A Brigida, che sa stimolare in me
lo slancio verso il metafisico.
Dalla mostra monografica che si tenne alla Galleria d'Arte Moderna di Roma nel
1994, sull'opera di Carlo Carrà (1881
– 1966) è scesa una sorta di rimozione, responsabile di aver
allontanato il grande pittore dal pubblico degli appassionati dei fatti
artistici.
Carrà, uno dei massimi pittori che hanno contraddistinto la scena
artistica internazionale della prima metà del secolo,
è stato uno dei pochi artisti italiani che hanno saputo interpretare con
indipendenza creativa i momenti più significativi del Novecento: la sua lunga esperienza artistica si è
sviluppata nel primo quarto del Novecento come ricerca originale di un
linguaggio pittorico, coerente con la sua idea di arte moderna, evitando
di aderire stabilmente ai dettami delle avanguardie e non riuscendo,
sostanzialmente, a condividere con altri artisti le svolte
estetiche, che rendono invece originale e significativa la sua opera.
Il solitario lavoro di Carlo Carrà –
protagonista dei grandi movimenti d'avanguardia, senza mai però restarne tout
court coinvolto – fu un punto di riferimento per generazioni di artisti: partito
dalla scomposizione divisionista dei colori, aderì completamente alle acrobazie
futuriste compiute nel credo di Marinetti e finì atterrando dai deserti
metafisici di Ferrara ai solitari approdi sulle spiagge della Liguria e soprattutto
della Versilia.
Critico attento sulle pagine de L’Ambrosiano (1922 -1944), Carlo Carrà, oltre che ascoltare la sua
anima, sapeva interpretare il proprio tempo, tanto che nelle diverse stagioni
della sua arte è davvero possibile – come scriveva Roberto Longhi, che di Carrà è stato il critico
e lo storico più
attendibile – comprendere il lungo corso di un vero pittore italiano. Legatosi d’amicizia con Soffici e Papini, Carrà cominciò un intenso
periodo di meditazione sulla pittura italiana del ‘300 e del ‘400 che sfociò
nei sorprendenti scritti su Giotto, Paolo Uccello, Piero della Francesca e
Masaccio. Il recupero in chiave moderna dei primitivi,
e in primo luogo di Giotto, lo condusse a una pittura – come egli stesso disse
– di «forme primordiali», dove la natura si rivela in tutta la sua essenza
spirituale. Sintesi, forza plastica, spazialità, architettura accordata a
colori tonali: cominciava su queste basi la terza, più lunga e più intensa
stagione, quella del «realismo mitico».
Carlo Dalmazzo Carrà nacque a Quargnento, in provincia di Alessandria, nel
1881, in una famiglia di artigiani. Per circa dieci anni lavorò come decoratore
murale nelle città di Valenza Po, Milano, Parigi, Londra, Bellinzona.
Le
prime prove pittoriche sono legate al divisionismo postimpressionista, che
segna il passaggio tra il XIX e il XX secolo, in cui, oltre al tratto francese,
è forte l’influenza di Turner, come testimonia il dipinto La via di casa del 1900.
Nel 1906 entrò all'Accademia
delle Belle arti di Brera: dopo un'esperienza da autodidatta a Parigi e a
Londra, si era formato frequentando lo studio del pittore Cesare Tallone (1853-1919),
titolare della cattedra di pittura.
Qui Carrà
fu ammesso direttamente da Tallone a frequentare il terzo anno comune, evento
riservato agli allievi particolarmente promettenti. Dai registri ufficiali di
Brera si evince, inoltre, che l’insegnamento impartito da Tallone dovesse
risultare oltremodo fondante per il giovane Carrà, essendo imperniato sulla
pittura del Quattrocento italiano e svolto nello spirito della bottega rinascimentale. Tallone
attribuiva, infatti, importanza fondamentale al disegno del vero, ed era
implacabile nell’esortare gli allievi dicendo che «il disegno deve essere tre volte perfetto, ma sembrarlo una sola volta
[…] a furia di imitare, si crea». Insegnava a «pensare in grande», riferendosi naturalmente non solo al formato al
naturale, cui era improntata la sua pittura, ma alla concezione stessa del
dipinto, mirando sempre alla semplicità e alla forza espressiva dei grandi
pittori antichi, che non distraevano con eccessi: «Il pittore deve saper togliere, non aggiungere», era solito
raccomandare. L’insegnamento di Tallone rimase fondamentale per tutta la
carriera artistica di Carrà.
All’Accademia incontrò i giovani pittori Aroldo Bonzagni (1887 – 1918), Romolo Romani ( 1884 – 1916)
Ugo Valeri (1873 – 1911) e soprattutto
Umberto Boccioni (1882 – 1916).
Del
1909 è l’affascinante dipinto Uscita
dal teatro, intriso di chiazze di luce che si rifrangono sugli scialli
che trasformano i corpi in fantasmi fluttuanti su di un selciato acquoso.
Se Uscita dal teatro e Piazza del Duomo a Milano anch’esso
del 1909 testimoniano ancora una
sensibilità divisionistica attraverso gli effetti di rifrazione della luce, di
contro si comincia ad affermare una nuova concezione dello spazio, dove
tutto si mescola, con un colore denso ed una pennellata filamentosa, in
una visione sincronica. Immagini cariche di fascino, dove il movimento
della città moderna si esprime nella felice combinazione di danzanti linee
oblique. Tuttavia anche Piazza del
Duomo a Milano è una veduta che parte dagli intenti divisionisti
del primo Carrà. Frequentatore della Galleria
Grubicy de Dragon, Carrà guardava soprattutto a Giovanni Segantini (1858
–1899) e a Gaetano Previati (1852 – 1920), nella cui pittura individuava
vivi fermenti di rinnovamento artistico e sociale. L'individuazione delle componenti
umane della folla è qui annullata, mentre si intuiscono piuttosto i rumori, gli
spostamenti caotici delle persone, la tensione nell'atmosfera urbana, rischiarata
artificialmente dalle luci della piazza. A contatto con le atmosfere urbane, il
divisionismo sembrava indirizzare a nuove ricerche sulla resa di movimenti di
soggetti collettivi.
