Il romanzo moderno non si è formato
nel quadro di una specifica letteratura nazionale, ma si è sviluppato con
caratteristiche simili e problematiche corrispondenti nelle varie aree
geografico-culturali dell'Europa.
Ne possono pertanto essere
considerati rappresentanti scrittori di varia origine come Marcel Proust, James
Joyce, Franz Kafka, Robert Musil, Joseph Roth, Thomas Mann, Italo Svevo, Luigi
Pirandello nelle cui opere si riflette la crisi storico-scientifica-culturale
dell'epoca.
Possiamo infatti constatare
una stretta corrispondenza fra
i contenuti e le forme di questo genere letterario e la situazione
storico-politico-sociale-economica venutasi a configurare tra le due guerre.
La prima guerra mondiale influì particolarmente
sulla produzione letteraria, sia descritta come evento temuto ed incombente (ad
esempio ne ‘La marcia di Radetzky’ di
Roth o ne ‘La montagna incantata’ di
Mann), sia come fatto in divenire o
già avvenuto (nella ‘Recherche’ di
Proust o nella ‘Coscienza di Zeno’ di
Svevo). Questa guerra infatti si differenziava da quelle precedenti sia perché
fu «mondiale» sia perché si rivelò molto più distruttiva e inumana delle altre
a causa dei nuovi mezzi bellici dovuti al progresso della scienza e della
tecnica (ad esempio i gas velenosi, gli aerei ed i bombardamenti).
Il progresso della tecnica influì
sulla crisi del romanzo come genere anche al di fuori dell'ambito della guerra:
la diffusione del giornale, con la sua possibilità di portare notizie attuali,
e l'invenzione del cinema muto con la maggiore immediatezza di comunicazione
delle immagini contribuirono infatti a far diminuire il numero dei lettori.
Di fronte alle nuove problematiche
si rivelano ormai inadeguate le forme convenzionali dei vari sistemi letterari
ed artistici, quindi anche quelle del romanzo.
Alcuni caratteri comuni a questo tipo di narrativa sono:
1) Un primo elemento distintivo del romanzo moderno è costituito dall'abolizione della narrazione intesa nella
maniera tradizionale: cadono cioè il racconto di avvenimenti concreti,
la loro successione cronologica ed i nessi causali, quindi la coerenza della
storia; la vita appare ormai illogica e casuale, quindi irraccontabile. La
perdita della narrazione è ricompensata tramite la capacità che ha il romanzo
di penetrare spiritualmente la sua materia.
2) Ovvia conseguenza delle osservazioni precedenti è il radicale cambiamento del rapporto fra interiorità ed
esteriorità: nel romanzo tradizionale fra questi due mondi vi era un
rapporto di relazione che prendeva le mosse da un'iniziale frattura o contrasto
fra il protagonista e la realtà esterna, per arrivare, attraverso la
maturazione o la lotta, ad un diverso stadio finale di miglioramento.
Ad esempio, nel «romanzo di
formazione» il protagonista, mediante un lento processo evolutivo, arriva a
conciliare le sue aspirazioni con i valori della realtà oggettiva in cui si
trova a vivere. Così nel romanzo romantico lo scontro tra ideale e reale
diviene drammatico e spesso si risolve con la sconfitta dell'eroe, che però ha
pur sempre lottato per modificare la realtà, come nel caso di Jacopo Ortis di
Ugo Foscolo. Ora invece il dualismo tra questi due mondi diviene esasperato
fino ad eliminare ogni contatto fra di loro: il personaggio si limita a
registrare la realtà o a prenderne coscienza, la svalorizza e, ormai convinto
di non poter intervenire a modificarla, si ripiega esclusivamente sulla propria
interiorità.
Anche nel romanzo ottocentesco si
verificava questo processo di ripiegamento, che però portava a un potenziamento
dello spirito e all'esaltazione dell'individuo; oggi invece il mondo interiore si svuota e si banalizza,
e l'individuo si annulla. Si assiste quindi ad un procedimento diverso da
quello dell'epopea che presupponeva una comunità nella quale l'individuo si
realizzava: nel romanzo moderno la collettività è
invece vista come una massa nella
quale l'individuo scompare.
