domenica 26 novembre 2023

Il Realismo. Champfleury e Courbet: l’Impressionismo - quinto racconto

Prima di procedere con il racconto su Gustave Courbet è opportuno spendere qualche riga su Jules Champfleury (1821 – 1889) un poliedrico personaggio che ebbe un ruolo molto importante nella vicenda artistica del Realismo in Francia, anticamera necessaria ma scomoda dell’Impressionismo, e nello specifico di Courbet.
Jules Champfleury, classe 1821, era un personaggio superimpegnato sulla scena culturale di Parigi dagli anni Quaranta agli anni Sessanta dell’Ottocento: drammaturgo, scrittore di racconti e di romanzi, ma anche prolifico giornalista e critico d'arte, cosa che in questa sede maggiormente ci interessa. Grande amico di Victor Hugo (1802 – 1885), di Gustave Flaubert (1821 - 1880), di George Sand (1804 – 1876), di Charles Baudelaire (1821 – 1867), che era suo coetaneo, Champfleury fu un grande ammiratore di Balzac e un gran nemico dei fratelli Jules ed Edmond De Goncourt con i quali scambiò velenosissimi strali.
Anche Champfleury era un ragazzo di provincia. Era di Laon e aveva idee molto chiare: studente poco brillante non perché poco dotato, ma perché riteneva le materie scolastiche inefficaci, motivo per cui formò la sua cultura quasi da autodidatta, cosa che da professore mi sento paradossalmente di condividere pienamente. Sono di gran lunga più copiose le cose che ho cercato e imparato da solo che quelle apprese fra i banchi sebbene fra i banchi ho ricevuto un metodo di studio e di ricerca.
Pubblicò dapprima racconti satirici, in seguito apprezzati ed elogiati da Hugo che lo proclamò un autentico realista.
Come molti giovani ambiziosi, anche l’intraprendente Jules, appena diciassettenne, se ne andò via dalla sonnolenta provincia e trovò lavoro a Parigi come commesso in una libreria. Da subito incominciò a cercare e a frequentare circoli intellettuali e artistici. Purtroppo per lui questo primo soggiorno fu piuttosto breve, perché fu richiamato dal padre a Laon per motivi di lavoro.
Nel 1843, ventiduenne se ne tornò a Parigi dove si stabilì definitivamente. Lavorava sodo per occupare un proprio spazio nel campo letterario.
Da solo e con la sua inossidabile intraprendenza si costruì una rete di amicizie che gli permettessero di ottenere proficue collaborazioni editoriali in una sfida che per lui era economica e culturale: i suoi articoli gli procurano un certo reddito e suscitarono in lui la speranza anche di un riconoscimento letterario.
Nel 1846 nell’ambito della polemica sul Salon nacque la sua amicizia con Gustave Courbet (1819 – 1877) in parte indotta dal suo interesse per le immagini e in parte dal suo rapporto con la cultura popolare, perché aveva intuito, sia pur confusamente, che la vena migliore dell’amico pittore era la realtà.
Dal 1848 al 1865, questa amicizia guidò in modo significativo l'evoluzione estetica di Champfleury e dello stesso Courbet e lo condusse alla formulazione delle sue ‘teorie sul realismo’.
Per lui l'opera di Courbet presentava i tratti propri dell'Arte popolare: un metodo basato sull'osservazione della realtà nei suoi più modesti dettagli, sulla scelta di soggetti umili e ordinari, sulla semplicità e sulla sincerità di uno stile che non pretendeva di nascondere la realtà sotto le mentite spoglie della forma o dell'idea.
Il frutto di queste riflessioni è contenuto in una gran bella testimonianza che colloco in nota e che considero il primo nucleo della sua teoria del realismo: è una pagina che ci fa respirare l’atmosfera della Parigi artistica intorno alla metà degli anni Cinquanta dell’Ottocento, gli stessi anni in cui videro la luce Madame Bovary del 1856 e Les Fleurs du Mal del 1857, due pietre miliari della cultura europea.
Si tratta di una lettera che Champfleury inviò alla sua amica George Sand a settembre del 1855, di cui consiglio vivamente la lettura [1].
Champfleury iniziò la sua ascesa letteraria sviluppando il suo interesse per la letteratura, per le canzoni e per le immagini popolari: nel 1851 intraprese una serie di recensioni in cui riuscì a sviluppare le sue riflessioni nella Revue de Paris e nell'Athenaeum, collaborò in modo sostanziale con la rivista mensile Le Réalisme, pubblicata a Parigi dal luglio 1856 al maggio 1857, dedicata alla critica letteraria e artistica e sulle cui pagine pubblicò un manifesto a favore della vera arte in campo letterario e artistico. Quando nel 1857 pubblicò la raccolta di articoli dal titolo Le Réalisme, la sua teoria era ormai già nota sebbene intendesse svilupparla ulteriormente.
Anche Champfleury, uno degli amici più fedeli di Courbet, parlò del gruppo di Rue Hautefeuille e definì la birreria Andler Brewery come il tempio del Realismo.
Un altro testimone, amico e difensore di Courbet fu Jules-Antoine Castagnary (1830 – 1888), di cui avrò modo di parlare in seguito proprio a proposito dell’Impressionismo. Castagnary negli anni Sessanta dell'Ottocento riferì che, fuori dal suo studio bottega, fu in quella birreria che Courbet “prese contatto con il mondo esterno".
Torniamo ora al tempio del realismo.
Con la rivoluzione che rimbombava, Courbet era al centro dell'effervescenza artistica e politica. Alla birreria Andler Brewery suonava il violino, si legò ad artisti che volevano proporre una terza via da percorrere in alternativa e in opposizione a quella del Romanticismo e a quella dell’Accademismo: si trattava delle menti più brillanti di questo cambiamento in campo artistico.
Sotto l'impulso di Champfleury, Courbet pose le basi del proprio stile, che egli stesso definì realismo, utilizzando un termine che aveva coniato il suo gruppo, constatando di fatto che questa pittura era già sotto i loro occhi non bisognava fare altro che trascriverla.
La grande rivoluzione del 1848 scoppiò alla metà di marzo, poco prima dell'apertura del Salon. Luigi Filippo abdicò al trono, fu proclamata la Seconda Repubblica e questo comportò anche l’abolizione della tremenda giuria di ammissione al Salon: tutti gli artisti furono autorizzati a esporre nel Palazzo Reale del Louvre ribattezzato in quella circostanza Museo Nazionale.
L’abolizione della giuria ebbe però un effetto devastante perché il Salon fu letteralmente invaso da opere di qualità molto variabile con reazioni molto polemiche da parte del pubblico.
La recensione del Salon che Théophile Gautier pubblicò su La Presse ignorò per lo più la pittura di paesaggio, forse a causa dei numeri esorbitanti.
Il critico iniziò con la scultura dell'eroina francese del Quattrocento Jeanne Hachette che brandisce l'ascia, subito seguita dal nudo femminile in marmo di James Pradier Nyssia (1790–1852), tratto da Re Candaule, un racconto dello stesso Gautier.
Fig. 1
Poi Gautier si lanciò nella pittura con un lungo elogio delle opere di Delacroix, di cui la Deposizione di Cristo era la più importante.
Fig. 2
L’opera del romantico Théodore Chassériau (1819 – 1856) ricevette molta attenzione da parte di molti critici. Gautier trovò interessanti anche i dipinti di Hesse e Schnetz che erano stati commissionati da Luigi Filippo per il Museo di Storia francese di Versailles, in particolare per la Sala delle Crociate.
Gautier ammirò molto la luce e il colore del Setacciatore del grano di Millet, ma fu meno entusiasta dell'altro dipinto dell'artista in mostra, un'ambiziosa opera storica in seguito ridipinta, che rappresenta la Prigionia degli ebrei a Babilonia: da quel momento Millet abbandonò il genere storico.
Fig. 3
Fig. 4
Gautier citò ancora il dipinto di Rosa BonheurIl bestiame di cui quello che oggi conosciamo potrebbe essere una versione successiva o una copia della stessa pittrice.
Fig. 5
La mostra tuttavia risultò logisticamente disastrosa con troppe opere stipate in spazi inadeguati e il grande numero di opere mediocri peggiorò le cose.
Nel mese di giugno del Quarantotto però non era più il caso di continuare a pensare al Salon: le vicende politiche a Parigi stavano degenerando. Courbet partecipò agli eventi relativamente da lontano: aveva infatti dovuto raggiungere Ornans da Parigi come meglio aveva potuto, per partecipare al funerale del suo amatissimo nonno materno, morto il 13 agosto.
A Ornans preparò con vigore le sue prime tele nello spirito di fervore del suo nuovo modo di concepire l’Arte.
Le elezioni di dicembre del 1848 portarono alla presidenza Luigi Napoleone Bonaparte (1808 – 1873).
Nel marzo 1849 Champfleury, diventato ormai il mentore di Courbet, redasse per il pittore l'elenco delle undici opere proposte per il Salon di quell’anno e Baudelaire ne compilò le lettere che accompagnavano la spedizione.
Sei dipinti e un disegno furono selezionati da una giuria, ora eletta dagli stessi artisti. Di queste opere Un dopo cena a Ornans gli valse una medaglia d'oro e il suo primo acquisto da parte dello Stato.
Fig. 6
Questa grande tela gli assicurò la fama, e fu un formato di grandi dimensioni che Courbet avrebbe adottato anche in futuro.
Tra i nuovi arrivati ​​nell'entourage di Courbet, nel 1849 si aggiunse anche Pierre-Joseph Proudhon (1809 – 1865) in un'amicizia tutta in divenire, nata probabilmente dalla visita che a ogni costo il pittore aveva voluto fare al carcere di Sainte-Pélagie dove il filosofo era recluso per aver offeso il Presidente della Repubblica e dove Courbet in seguito si sarebbe autoritratto.