Nel 1910
fu per Carrà un anno importante: il giovane pittore conobbe, infatti, Filippo Tommaso Marinetti (1876 – 1944) che nel 1909 aveva pubblicato il Manifesto del Futurismo. Il carismatico Marinetti
lo persuase a rinunciare alle luminosità e ai paesaggi ottocenteschi, per
impegnarsi in una battaglia di avanguardia contro l'accademismo ancora
imperante e a favore, invece, di un'arte completamente moderna. Nella Milano,
agli inizi del 1910 i giovani artisti emergenti sono Bonzagni, Romani, Valeri e Boccioni, i maestri sono Marinetti, Giacomo Balla (1871 - 1958) e Gino
Severini (1883 - 1966).
Carrà visse in prima linea l'avanguardismo dominante dei
primi due decenni del Novecento: nel
1910 insieme a Umberto Boccioni, Luigi
Russolo (1885 – 1947), Giacomo Balla e Gino Severini (1883 -
1966), diede vita al Manifesto tecnico
dei pittori futuristi. Rivolto ai giovani
artisti, il Manifesto li esortava ad
un rinnovamento del linguaggio espressivo e teorizzava l'interesse
per i valori plastici e per il dinamismo: da qui
nacque l’arte futurista, movimento di cui Carrà visse da protagonista la fase
di espansione, guidata dal carismatico Marinetti.
La
sua pittura, allora, mise da parte il simbolismo pittorico di tipo divisionista
e inaugurò il concetto di simultaneità
dinamica degli stati d'animo – come si legge nel
testo programmatico contenuto nel catalogo della mostra dei pittori futuristi a
Parigi, alla Galerie Bernheim-Jeune nel febbraio 1912 – che portarono Carrà
a rappresentare la sensazione della realtà nel suo perenne riproporsi al
soggetto. Si ha così "lo
smembramento degli oggetti, lo sparpagliamento e la fusione dei dettagli". Si
ha altresì una riproduzione ottico-schematica del movimento: "la vibrazione ed il movimento moltiplicano
innumerevolmente ogni oggetto". Carrà
concludeva il suo manifesto La pittura dei suoni, rumori e odori,
pubblicato in Lacerba del 1°
settembre 1913, fondamentale per l'enunciazione sinestesica: «Sappiatelo
dunque! Per ottenere questa pittura
totale, che esige la cooperazione attiva di tutti i sensi, pittura-stato d'animo
dell'universale, bisogna dipingere, come gli ubriachi cantano e vomitano,
suoni, rumori e odori!»
In Sobbalzi del fiacre, eseguito fra
il 1910 e il 1911, Carrà rappresenta un brano della vita cittadina, che
coinvolge nello spazio atmosferico certe tensioni dinamiche prodotte dal moto
di una carrozza. I colori tendono a fondersi in una visione unica, nella quale
però gli oggetti e le persone rimangono riconoscibili.
Della stagione futurista sono i capolavori del 1911 La donna e l'assenzio,
Ciò che mi ha detto il tram che,
pur non raggiungendo la perfezione compositiva del contemporaneo I funerali dell’anarchico Galli, eppure,
fin dal titolo, è una riuscitissima sintesi della poetica e dell’estetica
futurista quanto Ritmi di oggetti del
1911-12 è una felice sintesi della lezione di Picasso e Braque, la cui
scomposizione geometrica dell’immagine è filtrata attraverso un uso personale
di linee curve e sinuose.
L'episodio a cui si riferisce il
dipinto
I funerali dell’anarchico Galli, oggi al MoMA di New York,
era avvenuto nel 1904 e Carrà
era stato testimone dell’avvenimento e dei tumulti che accompagnarono il
funerale dell’anarchico ucciso durante uno sciopero generale a
Milano nel 1904.
Si riconoscono le figure dei manifestanti, che corrono e che si divincolano,
delle guardie a cavallo che intervengono con violenza. Attraverso la
disposizione delle linee emerge
innanzitutto il forte dinamismo e la scomposizione del movimento, che ricorda
da vicino l’analisi spaziale cubista e che lascia percepire
l'impressione di caos. Il ruolo dei colori è altrettanto importante e risente della tecnica divisionista di
accostamento dei complementari: il rosso domina su tutti e
accentua il carattere aggressivo e caotico della scena. L’azione assordante e tumultuosa si
propaga confusamente sulla tela, dove si riconoscono i contorni di figure umane
a piedi e a cavallo che si fronteggiano su opposte spinte compositive,
aumentandone il dinamismo. Carrà era rimasto molto colpito da
quell’ evento ed appena ritornò a casa realizzò un disegno della scena, ma il
dipinto fu realizzato sette anni più tardi.
Dopo
il 1911 spazio e tempo sono definitivamente annullati, travolti nel
vortice di turbinanti composizioni. «Canteremo
il vibrante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri incendiati da
violente lune elettriche, le stazioni ingorde, divoratrici di serpi che
fumano;...le locomotive dall'ampio petto, che scalpitano sulle rotaie, come
enormi cavalli d'acciaio. Il Tempo e lo Spazio morirono ieri Noi viviamo
già nell'Assoluto, poiché abbiamo già creata l'eterna velocità onnipresente»
aveva proclamato Marinetti nel Manifesto
del Futurismo del 1909.
Lo
stesso spirito domina in La
stazione di Milano del 1911, dove la struttura dello spazio
diventa più frammentata e l’artista rappresenta un aspetto della vita cittadina
attraverso il coinvolgimento nello spazio atmosferico delle tensioni
dinamiche. I colori scuri, ravvivati da poche macchie luminose, tendono a
fondersi in una visione unica, dove la rappresentazione del dinamismo si
muove secondo uno schema di forze centrifughe.