L'interiorità inoltre
è ora osservata nei suoi aspetti banali e quotidiani, con lo stesso metodo con
cui i naturalisti osservavano e descrivevano il «milieu», cioè l'ambiente
esterno: in modo cioè analitico e particolareggiato, frantumandola nei suoi
diversi aspetti.
3) I mezzi tecnici più adeguati per esprimere questa frantumazione della
realtà interiore sono il monologo
interiore ed il suo derivato, il flusso di coscienza (stream
of consciousness), entrambi privi di una successione logica di pensieri
e di nessi sintattici.
4) Il narratore, pur
restando in posizione extradiegetica, non è più onnisciente: se si mette in primo piano, lo fa per
evidenziare i suoi dubbi, le sue problematiche, in una visione personale e
limitata della realtà; se invece si tira in disparte, lascia che gli eventi si
verifichino limitandosi a registrarli senza commentarli.
5) Come il narratore, anche il
personaggio va verso la
dissoluzione: non vengono più descritti caratteri coerenti ed
individualizzati come nel romanzo tradizionale, ma uomini comuni, «senza
qualità», e dalla personalità indefinita e continuamente mutevole.
6) Altra caratteristica è il tema della malattia, continuamente presente nella finzione
letteraria quale metafora della dissoluzione del personaggio. Questo motivo è
apparso spesso con valore simbolico nella produzione artistica fin dal '400.
Nell'800 poi la malattia, ed in modo particolare la tubercolosi, era
considerata sì un flagello, ma anche l'equivalente della passione amorosa
(vedi La signora dalle
camelie e La traviata);
inoltre la malattia diventava una giustificazione al desiderio dell'artista
romantico di sottrarsi agli obblighi di lavoro della vita borghese, e dedicarsi
così alla propria arte e all'affinamento dello spirito.
Nella seconda metà dell'800, col
diffondersi del positivismo, si inizia a rappresentare la malattia in maniera
scientifica e clinica, come avviene nella descrizione degli effetti
dell'avvelenamento di Madame Bovary. Ricordiamo inoltre che i naturalisti, in
base al principio dell'ereditarietà, videro delle malattie soprattutto gli
effetti sociali come in Zola.
Nel 900 è la nevrosi che è assunta a
simbolo della disgregazione interiore dell’intellettuale. Spingono a questa
funzione metaforica della malattia vari motivi, come la scoperta e la
diffusione della psicanalisi ed il fatto che molti intellettuali sono essi
stessi malati. È questo un tema ricorrente nelle opere di Proust, Mann, Musil,
Kafka, Svevo, Pirandello, ecc.
7) In questa prospettiva anche il ‘tempo’, che gioca un ruolo fondamentale, subisce
notevoli trasformazioni. Nel romanzo tradizionale esso era visto
oggettivamente, scandiva il ritmo delle azioni, la sequenza degli avvenimenti,
stabiliva i nessi causali, comportava modifiche nei personaggi e nei fatti.
Nel romanzo del '900 ‘il tempo è interiorizzato’, non c'è
evoluzione nell'azione, ma stasi; non è più quindi il tempo meccanico degli
orologi o dei calendari a interessare l'autore, ma quello soggettivo, vissuto
individualmente, messo in primo piano dalla filosofia di Henri Bergson. Il
tempo quindi non è più quantificato rispetto al suo scorrere oggettivo, ma
rispetto alla «durata» che ha nella coscienza del singolo, al quale un'ora può
anche sembrare un anno o viceversa. Così cade il rapporto di proporzione
fra ‘il tempo narrativo’ (quello
che si impiega per leggere il libro e che è richiesto dalla voluminosità del
testo) ed ‘il tempo narrato’ (l'ambito
temporale cioè in cui si svolge la vicenda): ad esempio l' ‘Ulisse’ narra i pensieri di una sola
giornata in 694 pagine!
8) Conseguenza del tempo vissuto soggettivamente è un altro aspetto
tipico del romanzo moderno: ‘la
simultaneità’, cioè la registrazione contemporanea di tutti i contenuti
della coscienza, simultaneità che si sostituisce alla successione degli
avvenimenti che caratterizzava il romanzo tradizionale. Sotto questo aspetto il
tempo soggettivo del romanzo moderno è inteso in modo diverso dalla durata
bergsoniana: questa consiste in un fluire ininterrotto, quello nell'affiancare
l'uno all'altro momenti di tempo svincolati dalla successione cronologica: ad
esempio i ricordi di Proust o il flusso di coscienza di Joyce.
