martedì 12 gennaio 2016

L'elegia di Solone alle Muse

Elegia alle Muse
Di Solone[1]
La poesia di Solone risente spesso del suo impegno politico.
Fra i testi a lui attribuiti compaiono anche testi di carattere autobiografico, ma egli trattò principalmente di politica e di morale.
La triade concettuale da lui introdotta, fu fondamentale per la letteratura greca:
·         la ὕβρις (hýbris): il peccato di presunzione esso è il male, inteso come tracotanza, ed è una scelta dell'uomo;
·         ἄτη (ate): è un procedimento di degradazione (accecamento) a cui gli dei sottopongono chi si è macchiato di ὕβρις;
·         δίκη (dike): è il motore del processo di giustizia divina.
Nell’Elegia alle muse raggiunge una consapevolezza maggiore: non sono le Muse a prendere l’iniziativa di parlare all’uomo o di dare l’investitura, ma è l’uomo stesso che si rivolge loro, non come servo, ma con un invito ad ascoltare la sua richiesta di ottenere fama e celebrità e di poter trasmettere la verità con il consenso di quelle depositarie della memoria e della verità collettiva. Le Muse sono infatti le garanti della giusta relazione che si instaura tra gli uomini.

O di Mnemòsine[2] figlie fulgenti e del Sire d’Olimpo,
Pièrie[3] Muse, ascolto date a me che vi prego.
Fate che felicità mi concedano i Numi, e ch’io goda
presso i mortali fama perennemente buona,
ed agli amici sia gradevole, amaro ai nemici,
esultino a vedermi questi, e tremino quelli.
Ricchezza, averne bramo, ma farne empio acquisto non bramo:
ché sopraggiunse sempre, sia pur tarda, Giustizia.
Quanto a Ricchezza, quella che i Numi concedono, salda
dalla base alla cima rimane al possessore:
quella che col Sopruso si lucra, non sa regolarsi,
anzi, sedotta, i passi segue del Male Oprare,
sinché piomba improvvisa su lei la Vendetta Divina.
Comincia essa dal poco, come avviene pel fuoco:
debole su le prime: ma niuno alla fin le resiste:
chè Sopruso vantaggio non arreca ai mortali.
Ma d’ogni cosa Zeus preordina il fine; e, improvviso,
come subito vento primaverile sperde le nubi,
e dal profondo sconvolge gl’innumeri[4] flutti
del mar che non si miete, poi della terra i campi
belli, feraci di spelta[5], distrugge, ed ascende alla sede
alta dei Numi, al cielo torna sereno l’ètra.
E su la pingue terra scintilla la forza del sole
bella, né più si vede traccia di nube in cielo:
procede la Vendetta di Zeus così; né lo sdegno
affila, come gli uomini fanno, caso per caso;
ma non le resta sempre nascosto chi cuore malvagio
chiude nel seno; e tutto vien finalmente a luce.
E questi lì per lì paga il fio[6], quegli dopo; e se pure
gli sfugge alcuno, e l’Ira dei Numi non lo coglie,
pure il momento arriva: la colpa i figliuoli innocenti
per lui scontano, oppure la più tarda progenie.
Tutti noialtri mortali, sia buoni, sia tristi, nutriamo
opinione grande di noi, sinché ci colga
qualche malanno: allora son lagni[7]; ma fino a quel punto
ci lusinghiam[8] con vane speranze, a bocca aperta.
E quegli ch’è schiacciato dal peso di gravi malanni,
s’illude che fra poco godrà fior di salute:
un altro, ch’è pusillo[9], s’immagina d’essere un prode:
uno di forme poco venuste, d’esser bello:
uno senz’arte né parte, gravato d’eterna miseria,
spera d’averne, quando che sia, ricchezza a iosa[10].
Tutti, chi qua, chi là, si danno da fare. Va errando
questi sul mar pescoso, ché nel suo legno[11] deve
portare a casa il lucro: lo sbattono i venti funesti:
pure, egli alla sua vita non ha riguardo alcuno.
Serve per tutto l’anno, scalzando la terra alberata,
un altro, a cui la cura spetta dei curvi aratri.
Un altro che d’Atèna, d’Efesto, maestro dell’arti,
l’opere apprese, il pane con le braccia guadagna.
Un altro, a cui le Muse d’Olimpo largirono[12] il dono,
apprese i modi tutti dell’amabil scienza.
Concesse a un altro il Dio dell’arco[13] il profetico dono,
e il mal da lungi vede che contro un uomo avanzi,
quando lo inviano i Numi; ma quello che vuole il Destino,
nessun augurio[14] può schermir, nessuna offerta.
Chi l’arte di Peòne[15], maestro di farmachi, apprese,
è medico; e pur egli non va mai sul sicuro;
sovente si sviluppa da piccola doglia un gran male,
né veruno[16] curarlo può coi farmachi blandi;
ed uno ch’è gravato da pena d’orribile morbo,
basta su lui la mano porre, ed eccolo sano.
Reca la Parca ai mortali malanni commisti a fortune,
né può l’uomo schivare ciò che mandano i Numi.
In ogni opera a tutti sovrasta pericolo: e niuno
sin da principio sa quale sarà la fine.
(traduzione di Ettore Romagnoli)