Il
gruppo dei futuristi conobbe bene e in modo diretto i cubisti in
occasione della citata mostra parigina del 1912. Carrà incontrò tra gli altri
Braque, Picasso e Modigliani. In parecchi scritti i pittori italiani sottolinearono le
differenze tra la loro ricerca di rappresentazione degli spazi prospettici, tesa
a coinvolgere anche il movimento degli oggetti, e quella più statica
e strutturale dei pittori francesi.
In Donna al balcone, del 1912-1913
e in La galleria di Milano del
1912 la struttura dello spazio diventa più frammentata e si fa chiaro
l'interesse di Carrà per il cubismo. Sembra che egli voglia ampliare la
spazialità del dipinto, semplificando la composizione, che si organizza in un movimento
meccanico e in un colorismo metallico, ricordando i quadri
cubisti di Fernand Leger (1881 – 1955). Il soggetto richiama anche due
opere di Boccioni del 1911 La strada
entra nella casa e Visioni
simultanee, che tuttavia sfruttano una tavolozza cromatica molto più irruente
ed utilizzano la teoria futurista delle linee-forza,
in base alla quale, siccome la linea agisce
psicologicamente sull'osservatore con significato direzionale, essa,
collocandosi in varie posizioni, supera la sua essenza di semplice segmento e
diventa forza centrifuga e
centripeta, mentre gli oggetti, i colori e i piani si sospingono in una catena
di contrasti simultanei, determinando
la resa del dinamismo universale.
Agli inizi del 1913, il movimento futurista diventò punto di
riferimento anche per il gruppo fiorentino de la Voce, che stava dando vita alla nuova rivista Lacerba (1913 – 1915), diretta da Giovanni Papini (1881-1956) e Ardengo Soffici (1879- 1964). Lo stesso Carrà era un abituale collaboratore
della rivista Lacerba, con la
realizzazione di articoli e disegni.
Nello stesso periodo Carrà strinse rapporti con i cubisti
francesi e nel 1914 si trasferì per alcuni mesi a Parigi.
Dopo il 1914, però, nelle sue opere si intravedono i segni di
un ripensamento di molti dei dogmi futuristi: il dinamismo ad oltranza,
l'attivismo estremo e il cinismo politico sociale. Stava
maturando in lui la crisi del
futurismo: i collage che disegna sono un primo chiaro segno del distacco
dal movimento marinettiano. Il quadro
Composizione TA del 1916
annuncia la svolta metafisica dopo il periodo futurista, cubista dei collage
paroliberisti. Nessuna delle precedenti esperienze va perduta, infatti
Carrà scorse la possibilità di operare una fusione delle diverse scritture,
attraverso una sintesi, che agiva in senso metafisico. Tuttavia il suo nuovo pensiero si chiarì a Ferrara con l’incontro con De
Chirico.
Chiamato alle armi, Carrà aveva trascorso un periodo a Pieve
di Cento ma, per motivi di salute, fu ricoverato nell'ospedale militare di
Ferrara dove incontrò De Chirico: era la Ferrara del 1917 e, nel pieno del disastroso conflitto
mondiale, un gruppo di artisti ancora giovani – Giorgio De Chirico (1888-1978), Alberto
Savinio (1891-1952), Carlo Carrà e Filippo De Pisis (1896 – 1956) e lo scrittore Corrado Govoni (1884 – 1965)
– reagiva alla realtà traumatica, cercando un
senso più profondo delle cose, attraverso un'arte che ritornasse ad essere
prima di tutto un'esperienza interiore.
Per
il richiamo alla tradizione e al recupero di valori poco prima disconosciuti
dall’impeto delle avanguardie, questo episodio fu destinato ad avere esiti
determinanti. Dalla fantasia erudita dei De Chirico, corroborata dall’assidua
frequentazione di Filippo De Pisis e delle sue stanze segrete ubicate nel
palazzo di via Montebello – peraltro visitate in quegli anni anche da Ardengo
Soffici – prese forma l’immaginario metafisico sprigionato nelle prime tele di De
Chirico create presso una stanzetta dell’Ospedale Neurologico Militare della
città. Qui ricoverato per nevrastenia,
fu presto raggiunto da Carrà, al quale furono diagnosticati depressione e deperimento
organico. Senza contare che, proprio da Ferrara, proveniva anche il pittore Roberto Melli (1885 - 1958),
fautore con Mario Broglio (1891 – 1948) della nascita di Valori Plastici (1918-1921), un coagulo
di contributi teorici di personalità orientate allo spirito di ricerca sorto
nel primo dopoguerra, quali appunto Carrà e De Chirico, ma anche De Pisis,
Melli, Savinio, Clavel. Ad affiancare e suffragare il dibattito interveniva la
divulgazione di opere di artisti soprattutto francesi e reduci dall’esperienza
delle avanguardie. Accanto a Picasso, Derain, Severini, Braque, figuravano anche
esponenti della Nuova Oggettività come Georg Schrimpf, al
quale Carrà dedicò una monografia e alcuni ritratti databili al principio degli
anni Venti.
In questo contesto nacque la pittura metafisica.
La svolta
metafisica di Carrà va letta non come una semplice reazione ai suoi
trascorsi futuristi, bensì come la confluenza di parecchi ideali che si
facevano impellenti nella sua percezione dell’arte. Innanzi tutto la
definizione di una nuova immagine
dell'arte, attraverso la quale egli afferma l'indivisibilità della coppia
stabilità/movimento, il che significa anche la stretta interdipendenza tra
modernismo e tradizione. Poi la reintroduzione dei valori tipici della
pittura italiana del primo Rinascimento, con la conseguente accezione
dello spazio secondo la geometria euclidea, essendo l'architettura delle
forme la fonte primaria di significato. Infine la necessità di confermare
una dimensione spirituale nelle opere d’arte, assente nel naturalismo della
seconda metà del XIX secolo e ancor più nelle opere d'avanguardia dell'inizio
del XX. Carrà avanza l'ipotesi che tale dimensione debba realizzarsi
nell'estrapolazione delle forme dai fenomeni sensibili.