L'annullamento del tempo meccanico
si riflette anche sulla ‘struttura
sintattica della frase’, che si frantuma nella esposizione “disordinata”
dei momenti della coscienza, o si estende in misura esasperata per seguire il
labirintico svolgersi dei pensieri. La disgregazione quindi della sintassi e
dei modi di rappresentazione del romanzo moderno riflette il rapporto conflittuale
dell'intellettuale con la realtà e la visione caotica, disgregata e
incomprensibile che egli ha del mondo esterno.
La vita attuale è inquinata alle radici
Da
La
coscienza di Zeno[1]
di Italo Svevo
·
La vita
attuale è inquinata alle radici è una pagina giustamente famosa,
una delle più interessanti della
letteratura italiana del Novecento, densa di intuizioni che
lasciano sbalordito il lettore, perché vi si trovano anticipati di decenni, i
più drammatici problemi contemporanei: la questione ambientale, quella
demografica, la situazione nucleare venutasi a creare con l'invenzione della
bomba atomica.
·
Il messaggio del
romanzo termina con l'affermazione del protagonista-narratore di aver
finalmente conquistato la “salute” e insieme con la previsione catastrofica
dell'estinzione dell'umanità a causa della follia dell'umanità
stessa.
·
Al lieto
fine della vicenda individuale fa da contrappeso la previsione della
conclusione infausta della vicenda collettiva. Ma, a un minimo di
riflessione, appare evidente che il successo di Zeno è dovuto alla violenza che
egli esercita sugli altri ( la speculazione di guerra, che affama i più deboli,
è una violenza tra le più ripugnanti); il successo individuale dell'eroe del
romanzo si pone quindi sulla linea che inevitabilmente porta alla catastrofe
dell'umanità. Lo psicoanalista che ha in cura Zeno, comunque, non crede
nella sua guarigione, e il lettore una volta tanto può essere d'accordo con
lui, ma per motivi diversi dai suoi, e che hanno a che fare con la psicoanalisi,
e non solo con essa.
·
A parte ogni
considerazione sullo spirito profetico della pagina conclusiva del romanzo,
pure impressionante per molti versi, ora importa notare le conclusioni cui
perviene il narratore. Nella pagina che immediatamente precede questa, Zeno
afferma di essere guarito e che a guarirlo è stato il commercio,
e cioè la decisione di comperare, proprio durante la guerra,
qualunque cosa fosse in vendita. II successo commerciale gli ha dato la fiducia
e la convinzione della salute che prima gli mancava («Nel momento in cui
incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e
della mia salute»). Ma per l'appunto si tratta di una mera convinzione
(soggettiva e illusoria, come soggettiva e illusoria era la convinzione della
salute di Augusta), e Zeno ormai ne è conscio: «Da lungo tempo io
sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione
e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico [che
nel sogno si rende conto di sognare] di volerla curare anziché
persuadere». È la vita stessa ad essere "malattia". La
malattia di Zeno s'identifica con la malattia della civiltà.
In questa univocità, sta in definitiva la forza del romanzo al
momento della sua conclusione. Guarire significa adeguarsi a una
società che è radicalmente malata, tanto da trasformare la tragedia della
guerra, lo sterminio di milioni di uomini in un'occasione di arricchimento per
pochi (e cinici) privilegiati.
·
Le riflessioni
conclusive del protagonista vertono appunto sul tema della malattia
universale: La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi
e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle
altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. In gioco non c'è
più il destino privato di un personaggio singolare e bizzarro, né la
discussione sulle capacità terapeutiche della psicoanalisi, ma il destino della
specie umana.
·
La vita, certo, «non è né bella né brutta: è originale», come dice Zeno; ma la
civiltà attuale, basata come non mai in passato sul possesso degli «ordigni»,cioè la civiltà dei
capitali e delle Borse e degli immensi eserciti e della guerra totale e degli
stermini di massa, ha imboccato un corso che è in controtendenza rispetto a
quello della «natura»,
intesa darwinianamente come luogo della lotta per la sopravvivenza
del più forte ma anche, rousseauianamente, come luogo dell'autenticità.
