Figlio di ricchi proprietari terrieri, Courbet (1819 - 1877) era un giovanotto alto e forte di Ornans, piccola città di 4.000 abitanti a 25 km da Besançon nella Franca Contea.
Dopo gli studi superiori in collegio a Besançon fu indirizzato prima agli studi di ingegneria poi a quelli di giurisprudenza ma, quando si trasferì a Parigi per studiare, passava più tempo al Louvre che su codici e pandette.
In quegli anni della giovinezza “bohèmien” frequentava artisti e intellettuali tra cui Baudelaire e Proudhon che esercitarono su di lui un notevole fascino. Iniziò a farsi un nome dipingendo principalmente ritratti e ben presto abbracciò gli ideali socialisti degli intellettuali progressisti. In pochi anni il bel giovanotto romantico diventò una sorta di rappresentante della ribellione, un festaiolo che concentrava la sua attenzione su donne e alcol oltre che sulla pittura.
Poco prima della fine del 1848 Courbet si trasferì in un laboratorio di “Rue Hautefeuille”, non lontano dalla birreria Andler-Keller che frequentava già dai suoi primi anni parigini e fece di questo luogo la sua “dependance”: lì, tra amici, furono sviluppate grandi teorie. Charles Baudelaire e lo scultore Auguste Clésinger erano assidui frequentatori e in quella birreria Gustave si incontrava con i suoi amici del gruppo di Ornans tra cui “Max Buchon” e il musicista “Alphonse Promayet”. Anche Henry Murger, Alexandre Schanne e una serie di persone che animavano la Bohème parigina frequentavano quella birreria e il loro atteggiamento traspariva dal look e dagli ideali che professavano. La sua statura imponente, il suo gusto per la birra e per la musica, facevano di Gustave un “leader”. Con la rivoluzione del 1848 alle porte, Courbet era al centro del fermento artistico e politico dell’altra Parigi. Lì suonava il violino, si legava ad artisti che volevano proporre una “terza via”, in opposizione al Romanticismo e ai gusti accademici: il nemico dichiarato era Paul Delaroche (1797 - 1856), pittore simbolo dell’accademismo. Charles Baudelaire o Hector Berlioz, di cui Courbet dipinse splendidi ritratti, erano le menti più brillanti di questo gruppo e qui, sotto la guida di Champfleury, Courbet gettò le basi del proprio stile, quello che egli stesso avrebbe chiamato "realismo", riprendendo un termine coniato dal suo gruppo, constatando di fatto che “il dipinto esisteva già sotto i loro occhi”.
I tempi però erano duri e Courbet continuava a non vendere nulla e ad essere squattrinato, salvo i congrui sussidi paterni.
A febbraio la rivoluzione li sorprese in tutta la sua violenza.
La rabbia ribolliva in tutta l’Europa tra moti rivolte e rivoluzioni. In Francia ci fu una vera e propria rivoluzione: la “Monarchia di Luglio” di Luigi Filippo fu rovesciata sotto la guida di liberali e repubblicani e fu nominato un governo provvisorio che proclamò la “Seconda Repubblica”, Luigi Napoleone Bonaparte fu eletto a suffragio “universale” maschile e diventò presidente di questa Repubblica.
Courbet sembrò credere in lui.
Il “Salon”, aperto 15 marzo 1848 accettò tre suoi disegni e sette dipinti ma, nonostante una menzione d'onore, non trovò alcun acquirente. Di contro la critica incominciò a notarlo: in “Le National”, “Prosper Haussard” (1802–1866) elogiò soprattutto “Le Violoncelliste”, un autoritratto, che secondo il critico era ispirato a Rembrandt, mentre Champfleury, che sarebbe stato uno degli amici più fedeli di Courbet, in “Le Pamphlet” ammirò la “Notte di Valpurga”.
Champfleury parlò molto del gruppo di “Rue Hautefeuille” e definì la birreria Andler “il tempio del realismo”. Un altro testimone e amico di Courbet, “Jules-Antoine Castagnary” (1830 – 1888) riferì che, fuori dal suo laboratorio, negli anni Sessanta dell'Ottocento “era nella birreria che Courbet si incontrava con il mondo esterno”.
A giugno le vicende politiche a Parigi peggiorarono. Gustave, sostenitore della non violenza, partecipò agli eventi relativamente da lontano. I suoi amici Champfleury, Baudelaire insieme allo studioso di linguistica Charles Toubin misero insieme in pochi giorni un giornale, “Le Salut public”, sul cui frontespizio Courbet realizzò una vignetta.
Alla morte di suo nonno Oudot il 13 agosto tornò come meglio poté a Ornans per partecipare ai funerali. A Ornans preparò i suoi primi dipinti aderendo risolutamente allo spirito di questo nuovo modo di vedere l’Arte.
Nel marzo 1849 Champfleury stilò per il pittore l'elenco delle undici opere proposte per il “Salon” e Baudelaire scrisse le note che accompagnavano la presentazione. Sei dipinti e un disegno furono selezionati da una giuria ora eletta dagli artisti stessi e proprio nella culla della Seconda Repubblica, e Courbet diventò il pittore singolare che noi tutti oggi conosciamo.
A Ornans dipinse una serie di opere, e soprattutto “Un dopo cena a Ornans”, che gli valse una medaglia d'oro e il suo primo acquisto da parte dello Stato per 1.500 franchi. Questo status di pittore premiato con medaglia d’oro, da quel momento in poi lo esonerò dalla approvazione della giuria e fu di conseguenza libero di esporre al “Salon” ciò che voleva.
Courbet usò questa possibilità per scuotere fin dalle radici i codici accademici.
Quest’olio su tela gli avrebbe assicurato la fama.
“Un dopo cena a Ornans” fu realizzato in un formato molto grande (250×200 cm) che Courbet avrebbe continuato ad adottare in futuro.
Il ritorno alle radici, nel suo paese natale, cambiò il suo modo di dipingere: abbandonò definitivamente lo stile “romantico” di alcuni dei suoi primi dipinti esposti e, ispirato dal suo “territorio”. “Il dopo cena” gli valse anche il consenso di alcuni critici, come il suo amico “Francis Wey” e il plauso di pittori tra cui “Ingres” e “Delacroix”, due mostri sacri della scena artistica francese.
I suoi paesaggi, ancora relativamente rari all'epoca, incominciarono gradualmente a essere dominati dall'identità del ritiro, della solitudine e dall'affermazione della potenza della natura, mentre contemporaneamente si stavano delineando gli inizi della “scuola di Barbizon” e della “scuola di Crozant”, fortemente influenzate da “John Constable”.
Ma osserviamo ora “Il dopocena a Ornans” dipinto a trent’anni nel 1849 e oggi esposto al “Palais des Beaux-Arts” di Lille.
Fig. 1
Dipinto a Ornans durante l'inverno del 1848-1849, inizialmente era intitolato “Una cena pomeridiana a Ornans”, e fu il primo dipinto "realista" su larga scala con cui Courbet sfidò le convenzioni rappresentative della pittura accademica.
Per realismo qui si intendono gli "effetti della realtà", basati su una scena di vita quotidiana realmente vissuta, con un piglio decisamente documentaristico: questo momento della vita del borghese di provincia passa infatti ai posteri.
“Il dopocena” fu la prima opera che lo rese famoso e fu anche il suo primo dipinto di grande formato, con figure quasi a grandezza naturale e fu inoltre la sua prima importante opera veramente realistica.
