lunedì 23 giugno 2014

Anselmo Bucci: dipingere il vero aureolato di poesia di Massimo Capuozzo

Nonostante l’indubbia qualità della sua pittura ed i molti riconoscimenti, Anselmo Bucci non raggiunse mai il ruolo assoluto che pur legittimamente gli sarebbe spettato nella storia dell’arte del Novecento. Bucci è stato, infatti, uno dei protagonisti delle nascenti avanguardie artistiche dei primi decenni del Novecento, tanto in Italia quanto in Francia. Osservando da vicino la sua vita ed il suo percorso artistico si profila l’immagine di un pittore in continuo movimento, in una continua ricerca pittorica, dal simbolismo e dal post-impressionismo dei primi anni del secolo, alla stagione del Novecento Italiano, fino al naturalismo lirico degli anni trenta.
Il suo percorso artistico fu un continuo viaggio, curioso ed attento, su quanto avveniva intorno a lui: per questo Bucci fu un artista poliedrico che attraversò correnti e tendenze e che vi si mosse liberamente, sfuggendo a definizioni che lo potessero imbrigliare, perché, tra un luogo e l'altro, tra un contatto culturale e un altro, tra un movimento pittorico ed un altro egli – pure assorbendo da ogni parte stimoli e impulsi culturali – mantenne una propria autonomia, un’identità mai offuscata dall'appartenenza tout-court ad una scuola. Amico dei futuristi – coi quali si arruolò volontario nella Grande Guerra – ma non fu mai futurista; vicino ai fauve e ai simbolisti, eppure pronto ad aprirsi ad altre esperienze, come testimoniano le sue eccezionali e straordinarie puntate nel mondo arabo e talvolta orientale del 1912-13); negli anni Venti – divenuto amico del critico d’arte Margherita Sarfatti – lo troviamo tra i fondatori del gruppo Novecento, dal quale si allontanò nel 1929; poi, diviso tra la pittura e la grafica collaborò anche al Corriere della Sera, maturò un graduale avvicinamento a forme plastiche classicheggianti, con un accanimento figurativo che mantenne fino alla morte. 
I suoi dipinti di anni diversi e di altrettanto diversi soggetti, sono accomunati però da un’incredibile e, difficile da spiegare, forma di precario equilibrio tra novità e classicità, tra dinamismo e compostezza, tra genio e regolatezza.
La sua pittura è inesauribilmente varia nei temi, percorsa spesso da un sottile senso di ironia, è la ricerca del vero, aureolato di poesia, come egli amava icasticamente dire e in altra occasioni: «Non ho mai cercato di mentire in uno stile, ma di dire la verità  in lingua corrente».
Il desiderio di ampliare i suoi orizzonti creativi lo portò, tra le due guerre, a trovare anche il tempo per fare l’arredatore e il decoratore dei grandi piroscafi che portavano lo stile italiano lungo le rotte mondiali e di affrescare il Palazzo di Giustizia di Milano. Bucci si dedicò costantemente anche alla critica e alla teoria dell’arte, com’è evidente nei suoi scritti per il Corriere della Sera e per l’Ambrosiano o nei saggi per La fiera letteraria e per Arti plastiche.
Anselmo Bucci nacque a Fossombrone il 25 maggio 1887, figlio secondogenito di Achille Muzio e di Sestilia Chiavarelli, e fratello dello scrittore Giovanni Bucci (1883 - 1961). Seguì la famiglia nel Veneto, a Cittadella, dove compì gli studi classici a Venezia al regio collegio Marco Foscarini e continuò a dedicarsi alla pittura: durante la loro permanenza nei dintorni di Ferrara, il giovane Anselmo, infatti, era stato seguito nel disegno dall'allora noto pittore Francesco Salvini.
Suo fratello Giovanni intuì subito il suo talento artistico e lo appoggiò materialmente e spiritualmente nei momenti meno felici.
Bucci risiedette a Monza dal 1904 al 1906 e fu tra gli animatori del gruppo del Coenobium, un vivace cenacolo culturale frequentato da pittori, scultori e letterati.
Nel 1905 Bucci a Milano conobbe Umberto Boccioni e, pur continuando a risedere a Monza, seguì i corsi dell'Accademia di Brera, studiando con Bignami, Mentessi e Tallone, ed ebbe modo di incontrare e di frequentare Carlo Erba (1884 - 1917), Carlo Carrà (1881 – 1966), Romolo Romani (1884 – 1916) e Leonardo Dudreville (1885 – 1976) con il quale condivise lo studio e un’amicizia duratura. Tuttavia, fin da questi anni, Bucci rivelò la sua insofferenza nei confronti della retorica pittorica che si sintetizzava nell’accademismo e già l'anno successivo, nel 1906, si trasferì a Parigi, all'epoca capitale dell'avanguardia artistica, dopo aver scoperto la pittura internazionale sulle pagine di Emporium, cenacolo culturale frequentato da pittori, scultori e letterati tra cui Eugenio Bajoni (1880 - 1936), Guido Caprotti (1887 - 1966) e Dudreville.
Fra i primi italiani nella Parigi delle avanguardie, Bucci realizzò il suo desiderio di ampliare la sua conoscenza e nel 1906 intraprese, insieme a Dudreville e al critico Bugelli, un viaggio a Parigi, dove rimase fino al 1914, interessandosi al movimento della vita moderna. A Parigi, dopo un periodo iniziale di terribili stenti – egli stesso, con un tocco di ironia, scrisse «Sono arrivato a Parigi nel 1906. Ho fatto il primo pasto nel 1910, la vita si nutre più di incontri che di cibo» – fu apprezzato da critici di chiara fama come Guillaume Apollinaire e André Salmon. Lui stesso scrisse a Boccioni con ironia che gli anni passati a studiare il movimento gli erano valsi il titolo di pre-futurista.
La stagione francese fu fondamentale nella vicenda artistica ed esistenziale di Anselmo Bucci. Nella ville lumiere per sette anni si abbandonò ad un'epopea esistenziale da Belle Epoque, in balia di terribili stenti, di passione sfrenata per l'arte, di amicizie bohémien. Giunto ventiduenne a Parigi, non poté fare a meno di guardare. I suoi occhi spalancati davanti alla strada: la fremente strada di Parigi. Ciò che maggiormente colpiva l'immaginazione del giovane Bucci era il movimento urbano, quel tourbillon incessante nei boulevard, per cui la strada diventava il palcoscenico della vita della metropoli. A Parigi Bucci viveva a Montmartre, dove conobbe Picasso, Apollinaire, Dufy, Utrillo, dove frequentava Modigliani, Severini, Suzanne Valadon e Viani con i quali si legò d’amicizia e a Montmartre la sua arte assunse un respiro internazionale con frequentazioni a dir poco stimolanti. Conobbe da vicino le ricerche delle avanguardie, che lo incuriosivano, lo intrigavano, ma si lasciava solo sfiorare dalla loro ebbrezza, rimanendo fedele a una rappresentazione post-impressionista, che racchiudeva anche memorie della classicità italiana.
La sua pittura, oscillante tra i modi fauve e un linguaggio simbolista, intorno al 1910 si orientò decisamente verso questa seconda via, innestata però su una base naturalista. Furono anni di lenti, ma fedeli riconoscimenti critici per la sua pittura.
Nel frattempo Bucci si dedicò all'incisione e nel 1909 ne realizzò una serie dal titolo Paris qui bouge, stampata dall’importante editore parigino Devambez, una raccolta di vedute dall’alto di piazze, vie, mercati, contraddistinte da un segno dinamico e incisivo che rivelano l’attenzione di Bucci per quello che sarà un motivo ricorrente di tutta la sua pittura: la tranche de vie. Questo interesse lo portò a realizzare, in questi anni, alcune tra le sue più note vedute di folla in movimento.