·
Secondo il ragionamento
di Svevo ‑ e non c'è ragione in questo caso di distinguerlo dal suo
personaggio ‑ la teoria della selezione naturale di Darwin è valida per tutte
le specie viventi, ma non è applicabile, come pur volevano positivisti e
naturalisti, a quella umana; la particolare condizione della specie umana è determinata
proprio dall'abbandono della
legge che fu su tutta la terra la creatrice. Grazie alla sua evoluzione scientifica e
tecnologica (gli ordigni), l’«occhialuto» uomo
si è liberato dalla dipendenza dalla natura ed è ormai in grado di piegarla e
utilizzarla per i suoi scopi, molto spesso tutt’altro che nobili. Può
avvenire di peggio. Il triste e attivo
animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre
forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà
una grande ricchezza... nel numero degli uomini. “Ogni metro quadrato sarà occupato da un
uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e spazio? Solamente al
pensarci soffoco!”.
·
Le pulsioni aggressive, la volontà
di dominio e prevaricazione,
che l'uomo condivide a livello di istinti con gli altri esseri
viventi, non sono più proporzionate ai limiti naturali imposti dalla sua
conformazione fisica: l'ordigno
non ha più alcuna relazione con l'arto. La malattia è
per Svevo un prodotto necessario di questa sproporzione: l'uomo, sempre più ,furbo e più debole, può moltiplicare, gli
effetti distruttivi della sua aggressività istintiva, ma non può controllare
quegli stessi istinti.
·
Ciò non può che
portare a una società fondata sulla menzogna. Il linguaggio stesso in
cui l'uomo attuale si esprime è doppio, perché è doppia la realtà alla quale
esso si riferisce, e della quale il romanzo ci fornisce continui esempi. La
vicenda del «malato» Zeno, che converte la sua malattia
in strumento per il successo è bifronte sotto l'aspetto dei valori
che in essa vengono a contrasto: il suo segno è positivo-negativo. Augusta, per
esempio, è la migliore e la più amorevole e insieme la più stupidamente
conformista e la più soffocante delle mogli; Zeno è il più fedele (perché
rispetta sempre il nido familiare, a differenza di Guido) e insieme il più
fedifrago e il più ipocrita dei mariti. La vittoria sugli altri ottenuta dal
protagonista del romanzo-vittoria che si realizza attraverso due tra
le modalità più tipiche della società fondata sul profitto, la
speculazione di Borsa e quella di guerra è emblematica di una civiltà
condannata alla disgregazione per la perdita dell'autenticità.
·
Solo gli animali, privi di
coscienza, e capaci di adeguarsi ai bisogni del presente possono godere di
una salute integrale. L'uomo ne ha forse goduto nel suo stato primitivo, ma il
progresso -e con esso la coscienza, la tecnica, la cultura, la
civiltà- lo ha sempre più allontanato da questa condizione.
Zeno sottolinea il confine incerto tra malattia e salute nelle
condizioni attuali, in cui la vita è inquinata alle radici, poiché l’uomo ha
violato le leggi della natura.
·
Ogni ipotesi di recupero di una
salute integrale (e cioè di sconfitta della nevrosi) deve pertanto
passare attraverso l'annullamento
dell'uomo e attraverso la distruzione della civiltà e della terra medesima.
“…Ci sarà un’esplosione enorme
che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli
priva di parassiti e di malattie.”. Forse solo in questo modo la salute
tornerà sul pianeta.
·
I toni così catastrofici - ma nella
sostanza azzeccatissimi - possono spiegarsi se guardiamo alla data
del romanzo: 1923. Da cinque anni, quindi, si è chiusa la prima guerra
mondiale, e non è illogico pensare che il pessimismo di Svevo si basi
sull'esperienza degli orrori di un conflitto che ha decimato intere generazioni
e ha rivelato nuovi volti della crudeltà dell'uomo sino ad
allora inesplorati.
·
Italo Svevo non sentì mai
parlare di bomba atomica.
Ma la sua acuta sensibilità lo fece diventare inconsapevole profeta di quella
che sarà la paura nei confronti del nucleare. Già ai suoi tempi
l’uomo aveva perso la fiducia nella tecnologia e, in un certo senso, si
aspettava che, prima o poi, proprio tramite essa, si
sarebbe autodistrutto a compimento della decadenza ormai inoltrata,
come acme della “malattia” diffusa che non risparmiava nessuno.