[1] Solone di Atene fu un grande legislatore, che credeva in quello che faceva, e ciò che ci è giunto sotto il suo nome ci è giunto testimonia della sua volontà di trasmettere ai suoi concittadini le sue idee e la saggezza acquisita nella sua attività politica, l'ispirazione morale delle sue riforme.

Solone nacque ad Atene nel 640 da una famiglia aristocratica. Si era già segnalato come poeta con una celebre elegia per la conquista di Salamina intorno al 600, quando fu nominato arconte con poteri straordinari nel 594: gli aristocratici al potere ebbero la paura di perdere il potere per cui nominarono lui. Solone respinse la richiesta popolare di una ridistribuzione delle terre, ma sancì retroattivamente l'abolizione delle ipoteche sui terreni dei contadini e decretò l'illegalità della schiavitù per debiti. I suoi provvedimenti (legge sull'eredità, riforma monetaria, legge sulla tutela statale degli orfani ecc.) fornì la base costituzionale alla repubblica ateniese. La sua opera poetica è il primo documento letterario di Atene. Restano frammenti di elegie politiche e morali (intera ci è giunta la cosiddetta Elegia alle Muse, una specie di repertorio delle sue idee).

Solone è poeta della giustizia: su questa divinità fonda il benessere e la pace sociale della città; basa la convivenza sulla legge. Le sue idee, familiari fin dall'infanzia a tutti gli ateniesi, furono alla base della grandezza civile di Atene.

[1] Nella mitologia greca, Mnemosine (dea della memoria) è figlia di Gea, dea della terra, e di Urano, il cielo stellato.

Il mito vuole che all’inizio fosse solo il caos, una massa enorme e confusa che comprendeva in sé tutti gli elementi, senza ordine né distinzione. Dal Caos nacque, un giorno, Gea, la Terra ed essa generò l’Erebo (la notte), l’Etere (il giorno), Urano (il cielo stellato), l’Oceano e i Monti.

Unendosi poi con Urano, Gea diede vita a Mnemosine, dea della Memoria, di cui si invaghì Zeus.

Il re dell’Olimpo si intrattenne con Mnemosine per nove notti, generandone le nove Muse, protettrici delle arti. Attribuire carattere divino alla figurazione astratta della memoria distingue la concezione greca di memoria da quella di altre civiltà antiche. La presenza di un Dio a sovrintendere alla memoria, significa ed implica la consapevolezza della funzione fondamentale del ricordare come fattore di cultura e garanzia della storia dell’uomo che è posta sotto il volere della divinità.

[1] lett. Della Pieria, regione della Grecia, o del monte Pierio, sacro ad Apollo e alle Muse
[1] innumerevoli
[1] farro
[1] lett. Castigo, pena || pagare il fio, subire la giusta punizione
[1] Lamento provocato da sofferenza
[1] Illudiamo da lusingarsi
[1] servo
[1] In abbondanza
[1] Nave || per sineddoche
[1] Sta per elargirono
[1] Apollo
[1] profezia
[1] Mitico medico degli dei
[1] Pron. e agg. Indefinito|| Alcuno, nessuno

