Al mio Preside, Professor Catello Maresca
che, grazie alla sua passione per l’Arte,
mi ha donato
per due anni un’esperienza
intellettuale bellissima: schiudere nelle giovani
menti il seme della Bellezza.
Con affetto e gratitudine.
Nel
guardare un dipinto di Antonello da Messina (1430 – 1479),
abbandoniamo l’illusione di essere noi a guardare il quadro: sono i suoi
ritratti a scrutarci, siano essi soggetti profani, siano essi soggetti sacri
come, solo a titolo di esempio, l’ineffabile Annunziata di Palazzo
Abatellis a Palermo, straordinaria sintesi
tra geometria e naturalismo, in cui, con un uso dolcissimo della luce, sospende
il tempo nel gesto a mezz'aria della mano, presupponendo nell’osservatore il
ruolo dell’angelo annunciante.
Lo stesso accade nel celeberrimo Ritratto d'uomo, un olio su tavola di 25,5
x 35,5 cm, databile fra il 1475
e il 1476 circa e conservato
nella National Gallery di Londra.
Alcuni
studiosi hanno ipotizzato che questo sia l’autoritratto del maestro, ma l’ipotesi
si basava su una congettura troppo sbrigativa: d’altra parte l’immagine non
appare come quella speculare di un artista nell’atto di ritrarsi e, dopo un
attento esame ai raggi X, si è scoperto che gli occhi dell'effigiato – in una precedente
stesura – non erano rivolti verso l'osservatore che è invece caratteristica
principale di chi vuole eseguire un autoritratto, ma guardavano altrove.
Tuttavia di Antonello non solo noi non conosciamo le fattezze fisiche, ma, per
mancanza di dati e di documentazioni certe, perfino della sua vicenda biografica sappiamo molto poco a causa
dell’estrema lacunosità delle testimonianze certe e gli stessi racconti di
Vasari sono molto romanzeschi in termini aneddotici e paradossalmente pieni di
lacune da diventare addirittura fuorvianti. Le cause
di una così intricata vicenda critica sono molte: ad una complessiva scarsezza
di materiale documentario si affianca, infatti, la singolare concentrazione
cronologica dei dipinti rimasti.
Il percorso artistico di questo sommo maestro che, a metà del Quattrocento, si è fatto
interprete di un fermento creativo mediterraneo ed europeo incentrato
sull’incontro-scontro tra la civiltà fiamminga e quella italiana, «nato – secondo il celebre giudizio di
Raffaello Causa – estraneo al
Rinascimento, ma proprio del Rinascimento divenuto forza viva e portante», era iniziato nel vivace clima culturale della corte
aragonese di Napoli, allora una delle capitali più feconde della civiltà del
Mediterraneo. Antonello aveva soggiornato
a Napoli almeno tra il 1450 e il 1455 e qui aveva sviluppato ed acquisito
progressivamente la sintassi compositiva italiana,
schiudendo successivamente con gli esiti veneziani e post-veneziani orizzonti
fin allora sconosciuti che hanno dato la stura ad una nuova e rivoluzionaria
civiltà figurativa mediterranea ed europea.
Nella bottega di Colantonio (1420 circa – 1460?), Antonello dovette
forse apprendere i primi rudimenti dell’arte, ponendo grande attenzione ai
molteplici impulsi offerti da un ambiente internazionale in cui si trovavano
opere catalane e provenzali, oltre che capolavori nordici come, ad esempio, lo
straordinario e purtroppo solo in parte conservato Trittico dell’Annunciazione di Jan Van Eyck, detto Trittico Lomellino, dalla famiglia dei mercanti genovesi che l’aveva
acquistato nelle Fiandre, proprio a Bruges. Questo trittico fu, a quanto mi
risulta, il primo dipinto fiammingo a giungere in Italia ed ebbe una storia
incredibile, quanto affascinante: lo storico Bartolomeo Facio (1400 – 1457) riferisce che Alfonso V
lo esigette dalla Repubblica di Genova in cambio di particolari privilegi commerciali
e che il proprietario Battista Lomellino fu costretto a portarlo personalmente
da Genova a Napoli nel 1444 insieme al dotto umanista Facio. I migliorati
rapporti con Firenze si tradussero successivamente in un dono da parte di
Giovanni di Cosimo il Vecchio dei Medici graditissimo a re Alfonso: la
realizzazione di un trittico da parte di Filippo Lippi. Il trittico era
costituito da una tavola centrale da considerare purtroppo perduta che doveva
rappresentare una Madonna che adora il Bambino con
angeli e un santo e due tavole che si
trovano oggi al Museum of art di
Cleveland, raffiguranti rispettivamente Sant’Antonio
Abate e S.