Bucci ottenne notevoli apprezzamenti: nel 1907 espone al Salon des Arts Décoratifs, nel 1909 al Salon d'Automne, nel 1911 e nel 1913 al Salon des Indépendants. Di questo periodo è il grande Autunno, apprezzato e recensito da Apollinaire. Del 1910 è il affascinante Il Kimono.
Nel Mercato a Monza gli echi della pittura impressionista e post impressionista, evidenti nella costruzione dell’immagine e nella materia, sono fusi sapientemente con la forza del colore veneto, ammirato negli anni dell’adolescenza, e con l’intensità della luce assorbita durante i viaggi nel Mediterraneo. Le figure sono rese con tasselli di colore, pennellate veloci, compendiarie, che costruiscono il movimento e l’intera scena. Bucci ha la capacità di descrivere con pochi tocchi la vita brulicante restituendoci l’atmosfera vibrante del mercato. È lui stesso a utilizzare il termine vibrismo per descrivere l’essenza della vita moderna.
Fedele alla tradizione dei pittori francesi, nel 1912 - 1913 Bucci decise di spostarsi in giro per l’Europa e per il Mediterraneo, studiando nuove colorazioni e luminosità. Visita diversi luoghi compiendo in Sardegna, in Africa, nel Sud della Francia lunghi viaggi, di cui rimane traccia nella sua opera, da Inverno in riviera del 1912 e dalla serie di paesaggi di Cagnes, dipinti con particolare felicità cromatica durante un viaggio nel sud della Francia. Del 1913 sono Algeri e la coloratissima Bottega araba.