lunedì 23 novembre 2015

Per una didattica della parafrasi di Massimo Capuozzo

La parafrasi indica la trasformazione di un testo scritto nella propria lingua, ma in un registro linguistico distante (sia esso arcaico, elevato o poetico, o infine settoriale), in prosa nel registro medio e attuale e infine comprensibile ai più: parafrasare un brano vuol dire, infatti, mantenere tutto ciò che c'è nel brano, ma renderlo più facile, più semplice più leggibile al lettore comune.
Quest’operazione è necessaria per i testi più antichi, sia in prosa sia in poesia, mentre, per i testi moderni, prevalentemente per i testi in poesia, come da definizione anche per la prosa scientifica e tecnica che si servono di linguaggi settoriali. Vi sono, infatti, testi di natura politico-sindacale, tecnico scientifico e quant’altro, che sono scritti solo per i conoscitori di quel determinato linguaggio speciale e, per renderli comprensibili al comune lettore, occorre non solo un'operazione di semplificazione, ma anche un processo di rielaborazione, di chiarificazione di concetti e di riscrittura.
La parafrasi dunque è la realizzazione di un testo che ha lo stesso significato e una struttura parallela a quelli del testo di partenza, da cui però si differenzia sul piano lessicale e sul piano morfosintattico e talvolta sul piano esplicativo.
Come inevitabile effetto collaterale della parafrasi è il fatto che il profondo rapporto tra significante e significato, tipico della comunicazione letteraria e soprattutto fulcro dei testi poetici, finisce ovviamente sacrificato.
Il processo di parafrasi prevede dunque alcune operazioni:
·         indicare sempre i soggetti di ogni frase,
·         modificare se necessario la punteggiatura,
·         usare la costruzione diretta, ossia il soggetto deve di norma precedere il verbo. 
·         esplicitare, rendendo comprensibili, i riferimenti pronominali,
·         escludere il discorso diretto, anche se il testo di partenza è un dialogo,
·         ricostruire la sintassi e le figure sintattiche,
·         sostituire gli scarti linguistici (forma linguistica antica, scomparsa o desueta o troppo specialistici) usando sinonimi più convenzionali,
·         esplicitare le figure retoriche di significato come metafore, metonimie, ecc.
·         esplicare gli scarti culturali ovviamente in parentesi
·         riscrivere in prosa moderna del testo.
Possono anche essere operati dei chiarimenti di alcuni punti del testo: una buona parafrasi include, infatti, tutti i dettagli e rende il testo originale più semplice da comprendere. Poiché il testo risultante è normalmente più ampio del testo di partenza, quest’operazione si oppone a quella del riassunto.
Sebbene la velocità e l’immediatezza della comunicazione globale contrasti con la lentezza, con la fatica e con la disponibilità a rivedere richieste da una buona riscrittura, il valore strumentale della parafrasi è abbastanza evidente. Chi traduce le lingue straniere o le lingue antiche conosce bene la fatica del processo cognitivo che sta sotto al suo lavoro: parafrasare bene, con gusto, con chiarezza, nel rispetto del testo di partenza, ma anche della lingua di arrivo, è un lavoro che educa alla profondità e alla pazienza, elementi fondanti dell’aspetto educativo che una scuola di valore non può ignorare.
Nella prassi didattica più comune, la parafrasi cerca di favorire la possibilità di un ampliamento del campo semantico, certi che il parafrasare è un atto complesso della mente, che presuppone e genera altre azioni rilevanti non soltanto in ambito scolastico ma, più in generale, in ambito culturale ed in ambito civico.
Il lavoro in classe, nel corso dei quinquenni di cui qui io parlo, ha prodotto, nella fase della sua rivisitazione critica a posteriori, una sorta di mappa dei pregi del parafrasare capace di mettere in evidenza la più ampia dimensione formativa, e di conseguenza disciplinare, trasversale ed educativa della parafrasi, di solito relegata ad una funzione limitata alla didattica della letteratura ed alla comprensione.
In primo luogo mi sono accorto che la pratica della parafrasi, se risultava più agevole con quegli studenti che potevano ancorarla ad un passato scolastico precedente nel loro approccio globale al sapere della scuola, costituisce l’antidoto del tanto deplorato apprendimento mnemonico, ed ha una ricaduta ancora maggiore su quegli studenti, le cui strutture linguistiche risultavano più lacerate. Per questi ultimi l’approccio globale con la lingua costringe ad ordinare la frase e a riconoscerne le funzioni morfosintattiche e ad usare il vocabolario che, come è noto, accresce il bagaglio lessicale insieme alla lettura.
Il lavoro con i ragazzi sviluppato in verticale negli ultimi quinquenni, ha favorito la persuasione didattica che una buona capacità parafrastica richieda due competenze fondamentali:
1.    una di ordine linguistico, che si esercita simultaneamente sul testo di partenza e sul testo di arrivo (competenza ricettiva e produttiva) e che si articola in competenza lessicale/semantica e competenza morfosintattica (soprattutto nel primo biennio).
2.    una di ordine culturale/contestuale, che ha a che fare con l’epoca del testo e con l’ambiente culturale del suo autore e dei suoi lettori (soprattutto negli anni successivi);
