col lauro mio.
Chapelain[26] definì l’“Adone” come un «poema della pace», destinato ad una società ormai stanca delle guerre che insanguinavano l’Europa; ma era pur sempre una società aristocratica che rispondeva a questi problemi con una complice volontà di fuga e di evasione. A questa società Marino aveva offerto i suoi servizi, conciliando le preoccupazioni moralistiche dell’ideologia controriformistica con la ricerca di un piacere che appare spesso al vertice delle aspirazioni della civiltà barocca, ma che risulta problematicamente contraddetto da un senso acuto dello scorrere del tempo e della presenza cupa della morte.
Alla base della rottura con i modi e con le forme della tradizione, dell’“Adone” ed in genere della cultura barocca, sta la profonda “crisi conoscitiva” che si manifestò in quel periodo.
Le scoperte di Copernico, e, sulla sua scia, di Galilei, avevano ribaltato la visione che l’uomo aveva di se stesso, della Terra e dell’Universo. La constatazione che la Terra non stava ferma al centro del sistema solare, ma con gli altri pianeti ruotava nello spa­zio intorno al sole, non era stata solo una scoperta astronomica: essa rappresen­tava il crollo di antiche certezze, e soprattutto della certezza fondamentale che la scien­za e la tradizione del passato garantivano all’uomo ossia di essere il centro e il perno dell’Universo.
Ormai nulla appariva più fermo e sicuro, tutto era messo o poteva essere messo in discussione, la realtà appariva diversa se guardata da angolature differenti. Ne consegui­va per gli uomini del tempo, stupiti e sconcertati, un senso diffuso di inquietudine e di instabilità.
L’arte ovviamente non pote­va più tradurre tale inquieta visione attraverso le forme salde, armoniche, esatte, del Rinascimento e pertanto cercava nuovi modi espressivi che riuscissero ad esprimere i nuovi rapporti che si stabilivano fra le cose, le nuove intraviste prospettive. Di qui, in letteratura, il sostituirsi, al discorso disteso, organico, razionalmente costrui­to, la ricerca invece dell’immagine fantasiosa, spesso bizzarra, che suggerisce nuove di­mensioni della realtà, intuite anche se non logicamente chiarite. Da questa nuova co­scienza deriva anche l’uso e l’abuso delle analogie, cioè l’accostamento di cose lontanissime tra loro se i loro rapporti sono giudicati con criterio logico, ma nelle quali lo scrittore sembra invece intuire un nesso che le accomuna, almeno se si guardano in prospettiva diversa da quella consueta.
Marino rompe esemplarmente l'uniformità dei modelli del Cinquecento con le espressioni della sua irrefrenabile “fantasia”: le complicazioni che sussistono nel poema e la stessa gracilità dell'opera la cui esile trama — il pianto di Venere su Adone ucciso da un cinghiale inviatogli contro dal geloso Marte — il suo disperdersi in digressioni, che diventano racconti a sé stanti come il palazzo di Amore, la favola di Psiche, la fontana di Apollo, i giochi funebri per la morte di Adone, gli encomi delle famiglie nobili italiane e del regno di Francia, le lodi di Maria dei Medici e di altre donne famose.
Queste digressioni disperdono l'unità dell'azione, rendendo eccentrica l’orbita del poema perché qualsiasi elemento serve a Marino per esprimere la qualità erotico-idillica della sua fantasia, secondo le aspirazioni dell'età barocca e Marino rappresenta la voluttà come stato psicologico di inerzia, pienamente rispondente allo stato di inerzia delle classi dominanti.
Lusso e lussuria dei potenti in mezzo ai quali viveva e meraviglioso esteriore sono gli elementi della fantasia di Marino che, rovesciando i modelli del Cinquecento, si oppone anche alla mortificatrice spiritualità della Controriforma, arroccata su posizioni aristoteliche e classicisticamente dogmatiche.
La dissoluzione delle regole cercata da Marino nel suo poema ha un corrispettivo nel poema eroicomico (parodia del poema epico-cavalleresco), inaugurato da Alessandro Tassoni con “La secchia rapita”.
Scomparso il “poema”, il cui posto era stato occupato con intensità sempre crescente del più borghese “romanzo”, il «genere minore» fu scelto dagli scrittori per affronta­re i più vari argomenti, dalla scienza al costume: il “poemetto”, non più “poema”, assunse così una spiccata funzione didascalica ed una nuova veste.
In alcuni casi il “poemettoè caratterizzato da un’in­tonazione satirica che tuttavia non esclude la trasmissione di contenuti didattici, morali, di criti­ca della società e dei costumi: Giuseppe Parini col “Giorno ci dà l’esempio più significativo di questo uso del poemetto.
In Francia l’Illuminismo era giunto al suo periodo più maturo: nel 1772 si concludeva la pubblicazione di quella “summa” del pensiero illumi­nistico che fu l’“Enciclopedia”, ma gli stimoli dell’Illuminismo erano già operanti anche in Italia, e soprattutto in Lombardia, nel movimento che metteva capo all’ “Accademia dei Pugni” ed al periodico «Il caffè».
Parini sentì l’influenza delle nuove idee e concorse coi suoi scritti ad avvalorarle e fra i temi proposti dal pensiero illuministico alcuni gli furono particolarmente congeniali: anzitutto il principio dell’uguaglianza di tutti gli uomini ed il rifiuto del pri­vilegio di nascita; il principio della responsabilità sociale dell’individuo in quanto membro di una comunità, principio che sottintende una rigorosa disciplina etica nella vita privata; ed infine la funzione della cultura, ed in particolare della poesia, che, se deve dar diletto al lettore, deve anche e soprattutto educarlo, deve cioè agire positivamente all’interno della società.