Michele Arcangelo, i santi
patroni di Alfonso V, che costituivano le ante laterali del trittico.
Gli indissolubili
ed incontrovertibili legami della bottega di Colantonio con l’arte francoprovenzale,
catalana e fiamminga, furono vivi ed intensi negli anni dell’apprendistato del
giovane pittore: Antonello entrava così in
contatto con la pittura
fiamminga, spagnola e provenzale, presente a Napoli non solo nelle collezioni
reali, ma soprattutto per la presenza in città di alcuni artisti stranieri attivi
nella corte angioina prima e aragonese poi.
Purtroppo
della generale produzione artistica napoletana di quegli anni che dovette
essere cospicua, poco o nulla è giunto fino a noi in seguito anche alle pesanti
spoliazioni effettuate durante l’invasione di Carlo VIII pertanto, per
ricostruirne il milieu, si può
procedere solo con una ricomposizione storico documentaria.
All’epoca
di Renato d’Angiò, re di Napoli dal 1435 al 1442, la città vantava
numerose presenze artistiche d’oltralpe: Napoli era un crocevia di esperienze
francoprovenzali e borgognone alle quali si aggiunsero successivamente quelle
degli artisti valenzani e degli altri fiamminghi portati da Alfonso già nel 1442. Colantonio fu forse allievo di Barthélemy d'Eyck, pittore fiammingo di
scuola provenzale della corte di Renato
d'Angiò presente a Napoli tra il 1438 ed il 1442, anche se di questo soggiorno
sappiamo molto poco. L’arrivo di Alfonso V nel 1442, significò per Napoli non
solo un riordinamento politico, ma anche una ventata di novità culturali
gravitanti però sempre intorno alle novità ponentine
e valenzane. In questo modo Colantonio diventò il protagonista dell'arte
napoletana del primo Quattrocento e la figura chiave della cosiddetta congiuntura Nord-Sud, vale a dire di
quella particolare corrente di incontro e di fusione tra modi fiamminghi e
mediterranei che interessò parte del Mediterraneo occidentale e delle regioni
del nord Italia, il cui epicentro fu proprio Napoli.
Sebbene l’impresa
napoletana di Alfonso coinvolgesse la Francia angioina, il Papa, Genova e
Milano – il che significava non solo rapporti politici, ma anche importanti scambi
culturali tra città italiane – Napoli rimase sostanzialmente estranea fino agli
anni sessanta alla rinascenza di tipo centro-italiana, probabilmente anche a
causa dei difficili rapporti iniziali tra Alfonso d’Aragona e Cosimo de’
Medici.
E questo era il contesto
culturale all’arrivo del giovane Antonello a Napoli: esso coincise con gli anni del regno dell’arrogantissimo e
prepotente Alfonso d’Aragona – chi sa poi per quale motivo passato alla storia
come il Magnanimo – ma grande mecenate che invitò artisti valenzani e catalani,
il dalmata Francesco Laurana, il pugliese Niccolò dell´Arca, il veneto oriundo Pisanello,
il ticinese Domenico Gagini, il toscano Mino da Fiesole. Chiedeva fino a
pretendere che gli artisti di tutte le scuole e paesi venissero a Napoli,
perché la sua capitale doveva diventare la più bella città della
terra. Alfonso amava la pittura fiamminga al pari dello sconfitto re Renato e già
nel 1431 aveva inviato a Bruges il pittore di corte Luis Dalmau (? – 1460),
perché apprendesse i segreti dell’arte, voleva che Donatello, il quale aveva
appena finito a Padova la statua equestre
del Gattamelata, discendesse nel suo regno per realizzare una statua
equestre che lo raffigurasse, ma Donatello aveva rifiutato e l’Arco di trionfo di Castelnuovo è rimasto
senza la statua equestre. Alfonso comprava quadri dappertutto e in qualunque
modo: tre Van Eyck, tra cui il famosissimo Trittico Lomellino, nel 1445 giunge
a Napoli un’altra tavola di Van Eyck raffigurante un San Giorgio, fatta acquistare da Alfonso direttamente a Bruges. Il
momento più bello della sua vita – secondo Pietro Citati – fu un giorno del
luglio 1457, quando Federico da Montefeltro giunse a Napoli e Alfonso parlò con
lui del nuovo astro della pittura italiana: Piero della Francesca.