·
Il brano dell’ultima
pagina è da vedere, anzitutto, come approdo alla vocazione critica
di Svevo nei confronti della società borghese. Molti critici
insistono sul pessimismo profetico
e anticipatore di queste pagine (e alla luce di quello che successe
22 anni dopo la pubblicazione del romanzo, ovvero l’esplosione della prima
bomba atomica su Hiroshima, non ne hanno, certo, tutti i torti) e ne
prospettano una lettura in senso modernamente impegnato. Secondo
l’interpretazione di Pampaloni: “.. Soltanto la fine del mondo potrebbe liberarci
dalla malattia. L’uomo moderno, represso dalla inconsapevolezza del proprio stato, incapace
d’ironia, non può produrre che
catastrofi. Artifici, menzogne ed impotenza vanno di pari passo. L’unica
età dell’oro possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la precarietà
ed il condizionamento prepotente della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia
sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza.”
24
Marzo 1916
Dal
Maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla
Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora
annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli
anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e
della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche
queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua
edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma
al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho
le idee ben chiare.
Intanto
egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece
riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età
abbastanza innoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare
la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene
solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per
il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo
io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e
ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare
anziché persuadere. Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza
nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da
moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti.
Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una
malattia perché duole.
Ammetto
che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e
scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio
commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.
Attonito
e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto
dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo
perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un
commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato
articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di
qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io
ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna.
L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio
simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io
ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo
l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro,
ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così
dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di
tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti.
Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono
tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con
grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente
una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una
partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità
d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a
mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più
avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo
la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare
l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne
vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per
appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi
si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute.
Il
dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe
restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere
la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti
anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente
io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una
manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede
per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A
differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure.
Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle
ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La
vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e
delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire
di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio
servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne
seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato
sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio?
Solamente al pensarci soffoco!
Ma
non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque
sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia
che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la
rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori
dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne
la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo
corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo
piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà
mai leso la loro salute.
Ma
l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è
stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli
ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo
e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della
sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e
non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai,
l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la
malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La
legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che
psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di
ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse
traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla
salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli
altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo
incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti
saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui
come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo
e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto
potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la
terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di
malattie.
Mia moglie e il mio naso.
da
Uno
nessuno e centomila[2]
di Luigi Pirandello
–
Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti
allo specchio.
–
Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice.
Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia
moglie sorrise e disse:
–
Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi
voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
–
Mi pende? A me? Il naso?
E
mia moglie, placidamente:
–
Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo
ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello,
almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per
cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e
sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo
deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta
improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato
castigo.
Vide
forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse
subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne
levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
–
Che altro?
Eh,
altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti
circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente
dell’altra; e altri difetti...
–
Ancora?
Eh
sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la
destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo
un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora,
scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito
dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi
tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido
a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è
stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver
motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei
lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto
senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e
quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender
moglie per aver conto che li avevo difettosi.
–
Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti
del marito.
Ecco,
già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto
per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare,
in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano
giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che
di fuori ne paresse nulla.
–
Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.
No,
ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non
nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano
ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse
adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere
mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la
speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e,
pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non
già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre
m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a
ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare
attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri
potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me
intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un
mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero
rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi,
o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che
m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in
sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti
braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato
un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se
lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie
né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora,
ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella
riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso
corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le
mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò
da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di
spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o
impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che
doveva guarirmene.
Com’io volevo esser solo
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Io volevo esser solo in un modo affatto
insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e
appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di
pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego,
ma vi prego di credere che l’unico modo d’esser soli veramente è questo che vi
dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre
senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che
sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra
volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza
angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della
vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per
voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio
dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un
certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e
ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già
quest’uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di mettermelo
davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con lui, mi turbava tanto, con
un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo
creduto d’essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del
mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi;
all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio
naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a
cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei
sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
«E gli altri? Gli altri non sono mica dentro
di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti
hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non
vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me,
nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri?
gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il
mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se
quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si
metterebbero a ridere.» Cosí, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia:
che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita;
vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere
come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come
un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me
stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.