In
definitiva Carrà ipotizza che la pittura sia una pura operazione mentale ed applica
al suo pensiero la formula di Giambattista
Vico (1668 – 1744), secondo cui: «Il vero poetico è un vero metafisico a petto
del quale il vero fisico qualora non gli si conformi deve ritenersi per falso».
Egli si giustifica del prestito dal filosofo napoletano dicendo: «Ho interpretato questa frase di Vico
attribuendole il significato che il mondo delle apparenze degli oggetti
non giunge alla sua autentica realtà che in conspectu aeternitatis, sotto forma
di allegoria metafisica della sua realtà fisica, che altro non è
che un incidente offerto quasi per caso alla percezione dei nostri sensi».
I
dipinti e i disegni generati da questi pensieri sono caratterizzati
essenzialmente da un misterioso carattere esoterico, se non ermetico. Non
si tratta più di rappresentazione nel senso classico, cioè in riferimento al
mondo reale e a ciò che si chiama Natura, ma di complesse associazioni di
idee e di immagini: «Cercavo nelle
mie tele [...] di creare una sintesi di forme che avesse dei sottintesi di
carattere metafisico, come in una realtà percepita nella meditazione o nel sogno».
È evidente che l'attività del pittore e la sua produzione sono vissute e
trasmesse in ciò che hanno di più taumaturgico e magico, come espressione
superiore dello spirito umano, come teatralità della cultura.
«Intanto – racconta Carrà – la vita d’ufficio mi diventava sempre più
insopportabile e parallelamente anche lo stato della mia salute peggiorava,
finché si rese necessario ricoverarmi in un neurocomio fuori
Ferrara. Il direttore dell'ospedale, vero scienziato in materia di
malattie nervose, mi usò molti riguardi e mi fece assegnare una cameretta acciocché
io potessi dipingere, pensando egli giustamente che oltre le cure mediche, il
lavoro a me caro avrebbe contribuito a rinfrancarmi nel fisico e nel morale. In
questa camera dipinsi: Solitudine, La camera incantata, Madre e figlio, (un
tema sul quale con profonda diversità di accenti tornerà negli anni Venti) e la Musa metafisica». L’adesione alla metafisica di De Chirico è contraddistinta
dalle predette opere del 1917, seguite da L’ovale
delle apparizioni, l’unico dipinto del 1918.
Solitudine dipinto nel 1917, segna
l’incontro con De Chirico, avvenuto nell’aprile del 1917. Fino a tutto il
1918 tra i due maestri ci sarà una perfetta intesa e affinità. Giorgio De
Chirico già dal 1913 aveva sviluppato le tematiche metafisiche attraverso
solitarie immagini di piazze e manichini, e il suo dipinto Il filosofo e il poeta, del 1915,
costituisce il diretto modello di Solitudine.
Carrà adattò la complessa costruzione di De Chirico ad uno spazio
pittorico semplificato, rispetto alle prospettive multiple di De Chirico, utilizzando,
però, gli stessi elementi emblematici della lavagna, del manichino di
spalle sul parallelepipedo e della stanza vuota dal pavimento ligneo.
Qui Carrà torna ai colori squillanti e all’architettura visiva che allude
al reale, superandone però i limiti di stabilità in una ricerca costruttiva
illogica che esprime disagio ed estraneità. Il senso di spaesamento e lo schema
compositivo metafisico sono frutto di un gioco calcolato: le superfici dipinte
sono ben definite e ogni sfumatura tonale risponde ad una volontà sistematica
espressa in un significato rigoroso.
Nel dipinto La
camera incantata, realizzato nel 1917, si nota subito un manichino che
rappresenta la madre, morta quando lui aveva nove anni; lavorava come sarta,
infatti il manichino non ha né braccia, né gambe, né faccia, poiché l’autore
non si ricordava le gambe, gli abbracci e il volto della madre. Accanto al
manichino c’è un cilindro di cuoio con sopra un parrucchino, che rappresenta il
padre, che in effetti lavorava come calzolaio. Sotto la madre e il padre, è
disegnato un set da pesca, rappresentante l’hobby di Carrà e di suo padre. Inoltre
sono raffigurate molte forme geometriche. Dietro tutto c’è, un po’ nascosta,
una porta buia, di cui Carlo Carrà ha molta paura poiché rappresenta la guerra.
Il maestro fu favorevole alla guerra e vi partecipò, ma la morte di alcuni suoi
compagni – Umberto Boccioni, Antonio Sant’Elia, Carlo Erba – e gli orrori che
aveva visto gli causarono dei problemi psicologici: la realizzazione di alcune
tele fu infatti il risultato della terapia
che gli era stata consigliata per esternare il suo dolore e disagio.
La musa metafisica è particolarmente esemplificativa di questa scelta poetica.
L'opera fu composta, insieme a quelle citate dallo stesso maestro, nel periodo
di forzata immobilità nell’ospedale militare, dove, nella
sua stanzetta, gli fu concesso di dedicarsi alla pittura ed esprime nitidamente
e chiaramente il senso della poetica metafisica. Nello spazio chiuso della
stanza si stagliano, in un apparente disordinato ammasso di oggetti, emblema di
stati d'animo, di ricordi, di associazioni oniriche. Il quadro
che rappresenta un paesaggio urbano, la cassetta con la carta
geografica in rilievo e il bersaglio, il grande prisma policromo, l'enigmatica
figura della giocatrice di tennis, il cui aspetto oscilla fra la statua
antica e il manichino (la sua testa vuota di organi suscita un innegabile
turbamento), la prospettiva accelerata, le aperture che danno su uno
spazio uniformemente nero, sono elementi che si uniscono tutti a comporre
un reticolo sottile e labirintico di metafore figurative. L'opera si
ricollega sicuramente ad una meditazione più generale complessa e più
espressivamente strutturata sulla riunione allegorica di uno
spazio interno (la stanzetta, sorta di camera incantata del
pittore) e di una serie di spazi esterni, evocati nelle forme inusuali
degli oggetti (il paesaggio urbano del quadro, le terre emerse nella
carta geografica, la presenza disumanizzata della tennista, il solido
poliedrico come richiamo alla pluralità prospettica del reale). La musa metafisica si
configura quasi terapeuticamente come evasione poetica che, dalle ore di
desolazione militare, diventa una forma di resurrezione creativa.