Si tratta di una scena “realmente” vissuta dal pittore, che racconta le circostanze e conferisce identità ai personaggi. Suo padre, Régis Courbet, è seduto a sinistra, con le gambe incrociate, una mano che tiene un bicchiere vuoto, l'altra in tasca, la testa abbassata e sembra assopito. Dietro il tavolo c'è il padrone di casa, Urbain Cuénot con aria pensierosa e, con la testa appoggiata sulla mano sinistra, guarda il musicista Alphonse Promayet, altro amico d'infanzia del pittore che, seduto nell'ombra suona il violino. Infine, l'ultimo personaggio, Adolphe Marlet, il cacciatore, è mostrato di spalle mentre accende con noncuranza la pipa, con il suo cane addormentato sotto la sedia.
In questo dipinto Courbet mostra la sua vita a Ornans, la sua famiglia, gli amici della sua giovinezza, li rappresenta con affetto, ma senza compiacimento, perché la ricerca della verità per lui ha la precedenza assoluta nell’Arte.
Il dipinto è immerso nella tenue luce di un pomeriggio autunnale, perché la cena evocata dal titolo è il pasto di mezzogiorno e non quello della sera. La luce pomeridiana illumina i volti, la tovaglia e la figura di spalle, lasciando nell'oscurità il resto della stanza; sullo sfondo si intravede appena un imponente camino.
I colori sono pochi e piuttosto scuri, neri profondi, marroni e grigi. Risaltano ancora di più i punti luminosi: la tovaglia bianca e l'abito beige del cacciatore. Gli abiti caldi dei personaggi e la presenza del cane da caccia contribuiscono a collocare la scena in autunno. Courbet rappresenta realisticamente anche gli avanzi del pasto sulla tavola e perfino una grande macchia di vino sulla tovaglia.
Fig. 2
Non cerca di abbellire la scena, ma di rappresentarla in tutta la sua realtà.
La composizione è costruita in profondità e dona perfettamente l'illusione dello spazio. Tutti questi elementi contribuiscono a evocare con forza un mondo reale e familiare.
La pittura francese del Seicento aveva già offerto numerosi esempi di “scene di genere” sul tema dei pasti, dei bevitori e dei musicisti, in particolare tra i Caravaggisti, il cui rappresentante più illustre era stato “Valentin de Boulogne”.
Fig. 3
Anche i fratelli Le Nain, che però non avevano avuto contatti con l’Italia, avevano fatto lo stesso all'inizio del Seicento mostrando il loro interesse per questo soggetto con dipinti come per esempio il “Pasto di contadini” in cui essi guardano lo spettatore e si mettono in posa, così come avevano fatto alcuni artisti del periodo d'oro della pittura olandese, per non parlare dei fiamminghi.
Fig. 4
Courbet traeva ispirazione dalla pittura nordica, fiamminga e olandese, dove la “scena di genere” aveva occupato un posto importante fin dal Rinascimento.
Avendo viaggiato in Belgio e nei Paesi Bassi negli anni precedenti, Courbet aveva potuto osservare e studiare il lavoro di quei pittori che soddisfacevano la sua esigenza di realismo.
La maggior parte di questi antichi dipinti avevano però dimensioni più modeste rispetto a “Dopo cena a Ornans” e i personaggi che comparivano in essi erano anonimi.
Dando grandi dimensioni alla sua opera e dando un nome ai personaggi, Courbet trasformava una “scena di genere” in un “soggetto storico”. E da questo la sua forza dirompente: i grandi formati, infatti, erano tradizionalmente riservati alla “pittura storica”, il genere più apprezzato dalla “Scuola di Belle Arti”. Courbet stava quindi incominciando a sconvolgere la tradizione, come avrebbe fatto ancora un anno dopo con “Un funerale a Ornans”.
Da ardente repubblicano qual era, voleva forse dimostrare che ognuno ha un suo posto nella Storia?
Questo desiderio di competere con la pittura storica può spiegare anche un'altra ipotizzabile fonte di ispirazione, “La Vocazione di San Matteo” di Caravaggio.
Fig.5
Courbet riprende apparentemente la composizione, che pone di lato e nell'ombra il personaggio in azione, la figura di Gesù in Caravaggio e il violinista nel “Dopocena” di Courbet, ma sembra riprendere anche i forti contrasti di ombra e di luce.
Si tratta però solo di un’assonanza, forse solo di una semplice coincidenza perché Courbet non era mai stato a Roma e non conosceva questo famoso dipinto romano se non da qualche incisione. Ma è troppo poco per parlare di una citazione.
Delacroix fu pieno di elogi e dichiarò: “Hai visto qualcosa di simile, o di così forte […]?" si domandava e rispondeva: "Ecco un innovatore, anche un rivoluzionario, che improvvisamente emerge senza precedenti”.
Il dipinto attirò l'attenzione, ma provocò anche molte critiche, in particolare da parte di Ingres e di Théophile Gautier. Per le sue dimensioni e la sua fattura – i personaggi sono quasi a grandezza naturale e uno di loro che è addirittura ritratto di spalle –, riprendeva le convenzioni della pittura di Storia, ma la scena raffigurata colpisce per la sua irrilevanza, per la sua banalità quotidiana.
Nella capitale nel giugno 1849 si svolsero violente manifestazioni e Gustave decise di ritornare a Ornans dopo il “Salon” che era stato finalmente autorizzato, ma gli apprezzamenti che riceveva in campo artistico non fecero altro che scatenare la furia delle critiche reazionarie che accusarono Courbet di essere un pittore del "grossolano", del "triviale", del "disgustoso". Ovviamente da intendere nel regno dell’Arte.
Nel frattempo a Parigi più di 30.000 soldati si erano stabiliti in città e mantenevano il coprifuoco.
Al suo arrivo a Ornans, in seguito al successo del “Dopocena” la cittadina riservò un'accoglienza trionfale all’”enfant prodige” del paese. Courbet fu celebrato come un eroe e vi si trattenne per un periodo più lungo. Suo padre gli allestì un laboratorio improvvisato nella soffitta della casa di famiglia dei nonni: sebbene di modeste dimensioni, in questo laboratorio compose le sue prime opere monumentali, che lo storico dell’Arte americano Michael Fried definisce “i dipinti della svolta”.
Courbet ora aveva tanto tempo per dipingere, visto che il successivo “Salon” era previsto solo fra dicembre 1850 e gennaio 1851.
Nel corso del 1850, dopo un tardo inverno trascorso a caccia e a ricongiungersi con gli abitanti della sua valle, dipinse “I contadini di Flagey di ritorno dalla fiera”, poi “Un funerale a Ornans”.
fig. 6
“I contadini di Flagey al ritorno dalla fiera” rappresenta ancora una volta un momento della vita quotidiana dei contadini della Franca Contea.
Osserviamo il dipinto.
Al calare della notte, i contadini, uomini e donne, ritornano dalla fiera di Salins con i loro acquisti.
Alcuni riportano nelle ceste il cibo avanzato, altri hanno acquistato animali da ingrassare. I più ricchi sono a cavallo, i più modesti li seguono a piedi.
La composizione di questa tela, in uno stile che per certi aspetti richiama l'immaginario popolare, ha però ancora qualcosa di artificioso: ai margini di questo strano corteo di contadini, sembra essere stato aggiunto l'uomo con il maiale, incastrato sull’insieme, a dipinto terminato.
Il gusto di Courbet per i dettagli veri (la pipa, il maiale, il suo ombrello, il cesto in bilico sulla testa del contadino) testimonia un’ansia di realismo, ma anche il valore sentimentale che quegli oggetti della vita quotidiana continuano ad avere per un ragazzo di paese.
Questo dipinto sarebbe stato esposto al “Salon” del 1851 con “Il funerale a Ornans” e “Gli spaccapietre”.