Potei averne la prova nell’impressione dalla
quale fui per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e
parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso
in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare piú
d’un attimo quell’impressione, ché subito seguí quel tale arresto e finí la
spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi
l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo
esser molto pallido.
Firbo mi domandò:
– Che hai?
– Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno
strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, pensavo:
«Era proprio la mia quell’immagine intravista
in un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando - vivendo - non mi penso?
Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non
già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non
ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in
un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli
altri, e io no.»
E mi fissai d’allora in poi in questo
proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi
sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava
me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non
potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e
conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo
questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me.
Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila
Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo
solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio
povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo
davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo
in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò,
cominciarono le mie incredibili pazzie.
Inseguimento dell’estraneo
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Dirò per ora di quelle piccole che cominciai
a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a
tutti gli specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto
da mia moglie, nell’attesa smaniosa ch’ella, uscendo per qualche visita o
compera, mi lasciasse solo finalmente per un buon pezzo.
Non volevo già come un commediante studiar le
mie mosse, compormi la faccia all’espressione dei varii sentimenti e moti
dell’animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti,
nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell’animo; per
un’improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le
sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la
bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un
profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie,
e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia
feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m’avesse schiaffeggiato, e
arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel
cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se
vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto
ch’io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso
erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine
variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per
tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per
una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una
sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse
erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri.
L’espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per
uno che l’avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo
disposto a riderne, e cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per
intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta
inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare
all’impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza
darmi pensiero degli altri.
L’idea che gli altri vedevano in me uno che
non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere
guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto
destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per
loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo
la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest’estraneo?
quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo?
come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli
altri e fuori intanto della mia?
Rientrando in città
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Guardatemi ora questi alberi che scortano di
qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia,
che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le
bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e
potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra,
facciamo crescere in mezzo alla città! Pare che chiedano, nel vedersi cosí
specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta
gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío della vita cittadina.
Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non
mostrano d’averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di
silenzio.
Siete mai stati nella piazzetta
dell’Olivella, fuori le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che
aria di sogno e d’abbandono, quella piazzetta, e che silenzio strano, quando
dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s’affaccia bambino,
azzurro azzurro, il riso della mattina!
Ebbene, ogni anno la terra, lì, nella sua
stupida materna ingenuità, cerca d’approfittare di quel silenzio. Forse crede
che lì non sia piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e
tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il
selciato, tanti fili d’erba. Nulla è piú fresco e tenero di quegli esili timidi
fili d’erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano piú
d’un mese. È città lì; e non è permesso ai fili d’erba di spuntare. Vengono
ogni anno quattro o cinque spazzini; s’accosciano in terra e con certi loro
ferruzzi li strappano via.
Io vidi l’altr’anno, lì, due uccellini che,
udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato,
volavano dalla siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e
scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati,
che cosa stéssero a fare quegli uomini là.
– E non lo vedete, uccellini? – io dissi
loro. – Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.
Scapparono via inorriditi quei due uccellini.
Beati loro che hanno le ali e possono
scappare!
Quant’altre bestie non possono, e sono prese
e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste
la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono?
Tirano il carro, tirano l’aratro. Ma forse anch’esse le bestie, le piante e
tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l’uomo non può
intendere, chiuso com’è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle
altre, e che la natura spesso, dal canto suo mostra di non riconoscere e
d’ignorare.
Ci vorrebbe un po’ piú d’intesa tra l’uomo e
la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le
nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l’uomo non si dà per
vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui
materia di ricostru 52zione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che
sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a modo suo la materia che
gli offre la natura ignara, forse, e, almeno quando vuole, paziente. Ma si
contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce
che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti
e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche se
stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite
in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E
voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a
cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma
la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per
voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in
quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per
ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.
Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa,
se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli
altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma
è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che
io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra
realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto
le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto.
E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti
e finché duri il cemento della nostra volontà.
E perché credete che vi si raccomandi tanto
la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella
vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e
addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra
illusione. Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi
forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare
incontro a queste ingrate sorprese.
