lunedì 29 gennaio 2024

Jean-François Millet e i dipinti contadini di Massimo Capuozzo

Nel racconto di oggi parlerò di alcuni dei più bei dipinti dell'Arte francese dell’Ottocento. Si tratta di opere di che già impressionarono i suoi contemporanei, da Vincent Van Gogh a Odillon Redon. Oltre al Museo d'Orsay e al Museo di Cherbourg, molte opere di Millet si trovano negli Stati Uniti per una serie di tortuosi sentieri che spesso la Storia imbocca.
Come per “Gustave Courbet” anche per “Jean-François Millet” (1814-1875), di cui molte opere hanno a che fare con il lavoro umano, si pone il problema di quanto l'arte dovrebbe recare in sé un messaggio politico-sociale, sebbene per Millet il problema del rapporto fra arte e impegno sociale sollevi maggiori dubbi rispetto al più palesemente schierato a sinistra Courbet.
Figura importante della pittura francese della metà del secolo, Millet è stato uno dei fondatori e uno degli esponenti di spicco della “Scuola di Barbizon”, quel gruppo informale di pittori paesaggisti che vivevano a sud di Parigi vicino alla foresta di Fontainebleau, dove anche Millet si era stabilito nel 1849.
Millet assurse alla notorietà per i suoi “paesaggi” ma soprattutto per le sue “scene di genere”, che mostrano l'estenuante vita dei contadini francesi, e fu uno di quegli intellettuali, che seppe trasformare l'esperienza personale della miseria e del dolore in autentica bellezza.
Cantore sublime dei compiti quotidiani dei contadini, per i quali la questione stessa dell'esistenza, della vita e della morte, è decisa dai capricci della terra, in questo Millet ha trovato il dramma supremo dell'umanità. La terra di Normandia è la scena su cui si svolge quest'epica tragedia e il contadino intento al suo incessante è il protagonista paziente e devoto lavoro.
Nella devozione e nella fatica del contadino c’è sempre la compassione del pittore, uno spettacolo che porta l’artista alla preghiera e alle lacrime.
Jean-François Millet era nato il 4 ottobre 1814 a Grèville in Normandia all'estremità nord occidentale del dipartimento della Manica, più precisamente nella frazione di L’Hague, il luogo più remoto e selvaggio di quel distretto, un gruppo di poche casette a cento metri dal mare.
Jean-François era il figlio maggiore di una famiglia di fittavoli normanni. Pastore da bambino e poi più grande addetto all’aratura dei campi, nonostante un’origine così modesta, riuscì ad avere accesso ad una certa cultura, soprattutto grazie a un suo zio, un prete con fama locale di letterato: grazie a lui imparò infatti il latino, lesse Montaigne, La Fontaine, Omero e soprattutto Virgilio, che dovette colpirlo particolarmente, Shakespeare e Milton, Chateaubriand e Victor Hugo e questi autori lo accompagnarono per tutta la vita. La sua lettura preferita rimase però sempre la Bibbia. Jean-François sentiva una fede profonda che riecheggiava la devozione incondizionata e un po' terrificante di sua madre e di sua nonna.
I suoi genitori erano dei fittavoli, quindi non erano proprietari, e il guadagno era scarso a fronte della molta fatica: il bambino, poi ragazzo, viveva con la sua famiglia l'esistenza tipica di un giovane contadino povero.
Le sue capacità di disegno furono tuttavia piuttosto rapidamente notate e apprezzate, fin dalla sua infanzia da coloro che lo circondavano, ma fino a vent’anni Jean-François lavorò i campi con la famiglia, poi, nel 1833, grazie ai contatti dello zio prete, fu mandato dal padre a Cherbourg, una cittadina a poca distanza dal suo paesello, per apprendere il mestiere di pittore, prima nello studio del ritrattista “Paul Dumouchel”, un artista di terz'ordine che vantava un alunnato presso David, senza comunque trascurare di aiutare la famiglia nel lavoro dei campi.
Nel 1835 poi frequentò, ma questa volta a tempo pieno, l’atelier del pittore di storia e ritrattista “Lucien-Théophile Langlois de Chèvreville”, allievo del barone Gros, dove completò il suo apprendistato e con il quale realizzò numerose copie di opere dei grandi maestri che il collezionista locale Thomas Henry aveva appena donato al comune di Cherbourg e che Millet riproduceva con molta assiduità.
La sua copia de “I pastori dell'Arcadia” (92 × 110 cm) di “Nicolas-Antoine Taunay” fu uno dei suoi primi tentativi di paesaggio. Sullo sfondo di una composizione mitologica, dipinse una natura artificiale, uno sfondo semplice su cui si stagliano i personaggi, che già sono i veri centri d’interesse dell'artista.
Fig.1
Grazie all’interessamento di Langlois, estimatore del suo allievo, il vecchio e simpatico maestro intercedette presso un comitato cittadino affinché Jean-Francois potesse ottenere una borsa di studio dal comune di Cherbourg per poter continuare gli studi a Parigi e quindi migliorare le sue capacità.
Nel 1837, il ventitreenne Jean-Francois si trasferì nella capitale, dove avrebbe studiato all'”Ecole des Beaux-Arts” sotto la guida del pittore accademico “Paul Delaroche” (1797 – 1856), autore di soggetti storici ed eccellente ritrattista oltre ad essere un professore di profonda sensibilità.
Millet lasciò dunque la sua casa e si recò a Parigi, ma appena giunto, fu colto da una grande nostalgia della sua campagna. Dalle terse giornate della Normandia, in una nevosa sera di gennaio Jean-François era giunto in "una Parigi nera, fangosa e fumosa", come egli stesso la definì.
Il traffico dei mezzi, la luce dei lampioni soffocata dalla nebbia, i vicoli stretti e le baraccopoli sporche gli facevano venire le lacrime agli occhi. Per controllare un improvviso scoppio di pianto, si gettò in faccia manciate d'acqua fredda da una fontana di strada. Questo lo fece sentire meglio. Dopotutto, era a Parigi per un pellegrinaggio “religioso”: la religione dell’arte. Gli tornarono allora in mente le ultime parole di sua nonna, una cattolica severa e maestosa con l'animo di una puritana che, prima di congedarsi da lei gli aveva detto: "Preferirei vederti morto, figlio mio, piuttosto che essere ribelle e infedele ai comandamenti di Dio... Ricorda, sei un cristiano prima di essere un artista".
Quando Jean-François si unì al corso d'arte a Parigi, gli eleganti studenti cittadini ridevano delle sue rudi maniere campagnole. Alcuni di loro, più sinceri degli altri, provarono però la forza dei suoi pugni.
I compagni di classe avevano soprannominato quel ragazzone normanno, un po' ridicolo ma anche ammirato, il ”selvaggio uomo dei boschi”.
All'”Ecole des Beaux-Arts”, Jean-François rimase due anni fino al 1839 quando, in seguito al suo fallimento al concorso del “Prix de Rome”, la borsa di studio non gli fu più rinnovata e ritornò in Normandia, dove incominciò la sua carriera di ritrattista.
Durante le sue prime visite al museo di Cherbourg, poi al Louvre quando era a Parigi, Millet si era soffermato, innanzitutto e soprattutto, davanti ai dipinti olandesi del Seicento che raffiguravano quelle scene di vita quotidiana che lo affascinavano tanto e che lo avrebbero maggiormente appassionato durante la sua carriera di pittore. Di tutta la Storia dell’Arte, il modello “olandese” fu quello che Jean-François principalmente apprezzò, sentendosi a poco a poco incoraggiato a dipingere soggetti comuni “allo stile olandese”.