Se questi dipinti misero a disagio il pubblico quando nel 1851 furono esposti nella più importate manifestazione parigina fu perché essi mostravano, senza cercare minimamente di abbellirla, una realtà molto ordinaria, addirittura banale, e perché elevavano una “scena di genere” al rango di pittura storica. Questa sua pregiudiziale si riflette nella sua nuova estetica, perché questo leader del realismo amava definirsi anche un “pittore locale” che, legato alla sua “piccola patria”, riassumeva nella sua pittura le radici locali.
I campagnoli colti, composti principalmente da piccoli e da medi proprietari terrieri del Doubs, erano il pilastro di una democrazia egalitaria giunta ai limiti dell’agiatezza. In questo dipinto, Courbet si fa pittore di un piccolo contadino quasi ricco, amico della proprietà, la “massa granitica” di una società stabile e moderata.
Un altro esempio emblematico della sua svolta realistica è il dipinto “Gli spaccapietre” del 1849.
In esso Courbet cerca di mostrare la realtà senza filtri, senza farsi influenzare da punti di vista, da opinioni personali su un determinato soggetto.
Quando il dipinto fu esposto, il pubblico rimase perplesso chiedendosi che cosa stesse guardando: si trattava di un soggetto che non aveva nulla a che fare con i temi consueti dell’Arte, realizzato con un realismo “fotografico”, ma non quello di una fotografia con velleità estetiche, ma come quella di un qualsiasi reporter di cronaca.
Questo è un dipinto triste e, oltre a questo, ha avuto una storia drammatica. Esposto per la prima volta al Salon del 1850-1851, nel 1909 fu acquistato dalla “Gemäldegalerie Alte Meister” di Dresda e purtroppo andò distrutto insieme ad altri 154 dipinti nel corso del bombardamento alleato di Dresda nel febbraio 1945: mentre si cercava di mettere al sicuro queste opere trasportandole su camion verso la fortezza di Königstein per metterli, il camion fu colpito in pieno da una bomba. In seguito alla sua drammatica distruzione, degli “Spaccapietre” restano solo due fotografie.
Non era la prima volta che Courbet dipingeva un operaio: ad esempio, “Le Cheminot” degli anni 1845-1846, un dipinto poco noto esposto al Museo di Belle Arti di Dole, e anche altri pittori lo fecero all'epoca, in particolare Carl Geyling (1814-1880) con “La ferriera”:
ma quello che cambia radicalmente in Courbet è il trattamento dell'immagine con la sua inquadratura stretta sui corpi, la dimensione dei motivi, il rispetto delle proporzioni su una scala di 1 a 1, la tavolozza dei colori evocati (terra, grigio, sabbia, ecc.).
Fig.9
Émile Zola nel 1865 scrisse del dipinto: "Gli spaccapietre gridano con i loro stracci vendetta contro l'arte e la società", e l’anno successivo Jules Vallès scrisse: "Questo quadro grigio, con i suoi due uomini dalle mani callose e dal collo abbronzato, era come uno specchio in cui si rifletteva la vita noiosa e faticosa dei poveri”.
Osserviamo il dipinto dalla fotografia.
Si vedono due uomini vestiti di stracci e con i corpi spezzati dalla fatica, voltano le spalle allo spettatore, assorti nel loro lavoro, illuminati dal sole. Le loro ombre si allungano e le loro sagome si stagliano su una collina scura. I loro corpi giustapposti non sembrano avere tra loro altro legame che la costrizione del lavoro. A sinistra un paniere di vimini e a destra una pentola, un cucchiaio e una pagnotta di pane nero, il magro pasto di questi due lavoratori che svolgono uno dei lavori più massacranti di quell’epoca.
Courbet, parlando del suo dipinto, dice che si tratta di due spaccapietre molto miserandi. Un vecchio irrigidito dalla fatica, dall'età, dalla polvere e dalla pioggia, troppo vecchio per fare un lavoro così stremante. La testa scura, coperta da un cappello di paglia nero. Le sue braccia sono rivestite da una camicia di stoffa grezza, nel suo panciotto a righe rosse c'è una tabacchiera di corno circondata di rame. Sulle ginocchia i pantaloni rattoppati e ai piedi, le calze blu consumate rivelano i talloni screpolati negli zoccoli. Dietro di lui c’è un ragazzetto, in questo caso troppo giovane per quel lavoro, brandelli di biancheria sporca gli servono da camicia: i pantaloni sono tenuti su da una cinghia di cuoio e ai piedi ha delle vecchie scarpe di misura maggiore del suo piede che, logorate dal tempo e dall’uso, sono scucite e in parte rotte.
Secondo il suo racconto, Courbet, che documentava molto la sua vita, aveva individuato per caso questi due uomini lungo una strada. Voleva rappresentarli a grandezza naturale, con i vestiti stracciati e con i corpi spezzati dalla massacrante fatica. Ma per mostrare la cruda esistenza fisica di questi lavoratori occorreva una tecnica pittorica di per sé laboriosa. L’opera fu infatti il risultato di molto lavoro: uno schizzo e tanti disegni preparatori, oltre a sedute di posa dei due personaggi nel suo laboratorio.
Diversamente da una certa pittura sociale dell'epoca, l'opera non richiede però né psicologia né pathos: questi uomini infatti assorti nel loro lavoro e non trovano in esso né spiritualità, né dignità, né riscatto.
Gli operai che, voltando le spalle all’osservatore, con il volto nascosto, attestano la spersonalizzazione dell’uomo abbrutito dalla fatica.
Stagliandosi su uno sfondo scuro, i due operai occupano il primo piano, vicino allo spettatore. I loro corpi e i loro strumenti formano una serie di angoli acuti e ottusi che non danno l'impressione del movimento, ma piuttosto di arresto, di una sospensione immobile, di un vero e proprio fermo immagine che blocca la fatica di questi lavoratori in un’eternità priva di riscatto.
Come molti altri dipinti di Courbet, Gli spaccapietre per la ricchezza dei dettagli richiede un certo tempo di lettura a causa della densità dei suoi contenuti.
Quest’opera sarebbe potuta sembrare al pubblico uno scherzo del caso, come se il pittore si fosse improvvisamente distratto e per errore avesse ritratto una cosa al posto di un’altra. Ma non era così: essa era stata composta con tutte le regole dell’accademia anche se mostrava un’apparente immediatezza e una casualità in tutto ciò che si vedeva.
Sembra infatti di vedere un’istantanea di quell’evento senza poesia, senza pathos. È la realtà per quello che è. Solo che per Courbet la realtà è anche il brutto della vita e più andrà avanti nella sua carriera più si impegnerà a dimostrarlo.
La sua idea di realismo diventa col tempo qualcosa di diverso rispetto allo stile di altri pittori simili a lui per intendimenti come Corot e Millet: mentre la loro pittura era infatti una pittura d’ambiente, di contesti ampi in cui l’uomo era solo un elemento dell’insieme, con Courbet invece la pittura diventa sempre più sociale. Non è più rappresentazione della realtà in senso generale, ma della realtà dell’uomo, delle dinamiche sociali, delle interazioni fra gli individui, delle trasformazioni dell’ambiente cittadino e di quello contadino.
Nel 1850 anno della realizzazione della tela, siamo in un mondo in piena evoluzione scientifica e tecnologica, in un mondo pervaso dal Positivismo, caratterizzato da un cambio degli assetti sociali e da nuove realtà che invadono la vita quotidiana e che per Courbet devono essere rappresentate senza costruzioni complesse e senza filtri ma simulando la presa diretta della realtà.