Erano due principi
rinascimentali che parlavano di arte ed erano
questi gli anni in cui si lavorava alla prima fase (1452-1458) della
realizzazione dell’arco di Castelnuovo, ma soprattutto erano gli anni in cui a
Napoli operava Colantonio, l’artista napoletano più apprezzato e
aggiornato della Napoli a cavallo tra il breve regno di Renato d’Angiò fra il
1438 ed il 1442 e l’entrata nella città di Alfonso d’Aragona nel 1442.
Colantonio
era l’esempio più macroscopico di questo contesto culturale internazionale che,
fino agli anni cinquanta del XV secolo, rimase quasi immutato e stilisticamente
dominato da Van Eyck. L’esperienza estetica di Colantonio sembra tuttavia diramarsi
verso due poli: il polo francese in cui alla
stilizzazione geometrica si unisce l'uso di una luce tersa e zenitale che
blocca le figure imponenti in posizioni statuarie – rappresentato dallo
stile di Barthèlemy d’Eyck, – ed il polo fiammingo in cui la
rappresentazione dettagliata del visibile si unisce al ricco simbolismo
medievale della loro cultura – prima rappresentato da Jan van Eyck e successivamente
da Petrus Christus (1410 circa – 1475 circa).
La fama
e l’influenza di Van Eyck era molto nota alla corte di Valencia e lo stesso sovrano
aragonese già possedeva una sua Adorazione
dei Magi: inoltre tra il 1431 e il 1436
quindi molto prima del 1442 – anno dell’entrata a Napoli – Alfonso aveva inviato
nelle Fiandre il valenzano Luis Dalmau, per
studiare la tecnica della pittura a olio e quella della tessitura degli arazzi.
La visita di Dalmau nelle Fiandre fu il primo contatto documentato del pittore spagnolo
con la scuola fiamminga e successivamente le sue opere risentirono intensamente
dell'influenza della pittura fiamminga e soprattutto di Van Eyck
ed è stato fondamentale
per l'arrivo dello stile fiammingo in Catalogna e per l'introduzione
della tecnica della pittura ad olio. Con
Luis Dalmau, nasceva il cosiddetto stile ispano-fiammingo che ebbe rilievo
notevole sulla pittura del valenzano Jacomàrt Baço che sostò a Napoli come
pittore di corte di Alfonso d’Aragona dal 1443 fino al 1451: a Napoli «el nostro leal maestro Jacomàrt», come Alfonso era solito chiamare Baço, lasciò un altare, purtroppo oggi perduto, nella
chiesa di Santa Maria della Pace, un’opera
che all’epoca dovette esercitare molta influenza sulla pittura napoletana. Oltre
alla sollecitante presenza di opere dei più
noti maestri fiamminghi, oltre al già citato Van Eyck, nella collezione reale
doveva esserci anche qualcosa di Rogier van der Weyden, verso il quale Alfonso
d'Aragona aveva sempre mostrato grande interesse.
Un contesto dunque di preminente accento oltremontano, ancorato al modello fiammingo e alle rotte mediterranee dell'arte della prima
metà del XV secolo, legato ai fiorenti rapporti commerciali, appena venato da qualche eco della
spazialità e della sintesi formale portate da Firenze a Roma soprattutto
dall'opera dell'Angelico poco prima della metà del secolo.
In
questo clima così stimolantemente internazionale – siamo intorno al 1455 –
Colantonio eseguì la Deposizione per
la chiesa di San Domenico e
successivamente la Pala con San Vincenzo
Ferreri per la chiesa di San Pietro
martire: l'opera mostra chiari ritorni a
temi degli anni ‘40 e complesse trasposizioni di Van Eyck, van der Weyden e
Petrus Christus, ma il polittico tende a riordinare il tutto in una spaziosità
molto più calcolata che in precedenza. Inoltre, con la figura del santo,
inclusa attentamente nella nicchia-abside del pannello centrale, si accorda con
i riferimenti ormai puntualmente pierfrancescani, introdotti a Napoli verso la
fine degli anni 1450 da personalità quali il Maestro di S. Giovanni da Capestrano e che saranno sviluppati
subito dopo specialmente da Antonello.