Col tempo a Parigi incominciò a stringere alcune interessanti amicizie che contribuirono alla sua emancipazione artistica. In particolare, simpatizzò con Honoré Daumier che, oltre alla satira dei potenti, eccelleva nella rappresentazione dei poveri. Millet incontrò anche un giovane che, dopo essere stato marinaio, era diventato commerciante di carta: si chiamava “Eugène Boudin” (1824 – 1898) e si dedicava alla pittura. I due amici si incoraggiavano a vicenda nel loro cammino verso il “Realismo”.
Tornato in provincia sposò “Pauline Ono”, figlia di un sarto di Cherbourg, della quale fece un bel ritratto e con lei si trasferì ancora a Parigi, ma Pauline, di salute fragile, morì di tubercolosi nell'aprile 1844.
Fig.2
Rimasto solo e con l’anima dolorante, Millet se ne tornò quindi a Cherbourg dove però incontrò “Catherine Lemaire”, un'ex domestica che lo colmò di tenerezza con cui intraprese una relazione e ne dipinse il ritratto nel 1845.
Fig.3
Catherine gli avrebbe dato nove figli e lui l’avrebbe sposata solo nel 1853 per le profonde inibizioni religiose di Jean-François che riteneva peccaminoso risposarsi.
Per sfuggire allo scandalo, si trattava in realtà di una coppia di fatto in un paesino di provincia, si trasferirono nella città portuale di “Le Havre”, in Normandia, dove Millet viveva facendo ritratti e scene di genere leggero.
Tornato a Parigi nel 1846, incontrò “Constant Troyon”, “Narcisse Diaz de la Peña”, “Charles Jacques” con i quali Millet strinse amicizia e, l'anno dopo, nel 1847 conobbe anche “Théodore Rousseau” con il quale strinse un’amicizia fraterna. Erano alcuni dei pittori che avrebbero costituito la futura “scuola di Barbizon”.
Gli anni Quaranta dell’Ottocento furono quelli della cosiddetta “maniera fiorita” di Millet: per sopravvivere e per attrarre il favore di una clientela borghese, Millet creava infatti composizioni aggraziate scene pastorali e nudi, nello stile di “Watteau” o di “Fragonard”, oltre a una serie di bellissimi ritratti apprezzati dalla committenza borghese.
La carriera di Millet iniziò quindi in sordina: dipinti su commissione di carattere più commerciale in cui non mostrava originalità nella scelta dei soggetti, realizzava principalmente ritratti su richiesta, il suo stile era spesso povero e piatto. "Un'esecuzione secca e goffa", come aveva annotato Delacroix nel suo diario.
La natura però rimaneva ancora lo scenario privilegiato per schizzi leggeri e piacevoli: il trattamento era ancora in gran parte convenzionale anche se la natura incominciava a guadagnare gradualmente terreno sulla superficie del dipinto e la sua pittura diventava sempre più rigogliosa e animata.
Nello stesso tempo, Millet incominciò a sperimentare un altro stile, meno settecentesco e più segnato dal Romanticismo di “Géricault” e di “Delacroix” in cui la natura fungeva da supporto per l'espressione di emozioni e di sentimenti drammatici: non era più un luogo ameno e addomesticato delle prime opere, ma un universo oscuro e inquietante che mostrava per esempio nel bellissimo “Al riparo dalla tempesta” del 1847.
Fig.4
Risale sempre a questo periodo anche il primo paesaggio puro e privo di aneddoti di Millet, direttamente ispirato a un sito esistente, “Castel Vendon” che rappresenta le scogliere di Gréville, il primo dipinto di una lunga serie perché, nel corso della sua vita, Millet non smise mai di trarre ispirazione dal suo paese natale per le sue composizioni.
Fig. 5
In questo periodo incominciò anche a realizzare le prime grandi scene di vita contadina che lo avrebbero reso famoso, come “Lo Spulatore” del 1848 e “Il seminatore” del 1850.
La rivoluzione del 1848, che aveva portato alla caduta del re “Luigi Filippo” e all'instaurazione della “Seconda Repubblica”, e il sentimento di libertà, che vibrando nell’aria la accompagnava, giocarono un ruolo importante anche nella carriera e nella vita di Millet. Viveva con la sua compagna a Parigi, una città che odiava. Era inquieto in quella città troppo tumultuosa ed era come se stesse vivendo al di "fuori di se stesso".
Tutto però accadde come se il 1848 gli avesse permesso finalmente di fare ciò che aveva in mente di raffigurare, di raccontare quel mondo contadino da cui era lontano e che amava, che era parte di sé e che aveva ampiamente osservato e vissuto e del quale avrebbe reso gli aspetti più belli nel corso della sua successiva carriera.
Gli artisti parteciparono a questo sussulto delle menti, dei costumi e della politica. Fraternizzarono, fra di loro, proclamarono la libertà dell’arte. La “Seconda Repubblica” poi influiva sulla vita artistica tra il 1848 e il 1852: opere e paesaggi realisti erano apprezzati e in quel periodo sembravano apprezzati anche dallo Stato.
E 'Lo spulatore' fu sintomo di questa sterzata anche per Millet.
Nel 1849 allo scoppio di una brutta epidemia di colera che minacciava Parigi, influenzato dagli amici Constant Troyon, Narcisse Diaz, Charles Jacque e soprattutto Rousseau, e spinto anche da un desiderio di riavvicinarsi di nuovo alla natura Millet, a 35 anni, si stabilì con la famiglia a Barbizon ai margini della foresta di Fontainebleau e a Barbizon risiedette per tutta la vita, vivendo da contadino in povertà quasi come un eremita e non lasciando mai questo luogo campestre, se non per qualche sortita a Parigi o nella sua nativa Normandia.
A Barbizon trascorreva ore osservando la natura e la vita contadina. Non dipingeva ancora assiduamente sul tema, ma osservava e prendeva appunti, schizzi su piccoli pezzi di carta, catturando i gesti dei lavoratori sul campo e qui la sua pittura ebbe un'enorme influenza sull’omonima scuola che si era orientata verso il “Naturalismo”, scegliendo di dipingere direttamente la natura – un metodo che sarebbe diventato noto come pittura “en plein air” abbandonando la formalità della pittura classica.
Ma che cos’era Barbizon? E che cosa fu per Millet?
La “Scuola di Barbizon” prende il nome da un paesino vicino alla foresta di Fontainebleau a sud di Parigi e fu la più importante “scuola” di pittura paesaggistico-rurale francese alla metà Ottocento: era costituita da un gruppo “informale” di artisti inizialmente ispirati dal “naturalismo”, un linguaggio che – almeno nel caso di Millet – si spostò intorno al 1850 verso il “realismo”.
I Barbisonnier svilupparono una forma di vita e di arte che ignorava molti canoni dell'arte accademica e attirava l'attenzione anche sul lavoro dei contadini.
Questo gruppo di pittori, per nulla turbato dalle fazioni rivali classiche e romantiche, aveva preso le distanze da Parigi, ritirandosi nella terra di Barbizon, per sperimentare un nuovo approccio più vero e più immediato con la pittura di paesaggio. Ciò che era "moderno" nei paesaggi di Barbizon rispetto a quelli di Constable, era che essi erano dipinti all’aperto, sul posto: essi furono infatti i pionieri della tecnica della “pittura en plein air” che avrebbe raggiunto il suo apice nelle mani degli impressionisti come Monet, Pissarro, Sisley e Renoir.
L’aspetto contemplativo che si insinua sempre quando un pittore si ritira nel suo studio per "costruire" un'immagine partendo dagli schizzi che aveva realizzato, non si interpose mai tra gli artisti di Barbizon e le loro opere soprattutto dei migliori esponenti di questa “scuola”: “Théodore Rousseau” (1812-1867), “Camille Corot” (1796-1875), “Charles Daubigny” (1817-1878) e lo stesso Jean-François Millet, anche se quest’ultimo non fu mai pienamente un “barbisonnier” per l’impegno sociale che veicola attraverso nelle sue “scene di genere”.