Nel 1914, allo scoppio della Grande Guerra, Bucci ventisettenne si arruolò volontario seguendo l'impeto patriottico dei suoi amici futuristi nel Battaglione lombardo Volontari Ciclisti e Automobilisti con Filippo Tommaso Marinetti, fondatore del Futurismo, assieme a Umberto Boccioni, Anselmo Bucci, Achille Funi, Antonio Sant'Elia, Luigi Russolo, Ugo Piatti, Carlo Erba, Mario Sironi, tutti vicini o protagonisti del movimento futurista (che voleva dire abbasso il passato evviva il dinamismo, la velocità, il progresso della modernità), salirono subito in sella per correre in bicicletta dietro al mondo che passava veloce sognando di bruciare i musei e di liberare di Trento e Trieste. Nel Dicembre dello stesso anno il Battaglione Lombardo fu sciolto e i volontari che lo componevano furono congedati dall'unità, ma alcuni di loro spinti dall'amor patrio e dalla scalmanata esuberanza giovanile, si arruolarono nell'esercito italiano regolare. Sparsi in giro per i principali fronti del nord, alcuni di loro pagarono con la vita (tra cui il grande Umberto Boccioni e il giovane architetto visionario Antonio Sant'Elia) altri furono gravemente feriti.

L’interesse per le scene di vita vissuta portò Bucci a diventare uno dei più prolifici ed acuti pittori di guerra. Di questo periodo e legati alla breve, ma straordinaria esperienza nel Battaglione lombardo, nel 1915, fra l'addestramento a Gallarate, l'ulteriore preparazione a Peschiera, e l'immissione in prima linea sull'Altissimo, sul lago di Garda, sono le cinquanta puntesecche dei quattro album di Croquis du Front italien, pubblicati a Parigi da D'Alignan, nel 1918 (tutte riferite all'esperienza nel Battaglione). Bucci inviò inoltre dal fronte numerosi schizzi, disegni, dipinti, come il Funerale dell’eroe del 1917 e Temporale del 1918, che ci restituiscono un’immagine della guerra senza retorica, in movimento anch’essa, per definizione.
Verso il 1919, terminata la guerra, Bucci cercò di fare la spola fra Milano e Parigi, non rinunciando mai a lunghi soggiorni nella capitale francese, in quel periodo particolarmente attiva e fervida di idee. Si dedicò pienamente alla sua attività di pittore, espose in molte rassegne artistiche italiane e francesi, mentre il suo nome e le sue opere cominciavano a circolare anche fuori della Francia: in Inghilterra, in Olanda e in Belgio.

Intorno al 1919-20 la sua ricerca maturò una svolta in chiave classica: pur senza abbandonare i contatti con Parigi, si avvicinò alla cerchia di Margherita Sarfatti. Nel frattempo tenne molte mostre che lo fecero conoscere e gli procurarono l'invito alla Biennale di Venezia del 1920. Del 1920 sono la vivace Via Manzoni di Milano ed il dipinto In volo esposto da Bucci alla Biennale del 1920, rappresenta l’esito più alto delle capacità dell’artista. Lo stesso autore in una lettera del 1954 scrisse: «Ho venduto il mio ‘Volo’ a Venezia 20.000 lire nel 1920, vale a dire quattro milioni di adesso! Ne era geloso perfino Gola, è tutto dire!».
Nel 1922, Bucci con Sironi, Funi, Dudreville, Malerba, Marussig, Oppi, fu tra i fondatori del famigerato gruppo di Novecento, il movimento più importante dell’Italia degli Anni Venti, senza astrazioni metafisiche e senza rigidezze arcaiche alla Valori Plastici, movimenti per i quali la Sarfatti non nutriva alcuna simpatia, e a lui si deve l’individuazione del nome Novecento per indicare il gruppo di artisti che, come lui, erano riuniti intorno a Margherita Sarfatti e Lino Pesaro. Margherita Sarfatti scrisse di lui definendolo uno dei più «brillanti improvvisatori della linea spezzata e della tavolozza impressionistica».