Il 17 giugno 1849 si svolsero violente manifestazioni nella capitale e, Courbet, che aveva appena compiuto 30 anni, decise di tornare a Ornans, dopo la mostra, finalmente autorizzata, ma il cui andamento annunciava solo la rabbia e il furore della critica reazionaria e mentre più di 30.000 soldati si stabilivano in città e mantenevano il coprifuoco.
Il 31 agosto Courbet partì  e quando arrivò a Ornans, in paese fu celebrato come un eroe. Suo padre lo trasferì in un nuovo studio. Il 26 settembre iniziò Gli spaccapietre poi a dicembre cominciò il dipinto Un funerale a Ornans.
Fig. 7
Fig. 8
Come sarebbe stato bello vivere a Parigi in quegli anni! Era come vivere al centro del mondo in formazione.
                                                Massimo Capuozzo
____________________________________________
[1] Giulio Champfleury – Lettera a Madame Sand
In questo momento, signora, vediamo a due passi dalla Mostra di Pittura, in Avenue Montaigne, un cartello con scritto a caratteri cubitali: REALISMO. G. Courbet. Mostra di quaranta dipinti del suo lavoro. È una mostra alla maniera inglese. Un pittore, il cui nome è esploso dalla Rivoluzione di febbraio, ha scelto le tele più significative del suo lavoro e si è fatto costruire uno studio.
È un'audacia incredibile, è il rovesciamento di tutte le istituzioni attraverso la giuria, è l'appello diretto al pubblico, è libertà, dicono alcuni.
È scandalo, è anarchia, è arte trascinata nel fango, sono i cavalletti della fiera, dicono gli altri.
Confesso, signora, che la penso come i primi, come tutti coloro che rivendicano la più completa libertà in tutte le sue manifestazioni.
Giurie, accademie, concorsi di ogni genere, hanno più volte dimostrato la loro impotenza a creare uomini e opere. Se esistesse la libertà del teatro, non vedremmo un Rouvière obbligato a recitare Amleto davanti ai contadini, in una stalla, facendo sorridere l'ombra del vecchio Shakespeare, che si crederebbe, nell'Ottocento, a Londra, a rappresentare le sue commedie in un covo della Città.
Non sappiamo cosa muoia di geni sconosciuti che non sanno piegarsi alle esigenze della società, che non sanno domare la loro ferocia e che si suicidano nelle segrete della convenzione. Il signor Courbet non c'è ancora: dal 1848 espone, ininterrottamente, ai vari Salon, tele importanti che hanno sempre avuto il privilegio di riaccendere discussioni. Il governo repubblicano gli acquistò addirittura una tela importante, ‘Dopo cena a Ornans’, che ho rivisto al Museo di Lille, accanto agli antichi maestri, e che occupa un posto d'onore tra le opere consacrate.
Quest'anno, la giuria è stata avara di spazio all'Esposizione Universale dei giovani pittori: l'ospitalità è stata così grande nei confronti degli uomini accettati dalla Francia e dalle nazioni straniere, che la gioventù ne ha sofferto poco. Non ho molto tempo per andare ai laboratori, ma mi sono imbattuto in tele scartate che, in altri tempi, avrebbero sicuramente avuto un legittimo successo. Il signor Courbet, forte nell'opinione pubblica, che da cinque o sei anni gioca intorno al suo nome, sarà stato offeso dai rifiuti della giuria, caduti sulle sue opere più importanti, e si è appellato direttamente al pubblico.
Il seguente ragionamento è stato riassunto nel suo cervello: sono chiamato realista, voglio dimostrare, con una serie di dipinti noti.
Non contento di costruire uno studio, di appendervi le tele, il pittore lanciò un manifesto, e sulla sua porta scrisse: realismo.
Se le rivolgo questa lettera, signora, è per la curiosità viva e piena di buona fede che lei ha dimostrato per una dottrina che prende forma giorno per giorno e che ha i suoi rappresentanti in tutte le arti. Un musicista tedesco, il signor Wagner, le cui opere non sono note a Parigi, fu duramente maltrattato nelle gazzette musicali dal signor Fétis, che accusò il nuovo compositore di essere viziato dal realismo. Si dice che tutti coloro che portano nuove aspirazioni siano realistici. Vedremo certamente medici realistici, chimici realistici, produttori realistici, storici realistici. Il signor Courbet è un realista, io sono un realista: siccome lo dicono i critici, lo lascio dire. Ma, con mia grande vergogna, confesso di non aver mai studiato il codice che contiene le leggi con l'aiuto delle quali il primo arrivato è autorizzato a produrre opere realistiche.
Il nome mi fa orrore con il suo finale pedante; temo le scuole come il colera e la mia più grande gioia è incontrare individui ben definiti. Ecco perché il signor Courbet è, ai miei occhi, un uomo nuovo.
Lo stesso pittore, nel suo manifesto, disse poche ottime parole: "Il titolo di realista mi fu imposto come il titolo di romantico fu imposto agli uomini del 1830. I titoli, in nessun momento, davano un'idea corretta di cose: se così fosse, le opere sarebbero superflue."
Ma lei sa meglio di chiunque altro, signora, che città singolare sia Parigi in termini di opinioni e discussioni. Il paese più intelligente d'Europa contiene necessariamente il maggior numero di incapacità, metà, terzo e quarto dell'intelligenza; dovremmo anche profanare questo bel nome per vestire questi poveri chiacchieroni, questi stupidi ragionatori, questi disgraziati che vivono di giornali, questi curiosi che scivolano in fila che si sono buttati nelle lettere per miseria o per pigrizia, infine, questa folla di inutili che giudicano, ragionano, applaudono, contraddire, lodare, adulare, criticare senza convinzione, che non sono la folla e che si definiscono la folla.
Con dieci persone intelligenti, si potrebbe risolvere completamente la questione del realismo; con questa plebe di critici ignoranti, gelosi, impotenti, escono solo parole. Non definirò, signora, realismo, non so da dove venga, dove vada, cosa sia. Omero sarebbe un realista, poiché osservava e descriveva accuratamente i costumi del suo tempo.
Omero, non ne sappiamo abbastanza, fu violentemente insultato come un pericoloso realista. "In verità", dice Cicerone parlando di Omero, "tutte queste cose sono pure invenzioni di questo poeta, il quale si compiaceva di abbassare gli dei alla condizione degli uomini; sarebbe stato meglio elevare gli uomini a quella degli dei.
"Cosa diciamo ogni giorno sui giornali?
Se avessi bisogno di altri esempi illustri, non avrei che da aprire il primo volume di critica, perché oggi va di moda ristampare in volume l'inutilità settimanale che si pubblica sui giornali. Vedremmo lì, tra le altre cose, che il povero Gérard de Nerval è stato portato a una tragica morte dal realismo. È un gentiluomo dilettante che scrive tali miserie; i tuoi drammi elettorali sono contaminati dal realismo.
Contengono contadini. Qui sta il delitto. In tempi recenti, Béranger è stato accusato di realismo.
Come le parole possono guidare gli uomini!
Il signor Courbet è un fazioso per aver rappresentato in buona fede borghesi, contadini, donne di paese a grandezza naturale. Questo era il primo punto. Non vogliamo ammettere che uno spaccapietre valga un principe: la nobiltà è presidiata dal fatto che tanti metri di tela sono concessi alla gente comune; solo i sovrani hanno il diritto di essere dipinti a figura intera, con le loro decorazioni, i loro ricami e i loro volti ufficiali. Come? Un uomo di Ornans, un contadino chiuso nella sua bara, si permette di radunare al suo funerale una folla considerevole: contadini, gente di basso ceto, e questa rappresentazione ha lo sviluppo che lo stesso Largillière aveva il diritto di dare ai magistrati che andavano a la Messa dello Spirito Santo *. Se Velasquez ha fatto grandi cose, sono stati i grandi signori di Spagna, infanti, infante; c'è almeno la seta lì, l'oro sui vestiti, le decorazioni e le piume. Van der Helst ha dipinto i borgomastri a tutta altezza, ma questi grossi fiamminghi si salvano con il costume.
Sembra che il nostro costume non sia un costume: mi vergogno davvero, signora, a soffermarmi su tali ragioni. Il costume di ogni epoca è regolato da leggi sconosciute, igieniche, che scivolano nella moda, senza che quest'ultima se ne accorga. Ogni cinquant'anni, i costumi vengono sconvolti in Francia; come volti, diventano storici e curiosi da studiare, singolari da guardare, come gli abiti di una tribù di selvaggi. I ritratti di Gérard, del 1800, che potevano sembrare volgari in linea di principio, assumono in seguito una svolta e una fisionomia singolari. Quello che gli artisti chiamano costume, vale a dire, mille sciocchezze (piume, mosche, aigrette, ecc.), possono divertire per un momento le menti frivole; ma molto più interessante è la rappresentazione seria della personalità attuale, i cappelli tondi, gli abiti neri, le scarpe verniciate o gli zoccoli dei contadini.
Possono concedermelo, ma diranno: Il tuo pittore manca di ideali. Risponderò a questo fra poco, con l'aiuto di un uomo che ha saputo trarre dall'opera del signor Courbet conclusioni piene di grande buon senso.