Lo studente che parafrasa un testo non cerca solo di raggiungere lo scopo di produrre un altro testo più semplice, ma la parafrasi gli serve per comprendere più profondamente il significato letterale di quel testo.
Il famoso invito a dire con parole proprie, che comincia a circolare nelle aule fin dalla scuola dell’educazione primaria, rappresenta da una parte un’esigenza di interiorizzazione e dall’altra di una riformulazione dei contenuti culturali che supera il semplice passaggio tecnico del parafrasare un testo letterario per comprenderne la lettera.
Parafrasare un testo letterario è un’operazione dell’apprendimento convergente perché è estremamente vincolante al testo e alla sua decodificazione.
Inutile sottolineare il potenziale di sviluppo delle competenze linguistiche (lessicali, morfosintattiche, semantiche) insito nel laboratorio della parafrasi.
L’attitudine parafrastica può essere spiegata come attitudine alla riformulazione. L’incapacità di riformulare, o comunque di trasformare i contenuti in cultura personale, si presenta in genere come uno dei maggiori ostacoli all’apprendimento.
Gli studenti che non riformulano sono quelli che ripetono mnemonicamente ed è proprio il ripetere il grande antagonista del parafrasare, quindi di un apprendimento consapevole.
Un approccio alla lingua che preveda manipolazioni, riformulazioni, reazioni critiche, atteggiamenti creativi e che, risulti quindi, in accezione larga, di carattere parafrastico nella misura in cui per essere fatto proprio (imparato) un contenuto deve essere compreso e per essere compreso dev’essere ricostruito (parafrasato) e adattato alle strutture cognitive di chi impara.
Per questa ragione il contributo disciplinare dell’italiano attraverso lo strumento della parafrasi alle generali capacità di apprendimento degli studenti è notevole. Si sarà anche compreso come diventi più importante a questo livello tenere sotto controllo, ancor più che il prodotto (pur necessario alla comprensione), il processo della parafrasi, che è fatto di passaggi, snodi, problemi di fronte ai quali gli studenti non possono trovare scorciatoie. Nel processo parafrastico – in cui la classe assume un atteggiamento laboratoriale – è stimolato al massimo da un lato l’atteggiamento di attenzione nei confronti del dato, presupposto di natura scientifica, dall’altro la capacità di superare il dato stesso – che in questo caso è dato linguistico – per assumerlo ed integrarlo nei propri schemi, ma sempre nella consapevolezza interpretativa che l’operazione contiene una quota di soggettività.
Accanto a questa trasversalità di carattere cognitivo ce n’è un’altra, per così dire, di carattere motivazionale che comprendono gli insegnanti e gli studenti alle prese con la difficoltà di riformulare (parafrasare o tradurre) testi. Davanti a formulazioni strane, astruse o criptiche si è tentati di demordere o di cercare soluzioni sbrigative. Non c’è nulla di più fecondo didatticamente che una parafrasi difficile e pertanto demoralizzante. L’importante è evitare soluzioni preconfezionate per far presto.
L’impostazione laboratoriale data al processo della parafrasi diventa a questo punto un valore aggiunto e respinge radicalmente un’impostazione in senso quantitativo del lavoro. Si tratta di quella situazione in cui l’insegnante e la classe non ne vengono a capo, né le note del libro riescono a dare una mano. In quel momento bisogna pensare insieme, confrontarsi con altri testi, provare e riprovare. Ci si trova tutti insieme davanti alla stessa complessità di un testo, metafora della complessità dell’esistenza.
Come si è visto, la riflessione sulla parafrasi ha accolto elementi che prima hanno superato il pur ineludibile ambito disciplinare e poi anche lo stesso ambito cognitivo per approdare all’ambito educativo della cittadinanza.
Il processo parafrastico, infatti, educa ad una cultura del dato e dell’argomento perché sollecita gli studenti ad argomentare le proprie opinioni (“penso che il poeta Tale dei Tali si possa considerare in questo modo o in quest’altro, perché in questo brano ha detto questo”), e pertanto sembra dirigersi verso uno dei requisiti più importanti della cittadinanza, che è la capacità critica argomentata, qualità molto auspicabile in tempi di discussioni mediatiche autoreferenziali e di attacchi personali gratuiti in cui la relazione si sovrappone al merito della discussione.
Sapere basare i propri discorsi su argomentazioni e non su slogan, su pregiudizi ideologici o su prese di posizione è un obiettivo auspicabile per tutti gli studenti con la costruzione di un habitus mentale che spetta anche alla scuola attraverso il modo in cui rende possibile l’incontro intelligente degli studenti con il sapere. Per incontro intelligente intendo in questa sede qualcosa che ha molto a che fare con la capacità di tenere sotto controllo dati, di assumerli tutti, di riformularli, di valutarli criticamente, di reinterpretarli, tutte competenze trasversali auspicate oggi dai documenti europei – recepiti anche dall’Italia – sull’istruzione.
Da quanto detto si possono sintetizzare le finalità educative della parafrasi:
1.    rispettare la realtà senza subirla,
2.    ascoltare l’altro prima di riformularlo,