Novecento nacque a Milano ed a Milano ebbe la sua massima diffusione: quegli anni milanesi della prima metà degli anni Venti furono i soli in cui si mise in evidenza la poetica del movimento, che voleva dire ritorno all’ordine e ritorno, soprattutto, alla classicità, una classicità che doveva essere moderna, sia nello stile sia nei soggetti. L’intento programmatico era quello di ritornare alla figura alla riconoscibilità del soggetto distaccandosi dagli estremismi avanguardie nascenti, sempre più lontane dalla classicità.
I valori umani, diceva la Sarfatti, sono centrali, perché la classicità coincideva con la ritrovata centralità dell’uomo nell’opera. Dunque, questa pittura mirava ad una moderna classicità, che voleva dire un ripensamento dei grandi maestri antichi filtrato da un nuovo senso di essenzialità, in sintonia con quanto stava avvenendo nel Ritorno all’Ordine in Europa. Tutto avveniva in quel lontano 1923 nell’elegante galleria di Lino Pesaro in Via Manzoni a Milano, dove c’è oggi il Museo Poldi Pezzoli.
A Milano fu presentato il gruppo, a Milano fu esposta la mostra che è passata poi alla storia. Erano sette. Li sosteneva Margherita Sarfatti e la mostra iniziale fu inaugurata dal Presidente del Consiglio Cavalier Benito Mussolini. Il gruppo nel 1924 si presentò alla Biennale di Venezia, poi si sciolse, quindi fu rifondato nel 1925. Agli inizi degli anni Trenta il movimento fu travolto dalle polemiche sia esterne, vale a dire dai movimenti neo romantici e antinovecentisti come la Scuola Romana, i Sei di Torino e i Chiaristi, sia interne con il ritorno alla pittura murale sostenuto da Sironi. Tornare all’affresco non significava solo cambiare tecnica, ma scardinare anche il sistema classico dell’arte che si basava sul quadro, sul circuito delle mostre e del mercato.
Con il 1931 – 1932 terminò la stagione delle grandi mostre internazionali del gruppo per dare inizio poi dal secondo dopoguerra a un interminabile silenzio che coincise con il rapportare il gruppo al Fascismo, e a indicare quell’arte come arte di regime.
Giova ricordare oggi quanta insufficienza storiografica abbia portato gli storici a seguito della damnatio memoriae a tralasciare in toto un periodo ed un movimento solo da qualche tempo riscoperto.
Nonostante Bucci sia stato un elemento fondamentale della fondazione del gruppo, mantenne con esso un rapporto molto critico, tanto da non presentarsi all’inaugurazione della prima mostra, curata dalla Sarfatti alla galleria di Lino Pesaro, inaugurata alla presenza di Mussolini.