Alla poesia di Marino, che mirava a stupire il lettore, a quella frivola degli Arcadi, Pari­ni sostituiva così una poesia che mirava «a render saggi e buoni i cittadini suoi». Parini attribuisce alla poesia una funzione educatrice («l’util») egli giudica quindi inscindibile il pre­gio dell’arte, che dà gioia ed offre bellezza agli uomini (il «lusinghevol canto»). Diversamente dagli Illuministi del “Caffè”, che nei loro scritti puntavano esclusivamente sui contenuti e trascuravano la forma, Parini ebbe il culto della forma e la voleva esatta, nitida, elegante.
L’Illuminismo di Parini fu sempre, come del resto tutto l’Illuminismo nato in ambiente lombardo, assai moderato, lontano da posizioni estreme e la stessa polemica pariniana contro la no­biltà, motivo ispiratore del “Dialogo sopra la nobiltà” e del “Giorno”, non aveva un caratte­re eversivo ma riformistico: egli non mira a spazzar via questa classe sociale corrotta e inutile, come avrebbe poi fatto la Rivoluzione francese, ma a correggerne i difet­ti e a renderla migliore, così che potesse proficuamente agire nella vita pubblica insie­me e accanto all’emergente borghesia.
Si legga il brano d’avvio del “Giorno[27]
Sorge il Mattino in compagnia dell’Alba
innanzi al sol, che di poi grande appare
su l’estremo orizzonte a render lieti
gli animali e le piante e i campi e l’onde.
Allora il buon villan sorge dal caro
letto cui la fedel sposa e i minori
suoi figlioletti intiepidir la notte;
poi, sul collo recando i sacri arnesi
che prima ritrovar Cerere e Pale[28],
va col bue lento innanzi,al campo, e scuote
lungo il picciol sentier da’ curvi rami
il rugiadoso umor che, quasi gemma,
i nascenti del sol raggi rifrange.
Allora sorge il fabbro, e la sonante
officina riapre, e all’opre torna
l’altro dì non perfette[29], o se di chiave
ardua[30] e ferrati ingegni[31] all’inquieto
ricco l’arche[32] assecura, o se d’argento
e d’oro incider vuol gioielli e vasi
per ornamento a nuove spose o a mense.
Ma che? Tu inorridisci, e mostri in capo,
qual istrice pungente, irti i capegli
al suon di mie parole? Ah, non è questo,
signore, il tuo mattin. Tu col cadente
sol non sedesti a parca mensa, e al lume
dell’incerto crepuscolo non gisti
ieri a corcarti in male agiate piume,
come dannato è a far l’umile vulgo.
A voi, celeste prole, a voi, concilio
di semidei terreni, altro concesse
Giove benigno: e con altr’arti e leggi
per novo calle a me convien guidarvi.
Tu tra le veglie e le canore scene
e il patetico gioco oltre più assai
producesti la notte; e, stanco alfine,
in aureo cocchio, col fragor di calde
precipitose rote e il calpestio
di volanti corsier, lunge agitasti
il queto aere notturno, e le tenebre
con fiaccole superbe intorno apristi,
siccome allor che il siculo terreno
dall’uno all’altro mar rimbombar feo
Pluto col carro a cui splendeano innanzi
le tede de le Furie anguicrinite[33].
Così tornasti a la magion; ma quivi
a novi studi ti attendea la mensa
cui ricoprien pruriginosi[34] cibi
e licor lieti[35] di francesi colli
o d’ispani o di toschi, o l’ongarese[36]
bottiglia a cui di verde edera Bacco
concedette corona. E disse: - Siedi
de le mense reina. – Alfine il Sonno
ti sprimacciò le morbide coltrici
di propria mano; ove te accolto, il fido
servo calò le seriche cortine;
e a te soavemente i lumi chiuse
il gallo, che li suole aprire altrui.
Si osservi innanzi tutto l’uso dell’endecasillabo sciolto[37], privo di rime e di strofe e di lunghezza variabile e sciolto, cioè libero dai consueti vincoli formali.
I metri tradizionali dei poemi narrativi italiani erano stati la terzina dantesca e l’ottava, ma l’endecasillabo sciolto a differenza della terzina dantesca e dell’ottava, avrebbe il pregio di riprodurre la solennità e la libertà degli esametri dell’epica greca e latina, non vincolati l’uno all’altro dalle rime. Fra il Settecento e l’Ottocento, l’endecasillabo sciolto raggiunse la massima diffusione e il massimo prestigio, grazie al suo impiego nei poemi didascalici, in particolare “Il Giorno”, utilizzato dal poeta, come aveva preannunciato nella dedica “Alla moda”.
Nei versi iniziali de Il Mattino, Parini si presenta all’aristocratico giovane protagonista dell’opera, in qualità di maestro, “precettor d’amabil rito”, ovvero guida utile ad addestrare l’allievo alle usanze della moda e a distrarlo nelle sue giornate noiose e prive di impegni.
A questo preambolo, teso a sottolineare l’inettitudine del protagonista, seguono i versi in cui si confrontano, in chiave polemicamente oppositiva, il risveglio del giovane nobile e quello del contadino e dell’artigiano. Il passo diviene, quindi, occasione per una immediata contrapposizione, tutta condotta sul filo della satira arguta, tra il mondo umile ed intriso di valori del volgo e il futile disimpegno del ceto nobiliare.
La figura del contadino, portavoce degli ideali positivi di Parini, è rappresentata dal “buon villan”; il suo risveglio avviene alle prime luci del giorno, in una cornice naturale radiosa (“i nascenti del sol raggi”). Del contadino si sottolinea la componente morale sia attraverso il rimando ai valori della famiglia, con le immagini della “fedel sposa” e dei “figlioletti”, sia attraverso il richiamo degli strumenti di lavoro, “i sacri arnesi “ cari alle divinità connesse agli impegni agricoli. Il particolare mitico assolve alla funzione di sacralizzare e nobilitare il mondo contadino e i suoi valori fondanti. Gli attributi evocano tutti un mondo di perfezione e sanità morale: “buon” riferito al villano, “fedel”, riferito alla sposa, il diminutivo affettuoso “figlioletti”, gli attrezzi agricoli “sacri”.