3.    leggere attentamente le culture altrui prima di giudicarle.

martedì 3 novembre 2015

O bella età dell'oro di Torquato Tasso

·        Il coro dell’Età dell’oro conclude il primo atto dell’Aminta, un dramma pastorale diviso in cinque atti disuguali, preceduti da un prologo e intervallati da cori, che risale alla primavera del 1573, quanto Tasso, uomo di nobili e dotte origini, stava componendo la Gerusalemme Liberata.
·
         Il dramma pastorale, o favola boschereccia, è un genere teatrale, che si era affermato negli ultimi decenni del Quattrocento e che si rifaceva all'idillio e alla bucolica  e trasformava il dialogo in una vera e propria azione drammatica. Esso fu tuttavia condizionato dalle corti, che esigevano dal poeta un teatro raffinato, pieno di fasto e di garbo. Il dramma pastorale fuse così il sentimento tragico e quello comico, con il lieto fine di rigore, per non turbare la serenità del giorno festivo, in cui abitualmente si rappresentava questo genere, originariamente era rappresentato solamente nei giardini cortesi ed era quindi destinato ad un pubblico ristretto: il dramma pastorale fungeva infatti da intrattenimento festivo di tono garbato ed estremamente raffinato, le sue prime rappresentazioni si svolsero a Mantova e a Ferrara, trovando nella cultura di un grande poeta prima, e di un grande letterato poi, la sua espressione. Dalla favola pastorale il teatro riprende gli stessi personaggi: ninfe, satiri, pastori, cacciatori. Il primo esempio di questo genere si ha nella Favola di Orfeo di Poliziano, rappresentata a Mantova nel 1480 e da allora, fino alla metà del Seicento, il genere continuò ad avere fortuna e fra le opere più significative sono da ricordare il Tirsi di Baldassarre Castiglione del 1506, l'Egle di G. B. Giraldi Cinzio del 1545, l'Aminta di Tasso del 1573, mentre l'Endimione di A. Guidi del 1692 segna la fine di una formula ormai priva di interesse. A quel punto la pastorale, in parte cantata e in parte recitata e fu sostituita dal melodramma interamente cantato.
·         I personaggi di questo tipo di azione scenica interpretano dei pastori, ma in realtà, dietro a questi attori si celano i personaggi della corte ove l’opera è stata messa in scena.
·         L’Aminta fu rappresentato nei giardini di Belvedere sul Po, durante una festa di corte. Da un lato l’opera si propone di idealizzare e celebrare la vita di corte, dall’altro rivela una profonda sofferenza per i suoi rituali che si traduce in un bisogno di vita semplice di sentimenti e comportamenti spontanei, a contatto e in armonia con la natura, e in un bisogno di evasione in un mondo di favola fuori dalla realtà e dalla storia.
·         Quest’opera narra dell’amore non corrisposto che il povero pastore Aminta prova per Silvia. La fanciulla catturata da un satiro e legata nuda ad un albero, è liberata da Aminta, ma per la vergogna fugge via; il povero pastore si dispera e tenta il suicidio, quando viene a sapere che Silvia durante la fuga, è stata assalita e sbranata da un branco di lupi. Il dramma ha però un lieto fine, in quanto Silvia è riuscita a salvarsi dai lupi, e, il tentativo di suicidio di Aminta non è riuscito, perché una siepe ha attutito la sua caduta, dopo essersi buttato in un precipizio. Silvia, commossa per il gesto d’amore, si concede ad Aminta.
·         Giambattista Guarini scrisse il Pastor fido circa vent’anni dopo l’Aminta di Tasso: tutt’e due le due vicende sono ambientate nella bella età dell’oro, già presente nelle ecloghe di Teocrito e Virgilio, quel locus amoenus in cui gli uomini sono in pace fra loro e non esistono stragi, vendette o guerre.