E quest’idea funzionava.
Anche se non era apprezzata, faceva parlare, destava interesse, faceva capire che il mondo era pronto per un nuovo modo di fare pittura. Courbet era dunque sulla strada giusta per diventare il leader di un movimento pittorico che stava incominciando a ottenere consensi stima e rispetto anche da una parte del mondo accademico.
Ma mentre artisti come Millet si mantengono fedeli all’idea di realismo oggettivo, Courbet, come Daumier, incomincia a tastare il terreno per vedere se si può andare oltre.
E comincia con Un funerale a Ornans realizzato fra il 1849 e il 1850. È un dipinto ambizioso di grandissimo formato, che comprende diversi notabili del suo paese e membri della sua stessa famiglia.
In una lettera a Champfleury, Courbet racconta che tutti in paese avrebbero voluto essere immortalati sulla sua tela. Pertanto, volendo accontentare la provincia prima della capitale, Courbet organizzò ad aprile una piccola mostra dei suoi dipinti nella cappella del seminario accanto al suo laboratorio, poi a maggio organizzò un'esposizione di quegli stessi dipinti a Besançon, e infine a giugno a Digione.
All'inizio di agosto, ritornò a Parigi e notò che i critici parlavano dei suoi quadri, si spazientivano, si scaldavano.
Ma qual era la realtà che la gente di città non voleva vedere?
La deriva incominciò proprio con il Funerale a Ornans dove un evento ordinario del mondo contadino che, per i canoni dell’epoca, avrebbe meritato al massimo una tela da cavalletto, qui assume invece le dimensioni di un dipinto epico di 6 metri e mezzo x 3, ma privato di ogni senso di epicità, e di grandezza: le figure, realizzate a grandezza naturale danno l’impressione mostrare allo spettatore di trovarsi di fronte all’evento vero e proprio. Come se improvvisamente una finestra si fosse spalancata su un pezzo di realtà.
Le figure sono grezze, plebee, spesso con tratti somatici privi di interesse, i colori sono cupi, terrosi, e la fossa della tomba si apre al centro del dipinto ma non vi rientra del tutto.
La morte è sbattuta in faccia allo spettatore.
E poi di opera in opera Courbet sarebbe giunto al “Ritorno dall’assemblea” di una decina d’anni più tardi in cui il naturalismo ha lasciato definitivamente il posto allo spirito provocatorio e alla voglia dell’artista di scioccare.
Fig. 10
Al Salon del 1850 Courbet aveva presentato “I contadini di Flagey di ritorno dalla fiera”, “Gli spaccapietre”, “Il funerale a Ornans” e altri sette dipinti, tra cui , il “Ritratto del signor Jean Journet”, la “Veduta e rovine del castello di Scey-en-Varais”, “Le rive della Loue sulla strada di Mazières”, i "Ritratti" di Hector Berlioz e di Francis Wey, e infine un “Ritratto dell'autore” noto come “L'uomo con la pipa”, e solo quest'ultimo dipinto, curiosamente ma non troppo, raccolse elogi unanimi.
Fin dall'inaugurazione del Salon il 30 dicembre, “Un funerale a Ornans” suscitò scandalo e stupore tra la critica, e si sviluppò una violenta polemica: il dipinto fu rimproverato per la sua volgarità e i critici accusarono ancora Courbet di dipingere "il brutto", "il triviale" e "l'ignobile". “Gli spaccapietre” suscitò anche le prime caricature sui giornali conservatori e forti dissensi, perché per la prima volta un soggetto della vita quotidiana era stato dipinto in dimensioni fino a quel momento erano riservate a temi ritenuti “nobili” (scene religiose, storiche, mitologiche)
Il “Funerale” però fu salutato da Proudhon come la prima opera socialista.
La sera della premiazione il 3 maggio del 1851 non fu citato nessuno dei suoi dipinti. Diventato più misurato rispetto ad altri critici, Théophile Gautier finì per stupirsi di una simile svista critica e scrisse questa volta: “Courbet è stato l'evento al Salon; ai difetti per i quali lo abbiamo apertamente criticato unisce qualità superiori e originalità incontestabili; ha emozionato il pubblico e gli artisti. Avremmo dovuto dargli una medaglia di prima classe…”.
Il 18 maggio poi, quando l'elenco degli acquisti pubblici fu concluso, Courbet fu escluso anche da questo con il pretesto di restrizioni di bilancio e per ripicca il pittore non volle vendere il suo “Ritratto con la pipa” per meno di 2.000 franchi.
Fig.11
Ma che cosa aveva fatto indignare critica e pubblico?
Osserviamo il dipinto “Funerale a Ornans” partendo dal titolo: il titolo originale era “Pittura di figure umane, storia di una sepoltura a Ornans”, una galleria di ritratti che comprende ben quarantasei personaggi. L’opera ha dimensioni eccezionali (315,45 × 668 cm) e la sua composizione monumentale, organizzata come una specie di fregio come i ritratti delle confraternite olandesi, è statica e quasi senza prospettiva, come se fosse appiattita e i personaggi sono compressi in essa.
La tavolozza, dominata da tonalità chiare o scure, è in linea con questa cerimonia funebre in cui la comunità del paese si riunisce intorno a una tomba per seppellire uno dei propri membri.
La scena si svolge nel nuovo cimitero di Ornans che mostra attraverso questo dettaglio il suo interesse per le notizie locali in questo caso la nuova area cimiteriale tanto osteggiata dalla cittadinanza.
Nel dipinto compaiono, da sinistra a destra, gli addetti alla bara, i necrofori in divisa, il prete, i suoi chierichetti, i sacrestani nei loro begli abiti rossi, i notabili di Ornans, due vecchi della Rivoluzione del 1793 con i loro abiti del tempo, infine le donne in lacrime, rigorosamente separate dal gruppo degli uomini come in chiesa.
Sono tutti cittadini di Ornans.
Salvo poche eccezioni, tutti i personaggi del “Funerale” sono stati identificati. Si noti ad esempio che Oudot, il nonno di Courbet che era stato un “sanculotto”, è rappresentato all'estrema “sinistra” del dipinto, le sorelle e la madre dell'artista sono atteggiate a figure in lutto, Hippolyte Proudhon, un avvocato di Ornans e vice giudice di pace, appare al centro della tela, con il suo naso sottile e il suo cappotto nero.
Le diversità sociali del quadro sono notevoli: i piccoli proprietari vitivinicoli di Ornans si affiancano ai notabili, tra i proprietari terrieri, gli artigiani e i becchini, sotto la direzione spirituale di un povero curato di campagna.
Ma in questa tela ci sono curiosamente più proprietari e liberi professionisti di quanti ce ne fossero in realtà in questo villaggio della Franca Contea a metà dell’Ottocento. Vi domina la piccola borghesia perché Courbet dipinge il proprio ambiente sociale. È comunque interessante notare che Courbet, le cui simpatie erano più rivolte al Socialismo, dipinge qui il ritratto di una comunità unanimemente partecipe, cementata da una certa coesione e raccolta con armonia intorno ai suoi leader civili e religiosi.
Sullo sfondo ci sono le caratteristiche del paesaggio della regione: le falesie calcaree, quelle scogliere montuose nude che si vedono in lontananza, che caratterizzano la regione e che incorniciano i ripidi meandri del fiume Loue che attraversa Ornans. Un cielo piovoso oscura questi volti che sembrano abbandonati dalla speranza e sembrano la raffigurazione di un mondo abbandonato anche da Dio.
La ricchezza di questo dipinto ha dato luogo a numerose interpretazioni, oggi come allora, tutte incentrate sull'incognita principale della scena.