Millet si era stabilito con la moglie e i figli in una casupola di Barbizon, ai margini della grande foresta: scavava, coltivava la terra, dipingeva nel suo giardino e allevava la sua famiglia quasi sempre al livello più basso di sussistenza.
Il dipinto della svolta nella sua carriera era stato “Lo spulatore” un olio su tela di 100 × 71 cm, oggi alla “National Gallery” di Londra. L’opera fu esposta al “Salon” nel 1848 fra 5000 opere, perché in quell'anno di rivoluzione, il “Salon” fu libero dalla giuria, esponendo il peggio e il meglio della pittura, e questa fu una delle prime scene rurali che dipinse sulla base dei suoi ricordi d'infanzia.
Osserviamo ora l’opera.
Fig. 6
Uno spulatore, piegandosi sotto il peso del suo grande ventilabro, il cesto che serve per separare la pula dal grano, lancia una nuvola dorata di paglia nell'aria. L’opera fu notata dall’ondivago Théophile Gautier che ne elogiò i colori e "l'effetto polveroso dei grani sparsi".
Dopo questo dipinto, la pittura di Millet si orientò sempre di più verso soggetti rurali: le sue origini contadine spiegano la sua passione per questo tipo di scene che si possono definire il nucleo essenziale, ma non unico, della sua opera.
Quelli che Millet realizza non sono ritratti di contadini, ma quelli che lui stesso avrebbe definito delle "sintesi", dei tipi disumanizzati, i cui volti non hanno lineamenti, ma in essi l’artista voleva catturare il corpo nello sforzo e il gesto nel lavoro.
A partire dal 1850 circa, Millet iniziò a farsi una reputazione nazionale, ma soprattutto internazionale come uno dei principali pittori realisti in Francia.
Il suo successo, almeno al momento, gli permise di acquistare incisioni e disegni degli artisti che ammirava, tra cui “Pieter Bruegel il Vecchio” (1525 - 1569) e “Rembrandt” (1606 - 1669) – anche per Millet come per Courbet la matrice fiammingo olandese risulta dunque fondamentale –, nonché del romantico “Eugène Delacroix” (1797 – 1863). Il realismo dettagliato delle opere di questi pittori fu una fonte di ispirazione per i lavoratori agricoli di Millet. Si aggiunga a questo che Millet era un avido collezionista di fotografie, tra le quali privilegiava quelle di “scatti non in posa” della popolazione locale.
Millet incominciò dunque a dipingere contadini, un “mileu” che conosceva bene, una realtà che aveva incontrato e che aveva vissuto, e lo faceva con talento: nelle sue tele restituiva i gesti semplici e ordinari di questi contadini della sua epoca, se ne percepiscono i movimenti, il lavoro quotidiano, l’ordinarietà della loro immutevole vita, scandita solo dal ritmo delle stagioni.
I contadini diventano il centro dei suoi dipinti e Millet mostra chiaramente la loro umanità, il loro lavoro incessante.
In quel momento i lavoratori rurali costituivano ancora la stragrande maggioranza della popolazione francese: spigolatrici, pastorelle, vignaioli, piantatori di patate, seminatori, lavandaie, spaccalegna, mietitori erano l’universo della campagna francese e Millet li riproduce tutti con grande precisione, mostrando al pubblico la difficile vita della popolazione rurale del suo tempo.
In questo consiste il realismo di Millet e la sua differenza dagli altri Barbisonner: nella sua capacità di mettere in risalto lo splendore del gesto umano. Se osserviamo attentamente i suoi lavoratori, è il loro gesto, preciso ed efficace, che attira la sua attenzione e che egli si sforza, da designatore provetto – non si dimentichi la sua formazione accademica -, di ripristinare sulla tela quei gesti.
Millet riesce a magnificare l'universo contadino e la sua miseria facendo percepire all’osservatore il duro lavoro di questi oscuri lavoratori della terra, dipingendo sì una profonda armonia tra uomo e natura, dove il gesto contadino trova il suo vero significato, ma mostrando anche con chiarezza la sua personale simbiosi con gli esseri che dipinge.
Perché Millet li ama, perché è stato uno di loro.
Quest’opera fu molto apprezzata da Courbet e lo colpì tanto che fu forse questa la fonte di ispirazione per la realizzazione degli “Spaccapietre”.
Millet riesce a collegare con successo l’arte con il sociale, la poesia e l’ideale artistico con l’attualità della vita contemporanea. E questo ha determinato il suo riconoscimento anche da parte di artisti molto diversi fra loro.
Nel buio di un fienile, uno spulatore mantiene con entrambe le mani un cesto largo e poco profondo sulle cosce, leggermente inclinato verso il basso. Più lontano da lui si alza una nuvola di pula dorata.
Indossa zoccoli aperti dietro, i sabot, imbottiti di paglia per mantenere caldi i piedi, pezzi di stoffa blu legati sopra le ginocchia e un fazzoletto rosso annodato sui capelli.
Il cesto è uno speciale ventilabro, senza bordo anteriore, in modo tale che, scuotendolo abilmente, la pula possa essere spostata in avanti e spinta oltre il bordo, lasciando indietro il grano nella parte fonda del cesto.
Gli spulatori erano considerati lavoratori esperti, operai specializzati si direbbe oggi.
Millet iniziò forse questo dipinto, il primo a trattare il tema della vita contadina, già alla fine del 1846 e lo espose al “Salon” del 1848, anno della rivoluzione.
Con la rivoluzione del 1848 era ritornata alla luce una nuova visione dei temi popolari. Millet si sentì sempre più giustificato nel dipingere ciò che veramente gli interessava: le sue origini povere e il mondo della campagna.
Cominciò quindi a rappresentare scene di vita contadina in modo sorprendentemente sobrio, quasi oggettivo se non per quella sua cordiale partecipazione.
Fino ad allora i contadini erano stati spesso rappresentati come simpatiche comparse, utili a decorare i paesaggi o come bucolici pastori e pastorelle. Millet dipinse invece il mondo rurale così come lo vedeva, senza aggiungere nessuna edulcorazione, senza mai cedere al sentimentalismo, al “miserabilismo” commovente o peggio ancora al pittoresco.
Fu solo e semplicemente realistico.
La destra dell'epoca tuttavia, come in genere tutte le destre e come tutti i conservatori di ogni tempo e paese, lesse nelle scene contadine di Millet una critica sociale e addirittura, vide in alcuni suoi dipinti successivi come “Le spigolatrici” o come l’”Uomo con la vanga”, un invito alla sedizione. Nell’immaginario collettivo i contadini erano infatti ancora percepiti come una classe pericolosamente sovversiva: il ricordo delle “jacquerie” era ancora l’incubo costante dell’aristocrazia e della borghesia francese e tormentava i loro sonni; per giunta la “Seconda Repubblica”, con il suffragio “universale” maschile, aveva esteso il diritto di voto alle masse contadine e questo preoccupava molti oltre misura.
Da questo sorge un problema che si profila ogni volta che si parla di Millet: Millet fu assolutamente apolitico? Non prese mai posizione?
In molti credono di sì e ritengono che i suoi dipinti non illustrino alcuna idea e che non servano alcuna ideologia. 
Diversamente dal realismo socialista che attraversa l’opera di Courbet e di Daumier e poi di molte opere figurative del Novecento, Millet colloca la sua pittura nel terreno stesso dell'esperienza a monte di interpretazioni e di ingiunzioni?