L'evoluzione
della poetica metafisica di Carrà è contrassegnata da un semplificarsi degli
elementi pittorici, fino a ridurli ad una emblematica essenzialità.
Nel
dipinto L’ovale delle apparizioni
l'unico dell'artista del 1918, anno in cui viene
edita la rivista Valori plastici, dove Carrà pubblica il
saggio Il quadrante dello spirito e in cui l'opera è per la prima volta
riprodotta prima di subire alcune modifiche iconografiche. Essa risultava già
esposta nella mostra romana alla Galleria
dell'Epoca nel maggio 1918. La forma ovale, che simbolicamente si riferisce
ai cubisti, alimenta la tensione allo spirito perfetto cui gli oggetti del
dipinto tendono a uniformarsi in sintonia con la contemporanea ricerca
metafisica di De Chirico. Nel dipinto è raffigurato un paesaggio con una casa, un pavimento e delle
persone, ma le persone non sono persone ma manichini impegnati in qualche
attività, il tennis, metà uomini e metà manichino. Le case sono in una
prospettiva del tutto inesistente, il pesce non c'entra assolutamente niente ma
è solo un elemento ricorrente in questo periodo. Le figure poi sono appoggiate
su un pavimento con un andamento prospettico lontano da quello delle case.
Tutto quello che sembra reale non lo è. Tutto quello che sembra possibile è
impossibile, tutto quello che sembrerebbe spiegabile non lo è. È uno di quei
dipinti che lasciano aperta una serie di punti interrogativi e domande alle
quali non c'è risposta. Le spiegazioni che si danno sono convenzionali e di
comodo, ma realmente sono inspiegabili. La realtà è molto più misteriosa di
quello che si suppone, è inquietante.
Nel
dipinto La figlia dell'Ovest, del
1919, pur in presenza di alcuni elementi comuni all'opera del 1917 – la
tennista, immagine solenne del gioco del vivere, le fredde architetture
urbane, le forme geometriche accampate nello spazio di fondo – scompare il
ricco assieparsi di oggetti che evocano il rapporto con l'esterno, mentre la
realtà naturale assume l'aspetto illusorio di un fondale da teatro,
falsamente luminoso e solare, mentre il volto del manichino si
rattrappisce in una minuscola appendice oscura, a testimoniare l'estraneità del
soggetto alla vita delle cose.
Un nuovo periodo di crisi interiore e artistica travolse
Carrà e da questa crisi riemerse una nuova visione della pittura, indirizzata
alla ricerca della semplificazione dell'immagine: Carrà comincia a limitare il
caos grazie ad una semplificazione del racconto visivo e ad una focalizzazione
sulla forza costruttiva degli elementi plastici. Si intravede dunque un ordine
che potremmo definire musicale, al posto degli scomposti schiamazzi cromatici
che caratterizzavano il futurismo della fase tarda del movimento.
Il favore che in questa fase Carrà attribuisce al colore,
ridimensionando la funzione dello spazio e della scomposizione delle forme, lo
porta idealmente ad avvicinarsi alla lezione di Boccioni.
Con serietà e rigore il pittore affronta lo studio della
pittura tre-quattrocentesca che riportò su molti dei lavori terminati intorno
agli anni venti. Il suo distacco dallo scomposto vitalismo futurista era ormai definitivo
e il suo sguardo si rivolgeva alla pittura internazionale, cominciando a
dialogare con Cezanne (1839-1906),
Picasso (1881-1973) e Derain (1880
- 1954). In questa fase oltre a dipingere, Carlo Carrà fu impegnato in un
estenuante sforzo teorico col quale cercò di fissare il proprio credo estetico.
Il suo programma di ricerca, basato sul recupero della tradizione italiana e
delle volumetrie classiche, attraversate da intensità emotive, urta De Chirico
scatenando un confronto che costituì uno dei culmini della riflessione
sull'arte della prima metà del Novecento. Quando
De Chirico fa la pittura Metafisica si serve della pittura come di un mezzo non
di un fine. Carrà, pentito del futurismo, considera la metafisica la garanzia
per recuperare il valore assoluto cioè la pittura dei valori tipicamente
italiani nel passaggio tra Giotto, Masaccio e Paolo Uccello. Quando De Chirico
e Carrà parlavano di ritorno al mestiere nella rivista Valori plastici, parlavano
del recupero dei valori artigianali, del mestiere inteso in senso
rinascimentale, solo che De Chirico lo intendeva come mezzo per esprimere
queste sue intenzioni o illuminazioni, mentre Carrà concepiva la Metafisica come un passaggio per
raggiungere la finalità della bella pittura, della qualità quasi rinascimentale
della bella pittura.