I quaranta dipinti di Avenue Montaigne contengono paesaggi, ritratti, animali, grandi scene domestiche e un'opera che l'artista intitola: ‘Real Allegory’. A colpo d'occhio, è possibile seguire i progressi compiuti nella mente e nel pennello del signor Courbet. Soprattutto è nato pittore, vale a dire, nessuno può contestare il suo robusto e potente talento di lavoratore: attacca una grande macchina con impavidità, può non sedurre tutti gli sguardi, alcune parti possono essere sciatte o goffe, ma ognuno dei suoi quadri è dipinto. Invoco soprattutto i pittori fiamminghi e spagnoli. Veronese, Rubens, saranno sempre grandi pittori, a qualunque opinione si appartenga, a qualunque punto di vista si adotti. Quindi non conosco nessuno che pensi di negare le qualità del signor Courbet come pittore.
Il signor Courbet non abusa della sonorità dei toni, poiché il linguaggio musicale è stato trasportato nel dominio della pittura. L'impressione dei suoi dipinti sarà tanto più duratura. È dominio di ogni opera seria non attirare l'attenzione con inutili echi: vivrà ancora una dolce sinfonia di Haydn, intima e domestica, di cui parleremo con scherno delle numerose trombe di M. Berlioz. I lampi di ottoni nella musica non significano altro che i toni rumorosi nella pittura. I maestri la cui tavolozza è infuriata e contiene lampi, toni rumorosi sono goffamente chiamati coloristi. La gamma [cromatica] del signor Courbet è tranquilla, imponente e calma; anche io non sono stato sorpreso di trovare, consacrato ora per sempre nella mia mente, il famoso ‘Seppellimento di Ornans’, che fu il primo colpo di cannone sparato dal pittore, considerato un rivoltoso nell'arte. Quasi otto anni fa stampai sul signor Courbet, un uomo sconosciuto, frasi che annunciavano il suo destino: non le citerò, non mi interessa essere il primo ad avere ragione più che indossare le mode di giorno di Longchamps. Indovinare gli uomini e le opere dieci anni prima della maggioranza, pura faccenda del dandismo letterario che fa perdere molto tempo. Nelle sue molte critiche, Stendhal stampava, nel 1825, verità audaci, che lo facevano soffrire troppo. Ancora oggi, è ancora in anticipo sui tempi. "Scommetterei, scrisse a un amico nel 1822, che tra vent'anni suoneremo, in Francia, Shakespeare in prosa". Trentatré anni fa, e, molto certamente, signora, non avremo questo godimento durante la nostra vita. Il signor Courbet è lungi dall'essere accettato oggi, lo sarà certamente prima di qualche anno.
Non sarebbe recitare la parte del ficcanaso scrivere, tra vent'anni, che avevo indovinato M. Courbet?
Il pubblico non si preoccupa molto degli asini che ragliano quando la musica di Rossini è eseguita in Francia; lo spirituale, l'amoroso Rossini fu trattato ai suoi inizi con la stessa scarsa considerazione del signor Courbet. Molti insulti sono stati stampati sulle sue opere come sulla sepoltura.
Che senso ha avere ragione? Non abbiamo mai ragione.
Due badili di villaggio dalla faccia rossa, due sacchi di vino, serviranno da tema per quelle riviste letterarie di cui vi parlavo prima; metterli in contrasto, nello stesso quadro, con i graziosi bambini, il gruppo di donne, le dolenti, belle nel loro dolore come tutte le Antigoni dell'antichità, è impossibile avere ragione.
Il sole splende a mezzogiorno sulle rocce, l'erba è allegra e sorride ai raggi, l'aria è fresca, lo spazio è grande, si riscopre la natura delle montagne, se ne respirano i profumi; arriva un burlone che, per aver tratto la sua educazione e la sua arguzia dal ‘Journal pour rire’, metterà in ridicolo le ‘Demoiselles de village’.
La critica è un brutto mestiere che paralizza le facoltà più nobili dell'uomo, le spegne e le annienta: perciò la critica ha reale importanza solo nelle mani di illustri creatori: Diderot, Goethe, voi, Madame, Balzac, e altri, che preferiscono bagnarsi fibre entusiaste ogni mattina piuttosto che annaffiare i cardi che ogni critico tiene chiusi alla finestra in un brutto vaso.
Ho trovato, in avenue Montaigne, queste famose bagnanti, più piene di scandali che di carne. Sono passati due anni da quando questo famoso clamore si è spento, e tutto quello che vedo oggi è una creatura solidamente dipinta che ha commesso il grave errore, per gli amici del convenzionale, di non ricordare le Veneri Anadiomene dell'antichità.
Il signor Proudhon, nella ‘Filosofia del progresso’ (1853), giudicava seriamente le Bagnanti: "L'immagine del vizio come della virtù è tanto nel dominio della pittura quanto della poesia: a seconda della lezione che l'artista vuole dare, ogni figura, bella o brutta, può adempiere allo scopo dell'arte."
Qualsiasi figura, bella o brutta, può soddisfare lo scopo dell'arte!
E il filosofo continua: «Il popolo, riconoscendosi nella sua miseria, impari ad arrossire per la sua viltà e a detestare i suoi tiranni; l'aristocrazia, esposta nella sua grassa e oscena nudità, riceva, su ogni suo muscolo, la flagellazione del suo parassitismo, della sua insolenza e della sua corruzione». Passo poche righe e arrivo alla conclusione: "E che ogni generazione, depositando così sulla tela e sul marmo il segreto del suo genio, giunge ai posteri senza altra colpa o apologia che le opere dei suoi artisti". Queste poche parole non ci fanno forse dimenticare le stupidaggini che non dovremmo né ascoltare né udire, ma che infastidiscono come una mosca insistente nel suo ronzio?
‘L'atelier del pittore’, di cui si parlerà intensamente, non è l'ultima parola del signor Courbet. Sedotto dai grandi maestri fiamminghi e spagnoli che, in ogni tempo, hanno raggruppato intorno a sé la loro famiglia, i loro amici, i loro mecenati, il signor Courbet ha voluto provare a lasciare questa volta il dominio della pura realtà: vera allegoria, dice nel suo Catalogo. Sono due parole che giurano insieme, e che mi turbano un po'. Bisogna fare attenzione a non piegare il linguaggio a idee simboliche che il pennello può tentare di tradurre, ma che la grammatica non adotta. Un'allegoria non può essere reale, non più di quanto una realtà possa diventare allegorica: la confusione è già abbastanza grande su questa famosa parola ‘realismo’, senza che sia necessario confonderla ancora di più.
Il pittore è al centro del suo studio, vicino al cavalletto, intento a dipingere un paesaggio, allontanandosi dalla tela in posa vittoriosa e trionfante. Una donna nuda è in piedi vicino al cavalletto. Poserà in questo paesaggio? Questo è ciò che sembra strano. A due passi dal pittore c'è un piccolo contadino che dà le spalle al pubblico, di cui non si vede il volto e la cui pantomima è così espressiva che si intravedono gli occhi, la bocca. Questo piccolo contadino è la figura migliore del dipinto. È piuttosto sconcertato nel vedere su una tela questi alberi dopo i quali si arrampica, questa vegetazione su cui si rotola, queste rocce su cui passa il suo tempo al sole, inseguendo i nidi.
A destra, una donna di società a braccetto con il marito viene a visitare il laboratorio, il suo bambino gioca con le stampe. (È proprio sicuro il signor Courbet che un bambino piccolo di un ricco borghese entrerebbe in uno studio con i suoi genitori quando c'è una donna nuda lì?) Poeti, musicisti, filosofi, amanti, occupano ciascuno a modo suo durante il lavoro del artista. Tanto per la realtà.
A sinistra, mendicanti, ebrei, donne che allattano, becchini, pagliericci, un bracconiere che guarda con disprezzo un cappello piumato, un pugnale, ecc. (defunti del romanticismo senza dubbio), rappresentano l'allegoria, vale a dire che tutti questi personaggi delle classi inferiori sono quelli che l'artista ama dipingere, traendo ispirazione dalla miseria dei miserabili. Tale è, grosso modo, la sostanza di questo quadro, al quale preferisco, da parte mia, il ‘Seppellimento di Ornans’.
Molti saranno, secondo me, i primi negazionisti di M. Courbet; ma non ho paura di schierarmi momentaneamente con loro, mentre spiego i miei pensieri. Nel campo delle arti è consuetudine mettere fuori combattimento i vivi con i morti, le nuove opere di un maestro con le sue vecchie. Coloro che, all'inizio, avranno più gridato contro la ‘Sepoltura’, saranno necessariamente quelli che oggi la loderanno di più. Non volendo confondermi con i nichilisti, devo dire che colpisce il pensiero del Sepolcro, chiaro a tutti, che è la rappresentazione di una sepoltura in un piccolo paese, e che tuttavia riproduce le sepolture di tutte le piccole città.
Il trionfo dell'artista che dipinge le individualità risponde alle intime osservazioni di ciascuno, sceglie, in tal modo, un tipo che ognuno creda di averlo conosciuto e possa esclamare: "Quello è vero, io ho visto!" Il ‘Seppellimento’ possiede queste facoltà al massimo grado: commuove, addolcisce, fa sorridere, dà da pensare e lascia nella mente, nonostante la tomba semiaperta, questa suprema tranquillità condivisa dal becchino, tipo grandioso e filosofico che il pittore seppe riprodurre in tutta la sua bellezza di uomo del popolo.
Dal 1848 il signor Courbet ha il privilegio di stupire la folla: ogni anno ci si aspettano sorprese, e finora il pittore ha risposto agli amici come ai nemici.
Nel 1848 il ‘Dopo cena a Ornans’, grande dipinto d'interni di famiglia, ottiene un vero successo senza troppe polemiche. È sempre così agli inizi di un artista. Poi vennero gli scandali successivi:
1° scandalo . — La sepoltura a Ornans (1850).
2° scandalo . - Le fanciulle del villaggio (1851).