Anche l’immagine del “caro letto” appare simbolica di un meritato riposo dopo le fatiche della giornata.
Nei versi successivi è proposto, in sintonia con il quadro precedente, il risveglio del fabbro che “riapre” la sua bottega risonante dei colpi di martello e ultima il lavoro inconcluso nel giorno precedente.
Il brano mette a confronto il risveglio del giovine signore aristocratico ed il risveglio del contadino all’alba da cui viene fuori il ritratto di due classi sociali contrapposte: quella aristocratica, che vive nell’ozio e nella mollezza, a quella subalterna o contadina, che vive di stenti.
Parini offre una descrizione ironica, e non manca di sottolineare la disuguaglianza e le ingiustizie di un ‘700 ancora preda di istituti medioevali.
È un’apertura larga ed ariosa di un poema a cui mancherà di proposito l'aria e serberà sempre qualcosa di prezioso, di ristretto, nei limiti di un salotto o di un boudoir settecentesco.
La vastità e l’ampiezza di questa apertura servono da sfondo alla tematica dell’Illuminismo e a quella letteratura che concentrava tutti i suoi sforzi nell’impegno sociale e civile. Immediata appare, infatti, la descrizione del buon villano che reca in sé qualcosa di tenero e di domestico che muo­ve ed attira il lettore, specialmente per quel verbo centrale — intiepidir — che evoca il tepore carnale di una famigliola raccolta nella quiete del sonno. Quel tepore fami­liare, quella solennità antica, quella sempli­cità del costume, sono immersi nella natura, respirano in pieno accordo con essa, confor­me agli ideali umani e morali del poeta. Alcuni aggettivi (buon villano, caro letto, fedel sposa) rivelano troppo smaccatamente che la descrizione vuole avere un significato polemi­co, in contrapposizione alle damine infedeli del poema: ciò che di manierato, di ufficiale, di falso, di libresco è in que­sti versi, in altri termini l'intonazione idilliaca, è voluta di proposito da Parini, per rendere più efficace l'inorridito sgomento, l'esterrefatto sobbal­zare del Giovin Signore.
Quella che era visione luminosa e trepida dei versi iniziali si trasforma d’improvviso in una visione realistica: il caro letto si trasforma in male agiate piume, la vita del buon villano in un'esistenza miserabile. Sembra che il poeta reciti il suo ravvedimento, la sua palinodia, e chieda scusa all'Alunno di avere tanto sbagliato il suo tono, e l'ini­zio dell'opera. In realtà pone innanzi le miserie sociali, introduce per la prima volta nel poema quelle ombre che ne costituiscono uno dei motivi essenziali.
Infine da notare l’uso che Parini fa della mitologia, uno dei motivi ricorrenti della sua musa: ma una mitologia aggraziata, minuta, tornita di avori settecen­teschi: dal raffronto tra l'addormentato e sonnacchioso Signore e l'infuriante dio degli abissi deriva la malizia e il sapore della scena ed il protagonista ne rimane «co­me avvolto in un'aura favolosa».
Il sentimento della natura è nuovo rispetto alle grazie dell'Arcadia di cui non mancano echi, ma è continuamente sorretto da una commozione di natura poetica.
Nel corso del Settecento si consumò la cri­si dei generi narrativi in versi, in parti­colare scomparve il “poema cavalleresco” e il “poema eroico”; la lunga narrazione in versi di imprese straordinarie era ormai in aperta contraddizione con gli orientamenti della cultura e del gusto.
Il fenomeno segnò, in molte culture europee, il decollo del “romanzo” come genere narrativo di più facile lettura: nacque così e si diffuse con straordinaria varietà di generi e forme il romanzo moderno rivolo ad un pubblico di lettori non specialisti, i “borghesi”, che amano identificarsi con la fantasia nell’eroe o nell’eroina.
Il romanzo è un’opera di invenzione che si avvicina alla realtà: la vicenda narrata è articolata secondo nessi logico-temporali ed i personaggi sono spesso individui comuni con comportamenti che riflettono la mentalità degli ambienti rappresentati.
In questo secolo il romanzo divenne sempre più popolare, gli scrittori furono in grado di analizzare la società con sempre maggiore profondità e i romanzi rivelarono le condizioni di vita delle persone, schiacciate dai condizionamenti della società o impegnate a liberarsene. Alcuni scrittori inglesi svilupparono il genere, producendo modelli formali e strutturali destinati a influenzare tutta la narrativa europea e americana.
Nel corso del Settecento il romanzo, a seguito della grande diffusione e del successo di pubblico, andò sempre più differenziandosi in molteplici varianti o sottogeneri. Una caratteristica fondamentale del romanzo è infatti ciò che il critico russo Michail Bachtin ha definito “enciclopedismo”, la capacità cioè di assorbire al proprio interno ogni forma di sapere, ogni linguaggio e soprattutto ogni aspetto della realtà: la straordinaria novità del genere romanzo risiede nella sua plasticità e nel suo dinamismo, nel fatto di cambiare continuamente, contaminando e modificando anche i propri sottogeneri.
Fra i generi romanzeschi del XVIII secolo spicca quello “allegorico-filosofico”,quello di impianto didattico-pedagogico, “Il castello di Otranto” (1764) di Horace Walpole è il primo esempio di romanzo gotico. Richardson inaugurò un nuovo modello narrativo, il romanzo epistolare, in cui la vicenda viene rappresentata indirettamente dal testo delle lettere scambiate tra due o più personaggi.