Nel piccolo ma intenso dipinto L'amante dell'ingegnere – ospitato col resto della collezione Mattioli al Museo Guggenheim di Venezia – Carrà affronta una tematica ancora metafisica ma, nello stesso tempo, con esso si conclude per lui la stagione della pittura metafisica in un momento in cui era già interessato a una maggiore concretezza plastica e naturalistica. All’inizio degli anni Venti, egli si stava dedicando, infatti, a una ricerca rigorosa e razionale, come, in questo dipinto, è sottolineato simbolicamente dalla squadra e dal compasso. Lo sfondo scuro contribuisce a evidenziare l’assenza di tempo e di spazio e la dimensione onirica della composizione dove emerge l’enigmatica testa femminile, come un frammento simbolico di un percorso della storia. Una luce vibrante e un tessuto cromatico più emotivo, meno ermetico e freddo, caratterizzano questo rapporto nuovo tra forme metafisiche e spazio prospettico. Sebbene si tratti di una scultura, la testa femminile possiede un soffio di vita segreto, quasi fosse ipnotizzata, con gli occhi chiusi ma la bocca aperta, pronta a parlare. Il collo straordinariamente lungo appare spesso nelle opere di Carrà precedenti a questa. Senza dubbio l’ambiguità tra morte e vita in uno spazio indeterminato interno-esterno, in una luce che precede l’alba, richiama con perfetta concisione un orizzonte onirico, caro alla Metafisica. Il titolo non ha mai avuto una spiegazione, sebbene la squadra e il compasso possano rappresentare la professione dell’ingegnere e la testa in gesso la sua vita segreta. ogni spiegazione troppo specifica impoverirebbe il mistero riccamente evocativo del dipinto. Lo scopo della pittura metafisica, infatti, consisteva nel far sì che oggetti ordinari trascendessero la realtà ed inducessero un nuovo e più profondo stato di consapevolezza.
Il dibattito di Carrà con De Chirico fu il presupposto di una nuova svolta nel percorso artistico
di Carrà, la terza stagione della sua ricerca
artistica, quella degli anni Venti, il cosiddetto realismo lirico, che iniziò nel 1921 e lo portò ad
abbandonare anche la metafisica, spinto dal desiderio di essere soltanto se stesso.
In questa stagione, quella della maturità artistica «dopo gli errori di gioventù del futurismo e
della metafisica», Carrà ritrasse soprattutto paesaggi. «La
pittura –
sostiene Carrà – deve cogliere quel
rapporto che comprende il bisogno di immedesimazione con le cose e il bisogno di
astrazione» e la contemplazione del paesaggio si risolve allora nella costruzione di un quadro, sia montano
sia marino. Entrato definitivamente a contatto
con una nuova sintesi tra idea e natura, i soggetti prediletti diventano i
paesaggi in cui forte è l’influenza di Giorgio Morandi, sia nelle nature
morte, sia nei paesaggi caldi e silenziosi in cui le case e i cui edifici
perdono qualsiasi connotazione umana, quasi fossero formazioni rocciose
spontanee che intervallano il verde opaco dei campi e dei boschi, come accade
esemplarmente in San Giacomo di
Varallo del 1924.
Dopo il periodo metafisico, che si concluse intorno al 1919,
Carrà collaborò a Valori Plastici, la
rivista che si inseriva nel clima generale e internazionale ritorno all’ordine culturale ed
estetico. L’artista si avvicinò sempre più ai valori autentici ed essenziali
della pittura tradizionale e classicista, scelta per il puro realismo e
l’intensa spiritualità. Il suo interesse per Giotto e per i maestri del XV
secolo si era già rivelato in modo costante, anche attraverso la pubblicazione
di saggi come la Parlata su Giotto e Paolo Uccello, apparsi su La Voce nel 1916.
Nella tela Le figlie
di Loth del 1919, la volontà di rifarsi alla tradizione pittorica
trecentesca è evidente nella semplicità degli elementi compositivi e nella
scelta iconografica, sebbene il racconto biblico è identificabile solo
attraverso il titolo, poiché nessun dettaglio fa pensare che le due figure
femminili siano le figlie di Loth. La spazialità spoglia, i colori intensi e la
costruzione austera delle due donne e dell’animale sono elementi ispirati
chiaramente agli affreschi e alle tavole giottesche, nell’impianto formale,
dunque, ma anche contenutistico. L’atmosfera è enigmatica, caratterizzata da
una sospensione di ascendenza ancora metafisica, dove l’aspetto aneddotico
dell’immagine è bloccato in un’immobilità misteriosa. Del dipinto esiste un
disegno preparatorio, del medesimo anno, dove si notano parecchi ripensamenti
nella disposizione delle figure e nel paesaggio dello sfondo.
Nella sua estate ligure del 1921, Carrà dipinse la vela
smarrita di "Marina a Moneglia"
e sempre in Liguria, nel 1923, dipinse Vele
nel porto.
Opere frettolosamente definite metafisiche come Pino sul mare, L'amante dell'ingegnere del 1921
e L’attesa del 1926 che testimoniano
la scoperta di Giotto e già introducono
alla stagione novecentista, segnata da opere quali La segheria dei marmi del 1928, Nuotatori
del 1929, Il cancello rosso del 1930.
Il pino sul mare, è una tela ad olio di appena 68 cm.
x 52,5, conservata a Rima presso la collezione
Casella. Questo dipinto è un’icona
della pittura del Novecento. Essa appartiene al periodo in cui Carrà stava
passando dalla metafisica vera e propria a quella novecentesca, caratterizzata da un ritorno al linguaggio figurativo
sotto l'influsso della tradizione primitiva italiana, in particolare di Giotto,
ma anche della lezione post-impressionista di Paul Cézanne. La composizione è
classica, ridotta all'essenziale: in primo piano una spiaggia sul mare, sulla
sinistra la facciata di una casa fortemente scorciata e sulla destra un pino
marittimo dal tronco liscio e nudo, piegato dal vento verso il centro, con un
ramo monco e altri due che sorreggono una chioma sproporzionatamente piccola.
In mezzo, tra la casa e il pino, uno stenditoio con un panno bianco steso ad asciugare,
metafora del cavalletto di un pittore, sul terreno ci sono pochi ciuffi d’erba
sparsi. Sullo sfondo, un mare liscio e piatto come un lago e, al di sopra, un
cielo bianco e azzurro trasparente, colto nella luminosità del primo mattino.