È poco credibile che sia così. Apartitico lo fu di sicuro, ma apolitico è impossibile. La politicità indica una scelta che non è mai neutra e Millet compie la sua scelta: le sue “scene di genere” non sono momenti di abbandono idillico o di evasione dalla realtà, ma sono per lo più un racconto “drammatico” della vita contadina e Millet, figlio di fittavoli, conosceva bene le dure condizioni dei fittavoli e, se non alza barricate, se non grida “proletari di tutto il mondo unitevi” racconta, mette in evidenza e, a ben leggere questi suoi racconti, soprattutto alcune di queste scene di genere, pare che esprima con chiarezza le dure e servili condizioni di contadini non proprietari.
Se poi si considera poi che uno dei motivi che portarono alla rivoluzione del 1848 era stata proprio la miseria rurale, compresi i cattivi raccolti, qualche studioso di Millet ha individuato un aspetto politico nel dipinto, come in altre scene rurali, o una grande compassione dell'artista verso questi poveri braccianti.
È stato spesso e da più parti suggerito, ad esempio, che questa figura solitaria si sia cercata un secondo lavoro per guadagnare qualche soldo in più per meglio contribuire al sostentamento della sua famiglia. È una congettura probabile.
Nel complesso la critica reagì favorevolmente all'esposizione del dipinto al “Salon”, sebbene l’onnipresente Théophile Gautier sia stato molto critico nei confronti del trattamento pittorico di Millet scrivendo: “Stende sulla sua tela uno strofinaccio, senza usare olio o essenza, grandi croste di colore, pittura così secca che nessuna vernice potrebbe mitigarla. Niente potrebbe essere più aspro, selvaggio e rozzo'.
Ma dall’interno degli ovattati salotti parigini Gautier non capiva che uno dei motivi di quell'applicazione spessa della pittura era senza dubbio responsabile il fatto che Millet stava dipingendo su un quadro preesistente e che in questa fase della sua carriera, con il successo economico non ancora arrivato, Millet riutilizzava spesso le sue tele, dipingendo su composizioni già esistenti e persino tagliando le tele.
Del 1850 è “Il seminatore” un olio su tela di 102 × 83 cm un dipinto di cui Millet realizzò due esemplari quasi identici con lo stesso titolo.
Il dipinto che segue appartiene alla collezione del “Museum of Fine Arts” di Boston mentre l'altro fa parte della collezione del “Museo d'arte della prefettura di Yamanashi” a Kofu in Giappone.
Fig. 7
Il dipinto raffigura un contadino nell'atto “maestoso” di seminare la terra, apparentemente durante l’inverno. La luce splende nella parte alta dell’orizzonte visivo, il che fa supporre che sia l'alba.
L’uomo è vestito con il tipico abbigliamento contadino, con le gambe avvolte nella paglia per sentire meno freddo, cammina a lunghe falcate e porta un sacco di semi sulle spalle, mentre sparge con la mano destra quel che rimane del suo raccolto dell’anno precedente.
A sinistra del dipinto appaiono diversi corvi, nemici naturali dei contadini ma pur sempre parte del ciclo della natura, che beccano i chicchi sottraendoli alla coltivazione.
Sul lato destro, in lontananza, si vede un altro uomo che sta arando il terreno con i buoi per preparare il lavoro dei seminatori.
Il dipinto è una rappresentazione reale del vigore e dello stile di vita laborioso del contadino.
“Il seminatore” è stato il primo dipinto veramente importante fra quelli realizzati a Barbizon. 
Al “Salon” di Parigi nel 1850 ricevette molta attenzione, ma anche molte critiche. “Clément de Ris” lo elogiò come "uno studio energico e pieno di movimento", mentre “Théophile Gautier” lo derise di nuovo, definendolo un "raschiamento di cazzuola". La storica dell'Arte australiana “Anthea Callen” ha scritto invece che "Millet ha intenzionalmente trasformato il suo lavoratore umano in un muscoloso gigante allungando le sue proporzioni. Rafforzato dal dominio del seminatore nello spazio pittorico e dal nostro punto di vista ribassato, è quindi facilmente spiegabile il suo aspetto minaccioso per la borghesia parigina del 1850."
Millet ritornò sullo stesso tema del seminatore almeno altre tre volte con tecniche diverse per quanto se ne sa, e “Vincent van Gogh”, che trovò ispirazione in molti dipinti di Millet raffiguranti paesaggi e lavoratori
agricoli, copiò “Il seminatore” in molti dei suoi dipinti, ma trasformò l'immagine utilizzando colori più brillanti.
Fig. 8
Nel 1854 Millet ritornò per un breve periodo in Normandia dove realizzò numerosi disegni della sua città natale e della campagna circostante, che sarebbero serviti come punto di partenza per le future tele realizzate poi a Barbizon.
Del 1855 è “La raccolta delle patate” conservato al “Walters Art Museum” di Baltimora. “La Raccolta delle Patate” raffigura il lavoro dei contadini nella pianura situata tra Barbizon e Chailly-en-Bière. Millet per questo lavoro utilizza pigmenti in pasta applicati in strati spessi su una tela a trama grossa.
Fig. 9
Il tema della “raccolta delle patate” fu trattato anche da “Camille Pissaro” nel 1874 a Pontoise e da “Vincent van Gogh” nel 1883 a L’Aia.
Fig. 10
Fig. 11
Del 1857, è la tela “sovversiva” esposta al Salon di quell’anno, “Le spigolatrici” del Museo d’Orsay, un olio su tela di 83 × 110 cm. Quest’opera – oggi considerata una dei fondamenti del modernismo – subì allora grandi attacchi da parte della critica più conservatrice, che stigmatizzò questi soggetti ignobili trattati dall'artista con un registro nobile e monumentale. Mani pesanti, schiene piegate, volti segnati dal sole.
Che cos’altro doveva raccontare Millet?
Il suo realismo svela la realtà cruda delle cose senza filtri. Come un cronista, Millet mostra le differenze di classe sociali e così il lavoro duro dei contadini. Anche se la genuflessione delle donne sembrerebbe sottolineare il legame simbolico con la terra madre, le tre protagoniste raccolgono gli avanzi della raccolta delle spighe di grano mentre il sole, alle loro spalle, allunga le ombre sul campo.
Il dipinto indignò l’alta borghesia in visita al “Salon”: la miseria della vita contadina svettava sulla nobiltà e sulla pittura elevata del tempo, quella di Storia, quella di grandi eventi.
Ma non è forse Storia anche questo che Millet raffigura?
Il suo realismo è direttamente proporzionale al senso di pesantezza della vita nei campi. La ripetitività dei gesti è la chiave di lettura di quel mondo e i volti sono semplificati con l’intento di rendere manifesta la fatica.
Fig. 12
Millet dipinse quest’opera con grande tenerezza. Tenerezza e solidarietà umana perché conosceva bene le difficoltà del contadino francese. Ma il pubblico parigino accolse il dipinto con un coro misto di derisione, di sarcasmo e di insulti. Quasi si volessero essi stessi difendere da un insulto. Riferendosi alle figure delle tre spigolatrici, un critico osservò: "Sono semplici spaventapasseri vestiti di stracci e installati in un campo: la bruttezza e la volgarità di Millet sono irrilevanti". Qualcun altro le definì sarcasticamente “le tre Grazie dei poveri”. Come se la povertà fosse una colpa.
A questo sfogo, Millet avrebbe potuto rispondere che anche nelle cose così semplici c'è una bontà che va al di là dell’incomprensione di un critico cieco. Alcuni misero addirittura in dubbio gli aspetti tecnici del dipinto, ma si tratta di critiche infondate perché “Le spigolatrici” ha un’impaginazione perfetta ed esemplifica perfettamente il profondo rispetto che Millet nutriva per la dignità senza tempo del lavoro umano.
Quando Millet realizzò questo capolavoro aveva quarantatré anni e per molti anni aveva inviato le sue foto ai “Salon” parigini, per poi essere rifiutato più volte. Le sue opere “contadine” non erano infatti accettabili per gli aristocratici e per la classe di potere e tanto meno per gli aristocratici custodi dell’ortodossia accademica. Che cosa essi potevano condividere con un uomo che sapeva maneggiare l'aratro e che calpestava il suolo e il letame di Barbizon. Ma i critici più avvisati seppero invece cogliere proprio questa qualità dell'arte di Millet.