La grande pala I pittori di Anselmo Bucci, una tela compiuta tra il 1921 e il 1924, esposto alla Biennale di Venezia del 1924, che doveva rappresentare il suo pensiero sull'arte antitetico ai movimenti d'avanguardia, tante volte espresso negli scritti di allora e degli anni successivi. Il sogno della metropoli, come simbolo della modernità più eccitante, che aveva animato le ricerche dei nostri futuristi, da Boccioni a Severini, da Carrà a Soffici, nelle loro evasioni parigine, era per Bucci una tentazione pittoresca e disordinata, tipica dell'anarchismo della giovinezza.
Nel 1925 sempre in questa data Bucci si fece apprezzare per le otto tavole a puntasecca che realizza e che fanno da illustrazione per la prima edizione italiana del Libro della giungla di Rudyard Kipling.
Nel 1926 partecipò alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente di Milano, e sembrò subito evidente che le carte si erano completamente rimescolate, perché la Sarfatti raccoglieva tutti gli artisti più significativi del momento, allargando le spire del suo controllo anche su ex futuristi, ex metafisici, ex valori plastici, coinvolgendo anche outsider come Ottone Rosai e Felice Casorati.  Per questo gradualmente, Bucci tese a distaccarsi dal gruppo, per affiancare all'attività di artista quella di giornalista e di scrittore e negli anni trenta tornò ad impostare la sua ricerca su un naturalismo dai delicati cromatismi. Fu questo il momento del distacco per Bucci, che negli anni trenta riprese la sua ricerca su un naturalismo lirico, di cui massimo esempio è Quercia del 1932. «Non ho mai cercato di mentire in uno stile – scrisse Bucci a proposito di questo distacco –, ma di dire la verità in lingua corrente».
«Bucci non appartenne a Novecento perché non appartenne a nulla e a nessuno – scrive di lui Paolo Biscottino –, restando sempre quell'indipendente, come scrisse Carlo Bo, che a diciannove anni era impaziente di respirare l'aria di Parigi. E se a quell'età non vi è ragazzo che non nutra un analogo desiderio, in lui dice anche una propensione al viaggio, nel senso ancora romantico del termine, che non lo lascerà mai, come mai lo lascerà del tutto la memoria della pittura di matrice impressionista, dai colori accesi e dalla vibratile qualità atmosferica, e della vita bohemienne, che invano ricercherà in seguito, quando le guerre, l'età e i disinganni renderanno amare le sue meditazioni, ma non la sua pittura, fino all'ultimo energica, fantasiosa e libera».
Dal 1928 al 1942, Bucci espose a tutte le Biennali di Venezia e alle mostre sociali della Permanente. Nel 1929 espose con Aldo Carpi alla Galleria Pesaro. Nel 1930 vinse il premio Viareggio con il volume Il pittore volante. Il suo carattere poliedrico lo portò a dedicarsi anche alla collaborazione con dipinti, progetti di arredo e decorazioni all'allestimento dei grandi piroscafi italiani degli anni Trenta, pur continuando a prendere parte a mostre internazionali e, sempre negli anni trenta, tornò ad impostare la sua ricerca su un naturalismo dai delicati cromatismi, verso quel vero aureolato di poesia, come amava definire.
Alla metà degli anni Trenta Bucci entrò in rapporto con la Quadreria Cesarini di Fossombrone. Espose alla rassegna delle opere offerte dal senatore Borletti al Leu de Piume. Del 1932 sono la Quercia, esempio del cromatismo lirico degli anni trenta. Il sensualissimo Riposo della bibliotecaria, e al davvero solare Ritratto della Signora Gizi Braun. Nel 1936 alla XX Biennale vinse il Premio Fradeletto. Del 1938 è l'affresco a Palazzo di giustizia di Milano.
Nel 1940, con Orio Vergani, Bucci seguì il Giro dominato da Fausto Coppi. Durante il secondo conflitto fu pittore di guerra che illustrò in dipinti, disegni e litografie nel 1940-41. Nel 1942 a Milano pubblicò Marinai e il Libro della Bigia. Nel 1943 i bombardamenti su Milano gli distrussero lo studio di largo Augusto e l'artista si trasferì nella casa paterna di Monza dove rimase fino alla morte, diventando una delle figure culturali di riferimento. Nel 1945 fondò la Federazione degli artisti indipendenti con Natalia Mola, Antonio Arosio e Nicolò Segota.
Bucci espose ancora alle Biennali del 1948 e 1950, ma i suoi ultimi anni furono segnati da un progressivo isolamento: la sua vecchiaia non fu serena, si avviluppò nell'amarezza, in una sorta di mania di persecuzione, che lo portò a rinchiudersi nelle poche stanze del palazzo avito di piazza Garibaldi a Monza dove morì nel 1955.
 Fossombrone, sua città natale, ne conserva un consistente corpus di dipinti di varie fasi e maniere pittoriche nella Quadreria Cesarini.
Dopo una mostra organizzata immediatamente dopo la sua morte all'Angelicum di Milano, dopo la retrospettiva alla Biennale del 1956 e dopo le retrospettive all'Arengario di Monza con presentazione di U. Nebbia nel 1957, nessuno ha più pensato di dedicargli un'esposizione organica e di grande respiro che passasse in rassegna tutto il suo lavoro, traendone il meglio.

Lo merita anche la sua coerenza che, nell’ultimo decennio della sua vita, tempo di avanguardie e di critici militanti e discriminanti, pagò duramente con l'esclusione dal giro delle gallerie che contavano, con i mancati inviti, con un sostanziale oblio.
Massimo Capuozzo

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