Questa proliferazione in Italia non av­venne infatti il romanzo fu il genere letterario per il quale più ampia era stata la «distanza» fra l’Italia e l’Europa del Settecento. Si può parla­re di un vero ritardo culturale, determi­nato sia da situazioni sociologiche (scar­sità del pubblico dì lettori borghesi, debolez­za dell’industria editoriale), sia dalla forza di “pregiudizi” da parte di letterati che ritenevano il romanzo un genere minore, un ibrido non ben definito, dal­le riserve di intellettuali, ecclesiastici che ne indicavano la «pericolosità». Per questo la produzione di romanzi restò infatti limitata ad opere di basso profilo letterario e artistico. Soltanto alle soglie dell’Ottocento compaiono le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” di Ugo Foscolo, il primo ro­manzo che viene tradizionalmente accolto nella nostra storia letteraria.
La forma epistolare adottata dal Foscolo si rifà a modelli narrativi rintracciabili nella “Clarissa” di Richardson, ne “La Nuova Eloisa” di Rousseau e nei “Dolori del giovane Werther” di Goethe, a cui Foscolo si ispira direttamente. I caratteri principali dell'Ortis sono:
1. il motivo sentimentale: il romanzo indugia a descrivere i sentimenti personali del protagonista di fronte alla realtà;
2. l'autobiografismo: il romanzo è espressione di una vicenda personale.
A differenza del “Werher”, “nell'Ortis” il motivo sentimentale si complica con la delusione politica, causata nella fattispecie dalla caduta di Venezia. La passione viene contrapposta all'intelletto governato dalla ragione; la natura diviene lo sfondo delle vicende umane. Il tono adottato è irruente, di sfogo.
Acquistarono invece un significativo rilievo le “memorie e le autobiografie”, fra le quali tro­viamo testi che possono essere considerati fra i capolavori del genere, come le “Memorie inutili” di Carlo Gozzi, veneziano, autore di testi teatrali che si opponevano alle proposte gol­doniane di una nuova commedia, fondatore di giornali, e le “Memorie” di Lorenzo Da Ponte, avventuriero, poeta, scritto­re, autore di famosi libretti musicati da Mozart.



[1] I generi letterari – Il genere letterario è “un raggruppamento di opere omogenee, accomunate da una serie di caratteristiche riguardanti le scelte tematiche e stilistiche e le regole di costruzione”. Per definire un genere letterario non sono indicativi né i temi, né l'uso di particolari tecniche espressive isolatamente considerate: quello che caratterizza un genere è il rapporto fra l’organizza­zione tematica e il piano formale. Tre elementi definiscono il genere letterario:
1. Un preciso rapporto fra temi e forme espressive, comune a una serie di opere;
2. La codificazione di tali relazioni che permette di individuare le costanti e di fissare il modello;
3. La conoscenza, comune sia all'emittente sia ai destinatari, dei caratteri del genere letterario.
In tal modo il lettore, posto di fronte a un testo appartenente a un certo “genere letterario”, sa già, almeno nelle linee essenziali, che cosa troverà nel testo e, proprio secondo ta­le conoscenza, potrà valutarne l'originalità.
Le “caratteristiche del genere letterario”, non vanno considerate come uno schema rigido e immutabile, ma piuttosto come un programma costruito su leggi generali, nell'ambito delle quali egli può operare con una certa libertà, adeguandosi ad esse fedel­mente o mutandole in modo originale con l’introduzione di elementi nuovi che, una volta codi­ficati, trasformano, a loro volta, le leggi del genere che tende a modificarsi nel tempo.
La prima “classificazione dei generi letterari risale ad Aristotele che ne distingueva solo due:
1. “Genere narrativo”, comprendente il poema epico
2. “Genere drammatico”, comprendente tragedia e commedia.
Gli studiosi alessandrini hanno compiuto un’opera decisiva nello stabilire caratteristiche dei generi, ma la “teoria dei generi letterari” ha subito, nel corso dei secoli, parecchie trasformazioni, arricchendosi di classificazio­ni sempre più minuziose e rigorose compiute non dai poeti, ma dai teorici della poesia: retori, cri­tici letterari ed altri.
I grandi scrittori però hanno spesso violato le regole dei “generi letterari” o le han­no modificate dall’interno, creando di volta in volta nuovi modelli.
Nell'Ottocento, con il Romanticismo, il concetto stesso di “genere letterario fu messo in discussione e si affermò il principio dell'assoluta libertà dell'artista che non doveva essere soggetto ad alcuna regola esterna. Oggi tale codificazione non ha più un rigoroso valore normativo, non condiziona più con le sue leggi le scelte stilistiche degli scrittori, che anzi mescolano talora diversi generi per raggiungere il mas­simo grado di espressività e di penetrazione del reale.
La conoscenza dei “generi letterari è utile perché permette di clas­sificare in modo adeguato i testi, di riconoscerne gli elementi costitutivi e di valutarne le componenti innovative.
[2] Le canzoni di gesta – Le canzoni di gesta si sviluppano in cicli (insieme di componimenti in sé conclusi, ma collegati fra loro e con la presenza degli stessi personaggi) incentra­ti sulle imprese e sulle vicende storiche che hanno avuto per protagonisti i membri di un casato (gesta ha il significato sia di «impresa» sia di famiglia).
I cicli che ci sono perve­nuti risalgono al periodo 1050-1200, ma spesso erano rielaborazioni di componimenti precedenti trasmessi per via orale.