Nel
periodo in cui Antonello lavorava nella bottega di Colantonio, Alfonso V aprì ad Antonello le stanze segrete dove erano
esposti i Van Eyck. Fu questo il primo incontro diretto del giovane pittore
siciliano con il maggiore pittore del XV secolo. Egli ammirò subito quel mondo
infinitamente piccolo di erbe grasse, di sassi porosi, di foglie di alberi e di
arbusti dipinte una per una che sembravano stormire di una vita anche più
intensa della vegetazione terrena. Antonello rimase a lungo nella stanza di
Alfonso. In quella magia scopriva le stesse cose della vita quotidiana:
cappelli, specchi, spinette, lampadari, pietre preziose, gioielli. Antonello
guardava, osservava ancora, scrutava accuratamente e si estasiava davanti a un
turbante rosso o a un castello che si perdeva in una lontananza infinita. Non
riuscì mai a capire del tutto, ma nessuno forse comprese mai del tutto Van
Eyck, prima di Jan Vermeer. Jan Van Eyck aveva scoperto una realtà
apparentemente identica alla nostra, quasi un doppio, anche se tutto era
completamente diverso: l’aria, il peso, il colore, la fluidità, la quiete, il
silenzio. Era un fascino che niente di terreno poteva suscitare, era il fascino per un mondo favoloso e giocoso, gravido di vitalità e di
amore per l’esistente: tutti gli oggetti toccati dal pennello di Van Eyck sembrano
però brillare di vita propria, ignari del decadimento che, inevitabilmente,
avvizzisce le cose. Era questo ciò che Van Eyck aveva deciso di
rappresentare nel suo studio: un mondo tanto più sottile, lieve e fluido del
nostro, ma cercando di cristallizzarlo e di rivelarcelo.
Un’altra
lacuna nella vita di Antonello poi nel 1456 lo troviamo almeno momentaneamente
stabilito a Messina e, forte della sua caleidoscopica esperienza napoletana,
nella sua città natale appare già come magister, con una bottega propria e
almeno un apprendista alle sue dipendenze: quasi
nulla, però è pervenuto dei primi due decenni di attività del pittore, che
possiamo ipotizzare al lavoro fin dal 1450, ma una grande abbondanza di opere
si concentra invece negli anni Settanta, e in particolare negli ultimi cinque
anni della sua vita.
Il 15
gennaio 1460, il padre di Antonello noleggiò il brigantino Santa Maria delle Scale con sei uomini a bordo, per raggiungere
Amantea in Calabria. Lì la nave attese per otto giorni Antonello, con la
moglie, il figlio Jacobello e il fratello minore Giordano, entrambi pittori, la
sorella, il suocero, altri figli, la gente di servizio, le masserizie e gli
arnesi per dipingere. Forse Antonello e i suoi volevano sia dipingere sia
conoscere le opere dei nuovi pittori italiani. Probabilmente, arrivarono a
Roma, dove pochi anni prima avevano lavorato Masaccio – nel 1425 insieme
a Masolino, chiamato dal cardinale Branda, per gli affreschi della Cappella di Santa Caterina nella Chiesa di San Clemente, mentre allo
stesso periodo risale anche il Polittico
della neve, realizzato per il papa Martino V Colonna e destinato
alla Cappella Colonna nella Basilica di Santa Maria Maggiore, un
polittico oggi smembrata e per lo più disperso – e il Beato Angelico – che
affrescò tra il 1447 e il 1448 la cappella Niccolina, cappella privata degli appartamenti di Niccolò
V Parentucelli nel Palazzo Apostolico
in Vaticano con i suoi aiuti tra cui Benozzo Gozzoli. Ma nel 1458-1459 era attivo a Roma Piero della
Francesca, chiamato per affrescare «la camera» di papa Pio
II Piccolomini, distrutta per far posto alle stanze di Raffaello. Non è possibile sapere se Piero ed Antonello
si siano incontrati e se il pittore più anziano e famoso abbia insegnato
qualcosa al giovane pittore siciliano, ma quello che è certo è che Antonello si
innamorò di Piero della Francesca, il secondo «faro» della sua vita, come
dimostrò soprattutto negli anni veneziani.
Il
grande esordio di Antonello tornato a Messina è
segnato da prove quali la Madonna Salting, databile
fra il 1460 e il 1469 della National Gallery di Londra o
l’enigmatico Ritratto d’uomo, datato
tra il 1465 e il 1476 circa e conservato al Museo
Mandralisca di Cefalù cui
seguono, negli anni 1473-1474 e, con esiti già compiutamente maturi, l’Annunciazione di Siracusa e il Polittico di San Gregorio,
rivoluzionario nella resa psicologica dei personaggi che lo popolano.