Dietro il pino, in secondo piano, si staglia un promontorio roccioso, con pochi
cespugli di misera vegetazione, che ricorda il paesaggio nudo e brullo dell’affresco Il
sogno di Gioacchino fra i pastori di Giotto nella Cappella degli
Scrovegni a Padova, ma con una novità: un profondo incavo nella roccia, entro
il quale si apre una porta ampia e bassa sul versante riparato del promontorio,
direttamente sull’acqua e proprio di fronte all'osservatore: è impossibile dire
di che cosa si tratti. I colori sono chiari, luminosi, tranne il mare straordinariamente
scuro e i tre vani artificiali, i due della casa e quello del promontorio, che
non sembrano aperture, quanto piuttosto accessi sbarrati e inaccessibili. Poiché
l’occhio dell’osservatore corre istintivamente dalla porta sulla sinistra, alla
marina al centro, al versante interno del promontorio sulla destra, ne risulta
che il quadro è come scandito in tre sezioni molto contrastanti: una chiara, in
basso, una molto scura più sottile al centro, che comprende anche la chioma del
pino ed un’altra, ancora più chiara, in alto. L’effetto d’insieme è quello di
un iperrealismo che sconfina impercettibilmente nel surrealismo di una qualità
pittorica a metà strada fra la semplicità giottesca e l’ingenuità di una
pittura infantile vicina al Doganiere Rousseau e di una peculiarità espressiva
che indugia straordinariamente fra la monumentalità delle forme e il minimalismo
dei contenuti, poveri e disadorni come può esserlo la poetica dell'essenzialità
di Montale. Ci troviamo, pertanto, di fronte a un paesaggio di tipo metafisico,
ma di una qualità metafisica che prelude alla riscoperta dei volumi corposi,
delle forme nette e squadrate di tipo cubista che richiamano la grande stagione
dell’arte italiana tardo-medioevale e del primo Rinascimento. Un paesaggio
metafisico che non ha la qualità angosciosa di quelli di De Chirico, dove incombe
il senso dell’attesa di qualcosa che deve accadere: qui, invece, il mistero
incombe con leggerezza, ma senza opprimere e soprattutto senza angosciare né
spaventare, un mistero domestico e quotidiano con cui si è abituati a convivere,
un mistero si potrebbe dire familiare e tranquillamente accettato.
Carrà aveva profondamente assimilato
la lezione di Cezanne, procedendo in un vero e propri consolidamento della
pittura metafisica, così come Cézanne aveva operato un consolidamento dell'Impressionismo.
Anche Carrà, come Cezanne, ha schiarito la sua tavolozza, alla ricerca di un
nuovo equilibrio compositivo; anche lui come il pittore provenzale ha scoperto
i passaggi e gli stacchi di colore, per esaltare la dimensione volumetrica
della forma; anche lui è alla ricerca della massima essenzialità, ma non
seguendo la via, come tante avanguardie artistiche, della dissoluzione della
figura, bensì per la via opposta, nella riscoperta e nella attualizzazione
della grande tradizione fiorentina del Tre e Quattrocento.
Parlare del Pino sul mare
significa parlare del rapporto fra Carrà e Giotto, perché uno sguardo anche
superficiale a quest'opera particolare e affascinante ci riporta di colpo al
senso del primitivo,
del gotico, al primo quarto del Trecento e alla magica atmosfera
della Cappella degli Scrovegni.
Oltre a Giotto e a Paul Cézanne, la
natura è stata la terza, grande maestra di Carlo Carrà nel guidarlo dalla fase
metafisica a quella della sua massima creatività, caratterizzata dalla graduale
semplificazione della realtà mediante la sua idealizzazione geometrica in
chiave mitica. La natura en plen air, la natura della Liguria, di Forte
dei Marmi, della Versilia, di quell'angolo di Italia racchiuso e quasi nascosto
fra la montagna ed il mare, dov'egli ha potuto trovare quella spontanea
semplificazione del paesaggio cui da tempo era alla ricerca. Nei quadri degli
anni Venti, a Carrà sono bastati pochi sassi per ritrarre una montagna; pochi
ciuffi d'erba per delineare una vegetazione; un solo albero - per giunta
mutilato - per suggerire, anzi, per evocare tutto il mondo della natura dando corpo e sostanza, luce e splendore a un mondo intero, servendosi di mezzi estremamente poveri ed elementari, quasi appena abbozzati, trasfigurando le umili cose d'ogni giorno in un’aura poetica misteriosa e antichissima: realizzando, appunto, la metamorfosi del contingente nell'assoluto, del provvisorio nel permanente.
Il celebre dipinto Dopo
il tramonto del 1927 è totalmente
libero dal riferimento a un evento realmente accaduto. Qui c’è la perplessità
di un’atmosfera di sogno: il silenzio assolato, la luce anomala, la cui
intensità non sembra potersi conciliare con l’ora del giorno espressa nel
titolo, portano l’osservatore in una dimensione onirica dal significato
indecifrabile. I colori sono profondi e intensi; alla forte contrapposizione
dei complementari, si sostituisce una sonnolenta giustapposizione, che
sintetizza l’immagine in un’unica prospettiva.
La partita di calcio del 1934, realizzato
per la vittoria dell’Italia ai Mondiali
di Calcio mondiali di quell’anno, fu esposto
per la prima volta alla II Quadriennale di Roma, nel 1935. Il quadro, attualmente
conservato presso la Galleria Comunale
d'Arte Moderna di Roma, rappresenta alcuni giocatori di calcio impegnati in
un'azione di gioco. Il soggetto è dovuto alla grande passione di Carrà, che
viveva il calcio come uno spettacolo totale, assolutamente capace di suscitare
emozioni al pari di avvenimenti o opere di ben più elevato valore artistico. e
il riferimento alla nostra nazionale è evidente nel colore azzurro delle maglie
dei giocatori che vi sono raffigurati. L'artista coglie l'azione in un momento
concitato: si tratta probabilmente di una mischia in area, con il pallone che
finisce vicinissimo alla porta mentre gli attaccanti saltano per colpire di
testa e il portiere si slancia nel tentativo di arrivare per primo sulla sfera.