Chi si sta seppellendo?
Si sta forse seppellendo la speranza in Dio?
Il teschio, macabro dettaglio, vicino alla fossa serve a ricordare che una rapida decomposizione attende l'uomo dopo la sua morte. È un “memento mori” che insieme alla fossa accennata al centro della tela simboleggia l'aldilà in cui l’uomo sarà inghiottito.
Il realismo di Courbet, forzato sul piano metafisico, è simile alla negazione di ogni trascendenza e, forzato sul piano storico, è simile al riflesso della precoce scristianizzazione di alcune popolazioni rurali francesi cadute nella disperazione.
Ma si potrebbe anche dire che la “Sepoltura” sia una “negazione dell'ideale” in pittura, una confutazione tanto di David e di Ingres quanto di Delacroix e del Romanticismo.
È anche vero però che, elevando personaggi banali (per esempio un sagrestano dalla faccia rubizza per il vino), alla dignità di personalità della grande Storia, rappresentata sempre a grandezza naturale, trasforma una scena di vita quotidiana in un imponente dipinto che ricorda “La sepoltura del conte d'Orgaz” di “El Greco” (1551 - 1614) del 1586, Courbet crea un nuovo genere, in opposizione alla cosiddetta pittura di “grande stile”: la “rivoluzione realista”, secondo lui, avrebbe infatti posto “l'arte al servizio dell'uomo”, di ogni uomo, senza alcun privilegio, anche in una sepoltura.
Fig. 12
Ma ritornando ancora alla domanda sul soggetto della sepoltura, occorre notare che questo dipinto includeva molti repubblicani, piccoli viticoltori, vecchi rivoluzionari dell'anno II e repubblicani illustri, ma, nelle elezioni del 1849, a Ornans e nel Doubs in genere essi votarono contro la “Repubblica Sociale” e contro i rivoltosi di Parigi del 1848, regalando una strepitosa vittoria ai conservatori del “Partito dell'Ordine” guidato da Luigi Napoleone Bonaparte. Questo risultato non poteva piacere a Courbet, di convinzioni assolutamente repubblicane. Chi è sepolta qui è quindi la Repubblica, la “Marianne”, quella figura simbolica della Rivoluzione Francese, che era diventata vittima dei reazionari e del presidente principe Luigi Napoleone e, con la sua sepoltura, tutte le sfumature del repubblicanesimo partecipavano alla cerimonia. Qualche anno dopo, quest’interpretazione simbolica militante della “sepoltura di Marianne” sarebbe stata considerata un’opera sovversiva per il Secondo Impero.
In estrema sintesi “Un funerale ad Ornans” potrebbe rappresentare quindi la morte di Dio, la morte dell'idealismo romantico in pittura da cui anche Delacroix aveva già cominciato ad emanciparsi, la morte della Repubblica: sono queste le interpretazioni con cui si tenta di spiegare oggi questo capolavoro, la cui scandalosa modernità sconvolse l'Ottocento dodici anni prima dell'audace “Colazione sull'erba” di Manet.
Fig. 13
In ogni caso, il fatto che il dibattito persista ancora oggi su questo dipinto attesta che il grande genio innovativo e provocatorio di Courbet influenzò profondamente la vita artistica del suo tempo e in generale l'arte dell'Ottocento e del Novecento.
“Un funerale a Ornans” si rivela rivoluzionario anche nei colori: la biacca, che conferisce una tonalità ambrato-bruciata, scuriva il dipinto e attenuava i toni freddi, le mani e i volti realizzati a pennello sono sottolineati con il bistro che evidenzia le linee di contorno. Le aree indeterminate del primo piano, la terra, e dello sfondo, il cielo e le falesie, furono probabilmente realizzate con un coltello. Il nero predominante non forma tuttavia una massa uniforme, anzi ha sfumature fumose o bluastre a cui si contrappongono le note violente del bianco per esempio delle lenzuola dei portatori, della cotta del portacroce, della camicia del becchino, dei berretti e dei fazzoletti delle donne e il cane bianco macchiato di nero in primo piano. Il raso bluastro del telo funebre che non è nero o viola secondo tradizione, è di una tonalità speciale. Courbet utilizzò questo tessuto di raso bianco per "compensare" il grande squilibrio nella tela tra la minoranza dei bianchi e la dominanza dei neri. Ma oltre al bianco e nero, tocchi di colore acceso punteggiano la tela: il rosso vermiglio dei chierichetti, il giallo ramato del vaso del crocifisso, il verde oliva della giacca su cui è inginocchiato il becchino, le calze azzurre, i calzoni verdi, la redingote grigia e il panciotto marrone del rivoluzionario formano un fraseggio colorato che attraversa tutta la tela e sembra contrastare con il triste evento funebre.
Quest’opera fu accolta malissimo dalla critica che si indignò nel vedere un'opera così grande trattare un "aneddoto" popolare e dare a esso tanta importanza. Questo formato panoramico era allora riservato a grandi scene storiche, mitologiche o religiose. Questa messa in discussione delle regole della “gerarchia dei generi” sconvolse i critici. Per la maggior parte di loro, la pittura di Courbet era assimilata all'arte "socialista". Le reazioni furono violente: "È possibile dipingere persone così orribili?" e i critici descrissero i personaggi come "vili caricature che ispirano disgusto e provocano risate". Du Pays denunciò l’arte di Courbet scrivendo "L'amore per i brutti nei loro abiti migliori e tutte le banalità del nostro costume sgradevole e ridicolo, presi sul serio”.
A queste critiche, Courbet rispose: "Non ho mai avuto altri maestri di pittura che la natura e la tradizione, il pubblico e il lavoro." E affermò inoltre: "Così ritengo che la pittura sia un'arte essenzialmente concreta e che non possa consistere [in altro] che nella rappresentazione di cose reali ed esistenti [...] di tutti gli oggetti visibili. Un oggetto astratto, invisibile, inesistente non appartiene al regno della pittura”.
E questa era la definizione del nuovo movimento di cui nel 1847 era diventato il leader: il “Realismo”, che il suo amico Champfleury provvide a diffondere.
Courbet voleva spazzare via l'ipocrisia e l'accademismo dei pittori da salotto borghesizzati e mostrare la cruda realtà della provincia, il mondo della campagna e i suoi poveri abitanti e ricordare a Parigi che esistevano anche loro.
Dopo tante polemiche l'estate del 1851 fu piena di viaggi e di riposo per Courbet. Trascorse del tempo a Berry con il cantante-attore Pierre Dupont e con l'avvocato e politico Clément Laurier (1832– 1878), poi partì per Bruxelles e da lì giunse a Monaco, partecipando ogni volta a una mostra.
A novembre ritornò a Ornans, mentre a Parigi riprendevano le agitazioni politiche e Courbet per un certo periodo fu addirittura accusato di essere un pericoloso “agitatore socialista, un rosso”.
A dicembre del 1851 iniziò a dipingere “Le signorine del villaggio”, raffigurante le sue tre sorelle che fanno l'elemosina a una pastorella di mucche in una valle di Ornans. Courbet, scrivendo a Champfleury a proposito di questo dipinto spiegava all’amico di voler sviare i suoi detrattori, mettendoli su un terreno nuovo, rappresentando un soggetto gentile e dimostrando loro che tutto quello che avevano detto fino a quel momento era inutile. Presentò “Le signorine del villaggio” con altri due dipinti precedenti a questo al Salon che si aprì il 28 aprile del 1852.