I principali sono: ciclo delle gesta imperiali”, racconta le imprese dei re di Francia e in particolare di Carlo Magno e dei suoi paladini; ad esso appartiene la canzone più famosa e più bella: la Chanson de Roland attribuita a un poeta, Turoldo, di cui non si han­no notizie. Si tratta del ciclo di canzoni di gesta che ebbe più ampia diffusione, anche per la risonanza del protagonista, per il fascino delle figure dei paladini (Orlando, Rinaldo, Olivieri, il traditore Gano), per la forte carica ideologica che esprimevano attraverso l’esaltazione della guerra santa con­tro gli infedeli; “ciclo delle gesta di Willame conte d’Orangenarra, trasfigurandole, le gesta di un personaggio storico, il conte d’Orange, che secondo la leggenda difese la Francia dalle invasioni saracene nel secolo VIII; il “ciclo delle gesta dei ribelli”, reca la memoria delle lotte in­terne al mondo feudale, della ribellione dei feudatari senza terra, della lotta per l’ereditarietà dei feudi.
[3] La canzone di Orlando – La “Canzone di Orlando” (Chanson de Roland) è un poema epico di 4000 versi in francese antico, probabilmente composto nel secolo XI, forse da un monaco di nome Turoldo, del quale si conosce solo il nome, come si può dedurre dal codice di Oxford, attra­verso il quale è giunto fino a noi il testo dell'opera: Turoldo era presumibilmente un uomo di chiesa, ottimo conoscitore dei testi classici e della tradizione cristiana.
È la più antica e la più famosa delle “chanson de geste”, dedicate alla lotta tra la Francia cristiana e la “Paganìa”, cioè il mondo musulmano rappresentato come politeistico, idolatra, malvagio e nemico di Cristo.
La Chanson de Roland narra la lotta di Carlo Magno contro i Saraceni, e in particolare l’eroica battaglia di Roncisvalle, divenuta nel Medioevo un simbolo immortale.
Dopo aver conquistato tutta la Spagna salvo Saragozza, Carlo Magno accetta l’offerta di tregua di Marsilio, re dei Saraceni, e invia suo nipote, il coraggioso paladino Orlando, a trattare la pace.
Al ritorno, Orlando guida la retroguardia che, per il tradimento di Gano di Maganza, è assalita dai nemici, molto più numerosi: sconfitto, muore, non prima di aver spezzato la propria spada perché non cada in mano ai Mori.
Alla sua morte, Turpino, vescovo-cavaliere, suona l’olifante, il grande corno ricavato da una zanna di elefante, perché Carlo Magno giunga a vendicare la morte dei suoi paladini.
L’imperatore accorre, sia pur troppo tardi, e sconfigge i Saraceni: il traditore Gano è impiccato e squartato.
Questo il racconto della Chanson de Roland, ma la realtà storica è ben diversa: nel 778 Carlo Magno, avendo ricevuto offerte di pace da alcuni sovrani arabi in disaccordo con i loro alleati, guidò due grandi eserciti contro Saragozza. Il piano fallì e Carlo Magno, riattraversando i Pirenei, cadde nell’imboscata tesa da una popolazione basca che, dopo avergli inflitto gravi perdite, si ritirò con una rapida fuga prima che le forze imperiali potessero organizzare una reazione efficace.
L’epopea di Roncisvalle, con la sua elementare e forte tragicità, ebbe un peso rilevante nel momento in cui la dinastia carolingia si sfasciava e la Francia viveva nuovamente sotto l’incubo dei barbari.
[4] Chanson de Roland, lasse CLXXIII-XLXXV
[5] L’Orlando innamorato – Boiardo iniziò la composizione dell'Orlando innamorato nel 1476 e la protrasse fino alla morte. Il poema si arrestò, incompiuto, al canto IX del libro III. I primi due libri, rispettivamente formati da ventinove e da trentuno canti, furono pubblicati nel 1483. Il frammento del terzo apparve postumo. La prima edizione integrale del poema è del 1506.
L'argomento è tratto dalla materia del ciclo carolingio, ma il tono con cui questa è trattata è piuttosto quello proprio dei romanzi bretoni.
Carlo Magno ha bandito una grande giostra e per l'occasione ecco convenuti a Parigi oltre ventimila cavalieri fra cristiani e pagani. Mentre i guerrieri partecipano ad un banchetto offerto dall'imperatore, si presenta la bellissima Angelica, figlia del re del Catai, la quale sfida tutti i cavalieri a battersi col fratello Argalia: quelli che saranno sconfitti dovranno accettare di divenire suoi schiavi, mentre l'eventuale vincitore l'otterrà in sposa. Risulta vincitore il saraceno Ferraguto, ma Angelica, per sottrarsi all'impegno, fugge, inseguita da Orlando e Ranaldo.
Durante la fuga e l'inseguimento accade che Ranaldo beva alla fonte dell'odio mentre Angelica, avendo bevuto a quella dell'amore, si invaghisce follemente del paladino. Poiché Ranaldo si disinteressa di Angelica, tocca ad Orlando, innamorato non corrisposto, non solo di difendere la fanciulla dagli assalti di Agricane, re di Tartaria, ma ancora di accompagnarla in Francia alla ricerca di Ranaldo.
Qui infuria la lotta tra i cristiani e il re africano Agramante, che ha invaso il suolo francese aiutato dalle armi di Mandicardo, figlio di Agricane, di Rodomonte, re di Sarza, e di Marsilio, re di Spagna. Orlando prende parte alla guerra, mentre la situazione sentimentale tra Angelica e Ranaldo si capovolge, avendo la prima bevuto alla fonte dell'odio ed il secondo a quella dell'amore. Quindi Orlando e Ranaldo si scontrano in un duello per amore di Angelica, ma Carlo li separa, affida Angelica al vecchio Namo e promette di darla in isposa a quello dei due cugini che darà miglior prova nella guerra contro gli invasori.
A questo punto il poema si interrompe. Ludovico Ariosto ne continuerà il racconto in un'opera di ben altra fattura, nell' "Orlando Furioso".
[6] Poema eroicomico – Nel poema eroicomico, i personaggi, an­che quelli più nobili come Carlo Magno, sono parodiati e rap­presentati in maniera ridicola, e gli eroi-protagonisti, al cen­tro di episodi grotteschi, sono due giganti, Morgante e Margutte.