3 ° scandalo. — Le bagnanti (1852).
4° scandalo . - Realismo. — Mostra privata. - Manifesto. — Quaranta dipinti esposti. — Combinazione di vari scandali, ecc. (1855).
Ora, di tutti questi scandali, preferisco il ‘Seppellimento’ a tutte le altre tele, per il pensiero che vi è racchiuso, per il dramma completo e umano dove il grottesco, le lacrime, l'egoismo, l'indifferenza, sono trattati come un gran maestro. ‘La sepoltura di Ornans’ è un capolavoro: dopo l'assassinato Marat di David, nulla, in quest'ordine di idee, è stato dipinto in modo più sorprendente in Francia.
Les Baigneuses, les Lutteurs, les Casseurs de pierre, non contengono le idee che siamo stati bravi a metterci a posteriori. Lo ritroverò di più in Les Demoiselles de village e nei tanti paesaggi che dimostrano quanto M. Courbet sia legato alla sua terra natale, alla sua profonda nazionalità locale e al vantaggio che ne può trarre.
Ripetiamo ancora una volta questa vecchia barzelletta: viva il brutto! è amabile solo il brutto, che si mette in bocca al pittore; è sorprendente che si osi raccogliere una tale assurdità, che è stata lanciata, già trent'anni fa, alla testa del signor Victor Hugo e della sua scuola. Sempre il sistema della vecchia tragedia rinascerà dalle sue ceneri. I progressi sono molto lenti e abbiamo fatto pochi progressi per trent'anni.
Quindi è dovere di tutti coloro che lottano aiutarsi a vicenda, attirare se necessario l'ira dei mediocri, essere saldi nelle loro opinioni, seri nei loro giudizi, e non imitare la prudenza del vecchio.
La mia mano è piena di verità, mi affretto ad aprirla.
Questa lettera, signora, è solo l'annuncio di alcune altre lettere che trattano più direttamente delle nuove idee che si respirano e che cercherò di fissare, applicandomi soprattutto a quelle relative alla letteratura.
Ho criticato un po' ‘L'Atelier du painter’, anche se c'è un vero progresso nello stile del signor Courbet: senza dubbio trarrà beneficio dall'essere visto più tranquillamente in altri momenti. La mia prima impressione è stata tale, e generalmente credo alla mia prima impressione. Pettegolezzi, commenti, recensioni di giornali, amici e nemici, poi turbano il cervello a tal punto che è difficile trovare il pensiero nella sua prima purezza: ma sopra l'impressione, metto le opere misteriose del tempo, che demolisce un'opera o lo ripristina. Ogni opera piena di convinzione è trattata con amore dal tempo, che passa la sua spugna solo sull'inutilità della moda, delle graziose imitazioni del passato e delle opere di convenzione.
Se c'è una qualità che il signor Courbet possiede al massimo grado, è la convinzione. Non puoi negarlo più del calore al sole. Cammina con passo sicuro nell'arte, mostra con orgoglio da dove è partito, dove è arrivato, somigliando in questo al ricco fabbricante che aveva appeso al suo soffitto gli zoccoli che lo avevano portato a Parigi.
Il Ritratto dell'Autore (studio dei Veneziani), come egli stesso dice nel suo catalogo, Testa di fanciulla (pastiche fiorentino), il Paesaggio Immaginario (pastiche fiammingo), infine l'Affût, che l'autore si intitola piacevolmente Studio landscape, sono gli zoccoli con cui arrivò da Ornans e che gli servirono per rincorrere la natura.
Queste poche tavole appartengono al dominio della convenzione; che passi da gigante ha fatto il pittore da allora per lasciare questo paese amato dai pittori del quartiere di Bréda! Sicuramente avrebbe ottenuto successo in questo paese, se avesse avuto la pigrizia di rimanervi, e avrebbe ingrossato la popolazione di un centinaio di artisti di talento, il cui successo è così grande alle vetrine dei mercanti di quadri di Rue Notre-Dame Dama di Lorette.
Che mestiere facile fare cose belle, tenere, graziose, preziose, falsi ideali, cose adatte all'uso delle ragazze e dei banchieri! Il signor Courbet non ha seguito questa strada, guidato peraltro dal suo temperamento. Così il signor Proudhon gli annunciò il suo destino nel 1853.
Il pubblico, ha detto, vuole che lo facciamo bello e crede che sia così.
"Un artista che, nell'esercizio del suo studio, seguisse i principi dell'estetica qui formulati (ricordo l'assioma precedente: ogni figura bella o brutta può adempiere allo scopo dell'arte), sarebbe trattato come sedizioso, espulso dalla competizione, privato degli ordini statali e condannato a morire di fame".
Questa questione della bruttezza in relazione a Les Baigneuses, il filosofo l'ha trattata da un luogo elevato. Sa quanto peso ha il morale sul fisico. Il caricaturista Daumier ha visto il fatto dal lato grottesco. Gli eterni borghesi che ha immortalato con la sua matita e che vivranno i secoli in tutta la loro bruttezza moderna, esclamano guardando un quadro del signor Courbet: "È possibile dipingere persone così orribili?" Ma soprattutto i borghesi, che abbiamo troppo denigrato è necessario collocare una classe più intelligente, che abbia tutti i vizi della vecchia aristocrazia senza averne le qualità. Intendo i figli dei borghesi, una razza che ha approfittato delle fortune di medici, avvocati, mercanti, che non ha fatto nulla, non ha imparato nulla, che si è buttato nei circoli di gioco, che ha la mania dei cavalli, dell'eleganza, che tocca tutto, anche la scrittura scrivania, che compra anche un'amante e un quarto di giornale, che vuole comandare donne e scrittori, è in vista di questa nuova razza che il filosofo Proudhon concludeva le sue valutazioni sul signor Courbet: "Il magistrato, il soldato, il commerciante, il contadino, tutte le condizioni della società, vedendosi alternativamente nell'idealismo della loro dignità e della loro bassezza, imparino, per gloria e per vergogna, a rettificare le loro idee, a correggere i loro costumi e perfezionare le loro istituzioni».

lunedì 20 novembre 2023

I fiamminghi 5: la prima fase dei Duchi di Borgogna Di Massimo Capuozzo

Lo scorso anno abbiamo lasciato Filippo l’Ardito ai suoi solenni funerali di stato, celebrati a Digione e abbiamo visto anche il suo pregiatissimo mausoleo funebre.
Fig. 1
Oggi, dopo tanti preamboli, ancorché necessari per avvicinarsi consapevolmente alla pittura fiamminga – una quasi introduzione, il Rinascimento e la sua diffusione e la questione fiamminga –, riprendo il mio racconto da quel punto, cioè dalla successione di Giovanni I di Borgogna, il celebre Giovanni Senza Paura, duca di Borgogna dal 1404 al 1419.
Fig. 2
Giovanni I di Borgogna, principe di sangue reale della casa capetingia di Valois, fu duca e conte di Borgogna, conte di Nevers, conte di Artois e di Fiandre e signore di Salins, di Mechelen e di altri luoghi dal 1404 alla sua morte.
Al momento della successione, il nuovo duca aveva trentatré anni.
Filippo l’Ardito, per stringere un’alleanza fruttuosa con la Casa di Baviera-Hainaut, aveva negoziato, favorevolmente per la Borgogna, il matrimonio del giovanissimo Giovanni, con Margherita, figlia di Alberto I di Baviera-Hainaut, facendo così acquisire per il futuro diritti su Hainaut, Olanda, Zelanda e Frisia occidentale.
Fig. 3
Quando Giovanni succedette a suo padre, continuò con fermezza la sua stessa politica di espansione, consolidando le basi di uno stato borgognone, attuando innanzi tutto una politica matrimoniale: negoziò infatti il matrimonio di suo fratello Antonio duca di Brabante con Elisabeth de Goerlitz, duchessa di Lussemburgo. Con questo matrimonio i duchi di Borgogna stendevano un ponte tra i loro paesi settentrionali e quelli della Borgogna a Sud.
Quando nel 1415 Antonio morì, combattendo nella battaglia di Azincourt nelle file dell'esercito francese, suo figlio Giovanni IV gli succedette come duca di Brabante; nel 1418, questo giovane principe sposò Jacqueline o Giacomina di Baviera, figlia del conte Guglielmo IV di Hainaut-Holland, già cognato di Giovanni Senza Paura. Guglielmo IV era appena morto e Jacqueline era la sua unica erede.
A questo punto è però necessario fare un passo indietro e rivolgere il nostro sguardo su Parigi, vale a dire sulla Francia.
Nel 1388, il ventenne re Carlo VI aveva recuperato di fatto il trono, lasciato per la sua minorità nelle mani dei suoi zii paterni, i duchi d'Angiò, di Berry, di Borgogna e dello zio materno il duca Luigi II di Borbone.
Fig. 4
Il giovane re, ottenuto il potere, continuò le riforme dello Stato già intraprese dal padre, e si diede all’organizzazione di feste grandiose, specialmente in occasione del suo matrimonio con Isabella di Baviera.
Fig. 5
Il povero Carlo però, dal 1392 incominciò a soffrire di gravi disturbi mentali e diventò sistematicamente vittima di attacchi di dissociazione mentale, che peggioravano di anno in anno.
I suoi zii ripresero allora il potere, ognuno di loro cercando come durante la minorità del re di far prevalere i propri interessi, ma la figura preminente di questo consiglio di reggenza rimase comunque quella del duca Filippo di Borgogna che sapeva tenere a bada il giovane, ambizioso e spendaccione duca Luigi d’Orleans, fratello minore del re ammalato.