Fig. 14
“Le signorine del villaggio” è un dipinto a olio su tela di 194 x 261 cm, poco più di un anno dopo il “Dopocena” e il “Funerale di Ornans”. Senza adottare il formato sovradimensionato dei dipinti storici, Courbet sceglie comunque un formato imponente, facendo ancora arrabbiare la giuria del Salon. Ma dopo la medaglia ottenuta per il suo “Dopocena” nel 1849, il pittore poteva liberamente esporre dipinti dagli aspetti e dai soggetti provocatori per una giuria che gli era generalmente ostile.
A prima vista questo dipinto non presenta segni evidenti di uno scandalo programmato, ma a uno sguardo più attento alcune provocazioni ne fanno un dipinto difficilmente recuperabile dalle istituzioni artistiche dell'epoca.
Poco dopo, però, scattò in lui ancora qualcosa di nuovo: decise di iniziare a creare grandi composizioni di nudi attaccando deliberatamente uno degli ultimi bastioni dell'accademismo dell'epoca, scatenando così le critiche, e per questo i funzionari delle “belle arti” in qualche modo lo avrebbero punito.
Nel dicembre del 1852 Luigi Napoleone Bonaparte fu proclamato imperatore con il nome di Napoleone III e istituì un regime autoritario. Courbet vide questo colpo di stato come un tradimento ormai chiaro perché aveva sempre sostenuto i repubblicani che godevano però della reputazione di “pericolosi quarantotteschi”.
Dal punto di vista artistico, negli anni Cinquanta e Sessanta Courbet incominciò a percorrere tre strade che sembrano diverse, ma che in parte camminano parallele in parte divergono.
Da un lato continuò con il realismo oggettivo con paesaggi, animali e scene di vita quotidiana.
Da un altro c’era una pittura con forte valenza politica in cui calcava la mano sulla povertà, sulle differenze sociali, sulle colpe della borghesia francese, quella borghesia che nelle sue opere appare decadente, quasi inutile e in opere di questo tipo non fa che ricordare ai suoi potenziali clienti quanto disgusto essi suscitino ed era questo il miglior modo per non essere venduto, ma era anche il modo di fare rumore, tanto rumore. L’opera che riassume in sé questa posizione polemica è un dipinto apparentemente innocuo, “Le signorine sulla riva della Senna d’estate”.
Poi c’è una terza strada che sembra contraddittoria rispetto al resto della sua produzione: si tratta di opere che riprendono i temi della pittura accademica studi di nudo e figure mitologiche, la più classica iconografia accademica in cui però inserisce un elemento di disturbo. Sembrava che Courbet volesse dire: “volete vedere la donna procace nuda? E io ve la mostro”. Ma Courbet non offrì loro un nudo tipico di “William-Adolphe Bouguereau” come per esempio “Il ninfeo”.
Fig. 15
Creò piuttosto “Le Bagnanti”, delle contadinotte con le natiche all’aria perché alla fine per lui era proprio quello, che i borghesi volevano vedere.
Quando presentò il dipinto al “Salon” del 1853, suscitò subito scandalo e ulteriori polemiche a causa del carattere decisamente provocatorio dell’opera, avendo Courbet deciso di prendere le distanze dalla produzione ufficiale con le sue “incursioni” in campo avverso.
Tra queste incursioni ci sono “Le bagnanti”.
Fig. 16
L’opera fu unanimemente attaccata dalla critica per la natura trascurata della scena, per la natura massiccia del nudo in contrasto con la bellezza “perfetta” dei canoni ufficiali.
Nel dipinto si vedono due donne, una delle quali è nuda con una stoffa che la copre appena e non rappresenta più una figura mitologica idealizzata. I critici dell'epoca si accanirono su questo dipinto in modo particolarmente violento e Courbet riuscì in questo modo ad ottenere un successo scandaloso.
“Le bagnanti” fu acquistato dal collezionista Alfred Bruyas (1821-1876), un agente di cambio di Montpellier e socio della banca Tissié-Sarrus, che collezionava quadri. Quest’acquisto permise a Courbet di diventare, almeno per il momento finanziariamente indipendente.
Bruyas è stato un personaggio importante in un momento cruciale nello sviluppo della carriera di Courbet.
Poco più giovane del pittore, Bruyas era uno dei membri più attivi della “Società degli Amici delle Arti”. Grande appassionato d'arte, Bruyas visitò l'Italia nel 1846 e nel 1848 e a Roma frequentò “Villa Medici” dove fu accolto dal suo amico e concittadino “Alexandre Cabanel”, vincitore del “Prix de Rome” nel 1845 al quale commissionò opere e dipinti. Al suo ritorno a Montpellier, Bruyas si entusiasmò di un altro pittore suo concittadino, Auguste Glaize che dipinse per lui tele che raffiguravano la sua vita intima e familiare.
Sentendosi stretto nella vita di provincia e di fronte a quella incomprensione della sua famiglia, Bruyas lasciò Montpellier nel 1849 per Parigi dove soggiornò più volte fino al 1853 e dove si lasciò coinvolgere appassionatamente nella vita artistica della capitale, dividendo il suo tempo tra musei, Salon, mercanti d’arte, botteghe e studi di artisti. A Parigi diede libero sfogo alla sua smania di acquistare quadri di artisti viventi: Diaz de la Peňa, Hervier, Guignet, Millet, Verdier, Rousseau e altri ancora e soprattutto, si impossessò in rapida successione di numerosi capolavori di Delacroix.
Sempre alla ricerca di nuovi talenti, Bruyas si rivolse al pittore “Octave Tassaert” (1800 – 1874) di origini olandesi, le cui scene di genere evocavano la vita miserabile degli oppressi a Parigi e includevano una serie di scene di suicidio. Ma il soggiorno di Bruyas a Parigi coincise anche con il clamoroso debutto di Gustave Courbet. Il loro incontro avvenne nel maggio 1853 in occasione della visita di Bruyas al “Salon” di quell’anno ed era rimasto affascinato dai tre dipinti di Courbet esposti: fu uno dei suoi rari acquirenti francesi di quel periodo. Acquistò “Le Bagnanti”, che stavano suscitando un grande scandalo per il loro naturalismo aggressivo, e acquistò anche un secondo dipinto, anch'esso criticato, “La filatrice addormentata”. Questa vendita fruttò a Courbet più di 3.000 franchi d'oro.
Bruyas mise alla prova questo nuovo talento che aveva conosciuto, commissionandogli anche un ritratto oggi noto come suggellando così un vero e proprio patto di amicizia tra i due uomini.
Fig. 17
Quando Bruyas ritornò al Sud verso la fine dell'estate del 1853, invitò l'artista a unirsi a lui e Courbet lo raggiunse a Montpellier in Linguadoca nel maggio 1854 e vi rimase fino a settembre.
Al di là delle vendite, Courbet trovò in Bruyas un vero mecenate desideroso di modernità, con cui scambiare punti di vista critici e, apparentemente, lo stesso ideale. In Linguadoca colse l'occasione di catturare la dura bellezza dei paesaggi del sud e durante il suo lungo soggiorno, lavorò esclusivamente per Bruyas e creò diversi capolavori: “La Rencontre”, noto come “Bonjour Monsieur Courbet” una vera icona della modernità, e “Le Bord de mer à Palavas”, che celebra liricamente la sua scoperta del Mediterraneo.
Fig.18
Fig 19
Quanto Bruyas sia stato importante per la carriera artistica di Courbet si comprende bene nell’”Atelier del Pittore” in cui il suo amico e mecenate occupa una posizione predominante al centro destra della tela e afferma così il suo ruolo essenziale nel processo di sviluppo dell'opera del giovane maestro.
Dopo questa necessaria digressione su Bruyas, osserviamo ora l’opera del grande scandalo.