[7] pietose: devote, religiose perché volte a liberare il S. Sepolcro.
[8] santi segni: è la santa bandiera dei crociati: una croce rossa in campo bianco
[9] Musa: si tratta di Urania, Musa ispiratrice dei poeti che si accingono a cantare argomenti divini. Qui però essa è rappresentata come Intelligenza angelica, quindi viene cristianizzata.
[10] Elicona: è un monte: secondo la mitologia pagana era considerato la dimora delle Muse.
[11] Parnaso: secondo la mitologia Greca, il Parnaso era un monte della Focide, in Grecia, dove si riunivano Apollo, dio dela poesia, e le Muse.
[12] Così... riceve: Tasso riprende la concezione pedagogica dell'arte: la poesia, cioè, si giustifica in quanto offre un insegnamento.
[13] Alfonso: è Alfonso II d'Este, ultimo duca di Ferrara, cui è dedicato il poema.
[14] Ingiusta preda: È il Sepolcro di Cristo «ingiustamente» nelle mani dei Turchi in quanto musulmani.
[15] Don Chisciotte della Mancia - Un signorotto di campagna, Alonso Quijada, incitato dalla lettura dei romanzi cavallereschi, decide di mettersi in giro per il mondo, facendosi cavaliere con il nome di don Chisciotte della Mancia. Per gloria sua e del paese deve difendere gli ideali più alti: giustizia, pace, difesa degli oppressi. Ribattezza il suo ronzino con il nome di Ronzinante e si sceglie una dama, una contadina della sua terra che chiama Dulcinea del Toboso.
Don Chisciotte, dopo aver scambiato un’osteria per un castello e fattosi armare cavaliere dall’oste, inizia le sue imprese: cerca di difendere un ragazzo malmenato da un contadino, ma finisce col peggiorare la situazione; impone ad alcuni mercanti di rendere omaggio a Dulcinea, ma questi lo picchiano a sangue.
Riportato a casa e guarito, riparte con al fianco uno scudiero, Sancio Panza, un contadino del paese, al quale promette fortuna e un’isola da governare.
Assieme al suo scudiero intraprende nuove "avventure" e quindi nuovi guai, che spesso sono dovuti all’eccessiva fantasia del cavaliere, la quale stravolge e allontana dalla realtà il mondo che circonda i due protagonisti. Don Chisciotte lotta contro i mulini a vento scambiati per giganti, cade vittima dei mulattieri e di un oste, che lo picchiano a sangue, dei pastori che lo prendono a sassate, dei galeotti e di molte altre persone, che sicuramente non erano valorosi cavalieri.
Compiute molte paradossali imprese, ha termine la prima parte del romanzo, che vede il suo ritorno a casa con la complicità di Sancio, del curato e del barbiere del paese.
Dopo un breve periodo di riposo e riacquistata la fiducia degli amici, riparte. Seguono così nuove imprese a cui Sancio partecipa con entusiasmo, impaziente di prendere il comando di un’isola.
I due giungono al castello di un duca e di una duchessa, che venuti a conoscenza delle loro comiche gesta, si prendono gioco di loro.
Ripreso il cammino, arrivano a Barcellona dove il cavaliere della Bianca Luna, che in realtà era l’amico Carrasco, sfida don Chisciotte e lo vince. Carrasco gli ordina di ritornare al suo paese ed egli, fedele alle regole della cavalleria, così fa.
Tornato nella propria terra si ammala e, per le fatiche provate, ma soprattutto per l’impossibilità di non poter più perseguire i propri ideali, muore.
[16] L' Adone “L'Adone fu terminato e stampato a Parigi nel 1623. Già pensato negli anni romani, questo poema si dilatò dal nucleo originario di tre canti alla forma definitiva di 24, per un totale di oltre 40 mila versi in ottave.
L'argomento è tratto dalla favola mitologica di Venere che si innamora di Adone, provocando l'ira e la vendetta di Marte. In questa trama esile, Marino innesta una lussureggiante fantasia, una serie di episodi e digressioni, come la descrizione del giardino del piacere, la gara tra il musico e l'usignolo, la tragedia di Atteone ecc., derivando spunti dagli autori antichi: Ovidio, Apuleio, Claudiano.
Manca unità d'azione: ma proprio questa è la novità della tecnica di Marino. In essa si mettono in discussione i fondamenti del poema classicista: la narrazione si svolge per successive stratificazioni, con passaggi arditi e inattesi, senza nesso logico, con l'appoggio di un tessuto verbale prezioso, fitto di metafore, iperboli, antitesi, con effetti di “pianissimo” e di sonorità acuta.
Il poema diventa così una “fabbrica di meraviglie”, volta a produrre continua sorpresa nel lettore. La poesia è intesa come viaggio nell'imprevedibile. Un virtuosismo tecnico-stilistico che ad un lettore odierno risulta noioso; i momenti più interessanti sono quelli in cui la sensualità di Marino diventa capacità di auscultare e riprodurre voci insolite e segrete della natura, e quando il suo stile raggiunge astratte perfezioni di ritmo e gioco formale.
[17] Giambattista Marino –Giambattista Marino nacque a Napoli il 14 ottobre 1569. Costretto dal padre giurista agli studi di legge fu spinto ad andarsene di casa per il suo comportamento provocatorio e insubordinato. Nel 1596, entrato in contatto con gli ambienti letterari della città, diventò segretario di Matteo di Capua, principe di Conca.
Nel 1598 fu incarcerato per avere sedotto la figlia di un facoltoso mercante, morta di aborto.
Nel 1559 fu incarcerato una seconda volta per avere tentato di salvare dalla pena capitale un amico facendolo passare per chierico con bolle vescovili falsificate. Fuggito a Roma, entrò al servizio di Melchiorre Crescenzio, chierico di camera di papa Clemente VIII, partecipando alla vita letteraria della città.