Fig. 6
Alla morte però del duca Filippo nel 1404, suo figlio Giovanni  non riuscì a godere dello stesso ruolo di primo piano di cui aveva goduto suo padre nel Consiglio Reale in qualità di zio del re. La follia di Carlo VI rese la sua corte il luogo ideale di intrighi tra i principi di sangue reale cioè i figli e i nipoti discendenti maschi da un capostipite sovrano di Francia, che nel caso specifico erano i discendenti di Filippo VI di Valois.
Fin dall'inizio della malattia mentale di Carlo VI, due campi si erano battuti per il controllo del consiglio di reggenza: quello guidato da Filippo di Borgogna, il potente zio del re, e quello dell’ambiziosissimo Luigi I d'Orléans, fratello di Carlo VI. Dopo la morte di Filippo l’Ardito però, l’influenza di Luigi d'Orléans sul consiglio di reggenza crebbe molto e nella stessa misura diminuì il potere del nuovo duca di Borgogna Giovanni.
La lotta per il potere tra i due duchi d'Orleans e di Borgogna scoppiò con una violenza tale che la feudalità francese si divise in due campi avversi. La situazione si aggravava ulteriormente perché i delfini che la regina Isabella aveva partorito purtroppo morivano l’uno dopo l'altro, pertanto il duca d'Orleans cominciava a cullare il sogno che un giorno sarebbe salito lui al trono e, nel frattempo, prendeva posto nell’alcova della regina.
All'inizio, la disputa fra i due cugini rispettò, o per lo meno cercò di rispettare, delle forme cortesi, ma l'odio tra due i rivali era troppo profondo e gli interessi in gioco troppo alti.
Giovanni non beneficiava dello stesso ruolo svolto dal padre, essendo soltanto un cugino del re, ma era bisognoso quanto il padre delle finanze reali per espandere ulteriormente il suo principato, i suoi interessi si scontravano però con quelli del duca d'Orleans.
Ridimensionato nel consiglio di reggenza, Giovanni giunse a marciare su Parigi e poi a progettare nel 1407 l'assassinio di Luigi d'Orléans: finanziando però l'omicidio di suo cugino, fece precipitare il Regno di Francia in una sanguinosa guerra civile tra gli Armagnacchi – sostenitori della Casa d'Orléans, che desideravano vendicare l'assassinio del duca Luigi, dapprima guidati dal giovane Carlo d’Orleans, figlio del duca assassinato, e successivamente da suo suocero Bernardo VII d'Armagnac –, e i Borgognoni riuniti dietro il duca Giovanni che in quel momento era il più potente feudatario di Francia.
Durante questa guerra civile, per circa un trentennio dal 1407 al 1435 le due fazioni si contesero la capitale e il controllo della reggenza di Carlo VI.
Oltre a queste rivalità dettate da interessi personali e dinastici, c’erano tuttavia anche sensibili differenze fra le due diverse concezioni di Stato e quelle in materia di religione, di economia e di diplomazia.
Questa guerra intestina indebolì molto la Francia, già in conflitto con l'Inghilterra nell’interminabile Guerra dei Cent'anni, dando a questo conflitto nuova linfa vitale e portando il nuovo re d'Inghilterra, Enrico V, grande statista, a cogliere l'occasione per rivendicare di nuovo i diritti che i Plantageneti inglesi vantavano sul trono di Francia.
Entrambe le fazioni cercarono il sostegno del potente sovrano inglese tanto che la guerra civile, insieme ai negoziati segreti condotti dalle due parti con Enrico V d'Inghilterra, rinfocolò nuovamente il conflitto anglo francese.
Enrico, progettò quindi una nuova spedizione e, sbarcato il 13 agosto del 1415 in una località vicina alla città francese di Harfleur, giunse dopo un mese di assedio a espugnare quest’importante piazzaforte, assicurandosi così una testa di ponte in Normandia. Il re inglese però intendeva raggiungere Calais, riprenderne il controllo e imbarcarsi poi per l’Inghilterra, ma l’esercito francese volle attaccare ad Azincourt e, approfittando della sua superiorità numerica, tentò di sbarrare la strada all'esercito del re d'Inghilterra.
La battaglia che ne seguì il 25 ottobre 1415 provocò una significativa sconfitta per l’esercito francese: la cavalleria pesante, resa meno efficace dal terreno fangoso e dalle trincee inglesi, fu trafitta da arcieri inglesi e gallesi, dotati di grandi archi a lunghissima gittata. L’esercito francese fu sgominato con l’ordine di Enrico V di non fare prigionieri e la battaglia si concluse con l'inaspettata e schiacciante vittoria dell’esercito inglese, nonostante le truppe francesi fossero molto superiori per numero e per cavalieri. Il più potente dei feudatari francesi, il duca Giovanni di Borgogna, era assente dalla battaglia: avrebbe voluto partecipare e aveva perfino mobilitato le sue truppe, ma il governo in quel momento guidato dagli Armagnacchi aveva da un lato ordinato al duca di Borgogna di inviare 500 uomini d'arme e 300 arcieri, ma dall’altro aveva fatto sapere che la sua presenza non era gradita. Giovanni senza Paura ordinò allora ai suoi vassalli di non andare in battaglia, un ordine che fu ovviamente disatteso infatti molti dei cavalieri francesi uccisi nella battaglia erano sudditi del duca di Borgogna, compresi i suoi fratelli Antonio di Brabante e Filippo de Nevers.
La battaglia di Azincourt, in cui la cavalleria francese era stata sonoramente sconfitta dai soldati inglesi in inferiorità numerica, è il simbolo della fine dell'epoca della cavalleria e dell'inizio della supremazia delle armi a distanza su quelle corpo a corpo. Questa battaglia segnò una svolta nell'arte della guerra in Europa: eserciti più maneggevoli e più articolati sconfiggevano masse eterogenee guidate dai propri feudatari dando retta solo al loro comandante e non al Connestabile del Regno sebbene fossero piene di coraggio e di nobiltà cavalleresca.
La disfatta della cavalleria francese di Azincourt, che seguiva quelle di Crécy del 1346 e di Poitiers del 1356, privò temporaneamente la Francia dei quadri dirigenti amministrativi e militari a causa dei numerosi uccisi anche tra gli ufficiali e i siniscalchi del re ed evidenziò la concezione superata che gli eserciti francesi avevano della guerra, in particolare del ruolo della cavalleria, mentre inglesi a occidente e ottomani a oriente avevano già organizzato eserciti uniti e disciplinati. I francesi, superiori in numero erano però incapaci di obbedire ad un unico comandante e come nella battaglia di Poitiers sessant'anni prima, avrebbero potuto avere interesse a negoziare con il re nemico, che nel frattempo data la disparità numerica aveva abbandonato il suo proposito di rivendicare la corona di Francia.
La sconfitta francese e il massacro voluto da Enrico V fu una delle cause principali di innesco della grande epopea di Giovanna d'Arco e, successivamente, dei grandi investimenti economici nel settore dell'artiglieria che sarebbe diventata una specialità francese nell’arte della guerra.
In seguito al massacro subito – prigionieri sgozzati, arsi vivi nei fienili dati alle fiamme – questa battaglia suscitò infine, nella popolazione francese un’anglofobia che alimentò un patriottismo preesistente in Francia fin dai tempi della battaglia di Bouvines e costantemente aumentata durante la Guerra dei Cent'anni.
Dalla sconfitta di Azincourt in poi, con la ventennale prigionia di Carlo d’Orleans, il partito degli Armagnacchi trovò un altro simbolo per il quale combattere e si schierò dalla parte del Delfino Carlo, il futuro Carlo VII, che in seguito al Trattato di Troyes era stato disconosciuto e diseredato dal re, (ciò implicitamente ammetteva la relazione della regina col defunto cognato), e la coppia reale aveva adottato come successore al trono Enrico V, in quanto fresco sposo della loro penultima figlia, la principessa Caterina di Valois.
Nel 1419, mentre Giovanni Senza Paura tentava una riconciliazione con la fazione degli Armagnacchi per respingere congiuntamente l'offensiva inglese, fu assassinato sul ponte di Montereau alla presenza del delfino Carlo.
L'assassinio di Giovanni Senza Paura portò i Borgognoni ad allearsi apertamente con gli inglesi e per tutto il Quattrocento quest’evento delittuoso rimase una condizione fondamentale nella discordia tra la Casa di Francia e la Casa di Borgogna.
Con quest’atto si concludeva la prima fase del governo dei duchi di Valois Borgogna e un’altra fase della Guerra dei Cent’anni che sembrava ormai non avere mai fine.
Come abbiamo già visto lo scorso anno, il primo centro della cultura borgognona legato ai Valois si era formato a Digione, ma non subito: Filippo l’Ardito, sentendosi inizialmente molto legato alla Francia, non si era quasi preoccupato del suo ducato. Gradualmente però, gli affari delle Fiandre e del Brabante lo avevano assorbito sempre più e questo rese la sua posizione più indipendente e più interessato ai suoi stati.
Contemporaneamente, il grande sviluppo dell'Arte nelle Fiandre aveva incominciato a sedurlo. Tra le varie commissioni artistiche di Filippo l’Ardito, il sito più importante era stato quello della Certosa di Champmol che sarebbe dovuto essere il sacrario dei duchi come Saint Denis lo era per i re di Francia.
Sempre lo scorso anno abbiamo visto anche diversi artisti olandesi rispondere agli inviti del duca e lasciare il loro paese per la capitale borgognona: i pittori Melchior Broederlam e Jean Malouel, e lo scultore Claus Sluter. Ed era stato proprio l'arrivo di Claus Sluter sul cantiere di Champmol che aveva provocato una vera e propria rivoluzione estetica, voltando le spalle alle forme flessuose ed eleganti del Gotico internazionale a favore di un nuovo stile monumentale più potente ed espressivo.