Il Ritratto d'uomo o Ritratto d'ignoto marinaio è un olio su tavola di 31 x 24,5 cm,
è databile intorno al 1470 dunque risalente all'attività giovanile dell'artista. È uno
dei ritratti di maggior fascino di Antonello conservato al Museo Mandralisca di Cefalù, la cui fondazione è dovuta al barone Enrico Piraino di Mandralisca
(1809-1864), che raccolse, nella sua vita, molti oggetti d'arte, mettendoli
nella sua abitazione dove attualmente si trovano: il museo comprende elementi di varia natura dall’archeologia ad un’interessante
pinacoteca comprendente
dipinti dal XV al XVIII secolo
prevalentemente provenienti dal territorio siciliano, una ricca serie di
molluschi, una collezione numismatica ed infine mobili ed oggetti di grande
pregio.
Il
dipinto di maggiore importanza è questo di Antonello, del quale non si
conoscono le circostanze della commissione né la sua sistemazione originaria. Il
barone Mandralisca lo comprò a Lipari, dove pare che fosse utilizzato come
sportello di un mobile nel retrobottega di una farmacia. La tavoletta, sfregiata anticamente,
è stata più volte restaurata: la tradizione vuole
che sia stato danneggiato agli occhi da un'inserviente, che si era sentita
sbeffeggiata dal sorriso sogghignante del ritratto. L'opera ritrae uno
sconosciuto, vestito secondo alcuni da marinaio dell'epoca e con una berretta
nera, ma Roberto Longhi smentì recisamente questa designazione popolare,
indicando invece il ritratto di un nobile, forse un barone, che si incontrava
allora ma che si può incontrare anche oggi o di una personalità del commercio o
della finanza, un uomo comunque facoltoso. La fama del dipinto tuttavia,
alimentata anche da saggi e da romanzi, era tale per cui ancora oggi è indicato
come Il sorriso dell'ignoto marinaio.
La posa
è di tre quarti, lo sfondo scuro e la rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi, in
particolare da Petrus Christus, esponente
alla cosiddetta seconda generazione
della pittura fiamminga, che probabilmente Antonello conobbe
direttamente a Napoli o forse proprio in Sicilia. Dalle analogie artistiche tra Christus e Antonello è stata ipotizzata una conoscenza
diretta tra i due: alcuni hanno trovato
tracce di una possibile collaborazione, rilevando i loro presumibili nomi tra
gli stipendiati di una medesima opera raffigurante una battaglia. Indipendentemente
dalla veridicità storica di quest’argomentazione, quello che è certo è che
Antonello fosse già molto padrone delle tecniche e dei segreti della pittura fiamminga e che fu uno dei primi artisti
italiani a usare la tecnica a
olio, che permetteva di stendere il colore in successive velature trasparenti,
ottenendo effetti di precisione, di morbidezza e di luminosità impossibili con
la tempera. La gradazione cromatica
utilizzata in questo dipinto è limitata a poche sfumature di bianco e di nero
su cui risalta invece il volto dell'effigiato, dall'incarnato rossiccio.
Il
sorriso enigmatico e lo sguardo rivolto allo spettatore sono tra i migliori
esempi dell'acutezza ritrattistica di Antonello, capace di dare ai suoi
personaggi una potente carica psicologica. La luce radente illumina il volto
come se l’uomo si affacciasse da un varco, facendo emergere quasi
progressivamente i lineamenti. L'uso dei colori a olio permette poi una viva definizione
della luce, con morbidissimi passaggi tonali, che riescono a restituire la
diversa consistenza materica. Diversamente dalle opere fiamminghe però
Antonello utilizzò anche una salda impostazione volumetrica della figura, con una
semplificazione dello stile lenticolare dei fiamminghi, a vantaggio della
concentrazione su altri aspetti, come il dato fisionomico individuale e la
componente psicologica.
L'ambigua suggestione esercitata dal dipinto, per
l'impenetrabile sorriso ha fatto pensare ad un’affinità con il sorriso arcaico dei kouroi greci e ha fatto sorgere numerose teorie sulla sicilianità del ritrattato: la
misteriosa e tagliente espressione dell'effigiato, oscillante fra il beffardo ed
il sottilmente crudele, ha alimentato una sorta di mitologia fiorita sul
personaggio, che, come si è detto, alcuni hanno identificato con un ignoto
marinaio liparese o addirittura con un pirata, sebbene la condizione sociale di
un committente dell'epoca dovesse essere generalmente assai più elevata. «È ben
difficile – scrive Federico Zeri – menzionare qualcosa di più intimamente
siciliano del Ritratto di Cefalù, nel cui sorriso, tra eginetico e minatorio, è
condensata l'ambigua essenza dell'isola fascinosa e terribile».