Ma ora osserviamo il quadro da vicino.
Il campo in cui lavorano le tre spigolatrici è immerso in una luce d'agosto apparentemente calda e intensa, ma il finale tonale sfocia in un blu torbido, opaco, cinereo che suggerisce l’idea di una foschia.
Tre contadine in primo piano spigolano nei campi, meccanicamente, stancamente, sotto il caldo ed estenuante sole dell’estate, che brucia la terra e gli uomini con i suoi raggi potenti e spossanti.
La "spigolatura" era un'attività concessa ai contadini più poveri di raccolta del grano o di altri cereali caduti nei campi dopo il grande raccolto del proprietario, prima del signore feudale. Sullo sfondo, un gruppo di raccoglitori accatasta infatti le spighe dorate.
Un uomo a cavallo supervisiona il loro lavoro.
È il padrone della tenuta o è un suo uomo di fiducia che svolge per il padrone l’azione di controllo dei braccianti?
Non si sa, ma fa lo stesso.
Le tre povere contadine - gli “spaventapasseri” dei critici sprezzanti – sono coinvolte in uno dei tre momenti della spigolatura: cercare le spighe di grano, raccoglierle, e legarle insieme in un covone.
Questo compito era estenuante, ma serviva a contribuire al nutrimento delle loro famiglie ed era uno dei principali compiti assunti dalle donne in quel periodo di difficoltà e di carestia.
Millet aveva trascorso quasi un decennio a studiare quel processo.
Due delle spigolatrici portano in testa fazzoletti rossi e blu e sono inclinate verso il basso con il capo al di sotto della linea del bacino, cercando tastoni con le dita, meccanicamente ma inappuntabilmente, le spighe fra le stoppie.
Una terza donna si alza per alleggerire per un attimo la tensione della postura, forse per chiedersi, per un momento, quale legge crudele l'abbia condannata a tanta sofferenza e fatica. Ma dopo questo lampo momentaneo, dopo questa parziale accensione del fuoco divino che promette di trasformare questa vile argilla in un essere umano, ma riprenderà il suo posto accanto alle altre e ripiegherà ancora una volta la sua schiena a terra.
Di fronte a questa scena, è chiaro che la bellezza dei soggetti non c'entri nulla.
Millet si limitava a dipingere ciò che vedeva, senza imporre alcuna idea di ciò che doveva o di ciò che non doveva essere. I contadini lavoravano la terra e Millet li dipingeva. Era talmente semplice. C’è rassegnazione in lui come nelle tre donne perché come dice la Bibbia nel libro della “Genesi”: "Mangerete il vostro pane col sudore della fronte, finché non ritornerete sulla terra, perché siete stati tratti da essa; poiché tu sei polvere e polvere ritornerai".
L'enfasi del dipinto sui ranghi più bassi della società rurale attirò ovviamente ancora una volta la notevole opposizione da parte delle classi superiori, sconvolte dalle sue pretese artistiche e dal suo radicalismo sociale, e lo collegò immediatamente al crescente movimento socialista. Tuttavia, il danno era stato fatto, il dipinto era stato accettato al “Salon” e i repubblicani francesi gongolarono e lo ammirarono per il suo apprezzamento dignitoso e realistico dei poveri delle campagne.
Millet aveva prestato molta attenzione alla sua composizione, usando ogni espediente per infondere ai suoi soggetti una grandezza semplice, ma monumentale.
La luce obliqua del sole al tramonto accentua la qualità scultorea delle spigolatrici, mentre le loro espressioni non perfettamente definite, “sintetiche”, secondo la definizione dell’artista stesso, e i tratti spessi e pesanti tendono a enfatizzare la natura faticosa del loro lavoro.
Inoltre, queste figure, piegate e dipinte in primo piano scuro, si stagliano su una calda scena “georgica” di alacri mietitori – con i loro covoni di fieno e quelli di grano, e con i loro carri – che hanno mietuto un ricco raccolto dai campi di grano.
Il contrasto tra l’abbondanza e la scarsità, tra la luce e l’ombra, è abilmente usato da Millet per enfatizzare la divisione delle classi. E la lontananza della classe dei proprietari terrieri è evidenziata anche dall'immagine sfocata del proprietario o del caposquadra che sia, seduto su un cavallo a distanza sulla destra.
È lontano sta lì solo per controllare.
L'intera composizione diventa quindi una sottolineatura sulla diversità di classi sociali in Francia e, in particolare, sull'incapacità delle classi popolari di elevarsi al di sopra del loro rango.
Le tre donne sono mostrate piegate per non oltrepassare la linea d’orizzonte, per confermare che esse vivono dove sono nate e che sono ancora serve di quella gleba dalla quale raccolgono le briciole contendendole ai passeri e ai corvi.
Nel frattempo, la linea di terra più alta è occupata da contadini sorvegliati dal caposquadra, nessuno dei quali va oltre l'orizzonte. Il cielo simboleggia l'inaccessibile classe superiore della società che disprezza i suoi inferiori. L’uomo a cavallo è diverso dalle altre persone, diverso come l'aria che sovrasta terra.
Ma c'è un segno o una speranza che il cambiamento stia arrivando.
Il gilet bianco e i fazzoletti rossi e blu delle spigolatrici formano i tre colori della bandiera – la bandiera della Repubblica francese e il simbolo della rivoluzione popolare in Francia – come era mostrato in “La libertà che guida il popolo” di Delacroix del 1830.
Millet vendette “Le spigolatrici” per 3.000 franchi. Nel 1889 il dipinto, appartenuto al banchiere Ferdinand Bischoffsheim, fu battuto all'asta per 300.000 franchi. Un divario impressionante a distanza di poco più di trent’anni.
Poco dopo, fu donato al Louvre e, nel 1986, trasferito al Museo d'Orsay.
“Le spigolatrici” è uno dei dipinti di genere di Millet di più grandi dimensioni e ha ispirato una cospicua tradizione di moderni dipinti di genere.
Nel 1859, Millet realizzò “L’Angelus”, il suo più celebre dipinto considerato uno dei più grandi dipinti religiosi della seconda metà dell'Ottocento e uno dei più iconici dell’arte occidentale.
L’opera, diventata un’icona della pittura francese, rappresenta una coppia di laboriosi contadini che si concede una pausa dal loro duro lavoro nei campi per pregare.
Il dipinto è semplice e rappresenta le due figure umane in perfetta armonia con l'ambiente circostante.
Quest’opera, insieme ad altre scene di vita contadina, consolidò la reputazione di Millet come uno dei migliori pittori di genere dell’Ottocento.
L'”Angelus” infatti sarebbe stata un’opera molto copiata e, dopo la morte dell’autore, diventò un simbolo dei valori borghesi, dell'etica del lavoro e della pietà religiosa.
Fig. 13
Il surrealista spagnolo Salvador Dalì (1904 - 1989) ne fu talmente affascinato, quasi ossessionato, che “L'Angelus” lo ispirò per la realizzazione di molte opere, tra cui: “L'Angelus architettonico di Millet” del 1933 e il “Gala e l'Angelus di Millet”, due opere che precedono di poco l'arrivo delle celeberrime “anamorfosi coniche” del 1933.
Fig.14
e
Fig. 15
Nel 1938, Dalì scrisse anche un saggio intitolato “Il mito tragico dell'Angelus di Millet”. Dalì era convinto che l'opera di Millet rappresentasse una scena funeraria, non solo un momento di preghiera e che le due figure stessero pregando per il loro bambino sepolto, piuttosto che pregare durante l'Angelus.