Mentre in Borgogna si preparava la strada dell’Arte fiamminga, in Francia, il massimo splendore del Gotico internazionale coincise proprio con il lungo e tormentato regno di Carlo VI (1380-1422).
Lo stile franco fiammingo non fu solo erede dello stile della corte e delle sue estensioni nell'arte a Parigi del primo periodo Valois, ma fu anche l’erede della grande arte senese di Simone Martini, assimilata come è noto attraverso la corte dei papi ad Avignone, e preannunciava i tempi nuovi della sua evoluzione nel realismo fiammingo con Robert Campin e Jan van Eyck.
Questi artisti franco-fiamminghi, tesero a creare un'arte di corte borgognona o, se si vuole raffigurando in maggiore misura soggetti biblici ed episodi della vita di santi, ma anche soggetti ispirati a opere poetiche profane, con un design elegante, un colore tanto più luminoso in quanto contrastava con lo scintillio degli sfondi dorati.
Tra Avignone e Bruges, quindi, la geografia politica e artistica dei quarantadue anni di regno di Carlo VI determinò una grande diffusione d’Arte, favorita dall'istituzione delle corti principesche d’Angiò, di Berry, di Borgogna e dai rapporti privilegiati fra i duchi e i territori dei loro rispettivi principati.
Tra il 1380 e il 1450, molti artisti nati nelle Fiandre erano giunti a lavorare in Francia, a Parigi come ad Angers, come a Bourges e come a Digione.
La sensibilità dei duchi verso una modernità realistica di origine italiana – proveniente dalla miniatura lombarda e dalle opere che i maestri italiani avevano lasciato ad Avignone – e soprattutto quella dell'acuta osservazione della natura degli artisti provenienti dalle Fiandre, diventarono le componenti fondamentali della miniatura franco-fiamminga dell’ultimo quarto del Trecento e del primo Quattrocento, che raggiunse una sintesi tra la tradizione aristocratica dei modi cortesi francesi e il gusto tipicamente olandese per un naturalismo molto più sensibile e per un'espressione di chiara estrazione borghese.
Ma accanto al grande mecenatismo dei duchi, ciò che fece aumentare il valore dell’Arte dipese dal fatto che la creazione di un'opera di qualsiasi importanza richiedeva spesso un concorso di talenti e anche rapporti di collaborazione fra le varie specialità artigianali.
Tecniche complesse e costose come arazzi, vetrate, oreficeria, ebanisteria o libri miniati coinvolgevano varie figure in interazione: per esempio quando intorno al 1375, il duca Luigi I d'Angiò ordinò il celeberrimo Arazzo dell'Apocalisse, si rivolse a Nicolas Bataille, un mercante che gestiva con competenze tecniche d’avanguardia laboratori di tessitura a Parigi, poi chiamò Jan Bondol di Bruges, il pittore di suo fratello il re Carlo V, per creare i cartoni preparatori, infine spettò ai tessitori di Arras interpretare il modello disegnato da Bondol con i fili di lana colorati.
Il regno dell’infelice Carlo VI presenta un curioso paradosso.
Politicamente, fu uno dei periodi più turbolenti della storia di Francia: la follia del re che rendeva la corte un covo di vipere, il Grande Scisma che dilaniava la cristianità occidentale con la sua successione di papi e di antipapi, la guerra civile tra Borgognoni e Armagnacchi che dilaniò internamente la Francia, le rivolte nelle strade di Parigi, il ritorno della peste, la sconfitta di Azincourt e l'occupazione inglese gettarono il Paese nel caos.
Ma artisticamente, quei quarant'anni furono un periodo magico.
La fioritura delle arti fu straordinaria e in parte era legata proprio alle stesse cause della crisi politica: la rivalità dei principi che si contendevano il potere effettivo portò a un'emulazione nello splendore quasi regale di cui essi amavano circondarsi, spesso indebitandosi fortemente. Il moltiplicarsi dei mecenati che, come figli, fratelli o zii di re, erano in grado di competere con lo stesso mecenatismo regio. I più famosi fra questi principi erano quelli della generazione di Carlo V: i suoi fratelli Luigi I d'Angiò, Giovanni di Berry e Filippo l’Ardito, duca di Borgogna, e in parte anche suo cognato Luigi II, duca di Borbone. Nel loro mecenatismo, ebbero un illustre modello proprio nel defunto re Carlo V, che era stato un abile collezionista di manoscritti, un amante delle pietre preziose e un grande costruttore.
Nella generazione successiva ci furono il re Carlo VI e la regina Isabella di Baviera, il fratello del re Luigi d'Orléans e i loro cugini, Luigi II d'Angiò e Giovanni di Borgogna.
I principi della famiglia di Valois, le loro mogli e i loro figli erano instancabili mecenati. La loro domanda stimolò tutte le forme di artigianato a Parigi, di cui essi erano clienti tanto più attivi in quanto risiedevano più spesso nelle loro residenze parigine che nei loro principati.
Gli antagonismi tra i grandi signori non devono tuttavia far dimenticare l'importanza che essi attribuivano ai legami familiari e agli affetti che li univano: legami politici e alleanze si manifestavano con frequenti scambi di doni, specialmente sotto forma di omaggi e molti pezzi di oreficeria e altrettanti manoscritti miniati furono commissionati appositamente per questa finalità.
Le commissioni di Filippo l’Ardito e poi di Giovanni senza Paura fecero di Digione la loro residenza principesca e della Certosa di Champmol un centro di creazione che non solo ha lasciato ai posteri un gran numero di dipinti ma, coloro che lavorarono nell’ambiente di Champol diffusero in altre regioni circostanti lo stile che avevano appreso in Borgogna.
Gli artisti ufficiali dei duchi di Borgogna si susseguirono con una tale continuità che si potrebbe anche parlare di una vera e propria scuola
Osserviamone la cronologia.
Nel 1375 Filippo l’Ardito assunse Jean de Beaumetz che era già stato al servizio di Giovanni d'Orléans.
Di origine nordica, Jean de Beaumetz si era formato anche lui nell'ambiente parigino ed era stato il leader di una nuova generazione delle Fiandre. Decorò i castelli di Argilly e Germolles e dipinse tavole e pale d'altare per i monaci della Certosa di Champmol. Intorno al 1375, Jean de Beaumetz dipinse il Calvario alla certosa.
Fig. 7
Quando morì nel 1396, Jean Malouel gli succedette nel favore di Filippo l’Ardito.
Jean Malouel, zio dei fratelli di Limburgo e pittore alla corte di Borgogna, partecipò alla decorazione della Certosa di Digione, ma lavorò anche a Parigi e all’incirca nel 1400 dipinse la Grande Pietà Rotonda.
Fig.8
In questo meraviglioso tondo, forse il primo nella Storia dell’Arte occidentale, il bellissimo corpo di Cristo è trattato con la massima delicatezza pittorica. Il dolore degli angeli e il sangue che gocciola dalle ferite aperte servono a commuovere i fedeli, ma la preziosità gotica dei gesti sfugge a qualsiasi senso morboso.
In alcuni punti, l'applicazione dei colori è straordinariamente raffinata. Il pittore utilizzò altre lacche trasparenti e nuovi leganti: questo fu un periodo di transizione verso un rinnovamento delle tecniche pittoriche che avrebbe raggiunto il suo apice pochi anni dopo con l'arte dei fratelli van Eyck. Sul retro, il dipinto reca lo stemma di Borgogna, segno della commissione ducale.
Questo dipinto, assolutamente di rara bellezza, era probabilmente destinato alla certosa di Champmol e oggi è esposto al Museo del Louvre.
Ancora di Jean Malouel la Vergine col Bambino, realizzata all’incirca fra il 1410 e il 1412, nota anche come la Vergine delle Farfalle è esposta nella Gemäldegalerie a Berlino.
Fig. 9
Questo dipinto era probabilmente la controparte di un ritratto di Giovanni Senza Paura ora perduto.
Le farfalle, da cui il dipinto prende il titolo, svolazzavano sullo sfondo scuro. Jean Malouel in quest’opera combina la monumentalità dei personaggi principali con la delicatezza dei dettagli decorativi, come le farfalle e i cherubini rossi sullo sfondo. Il suo modo di trattare volti e mani ricorda ancora i modelli italiani. Per la figura monumentale della Vergine Maria che domina la composizione Malouel si ispirò alle grandi figure plastiche di Claus Sluter, che conosceva bene poiché era responsabile della policromia e della doratura delle statue della Certosa di Champmol.
Henri Bellechose fu l'autore, intorno al 1415, della memorabile Pala d'altare di Saint Denis dipinta per la chiesa della Certosa di Champmol che, com’è noto, era posta sotto il titolo della SS. Trinità.
Da quel momento Bellechose diventò il pittore ufficiale di Giovanni senza Paura
Fig. 10
Oggi la pala si trova a Parigi, nel Museo del Louvre.
Nativo di Breda, nei Paesi Bassi, Henri Bellechose ricoprì la carica di pittore ufficiale alla corte di Borgogna dal 1415 al 1445, succedendo al suo maestro Jean Malouel, ma, dopo un inizio molto promettente, ricevette poche commissioni ducali forse per le controverse vicende politiche nelle quali era coinvolto il duca di Borgogna.
Nelle scene della vita di Saint Denis, il leggendario primo vescovo di Parigi, santo patrono di Francia e protettore speciale della casa reale a cui appartenevano anche i duchi di Borgogna, Bellechose volle essere fedele allo stile locale e utilizzò ampiamente l'oro per raffigurare tessuti preziosi e dettagli ispirati alla tradizione di corte. Il blu e l'oro dei paramenti liturgici sono un'evidente allusione ai colori del giglio francese.