Il pallone resta, però, sospeso a mezz'aria, quasi come un'apparizione
metafisica, che cattura sia l'attenzione dei giocatori impegnati in campo, sia
quella dell'osservatore esterno, cristallizzando in un unico fermo immagine il simbolo stesso del
gioco del calcio: la rincorsa, la cattura, il possesso della palla.
Queste
opere sono da annoverare tra i capolavori
dell'arte italiana di quel periodo, nelle quali colpisce la solennità degli
spazi, sottoposti ad un lavoro di delicata sintesi che ancora una volta ci
costringe a ritornare a Cezanne, a Seurat e agli altri maestri post
impressionisti dai quali Carrà idealmente non si era mai distaccato.
La scoperta della
Toscana nell’estate del 1925, diede luogo a capolavori come San Martino e Il mulino delle castagne,
dove Carrà scopre la luce cristallina della piana toscana.
Forte dei Marmi, dove Carrà giunse per la prima volta nel 1926 invitato dall’amico Arturo Dazzi, diventò la sua seconda
patria e protagonista di molti suoi dipinti:
Carrà rimase folgorato dai paesaggi luminosi e solitari, dalle
lunghe deserte selvagge spiagge bianche, dai capanni abbandonati dei pescatori le cui
reti sono stese ad asciugare, dai fasci di canne, dai gozzi tirati a secco in
attesa dell'uscita notturna, dalla banchina del molo popolata dagli ostricari, dalle immense
pinete dai
monti sul mare. Carrà ritrae una Versilia che purtroppo non esiste più.
La natura e la suggestione dei luoghi, d'altronde, sono per
Carrà solo dei punti di partenza, un pretesto. Per lui si trattava di creare
una sintesi dialettica di idea e natura, elemento naturale ed elemento mentale,
architettura del disegno e libertà del colore, razionalità e sentimento. Del
resto, i suoi dipinti, caratterizzati da tratti essenziali e prevalenza di
vuoti, da un'atmosfera sospesa e senza tempo, danno vita ad un universo
pittorico autonomo dove il riferimento non è alla natura, ma più verosimilmente
alla malinconia, alla solitudine, alla memoria.
Concretezza e fantasia, realtà e
trasfigurazione, eventi straordinari e piccole cose ordinarie, «le cose – spiegava Carrà – che esistono quando l'animo s'inarca non
sono cose, ma espressione poetica del nostro spirito creatore».
Negli anni Trenta la sua attività pittorica cominciò a
rallentare, mentre crebbe il suo desiderio di teorizzare le nuove combinazioni del
bello. Inoltre, cominciò ad apparire dominante un approccio disegnativo alle
questioni estetiche, spesso stimolato dal confronto letterario.
Le sue opere pittoriche sempre più rare raggiungono una
compiutezza straordinaria. La sua misura stilistica permetteva di sfuggire al
banale naturalismo e ad un intimismo mieloso e troppo melanconico.
Il dipinto Donna
al mare del 1931 ha scritto Elena Pontiggia «offre una testimonianza dell'umanità salda e stondata di Carrà, di
evidente ascendenza giottesca». Lo caratterizza una netta contrapposizione
cromatica, costituita dalle tinte terrose e avvolgenti della sabbia, del corpo
e delle vesti della donna, e i toni raggelati del cielo e del mare agitato. Il
dipinto fu acquistato alla XVIII Biennale di Venezia nel 1932. Dal 1926 Carrà
frequentava Forte dei Marmi e questo lo aveva certamente influenzato nella
predilezione per i soggetti marini. «L'estate
– scriveva in quegli anni - non è per me
una stagione di riposo, bensì un periodo di lavoro che mi porta a contatto di
un paesaggio e di un mare dove il mio spirito artistico ha trovato feconda
rispondenza».
Il dipinto I nuotatori,
del 1932, appartiene ad una fase della ricerca di Carlo Carrà dedicata ai
paesaggi mediterranei. Le figure massicce e tratteggiate in modo sintetico
richiamano le forme neo-primitive delle opere dipinte da Carrà alla fine degli
anni Dieci. In quel periodo l’artista ritorna alla pittura figurativa e guarda
all’arte arcaica come fonte d’ispirazione. Le marine degli anni Trenta uniscono
il realismo dei paesaggi osservati da Carrà durante i suoi soggiorni in
Versilia, Liguria, Capri e Venezia, ad una sospensione metafisica. L’atmosfera
che predomina nel quadro dei Nuotatori è, infatti, sognante, persino un po’
misteriosa, tanto da avvicinarlo alla tendenza artistica del Realismo magico.
In riva al mare, Carrà sembra trovare un senso di quiete che
nel quadro è espresso da una composizione rigorosa, ritmata da figure statiche,
statuarie. Nel 1940, l’artista affermerà: “Sebbene per natura io non sia un
navigatore desideroso di vivere continuamente in paesi marini, tuttavia il mare
ha sempre esercitato sul mio spirito una potente attrattiva.”
I
vari periodi della pittura di Carlo Carrà non soffrono mai di distacchi
drastici, ma si compenetrano al punto che, in un lavoro nel 1934,
intitolato Partita di calcio,
uno sfondo divisionista, anteriore di un quarto di secolo, è attraversato da un
incrocio di corpi che incarnano il movimento, la forza e la velocità futuristi,
il tutto tradotto in un linguaggio realista, magico e poetico, che è quello
tipico degli Anni Trenta dell’artista, che era convinto sostenitore dell’idea
secondo cui «per lo spirito non esistono
contraddizioni, ma trasformazioni e sviluppi; mutare una direzione in arte non
significa rinnegare tutto il passato, bensì allargarlo fino a compenetrarlo con
un altro concetto estetico, scoprire nuovi rapporti ignoti, aprir meglio gli
occhi per comprendere una somma maggiore di realtà».
Massimo Capuozzo
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di riferimento
http://www.ada.ascari.name/CasaAda/studio/artec/artisti/carra-apparizioni.html
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