In effetti, Dalì insistette talmente tanto sulla necessità di radiografare la tela, che il Louvre organizzò un esame ai raggi X, solo per trovare la sagoma di una piccola bara sotto il cesto delle patate che rivelò realmente una forma che assomigliava a una piccola bara. Tuttavia, anche dai raggi X non risultò chiaro se Millet avesse cambiato idea sul significato del dipinto o se quella forma che si intravedeva fosse realmente una piccola bara. Gli analisti però scoprirono che anche il campanile della chiesa in lontananza era stato aggiunto in un secondo momento. Sembra dunque che Millet abbia originariamente dipinto una sepoltura – forse una versione agreste del celebre dipinto di Courbet “Una sepoltura a Ornans” del 1850 – ma che in seguito abbia convertito la tela in una recita dell'Angelus, con un campanile della chiesa ben visibile.
Come sempre osserviamo il dipinto.
Il dipinto rappresenta due contadini, un uomo e una donna, che si fermano per qualche minuto per recitare l'”Angelus”, una preghiera tradizionalmente recitata tre volte al giorno che commemora l'Annunciazione. "Angelus" (angelo), è infatti la prima parola dell'Annunciazione: "Angelus Domini nuntiavit Mariae" ovvero "L'angelo del Signore annunciò a Maria".
La scena si svolge durante la raccolta delle patate, appena fuori dal villaggio di “Chailly-en-Bière” il cui campanile è visibile in lontananza.
In mezzo ai campi, si vedono un giovane contadino e probabilmente sua moglie che hanno appena finito o forse solo interrotto il loro lavoro.
Non è chiaro quale sia il rapporto che esiste tra la coppia: se siano marito e moglie, o colleghi di lavoro, o contadino e servitrice. Un catalogo di vendita del 1889 li descrive vagamente come "un giovane contadino e la sua compagna".
La coppia stava scavando patate, i cui sacchi sono stati caricati su una carriola e si sono fermati appena hanno sentito fluttuare nell'aria immobile i rintocchi lontani delle campane della chiesa.
Tutti i loro attrezzi, tra cui le borse, un forcone, un cesto di patate e una carriola sono sparsi qua e là.
Le nebbie del crepuscolo sorvolano i campi.
All'orizzonte, si distingue un villaggio. Il campanile della chiesa e alcuni tetti delle casette sono visibili attraverso l'oscurità che incomincia ad addensarsi.
Silenziosi e immobili come statue, i due personaggi, che occupano la scena, si perdono in una religiosa contemplazione, l'uomo scoprendosi il capo lo china in silenziosa preghiera, così come la donna che stringe le mani con riverenza, anche lei con il capo chino.
Il loro aspetto è povero e i loro abiti grossolani.
A guardarli si direbbe che siano entrambi composti di quella stessa terra che si attacca ai loro zoccoli di legno, le loro forme dominano la scena nella calma del crepuscolo, immerse nella scura sfocatura della sontuosità del tramonto e le ombre, sempre più profonde della notte, smettono di sopraffarle con la loro immensità.
In quel momento non sono più due povere creature isolate, ma sono due anime la cui preghiera riempie l'infinito ed esse si riempiono dell’infinito.
Raffigurando questi due personaggi silenziosi e anonimi nel mezzo di una vasta pianura coltivata, con solo pochi semplici strumenti che li aiutano a racimolare il necessario dal terreno per la loro esistenza, Millet fa luce sulla vita massacrante dei contadini con il loro duro lavoro fisico quotidiano che non finisce mai e dura dall’alba al tramonto attraverso tutte le stagioni.
Nello stesso tempo, il momento di silenzio ricorda la nostra inevitabile connessione con il divino e la nostra insignificanza di fronte a lui. È proprio questa combinazione di elementi che rende questo dipinto uno dei grandi capolavori della pittura religiosa francese dell'Ottocento, un incrollabile atto di fede, nonostante tutto.
Ma veniamo ora alla storia di questa meraviglia.
Si tratta di un insolito esempio di arte cristiana laicamente interpretata che esprime un profondo senso di devozione e per questo L’Angelus diventò presto uno dei dipinti religiosi più riprodotti dell’Ottocento, con acqueforti esposte da migliaia di devoti capifamiglia in tutta la Francia.
Millet lo dipinse per nostalgia: nel 1865, ammise che l'idea dell'”Angelus” era nato da un ricordo d'infanzia di sua nonna, che insisteva affinché la famiglia smettesse di lavorare nei campi quando sentivano la campana della chiesa suonare per l'Angelus.
Per mezzo secolo, dalla fine dell'Ottocento al periodo tra le due guerre, “L'Angelus” diventò il dipinto più famoso del mondo. Questo formato piccolo e un po' scontato sembrava tuttavia un pezzo secondario agli occhi del suo autore: si ritiene che il dipinto gli fosse stato commissionato dal collezionista d'arte americano “Thomas Gold Appleton” (1812 – 1884) ma, siccome il committente non ripassava a ritirarlo, Millet ne era preoccupato e decise allora di venderlo per meno di 1.000 franchi a un altro collezionista che a sua volta lo ri vendette rapidamente e il dipinto passò di mano in mano nel corso degli anni e ogni volta che ritornava sul mercato d’arte dava luogo a fenomeni di speculazione di prezzo.
Questi fenomeni speculativi non riguardavano i grandi dipinti storici che dipendevano da un luogo e restavano per sempre fuori mercato. I piccoli formati invece, come i titoli brevi, potevano suscitare entusiasmo e fu questo fenomeno, tipico del mercato d’arte, che avrebbe portato fortuna agli impressionisti e che portò alla ribalta “L’Angelus”. Se questo dipinto fosse stato largo tre metri e alto due, probabilmente non avrebbe conosciuto la stessa fortuna.
Nel 1889, L'Angelus raggiunse tali vette che fu addirittura oggetto di dibattito alla Camera dei Deputati dove alcuni parlamentari chiesero che lo Stato lo acquisisse. Il dibattito fu acceso e si potrebbe immaginare che i conservatori dell'epoca fossero sensibili a questo elogio della terra e della religione. In realtà furono loro i più contrari, perché continuavano a vedere nelle opere di Millet una denuncia della povertà contadina. Anche la sinistra fu, come spesso accade, divisa: in questo caso il suo patriottismo artistico entrava in conflitto con l'esigenza di laicità, minata dalla religiosità del dipinto. Infine, le autorità pubbliche presero una decisione a favore dell’acquisto: ma il prezzo del dipinto fu portato alle stelle da un ricco americano e fra la costernazione generale partì per gli Stati Uniti. Qualche anno dopo, però fu acquistato nuovamente per una somma altrettanto bizzarra da un collezionista francese, Alfred Chauchard (1821-1909), proprietario dei “Grands Magasins du Louvre” per 750.000 franchi e alla sua morte l'opera finalmente passò in eredità allo Stato. Da allora in poi “L'Angelus” iniziò la “carriera” museale e, oltre ad essere un dipinto di “cult”, diventò anche uno strumento diplomatico come biglietto di visita della Francia. Il “Museo d'Orsay” infatti lo manda qua e là nei paesi che ne fanno richiesta per mostre d’arte di cui l’opera è spesso una vedette acclamatissima. Nel 1932 il dipinto fu freggiato da uno sconosciuto con un bastone come la “Venere” di Velázquez.
Si dice che questo sia l'unico dipinto in cui si possono “sentire suonare le campane”.
In quel momento invece Millet aveva raggiunto l'abisso della sua povertà. "Abbiamo solo abbastanza cibo per sostenerci per due o tre giorni", scrisse, "e non sappiamo come lo otterremo...".