L'intensità delle espressioni dei personaggi è il contributo più originale di Henri Bellechose alla pittura borgognona.
La sua coloritura chiara e brillante è quella di un miniaturista e le somiglianze con le Ore del Duca di Berry e la Bibbia moralizzata per Filippo l’Ardito: entrambi codici ci conducono all'ambiente dei fratelli di Limburgo.
Ai lati di Cristo in croce, assistito dall’Eterno Padre e dallo Spirito Santo, sulla lato sinistro Saint Denis riceve nella sua prigione l'ultima comunione dalla stessa mano di Cristo e sulla destra subisce il martirio insieme ai suoi due compagni, Rustico ed Eleuterio.
È però Melchior Broederlam di Ypres ad occupare un posto fondamentale come anticipatore dei fiamminghi del Quattrocento: nel 1395, dipinse due famosi pannelli per una pala d'altare di Champmol. La suprema eleganza del design e dei colori collocano le sue due tavole all'apice della pittura del Gotico internazionale e nello stesso tempo all’inizio della prima pittura fiamminga. I suoi paesaggi, che segnano l'inizio della pittura fiamminga, denotano un artista fantastico.
Fig. 11
Fig. 12
Nel 1395, Melchior Broederlam, pittore e valletto di camera di Filippo l’Ardito, era stato incaricato di dipingere le portelle esterne di una pala d'altare per la Certosa di Champmol a Digione. Attraverso la bellezza dei colori e la ricchezza dei soggetti, Melchior Broederlam si innalzò al di sopra della severità e della solennità e sviluppò invece un mondo colorato. Se la raffigurazione del tempio ricorda il celebre dipinto di Ambrogio Lorenzetti nel 1342, la ieraticità della composizione in questo caso è arricchita da molti dettagli e da un'architettura delicata. Nel paesaggio adiacente alle figure umane, Broederlam è andato oltre tutti gli usi comuni delle pale d'altare. Un paesaggio così ricco o motivi così raffinati della pittura di genere, appartengono più alla miniatura e alla pittura riservata all'uso domestico. Qui, la diversità dei livelli, la novità e persino gli aspetti contraddittori del bello stile si manifestano molto chiaramente all'interno dello stesso dipinto.
Siccome la Borgogna era uno snodo tra Avignone, l'Italia e le Fiandre, i pittori dei duchi, pur avendo ancora molti legami con Parigi da cui essi più o meno direttamente discendevano, dal momento in cui soggiornarono a Digione, adottarono uno stile comune specifico della corte borgognona.
Al cosiddetto Maestro della Piccola Pietà Rotonda è attribuita anche La Deposizione dell'inizio del Quattrocento del Museo del Louvre.
Fig. 13
In questo piccolo pannello di devozione privata, la figura raffigurata a sinistra con in mano un barattolo di unguento quasi sicuramente di mirra è probabilmente il duca Jean di Berry, il cui volto è abbastanza riconoscibile. Questo dipinto rivela un nuovo aspetto dell’iconografia della Deposizione del primo Quattrocento: l'introduzione dei fedeli al centro della scena sacra.
Un pittore Anonimo intorno al 1420 dipinse una bella Pala della Crocifissione con le SS Barbara e Caterina detta anche Pala dei Conciatori considerata a lungo la testimonianza più importante dell'arte di Bruges intorno al 1400.
Questa pala, ora conservata nel tesoro della Cattedrale del SS. Salvatore proveniva dalla sala riunioni della Corporazione dei conciatori di Bruges. Sebbene mostri interessanti concordanze ancora con il Gotico internazionale, non esiste un'opera simile fino a quel momento nell'arte di Bruges.
Questa pala ha il pregio di essere uno dei dipinti più antichi conservati a Bruges ed è un esempio notevole della produzione artistica delle città fiamminghe dell'epoca, in cui lavoravano artisti come Broederlam, che in seguito continuarono a offrire i loro servizi alle corti principesche.
Dopo l'assassinio di Giovanni Senza Paura nel 1419, quando il ducato intraprese una politica ormai autonoma e focalizzata principalmente sulle Fiandre, l'influenza dell'arte internazionale di Parigi lasciò definitivamente il posto al nuovo prestigio di Van Eyck.
                                                  Massimo Capuozzo

domenica 19 novembre 2023

Il Manierismo 5: Michelangelo e la battaglia di Cascina

Michelangelo aveva appena completato il cartone della battaglia di Cascina a figure intere quando nel 1506 fu improvvisamente richiamato a Roma da Papa Giulio II della Rovere a causa della spiacevole e difficile situazione che si era creata per la realizzazione rinviata della tomba del Papa.
Michelangelo aveva studiato da vicino e con attenzione la statuaria antica e specialmente il “gruppo del Laocoonte”, rinvenuto qualche mese prima a Roma, proprio in sua presenza.
Quando il maestro era partito per Bologna per riconciliarsi con il Papa e poi insieme per Roma per iniziare i lavori della Sistina, il cartone si trovava nella Sala dell’Ospedale di Sant’Onofrio, dove Michelangelo lo aveva lasciato.
Alla visione panoramica di Leonardo, Michelangelo contrappose un momento preciso della Battaglia di Cascina del 1364, narrata da Filippo Villani, nipote del più noto Giovanni, di cui aveva continuato la “Cronica”.
Fino ad allora Leonardo e Michelangelo si erano guardati e odiati a distanza, ma fu nella Sala del Maggior Consiglio che avvenne il vero confronto tra i due grandi artisti toscani.
Diversamente dal cosmopolita Leonardo che rappresenta un momento, anche se topico della battaglia ma di una qualunque battaglia della sua epoca, il fiorentinissimo Michelangelo sceglie invece di rappresentare la scena specifica che immediatamente precedette lo scontro di Cascina, un episodio molto connotativo di quell’assolato luglio del 1364, che riporta la vicenda dei soldati fiorentini sorpresi dall’attacco dei pisani, mentre, per difendersi dalla calura, si stavano rinfrescando nelle acque dell’Arno.
Michelangelo quindi rappresenta il momento cruciale in cui i fiorentini escono dal fiume e si armano, e afferma anche in quest’opera l’assoluta centralità del nudo maschile che avrebbe accompagnato l’artista lungo l’intero percorso della sua carriera.
Il cartone preparatorio cui ora ci si riferisce, quello fedelmente copiato da Aristotele da Sangallo, racconta, infatti, la scena in cui i soldati dell’esercito fiorentino si erano fermati presso Cascina e, credendosi al sicuro, avevano deciso di rinfrescarsi facendo il bagno nell’Arno per la canicola di fine luglio. I pisani però, avendoli sorpresi impreparati, pensarono di averne facilmente ragione, ma non fu così.
Grazie alla prontezza di Manno Donati, uno dei capitani, al suo coraggio e alla sua capacità di comando, ma grazie anche alla disperazione, che diede ai soldati fiorentini la forza di rivestitisi in fretta e di battersi, essi sconfissero i nemici pisani, pur non essendo ancora adeguatamente equipaggiati.
L’episodio del bagno offrì a Michelangelo maggiore possibilità di dipingere il suo soggetto preferito, un’enorme composizione di nudi rappresentati nelle più diverse movenze, mostrando la sua eccezionale conoscenza dell'anatomia e la sua perfezione nell’uso del disegno.
Per Michelangelo, come per tutti gli artisti del Rinascimento, il corpo umano era il principale oggetto di studio, ma per lui la figura umana era qualcosa di più: era la celebrazione del corpo e in particolare del nudo, che l’artista portava al massimo grado della sua forza espressiva, perché il corpo doveva esprimere eroismo e mostrare, attraverso una potente struttura muscolare, una forza morale titanica. La nudità per Michelangelo è sempre dinamica, viva, colta nelle posture e nei movimenti più audaci e articolati, affinché si potesse mettere in evidenza la bellezza, l’armonia e la plasticità.
La sua arte è antinaturalistica e rifiuta pertanto l’illusione mimetica: se si osserva attentamente il cartone, ci si accorge infatti che il maestro non rispetta la composizione prospettica e rappresenta le figure di scorcio, presentando il punto più lontano come prossimo al più vicino e coprendo con il tratto più corto lo spazio più lungo.
E non solo. Già nel Tondo Doni, che realizza fra il 1505 e il 1506, quindi quasi contemporaneamente al Cartone della Battaglia di Cascina, Michelangelo si era rifatto a Luca Signorelli, autore anche lui di un tondo della cosiddetta Sacra Famiglia di Parte Guelfa della Galleria degli Uffizi. Ma, diversamente da Signorelli, Michelangelo nel Tondo Doni accosta colori opposti, complementari, di grande pulizia timbrica, colori che non si fondono insieme, ma anzi danno un’impressione di stridore e di contrasto.
È immaginabile la stessa cosa per il cartone, se fosse diventato affresco, e anche dei successivi colori che avrebbe utilizzato di lì a poco nella Sistina.
Quello stravolgimento della forma a spirale in favore della forma serpentinata già presente nel Tondo Doni e quei nudi sullo sfondo, irriverente citazione “umanistica” e pastorale ripresa da Signorelli, è forse già sintomo di un turbamento dell’arte che aveva raggiunto la perfezione dei temi e della forma nella corti dell’adulto Rinascimento.
Ebbene, anche nel Tondo Doni con la Sacra Famiglia in primo piano, si nota come Michelangelo continui ad essere uno scultore anche quando dipinge: San Giuseppe la Madonna e anche il Bambino sono caratterizzati da una grande fisicità, da muscoli ben definiti che risaltano dal fondo grazie ad una marcata linea di contorno. Proprio in quest’opera, nell’avvitamento verso l’alto comincia ad apparire completamente distinguibile la linea serpentinata, cioè quella torsione delle figure che segnò il tramonto dell’equilibrio classico.