Con i
suoi piccoli quadri, che raramente superano i trenta centimetri, Antonello è,
forse, il più grande ritrattista del Quattrocento italiano: non possedeva,
infatti, soltanto un sottile intuito psicologico, ma una vera e propria scienza
dell’anima e del corpo. «Quando vedo il
Ritratto d´uomo di Cefalù - scrive Pietro Citati – ho l´impressione di scorgere Antonello mentre dipinge: con quegli
sguardi duri, intensi, penetrantissimi, precisissimi, implacabili (attribuiti a
quasi tutte le sue figure, persino ai santi), che fissano in volto il modello.
Antonello guarda a lungo, a lungo: gli occhi, l´inclinazione degli occhi, il
sorriso, la barba, il mento, le orecchie, tutti i minimi segni del viso: li
collega tra loro; e di colpo penetra nel profondo, scoprendo i pensieri e i
sentimenti nascosti». Principe o ricchissimo commerciante che sia, mentre osserva
lo spettatore, l’uomo ritratto mostra una grandissima esperienza della vita e
dell’umanità, per quanto intricate e labirintiche: non sembra sfuggirgli nulla
nell’altrui sentire, ma ad un tempo non rivela mai la fonte della sua perspicacia,
che doveva rimanere ignota perché solo circondandosi di cauti riserbi e di segreti
sentimenti, poteva aver la meglio sugli altri. Neppure il mondo divino suscita
nel signore di Cefalù attenzione o interesse e non rivela neppure la
presunzione di una fiducia assoluta nella sua esperienza che anzi egli sembra
considerare un’arte limitata: al di sopra della saggezza, c’è solo l´ironia, quella
assoluta, quella capace di prendersi gioco della vita, della storia, della
religione, di se stesso e forse perfino di Dio. Il sorriso dell’ignoto può essere visto come un primo passo verso
il famoso, incipiente sorriso della Gioconda.
Il soggiorno veneziano – forse il secondo, perché del primo
non abbiamo tracce – datato 1475-1476, segnò un definitivo punto di svolta per
la carriera artistica di Antonello da
Messina e per la storia dell’arte italiana del
Quattrocento. A Venezia, la presenza di Antonello,
ormai quarantacinquenne, favorì l’incontro definitivo tra l’arte
nordica e quella italiana: furono solo pochi mesi, ma fecondi per la
veicolazione delle idee artistiche. Antonello portava con sé a Venezia le
esperienze internazionali della sua formazione napoletana.
L’incontro tra l’arte di Antonello e l’ambiente figurativo
veneziano, rappresentato in quel momento soprattutto dalla bottega di Giovanni
Bellini (1433 – 1516), di tre anni più giovane di lui, creò le premesse di
capolavori assoluti: dal dialogo fra i due maestri si approfondirono da una parte
le ricerche nel campo della prospettiva e della luce, grazie all'adozione ed al
perfezionamento della tecnica a olio di cui Antonello era già padrone nelle sue
opere, e dall’altro la morbidezza cromatica del maestro veneto, come appare
nella Pala di San Cassiano e nel più
tardo San Sebastiano. In generale a Venezia Antonello rivoluzionò la pittura
locale, facendo ammirare i suoi traguardi che furono ripresi da tutti grandi
maestri lagunari ed aprendo la strada per quella pittura tonale, estremamente dolce ed umana che caratterizzò il
Rinascimento veneto e che fu ammirata e celebrata per il suo mistico senso
dello spazio, per l’uso sensuale del colore e per la poetica della luce. Nacque così dalla sua opera e da quella di Giovanni
Bellini, oltre che un tipo di ritratto, prima di tre quarti e in seguito
frontale – almeno per Giovanni Bellini – di straordinaria vitalità, nella
ricerca di un rapporto diretto con lo spettatore che dominò incontrastata fino
alla rivoluzione leonardesca: ma, nel volgere di
due anni, Antonello vi lasciò opere fondamentali, come il San Gerolamo nello studio, oggi alla National Gallery di Londra, l'Ecce
Homo del Collegio Alberoni di
Piacenza, la Crocifissione di Anversa
e il San Sebastiano di Dresda: dipinti assolutamente decisivi per consentire
anche a Venezia la diffusione della sintesi prospettica di forma e colore
che caratterizza l'Umanesimo italiano.