Oggi è Millet noto soprattutto la serie di opere che mettono in luce la difficile situazione dei contadini e la dura realtà della loro vita quotidiana. La vita contadina fu la sua specialità anche se fu pittore piuttosto poliedrico ma queste scene contadine sono alcune delle più belle e significative “scene di genere” dell’Ottocento e, insieme alle opere di “Gustave Courbet”, rappresentano la prima apparizione di una modernizzazione dell'arte, nel senso che i loro dipinti trattano questioni di attualità sociale.
Millet conosceva da vicino la durezza della vita contadina, in gran parte dovuta al ciclo costante delle stagioni e ai faticosi compiti ad esse associati, ma anche dovuta ai capricci del tempo. Per esempio, quando la produzione è stata raccolta e immagazzinata, giunge il momento di preparare i campi per la nuova seminagione ma, prima che possano essere arati, i campi devono essere ripuliti dalle erbacce e dalle stoppie. Un ciclo continuo che non conosce soste. E in Francia come altrove, del resto, questa pulizia dei campi era effettuata utilizzando la vanga, un pesante attrezzo con un lungo manico, con una lama larga come quella di una pala ad angolo retto ed era particolarmente faticoso da usare perché richiedeva e richiede ancora oggi, una notevole forza fisica e una lunga resistenza: anche il più forte dei lavoratori trova dolorosa la vangatura e ha bisogno di pause regolari.
Il contadino raffigurato in questo dipinto di Millet non fa eccezione.
Il suo magistrale “L'Uomo con la Zappa”, appoggiato al suo arnese, tutto rigido, la bocca semiaperta, trasmette la sofferenza, la stanchezza del contadino dopo una giornata di lavoro. È un contadino senza identità, senza individualità, che lavora la terra e che è tutt'uno con essa. Un disegno preparatorio in cui l'uomo con la vanga conserva ancora alcune sembianze umane, mostra come è stata effettuata questa "sintesi".
“L’uomo con la vanga”, olio su tela di 82 × 100 cm, databile fra il 1860 e il 1862, fa parte delle collezioni del “J. Paul Getty Museum” di Los Angeles.
Fig. 16
Osserviamolo.
Appoggiato sul manico della vanga e ancora molto affannato, il bracciante si ferma per una pausa e sembra sfinito.
In realtà non si tratta di una zappa come di solito il titolo è tradotto, ma di una vanga, un attrezzo che serve per dissodare il terreno suddividendolo in zolle che sono rivoltate e non per scavare buche come la zappa. La vanga è diversa dalla zappa perché è spinta nel terreno con la forza del piede anziché delle braccia. Una volta separata la zolla e sollevata, l’altra mano afferra il manico il più possibile verso la lama per completarne il sollevamento e per poi sbriciolarla. E questo per tutto il campo da dissodare e da pulire da stoppie e da erbacce.
Coperto di sudore e con indosso solo la camicia, dei ruvidi pantaloni e gli zoccoli, quando il caldo ha cominciato ad incalzare ha tolto la giacca e il cappello e tiene le maniche allungate per proteggersi dal sole intenso. Il viso e il collo sono già di un bruno intenso, cotti dal sole, mentre le sue labbra sono screpolate e secche. L'espressione sul suo volto è vuota e l’artista lo mostra privo di qualsiasi energia, rivelandolo come un uomo allo stremo delle sue forze.
Sta solo, moderno Prometeo, in un campo accidentato e ricoperto di rovi, di stoppie e di ciuffi d'erba, e da solo lavora la terra e la pulisce.
Sullo sfondo di questa solitudine, in lontananza alcuni mucchi di foglie secche e di erbe indesiderate stanno bruciando, emettendo colonne di fumo.
Il contadino è alto, legnoso e appare brutale.
Non ha via di scampo da quell’esistenza che sembra un supplizio, una maledizione, una condanna ai lavori forzati.
La sua fisionomia poco attraente è simile a quella del “Seminatore” del 1850 e delle “Spigolatrici” del 1857, ma come in loro, sebbene abbrutito dalla fatica, anche in lui c’è dignità e calma solidità, dettate dalla consapevolezza dell’immutabilità del proprio destino.
Questo sembrerebbe contraddire quei critici d'arte che affermavano che Millet aveva concentrato tutta la sua attenzione artistica sulla bruttezza della classe operaia rurale.
In realtà le opere di Millet sono prive del sentimentalismo dello stanco Romanticismo e cercano solo di raccontare il lavoratore, il suo ambiente e la sua strenua fatica.
Per lui la bellezza dei soggetti non conta.
Eppure “L'uomo con la vanga” è forse uno dei pochi momenti della ribellione personale di Millet. L’opera fu infatti dipinta in un momento in cui Millet non era più neanche in grado di pagare il prezzo della visita medica a sua madre morente e aveva alzato le mani al cielo in preda alla disperazione. Scrive in quel periodo: "Sono inchiodato alla roccia e condannato a lavori forzati senza fine!"
Non è forse l’immagine che sembra esprimere l’uomo con la vanga?
E allora, quando ancora una volta la povertà si prendeva gioco di lui e lo schiacciava, dipinse nella sua opera l'amarezza della sua disperazione.
Millet era ben consapevole di quali sensazioni quell'immagine avrebbe suscitato nei borghesi infatti scrisse a un amico: “L'uomo con la vanga mi metterà nei guai con un bel numero di persone che non amano essere invitate a guardare con attenzione un mondo diverso da quello a cui sono abituate, che odiano essere disturbate dalla loro tranquillità”.
E aveva visto giusto. Raramente un'immagine è riuscita a provocare opinioni così discordanti: da un lato la più grande tempesta di insulti e dall'altro l'effusione più fanatica di elogi rispetto a questa rappresentazione di un lavoratore dei campi, tormentato e disperato, che si ferma per un momento ad appoggiarsi e a riprendere respiro.
In quell’immagine è impresso il peso dei secoli di servitù. Lo spirito di quest’uomo è stato infatti fiaccato, ucciso da generazioni di lavoro forzato imposte a lui e a tutta la sua classe. Nei suoi occhi c'è uno sguardo vuoto. Ogni espressione sul suo volto è stata soffocata dalla fatica, l’uomo era ridotto al rango della bestia.
Nel Seicento, in pieno Assolutismo, il pensatore moralista Jean de La Bruyère, parlando di questa categoria di uomini aveva scritto: “Certi animali selvatici si possono vedere sparsi per il paese, maschi e femmine, neri, lividi e bruciati dal sole, legati alla terra, nella quale crescono con invincibile ostinazione. Eppure, hanno una sorta di linguaggio articolato, e quando si alzano, mostrano un volto umano e in realtà sono uomini”.
Verrebbe da dire: non subumani?
I critici rabbrividirono di fronte al doloroso realismo di quest’opera.
Nessuno prima di allora aveva mai osato scuotere quell'uomo dalle sue tenebre – questo contadino con la vanga, con la schiena piegata, con il cranio teso come una pera per la lunga e interminabile fatica, con quegli occhi vacui, gelidi, insensibili a ogni pensiero – la bestia feroce e muta dell'aratro.
Uno dei critici scrisse sprezzante: "Millet dovette cercare per un bel po' di tempo prima di trovare un ragazzo così. Tali tipi non si incontrano comunemente, nemmeno nei manicomi. Immaginate un mostro con uno stupido sorriso stampato in faccia, piantato di traverso come uno spaventapasseri in mezzo al campo. Nessun barlume di intelligenza dà un tocco umano a questa cosa brutale, quindi si tratta di un lavoro o di un omicidio che ha commesso? Sta scavando il terreno o sta scavando una fossa?”
E di fronte a questo giudizio siamo nell’anticamera di Lombroso?
In questo quadro, la gente di città, i borghesi videro una propaganda socialista.
Ma l'uomo con la vanga non era un manifesto politico, era piuttosto una figura molto tipica delle grandi masse di braccianti agricoli che da dieci secoli lavoravano nei campi di Francia senza un mormorio. Era forse apparso un artista per dar voce a questa povera gente?