Dopo un soggiorno veneziano (tra il 1602 e il 1603), fu accolto nel 1604 al servizio del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote di Clemente VIII, che seguì nel 1606 nella sede vescovile di Ravenna e nel 1608 a Torino. Qui, alla corte di Carlo Emanuele I di Savoia, ottenne i primi grandi riconoscimenti. Nel 1611 entrò in conflitto con il poeta Gaspare Murtola, che arrivò a sparargli nella pubblica via. Marino rimase illeso, ma un giovane fu ferito al suo posto. Murtola dovette pagare con l’arresto e l’allontanamento dal Piemonte, ma lo stesso Marino, per ragioni non ben chiarite, riprovò l’onta del carcere, da cui uscì solo nel giugno del 1612.
Nel 1615 Maria de’ Medici, la vedova di Enrico IV, lo invitò alla corte di Francia, dove, tra gli onori e gli agi, Marino riordinò e concluse la sua produzione poetica.
Nel 1623, ammalato e stanco della vita di corte, tornò a Roma, dove fu accolto trionfalmente ed eletto Principe dell’Accademia degli Umoristi. Nel 1624 si trasferì a Napoli, dove morì il 25 marzo 1625.
[18] «È del poeta il fin la maraviglia;
parlo dell'eccellente, e non del goffo;
chi non sa far stupir vada a la striglia»
[19] Amatunta – Città dell'isola di Cipro consacrata a Afrodite; nel tempio ad essa dedicato gli abitanti sacrificavano gli stranieri. Indignata da questo rito Afrodite mutò in tori gli abitanti della città e fece prostituire le donne.
[20] Citera – Isola del Peloponneso, sulla spiaggia della quale Afrodite, emerse nuda dalla spuma del mare.
[21] Giano – Divinità romana. Dal suo nome (collegato con ianua «porta») si deduce che era il signore di tutti i «passaggi», il dio che apre e chiude. Da lui fu denominato infatti il primo mese dell'anno (Ianuarius) e gli si facevano sacrifici nel giorno iniziale di ciascun mese. Era rappresentato bifronte, a simboleggiare i due aspetti di ogni passaggio oltreché, in qualità di dio del corso del sole, il sorgere e calare dell'astro. Il tempio a lui sacro nel Foro romano si chiudeva solo quando Roma non era in guerra con nessun nemico.
[22] Amore – Eros per i Greci, Cupido per i Romani. Era rappresentato come un giovanetto nudo di grandissima bellezza armato di un arco col quale scagliava le infallibili frecce dalla cui ferita nasceva il mal d'amore. Era la personificazione della forza irresistibile che spinge gli esseri umani l'uno verso l'altra. Era venerato non solo come dio dell'amore ma anche come protettore delle amicizie fra gli uomini.
Figlio di Afrodite e di Ares appena nacque Zeus al solo guardarlo capì quanti guai avrebbe combinato quel bambino e cercò di convincere Afrodite a sopprimerlo. Allora Afrodite per salvarlo da Zeus lo fece allevare di nascosto nei boschi dove le bestie feroci lo allevarono e nutrirono.
Appena il bimbo crebbe abbastanza da utilizzare un arco se ne costruì uno di frassino e le frecce di cipresso, imparò da solo l'uso dell'arma addestrandosi con gli animali nell'arte di ferire gli uomini e gli dèi. Non risparmiò nemmeno la madre che scoccandole a tradimento una freccia la fece innamorare di Adone, unico amore della dea, che fu ucciso da Ares ingelosito.
Afrodite gelosa della bellezza di Psiche pregò Amore perché la facesse innamorare del più povero dei mortali per togliersela davanti. Il dio vedendo la ragazza ne restò incantato e l'amò senza rivelarle chi egli fosse e senza farsi mai guardare altrimenti lo avrebbe perso. Psiche incitata dalle sorelle non resistette alla tentazione ed una notte accesa una lampada lo guardò, ma il dio svegliatosi di soprassalto per uno schizzo d'olio sparì. Psiche cercò inutilmente il suo amore anzi Afrodite la umiliava ed angustiava durante le sue ricerche. Infine i due si ritrovarono e Amore ottenne da Zeus che la sua amata fosse posta fra gli immortali. Dalla loro unione nacque la Voluttà.
[23] Adone – Figura di origine semitica (Adonai, il Signore) il cui mito fu importato in Grecia intrecciandosi con elementi propriamente ellenici. Si diffuse anche presso i Romani e assunse caratteristiche misteriche e iniziatiche. Figlio di Agenore e Smirna, dalla straordinaria bellezza. Adulto divenne abile cacciatore e non mancò di destare la passione in Afrodite e Persefone: Zeus gli permise dunque di vivere per parte dell'anno nell'Ade, e un'altra presso Afrodite. Ares s'ingelosì e volendo eliminare il pericoloso rivale, prese forma di cinghiale e lo aggredì. Secondo un'altra versione del mito, la dea dell'amore lo pianse disperata e chiese che il giovane fosse riportato in vita, ma Persefone si rifiutò di restituirlo. Calliope intervenne per riappacificare le dee, consigliando di farlo vivere per sei mesi negl'Inferi, per sei mesi fra i vivi. E così fu, sino a quando Afrodite non rispettò i patti e si ricorse nuovamente a Zeus per fare ordine. Anche sulla sua discendenza ci sono delle discordanze, in quanto taluni lo designano quale figlio di Fenice e Alfesibea, altri quale incestuoso frutto di Ciniro e della figlia Mirra. Egli fu venerato in tutta la Grecia, in Egitto, Persia, Assiria e Giudea.
[24] Luigi – Marino fa riferimento a Luigi XIII di Francia, cui è dedicato il Poema.