Tornando al Ritratto
d’uomo della National Gallery,
quel troppo fantasiosamente presunto autoritratto di Antonello, esso è probabilmente un lavoro relativamente tardo: il suo schema
compositivo conferma il personaggio inserito in uno sfondo scuro con il busto
tagliato sotto le spalle, il capo girato verso destra mentre gli occhi cercando
un contatto mentale con lo spettatore lo guardano direttamente, e la luce
illumina il lato destro del volto mentre quello sinistro è in ombra. Probabilmente in origine c’era un parapetto dipinto
alla base che recava la firma del maestro e dal
quale il personaggio si affacciava, ma questo è
stato rimosso in epoca imprecisata. L'attenzione
al dettaglio e l'intensità di espressione nel 'Ritratto d'uomo' sono
paragonabili a ritratti fiamminghi: la posa di tre quarti, lo sfondo
scuro e la rappresentazione essenziale derivano dai modelli fiamminghi, in
particolare da Petrus Christus e
la padronanza della pittura ad olio gli permette di
raggiungere effetti come l'acuta definizione della luce con morbidissimi
passaggi tonali, che riescono a restituire la diversa consistenza dei
materiali.
L'opera
ritrae, come sempre nei ritratti di Antonello, un uomo sconosciuto, di rango
sociale medio-alto a giudicare dall'abbigliamento. La giubba in pelle lascia
intravedere la camicia bianca, mentre in testa l'uomo porta un copricapo rosso
di panno. La luce radente illumina l'effigie, come se il personaggio si
affacciasse da una finestra, facendo apparire progressivamente i lineamenti e
le sensazioni del personaggio. Lo sguardo acuto e penetrante è rivolto verso
l'osservatore e mostra una personalità viva.
Diversamente
dalle opere fiamminghe però Antonello si concentra sugli aspetti fisiognomico
individuale e sulla componente psicologica. La luce si volge negli occhi
dell'uomo, che sono grandi con chiare iridi lucenti. Il giovane rappresentato non è un
mercante di Bruges o delle Fiandre, ma un italiano realisticamente ritratto da
un pittore italiano. Il suo volto non rasato è duro e pensieroso: l'uomo del Rinascimento ha cose più
importanti a cui pensare della rasatura e la sua barba è dipinta con estremo realismo,
i suoi pori sono appena oscurati. I
peli che spuntano dal berretto rosso sono altrettanto duramente reali, in
contrasto con i ricchi toni della pelle liscia, lo zigomo finemente scolpito e
ombreggiato.
La diffusione
della luce – che affonda nella carne in alcuni punti, rendendo la guancia rossa
e bruna, riflette i suoi occhi e il naso come se si riflettesse sull'acqua appena
increspata nella laguna di Venezia o nella memoria delle acque dello stretto –
è dipinta in questo Ritratto d’uomo in
una maniera tale da lasciare attoniti i primi spettatori del dipinto. Per loro, la nuova arte della pittura
ad olio era quasi una pratica magica, tanto convincente da essere capace di simulare
la vita. Questo dipinto potrebbe
sentirsi ingannevole nel suo naturalismo, una dimostrazione di artificio, ma esso
possiede una tale forza emotiva, una tale gravitas
da conferire al suo soggetto lo sguardo di un intellettuale o di un uomo
coinvolto con l'arte e la scienza: questo forse spiega perché il dipinto sia stato
a lungo identificato come un autoritratto, perché quest'uomo non ha l'aspetto
di un nobile. Quest'uomo è un
personaggio misterioso, dal carattere alquanto complesso, forse pronto alla
insoddisfazione, magari con un temperamento malinconico, riservato, come se non
avesse abbastanza fiducia in noi, che siamo comunque tutti coloro che da
Antonello in poi lo abbiamo osservato.