·         Negli anni Settanta Tasso visse a Ferrara il periodo di massimo splendore, durante il quale fu apprezzato da dame e da gentiluomini. In tutta l’opera Tasso attuò la fusione tra due generi letterari: il teatro e la lirica amorosa come si evidenzia anche da questo passo in cui il teatro è presente in quanto è un canto del coro.
·         Tutta l'azione si sviluppa in una giornata e in uno stesso luogo, una selva e il tema principale è l'amore tra la ninfa Silvia e il pastore Aminta, del quale si innamora solamente dopo essere stata salvata dall'attacco dei satiri.
·         Nell’Aminta, Tasso, rende omaggio ai cori classici greci e latini, infatti, la funzione che gli attribuisce nella sua opera è quella di commentare l’azione scenica come un pubblico ideale che guida le reazioni del pubblico reale. Il coro ha il ruolo di tramite tra i personaggi e il pubblico ed è quindi una voce intermedia che  trasferisce la ricezione del destinatario, la corte. Il coro indirizza il pubblico a determinate reazioni.
·         Questa canzone è il primo intervento del coro che esalta l'amore istintivo e la legge della natura e si ispira all'età dell'oro tanto decantata dai poeti Virgilio e Ovidio nella quale l'uomo segue gli istinti e vive nella felicità primitiva poiché non è vincolato da alcun tipo di legge morale e d'onore. Qui il coro esalta l’amore e la condizione d’innocenza originaria dell’uomo, accusando l’onore di aver inquinato e amareggiato la felicità primitiva. E tale felicità è rintracciabile nell’età dell’oro descritta da poeti quali Virgilio, Ovidio, Tibullo, in cui l’amore era istintivo e si seguiva la legge della natura: Si ei piace, ei lice.
·         Alla legge della natura si contrappone la legge civile, incarnata dalla città e dalla corte. Le leggi della morale e dell’onore, hanno imposto un controllo e una regola a tutti quei gesti naturali che nell’età dell’oro si svolgevano liberamente e ora invece hanno perduto la loro primitiva felicità. A questo punto quello che era piacere è diventata colpa. Così nella parte conclusiva del coro l’autore, facendo una evidente critica alla civiltà, invita l’onore ad associarsi alle classi di potere e agli intellettuali e di lasciar vivere i pastori nei modi antichi. In questo modo si rovesciano i valori e si mette sotto accusa l’intero sistema dei valori affermati dagli altri personaggi, stabilendo la corrispondenza fra amore e oro, onore e corte, piacere ed età dell’oro.
·         Il brano è una canzone di cinque stanze di tredici versi di settenari e di endecasillabi, alternati con lo schema abCabCcdeeDfF, e da un congedo, che ricorda quello di Petrarca in Chiare, fresche et dolci acque.
·         Le parole chiave sono età dell’oro e Amore, la Natura e l’Onore che sono tra l’altro personificazioni, in quanto scritte con la lettera maiuscola. A Cupido nell’età dell’oro non servivano frecce e arco perché l’amore era istintivo. In questo periodo invece l’amore diventa quasi proibito e anzi che essere un dono da apprezzare, diventa un furto e tutto regolato dall’onore. Per Tasso l’idea di divieto religioso o morale è rimossa, ma non a causa della fine dell’età dell’oro, quanto piuttosto per la cultura dominante di Controriforma che è repressiva e bigotta. L’onore indicare un significato che ruota intorno alla dignità, al rispetto delle norme sociali, alla morale tipiche di una società costruita: la corte. Per questo motivo l’affermazione delle gioie è malinconica e appare caratterizzata più dal rimpianto che, come dovrebbe essere, dall’abbandono.
·         Per Tasso fare poesia significa utilizzare l’immensa quantità di materiale depositato nella tradizione e rinnovarlo attraverso un gioco di ricombinazione.