Nel 1615, Marino lasciò Torino e si trasferì in Francia, dove fin dal 1609 Maria de' Medici l'aveva invitato.
Stabilitosi a Parigi si pose sotto la protezione di Concino Concini. Onorato da una ricchissima pensione da Luigi XIII, si dedicò ad un appassionato collezionismo, soprattutto di incisioni e opere grafiche, dei maggiori artisti del tempo, raccolse una biblioteca di 12000 volumi e approntò gli idilli de “La sampogna” e “L’Adone” oltre ad un testo polemico antiugonotto, “La sferza”, pubblicato postumo. Durante la sua permanenza godette di un enorme prestigio culturale, dovuto alla moda preziosista e libertina.
La sua fortuna tramontò rapidamente con l'affermazione del classicismo, per quanto la sua impronta rimanesse sensibile in talune opere francesi dell'età di Luigi XIV.
[25] I vestigi …. Genitor: Marino fa riferimento adEnrico IV di Borbone, detto il Grande che nel 1589 ereditò il trono di Francia.
Come ugonotto, prima di salire al trono di Francia nel 1589, Enrico fu coinvolto nelle guerre di religione. Prima della sua incoronazione come re di Francia a Chartres, abiurò la fede calvinista per abbracciare quella cattolica.
Nel 1598, pose fine alla guerra civile emanando l'Editto di Nantes, che garantiva la libertà religiosa ai protestanti.
Insieme ad abili ministri come il duca di Sully, riordinò le finanze della Francia e restituì la prosperità alla nazione dissanguata. Dal risanamento economico conseguì il rifiorire della classe media dei mercanti, artigiani, commercianti, banchieri e finanzieri. Su questa solida base economica e sociale, il sovrano riuscì a edificare il primo esempio di assolutismo regio centralizzato, creando una classe amministrativa competente, riuscendo a riportare la Francia agli antichi splendori.
Fu anche per questo uno dei re francesi più popolari, poiché dimostrò sempre grande attenzione per il benessere dei suoi sudditi e rese concreta una tolleranza religiosa inusuale per l'epoca. Tutt'oggi Enrico IV è talvolta chiamato "il buon re Enrico" o "il donnaiolo", un riferimento sia al suo carattere focoso che al suo amore per le donne.
Il re si sposò due volte: la prima nel 1572 con Margherita di Valois, ma il matrimonio fu annullato nel 1599; la seconda volta nel 1600 con Maria de' Medici, che gli dette sei figli dei quali il futuro Luigi XIII.
Poco prima di intraprendere una guerra contro l'Austria, il sovrano fu pugnalato a morte il14 maggio 1610 da un fanatico cattolico, François Ravaillac. Al figlio Luigi XIII, troppo giovane per regnare, subentrò la madre Maria con la carica di reggente.
[26] Jean Chapelain – Jean Chapelain (1595 – 1674) è stato un poeta e critico letterario francese.
[27] Il giorno – il “Giorno” è un vasto poema in endecasillabi sciolti, suddiviso in quattro parti: “Mattino”, “Meriggio”, “Vespro” e “Notte”. In questi quattro tempi della giornata Parini immagina di accompagnare e guidare, in qualità di maestro, di «precettor d’amabil rito», un giovane patrizio, il «giovin Si­gnore».
Passa così davanti al lettore la giornata futile, vuota, di tanta parte della società aristo­cratica, la mancanza di ideali che la connota, la tronfia superbia e l’arida crudeltà. Nel “Mattino” la scena si concentra intorno al personaggio del «giovin Signore» intento alla lunga toilette, alle prime frivole occupazioni della giornata, circondato da una schiera di servi. Poi via via il paesaggio umano si dilata. Il giovin Signore si reca a pranzo dal­la dama di cui è «cavalier servente» (e la moralità di Parini si ribella a questa istitu­zione che corrode il matrimonio); e intorno alla tavola sono raccolti alcuni campioni curiosi di questa deteriore umanità. Nel “Vespro” la coppia è rappresentata durante la passeggiata al corso, nei suoi rapporti con gli altri aristocratici, che anch’essi non hanno altro scopo se non di farsi ammirare. La “Notte” infine, rimasta incompiuta, descrive un fastoso ricevimento nella casa di una nobile dama, ed è un largo affresco in cui si muove una società ormai decrepita, in preda a una noia che cerca invano di affogare in squallidi divertimenti e in hobby maniacali.
Procedendo dalla prima all’ultima parte del “Giorno” muta la tecnica rappresentativa usata dal poeta: alla descrizione minuziosa e analitica del “Mattino” e del “Meriggio” si so­stituisce, nel “Vespro” e nella “Notte”, una rappresentazione più rapida, a pennellate sempre più larghe.
Musa del poema è l’ironia, qualche volta lieve, a volte dura fino al sarcasmo, là dove la coscienza morale offesa del poeta si rivela più risentita. Significativo in questo senso è l’episodio della «vergine cuccia».
Mentre Parini componeva il “Giorno”, la Rivoluzione francese spazzava via nel sangue la classe nobile. Forse per questo, perché cioè gli pareva di incrudelire contro chi aveva duramente pagato le sue colpe, Parini non pubblicò le ultime due parti del poema, che uscirono postume.
[28] gli attrezzi agricoli inventati da Cerere, dea delle messi, e da Pale, dea degli armenti
[29] ultimate
[30]di costruzione complessa
[31] congegni di ferro
[32] forzieri
[33] fiaccole impugnate dalle Furie che avevano serpi al posto dei capelli
[34] stuzzicanti
[35] vini inebrianti
[36] ungherese
[37] L’endecasillabo sciolto aveva fatto il suo ingresso ufficiale con Giangiorgio Trìssino (1478-1550), che proponeva l’uso dell’endecasillabo sciolto nella poesia epica come equivalente dell’esametro classico.

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