Forse sì. Nei suoi quadri Millet mostrava un lamento, ma senza l’idea di una disperazione sociale, ma di quella individuale. Per una volta, Millet aveva dipinto però un autentico discorso politico.
“L'Uomo con la zappa” è un servo paziente che compie l'opera di Dio nella sua cattedrale della terra e del cielo.
Alle accuse di socialismo Millet chiese retoricamente "L'opera di questi uomini è forse il tipo di opera futile che alcuni vorrebbero farci credere? Per me, almeno, riflette la vera dignità, la vera poesia della razza umana".
Poesia certamente, caro Jean François, ma poesia tragica. Arare i campi, dipingere quadri, scrivere inni: queste nobili opere devono essere fatte. Ma perché danno tanto amaro dolore nel compierle?
Le “scene di genere” di Millet impressionarono molti pittori progressisti e crearono una tendenza che fu poi sviluppata in opere come “I raschiatori del pavimento” del 1875 di Gustave Caillebotte, “I Cantonieri in rue de Berne” del 1878 di Edouard Manet, la “Donna che dipinge se stessa” del 1887-90 di Degas e “I giocatori di carte” di Cézanne del 1892-6. Per non dire delle opere di Daumier e di Rosa Bonheur, anche se quest’ultima con uno spirito alquanto diverso.
Queste opere furono molto discusse in un momento in cui la Francia stava ancora cercando di assestarsi e di sanare le sue divisioni interne all'indomani della Rivoluzione del 1848, anche se Millet era un artista più umanitario che fazioso. Da questo punto di vista, era diverso da “Gustave Courbet” (1819-1877), pittore decisamente di sinistra, le cui opere come “Gli spaccapietre” e “Lo studio dell'artista” del erano così sfacciatamente politiche.
Tuttavia, Millet condivise con Courbet lo stesso desiderio di rendere omaggio agli operai e ai braccianti di Francia e le sue immagini diedero una nuova monumentalità alle loro esistenze.
Per lui, i contadini e le campagne facevano parte di un mondo arcaico fuori dal tempo ed erano una parte unica del patrimonio della Francia. Essendo anche i più vicini alla natura erano anche i più vicini a Dio.
Per fortuna il dolore per il mancato apprezzamento di quest’artista non rimase con lui per sempre: alla fine opere come “Il seminatore”, “Le spigolatrici” e “L'Angelus” convertirono un piccolo, ma influente gruppo di persone e di critici alla religione della sua arte. Queste persone non erano né sconcertate né spaventate dal suo realismo. Un'artista “fratello”, “Théodore Rousseau”, fu uno dei primi a riconoscere il genio di questo pittore così tristemente paziente e, quando Millet stava affrontando le sue schiacciati difficoltà economiche, Rousseau comprò uno dei suoi dipinti per poche centinaia di franchi e, per non metterlo in imbarazzo, finse che l'aveva comprato per un ricco americano. Un altro amico aveva raccolto abbastanza soldi attraverso una lotteria per pagare l'affitto e le note del macellaio. Alexandre Dumas scrisse articoli entusiastici sul suo lavoro, e un ricco collezionista accettò di anticipargli 1.000 franchi al mese in cambio della produzione totale di Millet per un periodo di tre anni. Un altro cliente ancora gli commissionò delle opere a pastello per una collezione che si prevedeva che sarebbe cresciuta fino a più di 90 unità: dal 1865 Millet fece quindi del pastello il suo campo privilegiato di sperimentazione pittorica e lo utilizzò per lavorare sulla resa della luce e dei colori.
Sembrava che il destino di Millet stesse cambiando.
Nel 1867, in occasione dell’”Esposizione Universale” di Parigi fu ospitata un’importante antologica delle sue opere fra cui “Le spigolatrici”, “L'Angelus” e “I piantatori di patate”  del 1861.
Fig. 17
Il primo vero riconoscimento ufficiale gli giunse tuttavia l’anno successivo, il 1868, quando fu nominato cavaliere della “Legion d'Onore”, e poi nel 1869, quando il “Museo delle Belle Arti” di Marsiglia acquistò “La Bouillie” del 1861, la sua prima opera ad entrare in una collezione pubblica. Nell’anno in cui fu insignito della Legion d'Onore ebbe anche il suo dolore più grande: perse il più caro dei suoi amici, Rousseau che affetto da paralisi, questo "più di un fratello" morì tra le sue braccia.
Fig. 18
Tra il 1853 e il 1871 Millet aveva compiuto brevi soggiorni nella sua regione natale, da dove aveva sempre riportato numerosi studi che rappresentavano i luoghi della sua infanzia, la sua casa, i monumenti locali, la costa della Normandia. “Le Bout du hameau de Gruchy” del 1854, tela preparatoria per una composizione presentata poi al Salon del 1866, è un primo esempio.
Fig. 19
Col passare del tempo, la sua tavolozza tese ad alleggerirsi un poco e, man mano che le sue pennellate si allentavano, dava luogo a un certo impressionismo: diversamente dagli impressionisti, però non dipinse mai all'aperto, vi realizzava i disegni, che poi riutilizzava nel suo atelier per creare le sue composizioni, e non prestò mai troppa attenzione ai valori tonali.
Nell'agosto 1870 Millet fuggì dalle truppe prussiane che minacciavano l'Île-de-France in cui si trova anche Barbizon e si rifugiò a Cherbourg con la moglie e i loro nove figli.
La fine della sua vita fu segnata da un appassionato interesse per il paesaggio, in particolare per i siti legati alla sua infanzia (Le Lieu Bailly, vicino a Gréville) e per i monumenti emblematici della sua regione.
La serie “Falaises de Gréville” è particolarmente caratteristica di questa lenta maturazione dai primi schizzi rapidamente abbozzati al disegno preparatorio finale, passando per gli studi più precisi alla matita, alla penna o al pastello.
L'ultimo soggiorno di Millet nel Cotentin, dal 1870 al 1871, segna il trionfo assoluto del paesaggio nella sua opera. La resa degli effetti atmosferici e luminosi osservati all'aperto diventa importante quanto il soggetto stesso del dipinto.
“La Chiesa di Gréville”, ultimo capolavoro dell'artista che non lasciò mai il suo studio, è l'emblema delle sue origini, l'espressione del suo attaccamento alla sua terra natale.
Fig. 20
Completata nel 1874, anno della prima mostra impressionista, l'opera è inondata di luce solare. Il tocco è libero, vivace e veloce. Millet si unisce qui alle ricerche della nuova generazione di artisti che si preparava a rivoluzionare ancora la pittura.
Millet morì a Barbizon il 20 gennaio 1875.
L’eredità di Millet ebbe tuttavia una notevole influenza su altri giovani artisti, tra cui “Eugène Boudin” (1824 – 1898) nella rappresentazione della vita rurale e contadina, “Claude Monet” (1840 – 1926) influenzato dalla rappresentazione della vita rurale e anche dalla luce naturale e dal colore dei dipinti di Millet e più tardi influenzò anche “Pablo Picasso” (1881 – 1973) che a Parigi lo studiò molto in particolare il suo uso di luci e ombre per creare effetti drammatici nei suoi dipinti. Il suo talento di disegnatore e l'attenzione per la gente comune nelle sue opere piacquero ad artisti come Van Gogh, che ricordò più volte l'opera di Millet nelle lettere a suo fratello, e come “Georges Seurat”, padre del “pointillisme”.
                                                Massimo Capuozzo


2 commenti:

  1. CHristina Christacopoulou29 gennaio 2024 alle ore 22:02

    Una interessante e esauriente spiegazione del pittore della Scuola di Barbizon Millet e delle sue pere .Grazie Prof.re Capuozzo

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