La scena si svolge in campagna sulle rive di un torrente calmo durante l'estate, fa caldo e queste due donne vogliono rinfrescarsi. Il cielo si intravede a malapena e le donne si trovano fra una fitta vegetazione: la prima, la figura centrale, è corpulenta, emerge dall'acqua ritratta di spalle e sembra salutare la seconda, seduta: quest'ultima si sta vestendo – un piede è nudo e sporco – o, forse si sta accingendo a spogliarsi.
Il primo piano del dipinto – l'acqua, la riva, le grandi rocce, le erbe mescolate ai ciottoli – mostra una zona gialla e sabbiosa che sfuma nell'ombra. Appaiono quindi i dettagli: le vesti della donna in piedi sono appesi ai rami di un albero sulla sinistra, un orecchino d'oro le pende dall'orecchio e i suoi capelli neri sono raccolti in una crocchia.
Il volto della donna seduta sembra esprimere una sorta di imbarazzo, le sue guance sono rosee e, mentre si aggrappa a un ramo, accenna a un gesto.
Non era la prima volta che Courbet raffigurava un nudo: ci sono state “La Baccante” probabilmente del 1847 e “La bionda addormentata” del 1849, nota solo in fotografia in bianco e nero, appartenente a una collezione privata.
Fig.20
Tuttavia, quest’opera al Salon del 1853 causò scandalo.
Che cosa aveva sconvolto tanto in questa scena di nudo?
Il dipinto era stato molto ben collocato in una delle sale nel senso che stava proprio all'altezza degli occhi del pubblico fu unanimemente attaccato dalla critica, per la natura goffa della scena, per il carattere corpulento del nudo in opposizione ai nudi che si praticavano all'epoca: se guardiamo infatti un nudo contemporaneo, eseguito ad esempio da Ingres, la resa non è affatto la stessa. Confrontando “Le bagnanti” con le donne nude dipinte nella tradizione neoclassica e romantica, le enormi differenze saltano subito all’occhio.
Fig. 21
Fig.22
Courbet ancora una volta infrange i codici della rappresentazione, in questo caso oltre al dogma della “gerarchia dei generi”, si scontra con quello del “buon gusto”: si allontana dai nudi idealizzati di Ingres o di David ed entra nella concezione del nudo moderno.
In che senso?
Courbet aveva scelto di mostrare gente semplice, quelle donne di campagna che conosceva bene, quelle della sua Franca Contea e quest’aspetto del “territorio” sconvolse l'opinione pubblica, quella delle città anche se, non era la prima volta che gli artisti raffiguravano la vita quotidiana rurale. Ciò che era ritenuto scandaloso nel caso di quest’opera di Courbet era l'irruzione del “nudo” che l'opinione pubblica definì “volgare” in un contesto, quello del “Salon”, che santificava l'arte e con essa la bellezza. Ciò che era scandaloso era ancora una volta il formato sproporzionato solitamente riservato alla religione, alle divinità del mito e ai grandi ritratti di principi. E poi si trattava di un “Salon” realizzato in un'epoca profondamente cattolica e conservatrice, formalisticamente molto bigotta.
Il problema non era tanto il nudo in sé, ma come Courbet aveva trattato il nudo, il suo punto di vista.
Théophile Gautier che ebbe sempre un atteggiamento altalenante verso Courbet su “La Presse” del 21 luglio, a proposito delle “Bagnanti” scrisse: "Immaginate una specie di Venere che emerge dall'acqua, e che volge allo spettatore una ‘groppa’ (si noti il termine groppa e non schiena) mostruosa imbottita di fossette, sul fondo della quale mancano solo le rifiniture della pasta di mandorla". E questo con una chiara allusione a un corpo femminile pieno di cellulite. Gautier evoca la figura mitologica di Venere, personificazione della Bellezza in senso classico, che qui contrappone al selvaggio e a tutto ciò che egli crede che non sia civiltà. Gautier aggiunge inoltre che la nudità velata finisce per rivelare e quindi per infastidire più di quanto non voglia nascondere.
Lo sguardo del critico esprime bene ciò che divideva l'opinione, altrove Gautier parla di decadenza e di bruttezza. L’espressione “volti mostruosi”, diventata ormai un “leitmotiv” tra le numerose critiche rivolte al pittore, portò Gautier a definire Courbet “il Watteau del brutto”.
Con questo dipinto di provocazione, presto seguito da altri capolavori, Courbet incominciava a prendere l'iniziativa di un movimento che, aprendo le porte della pittura alla modernità, si sarebbe chiamato “realismo” e che Charles Baudelaire avrebbe invece accolto con pieno favore. Il dipinto dal 1868 fa parte delle collezioni del “Museo Fabre” di Montpellier.
Courbet cercava anche di guadagnarsi da vivere con la sua arte e di essere riconosciuto, anche fra le autorità del nuovo potere politico. Per sollecitare ordini pubblici, fece visita all'influente duca “Charles de Morny”, fratellastro di Napoleone III, che aveva appena acquistato da lui “Le signorine del villaggio”, ma da lui ricevette solo vaghe promesse. Si rivolse allora ad “Auguste Romieu”, direttore delle “Belle Arti”, il quale dichiarò "che il governo non poteva sostenere un uomo come [lui]" e che quando "avrebbe fatto altri [tipi di] quadri, avrebbe visto quello che poteva fare". Courbet rafforzò allora la sua posizione di contrasto al sistema e promise “che tutti avrebbero ingoiato il realismo”, a rischio di ritrovarsi totalmente isolato.
L'industrializzazione e la borghesizzazione delle periferie delle città avevano generato una nuova articolazione della borghesia che rifiutava il mondo rurale o che lo accattava solo se idealizzato in una sorta di visione idillico-panteistica.
In una lettera indirizzata a George Sand quasi provocatoriamente, e pubblicata sul settimanale “L'Artiste” il 2 settembre 1855, il critico Jules Champfleury citava il filosofo Pierre-Joseph Proudhon che, in “La filosofia del progresso” del 1853, scriveva: "L'immagine del vizio come quella della virtù appartiene all'ambito della pittura come a quello della poesia: secondo la lezione che l'artista vuole dare, qualsiasi figura, bella o brutta che sia, può assolvere allo scopo dell'arte. [...] Che il popolo, riconoscendosi nella sua miseria, impari ad arrossire per la sua codardia e a detestare i suoi tiranni, che l'aristocrazia, esposta nella sua grassa e oscena nudità, riceva su ogni suo muscolo la flagellazione del suo parassitismo, della sua insolenza e della sua corruzione. [...] E che ogni generazione, depositando così sulla tela e sul marmo il segreto del suo genio, giunga ai posteri senza altra colpa o scusa che le opere dei suoi artisti".
Courbet e Proudhon provenivano dallo stesso angolo della Francia, si conoscevano, si stimavano. Ma il testo di Champfleury rivela un equivoco dal quale Courbet si sarebbe poi districato: non voleva passare la vita a dipingere la gente di campagna o a offendere i borghesi.
Nel frattempo lo studio di “Rue Hautefeuille” continuava a essere per Courbet un luogo di ritrovo di amici, i suoi irriducibili sostenitori, ai quali il pittore si aggrappava.
Parigi brillava con una luminosità appariscente nella seconda metà dell’Ottocento, i ristoranti alla moda i cabaret e i teatri offrivano lo spettacolo di una società sontuosa e frivola, la Rivoluzione industriale produceva ricchezza e le fortune economiche si facevano e si disfacevano in borsa, mentre si spendeva generosamente e l’arte diventava straordinariamente alla moda.