Con ritratti come il cosiddetto Condottiero del 1475 del Museo del Louvre, come il Ritratto Trivulzio o Ritratto d'uomo del 1476 del Museo civico d'arte antica di Torino – altissimo risultato nella
caratterizzazione dei ritratti, che catturano lo spettatore con uno sguardo
ipnotico di maliziosa sfida – come ancora il bellissimo Ritratto d’uomo del 1476 della Galleria
Borghese di Roma nel quale alla obiettiva ed acuta analisi delle forme tipiche
di Antonello, concorrono le conquiste stereometriche di Piero della Francesca,
le impostazioni prospettiche dei busti di Mantegna e il colore veneziano – le
caratteristiche tipicamente fiamminghe della posa di tre quarti, la barriera
del parapetto a segnare la separazione tra effigiato e spettatore, il
trompe-l’oeil del cartiglio, il fondo scuro, si coniugano a una resa del dato
psicologico inedita e rivoluzionaria per acutezza di penetrazione, Antonello
mostra di avere intimamente assimilato e fatte proprie le più nuove tendenze
dell’arte fiamminga, esprimendo nel ritratto le prime innovazioni e aprendo per
primo in Italia una nuova prospettiva nel genere aggiungendo la profondità. E questa non solo
tecnicamente spaziale, ma anche concentrata su una profonda analisi dell’intelligenza poetica di un
artista che ha saputo cogliere le sfumature psicologiche e le caratteristiche
più intime dell’esistere.
Tutti i suoi ritratti sono
anagraficamente ignoti, quanto a generalità, ma nella loro raffigurazione
tutto è ben noto e rivelato. Ritorna il giudizio di Federico Zeri in base al
quale Antonello è uno degli assi portanti del Rinascimento, pur essendo nato
estraneo al Rinascimento italiano quella rivoluzione che aveva posto l’uomo e
la sua essenza al centro della speculazione e quello che troviamo in Antonello
è proprio questo: l’uomo, non il personaggio. Ad Antonello, che aveva avuto
l’intimità di un re, non interessa il ritratto ufficiale, ma il ritratto
interiore, e come scrive acutamente Vittorio Sgarbi «ciò che si rivela non grazie agli esterni simboli del potere, ma alla
capacità di far parlare attraverso uno sguardo, sussurri, sospiri, ansie,
esitazioni, male di vivere». Nessuno aveva fatto tutto ciò prima e meglio
di Antonello dipingendo una vasta gamma di signor Nessuno dei quali non pur non
sapendo nulla, capiamo tutto. Chiari ed imperscrutabili essi parlano anche se
per sempre cristallizzati nel silenzio della luce. E, se tacciono, non tacciono
perché sono dipinti, ma perché il loro silenzio è quello di una persona viva,
non di un’immagine.
Antonello
è stato l’erede italiano e il tramite della grande ritrattistica fiamminga: con lui
nasceva il ritratto di tre quarti.
Diversamente dagli italiani – eccezion fatta del singolo esperimento di Andrea
del Castagno – Pisanello, Piero della Francesca, i fratelli Pollaiolo che
utilizzavano la posa medaglistica di profilo, adottò la posizione di tre
quarti, tipicamente fiamminga, che permetteva una più minuta analisi fisica e
psicologica e soprattutto permetteva il coinvolgimento dello spettatore
in un’atmosfera di partecipazione totale. In
tal modo i muri artistici
sono abbattuti: ritrattato e spettatore possono comunicare insieme le proprie
emozioni, il quadro non è più soltanto guardato, quanto piuttosto vissuto per
il coinvolgimento sentimentale e totale che le nuove opere d’arte infondevano.
Ma detto così sembrerebbe assolutizzante la
dipendenza di Antonello dai maestri fiamminghi: ma Antonello fu maestro
originale rispetto ai fiamminghi, mostrando di badare di meno al dettaglio e
sempre più alla caratterizzazione psicologica e umana dei ritrattati.
Tutti i
suoi ritratti uniscono alla preziosa lucentezza materica dovuta all’uso dei
colori sciolti nell’olio, una tridimensionalità spaziale e volumetrica tipica
dell’arte italiana come la salda monumentalità e
la capacità di organizzare lo spazio secondo le regole geometriche della
prospettiva lineare.
Da Antonello in poi gli artisti
migliori saranno anche considerati quelli che sapranno meglio interpretare gli
spazi nella tela come in un piccolo teatro. L’adozione
del fondale neutro scuro su cui campeggia l’effigie del Ritratto d’uomo e di un
parapetto in primo piano dietro cui si posiziona la figura, conferiscono
all’immagine una forza plastica tale da ricordare l’emergenza visiva di un
mezzo-busto scolpito.
L’arte del ritratto dopo Antonello non
fu più perciò solo ricerca somatica ed encomiastica eseguita con raffinata
tecnica stilistico-pittorica, ma anche una nuova finestra socchiusa sulla
realtà delle emozioni. I ritratti eseguiti dai Bellini, ne sono un vivido
esempio: fra quelli di Giovanni,
di cui sono rimasti pochi, va ricordato il celebre Ritratto del doge Loredan della
National Gallery di Londra.
Massimo Capuozzo
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