sabato 2 febbraio 2013

Il ritratto giottesco di Enrico Scrovegni di Massimo Capuozzo


Il ritratto serviva anche a immortalare i committenti e a far trasmettere particolari messaggi.
È il caso di Enrico Scrovegni, ritratto da Giotto nella cappella dell'Arena a Padova dedicata alla Vergine della Carità, un tema caro alla confraternita dei Frati Gaudenti, dediti a combattere l’usura. Di questa confraternita faceva parte Enrico degli Scrovegni, mercante e banchiere ricchissimo, e la grande spesa che egli fece per costruire e decorare la cappella permetteva di riscattare l'anima del padre Reginaldo dalle pene ultraterrene cui sarebbe stato destinato, perché notoriamente usuraio – Dante lo collocò nell'Inferno proprio tra gli usurai; nello stesso tempo, permetteva di allontanare da se stesso il rischio di andare incontro alla medesima sorte, essendosi anch'egli macchiato di quel peccato, senza la fatica del lavoro. Nella scena della dedicazione della Cappella alla Vergine il gesto di Enrico Scrovegni, raffigurato mentre dona a tre angeli il modellino dell’oratorio da lui fatto erigere e decorare da Giotto, aveva appunto il significato di restituire simbolicamente quanto era stato guadagnato mediante l'usura, condizione posta dalla Chiesa per la remissione di quel peccato.
L’idea tradizionale, ripetuta di recente anche in un volume statunitense – A. Derbes - M. Sandona, The usurer's heart: Giotto, Enrico Scrovegni, and the Arena Chapel in Padua, Pennsylvania State University Press, 2008 – è nota e di recente è stata confutata. La teoria secondo la quale Enrico, usuraio e figlio di un usuraio, considerava la cappella come un’espiazione per il peccato di usura del padre e che il giudizio di Dante avesse rivestito un ruolo nella decisione del ricco patrono per fare ammenda della sua vita scellerata passata ad accumular denaro, non regge: il canto dell’Inferno fu, infatti, composto dopo l’esecuzione degli affreschi, in un contesto politico – con Dante amico di Cangrande della Scala, nemico della guelfa Padova – di odio partigiano verso il committente degli affreschi.
Non solo i nobili sentimenti religiosi mossero Scrovegni che non era poi così pentito e devoto quindi la cappella era più che altro un monumento auto celebrativo. La prova di questa teoria sarebbe costituita dalla statua del mercante, che attualmente si trova nel museo degli Eremitani adiacente la cappella. È possibile ipotizzare che Enrico Scrovegni, ricchissimo e orgoglioso di esserlo, sceglie la cappella e i suoi affreschi come maestosa autorappresentazione e celebrazione del suo potere e della sua ricchezza, prezioso dono alla comunità padovana, a cui proporsi, forse, quale nuovo signore.
Nella scena della dedicazione, Enrico veste il viola, colore della penitenza, ma si fa collocare nel settore destinato ai beati, sotto l'immagine protettrice della croce. Il donatore è inoltre della stessa scala dei personaggi sacri, ma il volto non è molto caratterizzato e distinto dagli altri.
Giotto non appare eccessivamente impegnato a descrivere le fattezze dei personaggi nel ritratto, infatti, il suo principale interesse è non tanto quello di cambiare gli schemi di rappresentazione dei singoli soggetti, quanto di razionalizzare la rappresentazione, organizzandola in uno spazio misurabile, in cui gli elementi si disponessero organicamente e non secondo principi gerarchici o secondo la funzione e l’importanza dei personaggi. L’evidente resistenza giottesca, a dare spazio ai ritratti di contemporanei può risiedere nei caratteri della società fiorentina del tempo: mentre una società retta da un regime monarchico è favorevole al ritratto perché queste immagini possono avere un’utilizzazione strumentale, di propaganda e affermazione del potere personale e della sua dinastia, questa stessa funzione celebrativa del singolo non era gradita invece in una società più democratica, dove il potere spettava a magistrature collettive ed elettive.

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