O bella età de l'oro,
non già perché di latte
se 'n corse il fiume e stillò mele il bosco[1]
non perché i frutti loro
dier da l'aratro intatte
le terre e gli angui errâr senz'ira o tosco:
non perché nuvol fosco
non spiegò allor suo velo,
ma in primavera eterna,
ch'ora s'accende e verna[2],
rise di luce e di sereno il cielo;
né portò peregrino
o guerra o merce a gli altrui lidi il pino.

Ma sol perché quel vano
nome senza soggetto,
quell'idolo d'errori, idol d'inganno,
quel che da 'l volgo insano
Onor poscia fu detto,
che di nostra natura il feo tiranno,
non mischiava il suo affanno
fra le liete dolcezze
de l'amoroso gregge;
né fu sua dura legge
nota a quel'alme in libertate avezze,
ma legge aurea e felice
che Natura scolpì: S'ei piace, ei lice.

Allor tra fiori e linfe[3]
traean dolci carole[4]
gli Amoretti senz'archi e senza faci;
sedean pastori e ninfe
meschiando a le parole
vezzi e sussurri ed a i susurri i baci
strettamente tenaci;
la verginella ignude
scopria sue fresche rose[5]
ch'or tien ne 'l velo ascose,
e le poma de 'l seno acerbe e crude[6];
e spesso in fonte o in lago
scherzar si vide con l'amata il vago[7].

Tu prima, Onor, velasti
la fonte de i diletti,
negando l'onde a l'amorosa sete:
tu a' begli occhi insegnati
di starne in sé ristretti[8],
e tener lor bellezze altrui secrete:
tu raccogliesti in rete[9]
le chiome a l'aura sparte:
tu i dolci atti lascivi
festi ritrosi e schivi,
a i detti il fren ponesti, a i passi l'arte;
opra è tua sola, o Onore,
che furto sia quel che fu don d'Amore.

E son tuoi fatti egregi
le pene e i pianti nostri.
Ma tu, d'Amore e di Natura donno[10],
tu domator de' regi,
che fai tra questi chiostri[11]
che la grandezza tua capir non ponno[12]?
Vattene e turba il sonno
a gl'illustri e potenti:
noi qui negletta e bassa
turba, senza te lassa
viver ne l'uso de l'antiche genti.

Amiam, ché non ha tregua
con gli anni umana vita e si dilegua.
Amiam, ché 'l Sol si muore e poi rinasce:
a noi sua breve luce
s'asconde, e 'l sonno eterna notte adduce[13].


[1] Stillò: trasudava
[2] S'accende: caldo estivo Verna: freddo dell'inverno
[3] Linfe: acque
[4] Traean...faci: gli Amorini facevano danze senza gli strumenti per l'innamoramento, poiché l'amore nasceva spontaneo.
[5] Rose: bellezze delle fanciulle
[6] Le poma...crude: seni ancora acerbi ( metafora)
[7] Il vago: l'amante
[8] In ristretti: abbassati
[9] tu raccogliesti... sparte: tu raccogliesti in acconciature i capelli sparsi al vento (cfr. Canz., XC, Erano i capei d'oro a l'aura sparsi).
[10] Donno: signore
[11] Chiostri: selve
[12] Capir non ponno: non possono contenere
[13] Adduce: porta

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