Nel 1855 Napoleone III aveva voluto con molta determinazione la “Esposizione Universale” a Parigi, che si sarebbe tenuta al “Palais de l'Industrie” appositamente costruito per l’occasione. Era la seconda Espo, dopo quella che si era tenuta a Londra nel 1851: era la grande occasione per celebrare davanti al mondo la “grandeur” della Francia e della “Ville Lumière” e in quella circostanza la grande rassegna internazionale avrebbe compreso anche l’annuale “Salon” delle Belle Arti.
Courbet, tornando un giorno da un incontro fallito con l’alto funzionario francese del Secondo Impero, il nuovo direttore delle Belle Arti, Émilien de Nieuwerkerke, nel pranzo durante il quale il pittore era stato invitato per realizzare una grande opera per la gloria del paese e del regime per l'”Esposizione universale”, ma che si riservava il diritto di ammettere l’opera da parte di una giuria. Courbet gli disse di essere l'unico giudice della sua pittura. Nieuwerkerke, intimorito da tanta arroganza, capì che il pittore non avrebbe partecipato ai festeggiamenti previsti. In questo periodo completò “L'uomo ferito”, un autoritratto di un uomo che geme e muore, e di cui parlò a Bruyas, confidandogli che sperava di vivere della sua arte per tutta la vita senza mai allontanarsi di una virgola dai suoi principi, senza mai mentire alla sua coscienza.
Fig. 23
Concentrato, lavorando instancabilmente su una decina di dipinti tra Ornans e Parigi da novembre del 1854, preparava segretamente, con l'aiuto di Bruyas e di altri “complici” come Francis Wey, Baudelaire, Champfleury, un vero e proprio “colpo di stato” nella pittura concentrandosi su “L’atelier del pittore” che doveva essere il suo dipinto-manifesto.
Nell'aprile 1855, la commissione rifiutò però a Courbet la presentazione di alcuni dei suoi dipinti per quel “Salon” speciale contestuale all’”Esposizione Universale” che si doveva inaugurare il 15 maggio.
Di fronte all’esclusione delle sue tele Courbet, che non era certo tipo arrendevole (sarebbe stato un “barricadero” durante la ‘Comune’ nel 1871 e sarebbe finito in carcere in nome delle sue idee socialiste, era quindi inimmaginabile che si desse per vinto) urlando al complotto e incoraggiato dai suoi amici e sostenitori decise allora di organizzare una propria mostra personale a margine del “Salon” e fece costruire a sue spese, lui che poteva permetterselo, un padiglione. Chiese aiuto ad Alfred Bruyas che gli diede sostegno grazie alle sue “entrance” con il Pubblico Ministero di Parigi, il banchiere e uomo politico “Achille Fould”, che gli rilasciò in breve il permesso di costruzione. In poche settimane in avenue Montaigne, a pochi metri dal “Palazzo dell’Industria”, fu eretto il “Padiglione del Realismo” in mattoni e legno destinato ad ospitare quaranta opere del pittore che si allontanavano dalla tradizione, dai soggetti mitologici e storici e dall'arte sacra, in favore di soggetti popolari e intitolò la sua mostra “Le Réalisme, par Gustave Courbet”.
Nonostante qualche ritardo, l'inaugurazione avvenne il 28 giugno e il padiglione fu chiuso nel tardo autunno.
Courbet fece stampare i manifesti e un piccolo catalogo.
Durante la serata di apertura il nome di Gustave Courbet era sulla bocca di tutti quelli che contavano a Parigi, nel bene e nel male. Anche se molte delle sue opere erano state esposte, il dipinto che aveva appositamente creato per il “Salon”, ‘L'Atelier del pittore” era stato respinto dalla giuria.
Per l'”Esposizione Universale”, Bruyas aveva prestato “La Rencontre” che aveva stuzzicato la verve dei caricaturisti diventandone un bersaglio fino all’esasperazione della sua famiglia.
Dopo gli eventi del 1855, Bruyas avrebbe adottato chiaramente una posizione di ritiro, dovuta in gran parte al peggioramento del suo stato di salute. Pensò sempre più di imitare i suoi concittadini Fabre e Valedau, offrendo la sua prestigiosa collezione di pittura al museo della sua città.
La mostra di Courbet richiamò e attrasse stampa e pubblico e lanciò finalmente la sua carriera come ‘leader’ del movimento realista.
Questa mostra, nel cui titolo utilizzava il termine "realismo" per indicare la cifra della propria pittura in netto dissenso con il sistema accademico, rappresentò un manifesto artistico e scatenò una vivace polemica sui giornali.
Le sue opere suscitarono aspre critiche e infuocate polemiche nel mondo artistico parigino ed altri accalorati attacchi per la sfida alle convenzioni artistiche, per la critica alla rappresentazione idealizzata della realtà, fu accusato di trivialità dell'insieme, della “bruttezza” dei personaggi rappresentati e perfino per la sua “spudoratezza”. Per giunta – eresia delle eresie! – il sanguigno Courbet si era voluto servire di formati grandi, considerati appannaggio esclusivo della pittura storica, il genere considerato più alto e nobile.
Il “Padiglione del Realismo” offrì a Courbet anche l’opportunità di esprimere pubblicamente ciò che intendeva per “realismo” e di porre fine ad alcuni malintesi: “Il titolo di realista mi è stato imposto come il titolo di romantici fu imposto agli uomini dal 1830. I titoli in nessun momento davano una giusta idea delle cose; se così non fosse le opere sarebbero superflue […] Ho studiato, fuori da ogni spirito di sistema e senza pregiudizi, l'arte degli antichi e l'arte dei moderni. Non volevo imitarne alcuni più di quanto non volessi copiarne altri; né il mio pensiero mira a giungere al vano traguardo dell'arte per l'arte […] Conoscere per potere, tale era il mio pensiero. Riuscire a tradurre i costumi, le idee, gli aspetti del mio tempo, secondo il mio apprezzamento, per essere non solo un pittore, ma anche un uomo, in una parola, fare arte vivente, questo è il mio obiettivo".
Questo quasi-manifesto fu in parte opera di Champfleury e vi si trovano anche principi di Baudelaire. Entusiasta, Courbet ebbe perfino l'idea di chiedere a un fotografo di prendere i suoi quadri per creare immagini che avrebbe venduto ai visitatori.
Quanto al giornalista e politico Charles Perrier (1813 – 1878), scrisse con sarcasmo su “L'Artiste” che "tutti hanno visto, intonacato sui muri di Parigi in compagnia degli acrobati e di tutti i ciarlatani scritto in caratteri giganteschi, il manifesto del signor Courbet, apostolo del realismo, invitando il pubblico a depositare la somma di 1 franco all'esposizione di quaranta dipinti della sua opera”.
È difficile misurare il reale successo che ebbe la mostra di Courbet, ma Eugène Delacroix che scrisse nel suo "Diario: “Vado a vedere la mostra di Courbet [...]. Sono rimasto lì da solo per quasi un'ora e ho scoperto un capolavoro nel suo dipinto rifiutato. Non potevo staccarmi da questa visione. Abbiamo rifiutato qui una delle opere più singolari di questo tempo”.
L'opera di cui parla Delacroix è “L'atelier del pittore”, un formato enorme, che Courbet non riuscì nemmeno a completare perché aveva poco tempo.
“L’atelier” è l’opera che più di tutte rappresenta l’incontro tra le varie anime di Courbet in cui si fondono il realismo, l’accademismo distorto, la critica sociale ma anche il narcisismo straripante dell’artista. Ma questo sarà un altro racconto.
Massimo Capuozzo.
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