Al primo sguardo, la Battaglia di Cascina colpisce per le posture dei personaggi, per quelle linee serpentinate che appaiono così lontane dall’equilibrio classico cui si è abituati dallo studio del Rinascimento e che ne sanciscono il tramonto.
Eppure, quel dispiegamento di addominali, di trapezi, di bicipiti e di glutei che suscitano oggi tanta ammirazione negli appassionati di fitness, provocarono il profondo disgusto in Leonardo, che paragonava quei corpi a grossi sacchi di noci, e suscitarono un moralistico orrore del Perugino, forse ancora traumatizzato dalle prediche di Savonarola, e ne rimase profondamente scandalizzato.
Michelangelo, piuttosto rissoso, ingiuriò il Perugino, finirono al tribunale, ma il corpo umano rimase il centro indiscusso di tutta la sua produzione, avendo condotto e continuando a condurre fondamentali ricerche di anatomia, per individuare l’esatta posizione della forma del corpo, e di fisiologia, per individuare il funzionamento dei fasci muscolari, dei tendini, delle cartilagini e delle ossa, per rappresentare con precisione le forme del corpo sia in stasi sia in movimento.
Analizzando poi più attentamente il Cartone, la varietà delle posizioni è impressionante. Ognuna ruota nel proprio spazio come una statua a tutto tondo, ciascuno in una cinetica diversa, in base al movimento che si prepara a compiere. Eppure, nonostante le torsioni anticlassiche a “serpentina” o forse grazie ad esse, i movimenti si presentano sempre naturali.
La scena dell’avviso dell’imminente pericolo del nemico aveva consentito a Michelangelo anche di cimentarsi nella raffigurazione del groviglio di corpi, a lui tanto cara, come aveva dimostrato, ancora giovinetto nella Battaglia fra centauri e Lapiti e come sarebbe stato di lì a poco nella Cappella Sistina. 
Si vede chi si affretta ad armarsi per aiutare ai compagni, chi si allaccia la corazza e molti che indossano le armi in strani atteggiamenti dettati dalla fretta. Chi eretto, chi in ginocchio, chi piegato e chi sorpreso a giacere.
A quelle anatomie possenti e massicce, a quei corpi che si torcono nei movimenti più disparati, a quei volti dei combattenti si aggiunge l’elemento dello stupore e si riesce quasi a percepire la loro paura per l’avvicinamento improvviso di un pericolo inaspettato e la loro angoscia per l’esito incerto.
Tra tutti, alcuni si evidenziano per una fisionomia particolare e per una maggiore definizione: l’uomo al centro, che si sta avvolgendo la testa con un panno forse è Galeotto Malatesta, capitano di ventura che si era unito ai fiorentini; accanto a lui c’è un uomo non più giovane con una lancia in mano che sembra correre verso lo spettatore. È Manno Donati riconoscibile dall’elmo indossato sul capo e perché impugna uno scudo.
E se è vero che la situazione stessa - l’uscita improvvisa dei soldati dall’acqua del fiume e la fretta di rivestirsi per affrontare il combattimento - imponeva a tutti questi slanci dinamici, è altrettanto vero che a monte del cartone c’era stato un lungo studio delle pose, ben documentato dalle fonti grafiche. E così il disegno prende un andamento circolare, che asseconda le rotondità del corpo, soprattutto in corrispondenza delle spalle e delle natiche, dove cioè la muscolatura si fa più evidente e, al tempo stesso, esalta l’energia e il dinamismo delle figure.
Michelangelo enfatizza la rappresentazione dei vigorosi corpi nudi, in torsioni impossibili, scorci mai visti, pose artificiose, in parte desunte dalla classicità e in parte ispirate al principio della “varietas”, preso a prestito dalla cultura letteraria, ma ormai entrato nel linguaggio figurativo più sperimentale. Su quest’opera così innovativa, ormai lontana dall’equilibrio e dalla compostezza del linguaggio rinascimentale, si sarebbe formata un’intera generazione di giovani artisti, tra i quali si deve ricordare lo stesso Raffaello, a Firenze dal 1504 al 1508.
La fama del cartone, e probabilmente anche di una o di più derivazioni, giunse fino a Venezia, dove Tiziano, all’inizio degli anni Venti, inserì una figura desunta dall’opera di Michelangelo in uno dei quattro dipinti per il Camerino di alabastro del duca Alfonso d’Este.
Anche Cellini nella sua autobiografia, ribadisce come, per la propria formazione, sia stata fondamentale la conoscenza delle opere fiorentine di Michelangelo, in particolare modo della Battaglia di Cascina che descrive così: “...quelle fanterie ignude che corrono a l’arme, e con tanti bei gesti, che mai né degli antichi, né d’altri moderni non si vide opera che arrivasse a così alto segno”.
Proprio a Benvenuto Cellini spetterà la definizione di “scuola del mondo” attribuita sia al cartone di Michelangelo sia a quello di Leonardo, per la loro esemplare funzione di modello innovativo per le nuove generazioni di artisti.
Un altro aspetto considerevole è che anche nella Battaglia di Cascina Michelangelo si ricolleghi a Luca Signorelli, nello specifico alla Resurrezione della carne, una delle scene del Ciclo del Giudizio Universale, nella stupefacente Cappella di San Brizio, del Duomo di Orvieto. Questo riferimento è per me estremamente importante, perché nella Storia dell’Arte gli affreschi orvietani di Signorelli sono sicuramente il più esplicito campanello d’allarme dell’incombente crisi religiosa, che la sensibilità di Michelangelo coglie al volo. Michelangelo era cresciuto nel giardino di San Marco, il convento di patronato mediceo di cui era priore il frate predicatore Girolamo Savonarola e ne aveva ascoltato le brucianti prediche.
Nell'immaginario dell'adolescente Michelangelo l'atmosfera intorno al priore e quella intorno al Magnifico si incrociarono dando vita alla dialettica propria del pensiero michelangiolesco, un orizzonte culturale che teneva insieme aspirazioni riformatrici e passione per l’antichità pagana, la logica del concreto e il misticismo spirituale. Spinte e controspinte dunque che sostennero e che affascinarono sempre Michelangelo e che si equilibrarono, costituendo il sostrato di tutti i suoi capolavori, dagli esordi fino alle sue ultime opere.
Anche in questo caso la raffigurazione michelangiolesca ha una duplice valenza. Da un lato il giovane maestro celebra un episodio eroico della storia fiorentina e per Michelangelo, come per Savonarola, la libertà politica era la condicio sine qua non della vita morale e religiosa, e allude pertanto al momento eroico della spiritualità cristiana. Dall’altro lato, per ogni cristiano, come per il soldato, l’ora della prova estrema giunge sempre inaspettata, ma è proprio quella paura che diventa angoscia può diventare forza di riscatto.
Si delinea così, l’ideale eroico di Michelangelo ancora più di quanto non fosse nel solitario eroe romantico David. Nella Battaglia di Cascina l’eroe è colui che, vincendo l’inerzia e il sonno della carne, afferma la propria spiritualità combattendo il male e si salva.
La figura dell’eroe è massiccia e muscolosa affinché il peso della materia sia evidente; ma anche nella massa si suscita un moto che la scuote, che la strappa all’inerzia, che le imprime una spinta che la riscatta.
Le opere di Leonardo e di Michelangelo erano diventate famose ancora prima della loro esecuzione in affresco per la straordinaria idea che i due artisti ne diedero già nei cartoni preparatori.
Come La battaglia di Anghiari di Leonardo, anche “La Battaglia di Cascina” ci è pervenuta purtroppo solo attraverso qualche bozzetto preparatorio di Michelangelo e attraverso numerose copie, tratte dal cartone ed eseguite da allievi e da artisti di ogni dove, fatte al tempo e in seguito, anche se non tutte fedeli.
Tra queste la più conosciuta e interessante è quella che si avvicina maggiormente all’originale attribuita al suo allievo Aristotele da Sangallo (1481-1551), realizzata con la tecnica della grisaille e oggi conservata alla Holkham Hall di Norfolk. Sangallo ne aveva fatto una prima copia su cartone dalla quale, nel 1542, su suggerimento di Vasari, deriva “un quadro ad olio di chiaro scuro” (quindi non a colori, riproducendo l’effetto del cartone originario), da identificare con la tavola oggi nella collezione Leicester.
Pur essendo andato perduto l’originale, secondo lo studio delle fonti è stato possibile formulare ricostruzione anche se ovviamente abbastanza sommaria: al centro si sarebbe dovuto trovare un soldato indossante le braghe, mentre a sinistra di quest’ultimo sarebbe dovuto esserci un gruppo di cavalieri, mentre ai lati dovrebbero esserci stati altri soldati in corsa, rappresentati nell’atto di salire a cavallo. Nulla osta tuttavia ipotizzare che Michelangelo abbia voluto dipingere solo quella scena a grandezza umana per evidenziare il gigantismo degli eroi.
La datazione della copia più fedele cioè quella del Sangallo dovrebbe risalire a un periodo anteriore al 1519, perché in seguito il cartone fu smembrato in molti pezzi, servendo, infatti, come studio per altri artisti, rimasti affascinati dal capolavoro michelangiolesco.
L‘opera del Sangallo può dare solo l’idea della composizione e della scena centrale, non avendo la certezza se essa raffiguri tutta la composizione di Michelangelo del cartone originale o forse solo una parte dello stesso, ma non meraviglierebbe nemmeno che Michelangelo abbia deciso di raffigurare solamente quella parte della battaglia.