Ma che belle costruzioni vengono fuori!
Quel caro Gengè.
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
– No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che
non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi
gusti, io, e come tu la pensi.
Quante volte non m’aveva detto cosí Dida mia
moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso. Ma sfido ch’ella
conosceva quel suo Gengè piú che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei!
E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?
Ma che! Per sopraffare uno, bisogna che
questo uno esista; e per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si
possa prendere per le spalle e strappare indietro per mettere un altro al suo
posto.
Dida mia moglie non m’aveva né sopraffatto né
sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una
sostituzione, se io, ribellandomi e armando comunque una volontà d’essere a mio
modo, mi fossi tolto dai piedi quel Suo Gengè.
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per
lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè
che ella s’era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i
miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio
di diventar subito un altro che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo
che ella non avrebbe piú potuto né comprendere né amare.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una
qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio
proprio e particolare, sia per non avere mai incontrato ostacoli che
suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti
agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire
anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a
disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione
mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere,
ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per
noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Ed ecco, intanto, che me n’era venuto! Non mi
conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato
come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri,
ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me
ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per
me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per
me stesso, ripeto, nessuna realtà.
Gengè, sí, l’aveva, per mia moglie Dida. Ma
non potevo in nessun modo consolarmene perché v’assicuro che difficilmente
potrebbe immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia
moglie Dida. E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti
per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non
le piacevano, perché non se l’era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo
gusto e il suo capriccio: no.
Ma a modo di chi allora?
Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non
riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che
ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva
perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo
suo, c’è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era
affatto la mia.
La vedevo piangere qualche volta per certe
amarezze ch’egli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:
-
Ma
perché, cara?
Mi rispondeva:
– Ah, me lo domandi? Ah, non ti basta quello
che m’hai detto or ora?
– Io?
– Tu, tu, sí!
– Ma quando mai? Che cosa?
Trasecolavo.
Era manifesto che il senso che io davo alle
mie parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali
parole di Gengè, era tutt’altro. Certe parole che, dette da me o da un altro,
non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in
bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore; e la facevano piangere,
sissignori.
Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava
col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava
al tutto ignoto. E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza
costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e che ella mi ripeteva.
– Ma come? – le domandavo.
– Io ho detto cosí? – Sí, Gengè mio, proprio
cosí!
Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze;
ma non erano sciocchezze: tutt’altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.
E io, ah come lo avrei schiaffeggiato,
bastonato, sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perché, non ostanti i dispiaceri
che le cagionava, le sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia
moglie Dida; rispondeva per lei, cosí com’era, all’ideale del buon marito, a cui
qualche lieve difetto si perdona in grazia di tant’altre buone qualità.
Se io non volevo che Dida mia moglie andasse
a cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.
In principio pensavo che forse i miei
sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei
gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li
travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero
capire, se non cosí ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel coricino di
lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità.
Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li
rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Cosí travisati,
cosí rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li
stimava sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva
cosí? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l’era foggiato,
non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti.
Sciocchino ma carino. Ah sí, tanto carino per lei! Lo amava cosí: carino
sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest’una:
la prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo
modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata,
cangiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa
nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand’ecco, una mattina, m’apparve
all’improvviso, in accappatoio, col pettine ancora in mano, acconciata al modo
antico e tutt’accesa in volto.
– Gengè! – mi gridò, spalancando l’uscio,
mostrandosi e rompendo in una risata. Io restai ammirato, quasi abbagliato.
– Oh, – esclamai, – finalmente!
Ma subito ella si cacciò le mani nei capelli,
ne trasse le forcinelle e disfece in un attimo la pettinatura.
– Va’ là! – mi disse.
– Ho voluto farti uno scherzo. So bene,
signorino, che non ti piaccio pettinata cosí!
Protestai, di scatto:
– Ma chi te l’ha detto, Dida mia? Io ti
giuro, anzi, che...
Mi tappò la bocca con la mano.
– Va’ là! – ripeté. – Tu me lo dici per farmi
piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come
piaccio meglio al mio Gengè? E scappò via.
Capite? Era certa certissima che al suo Gengè
piaceva meglio pettinata in quell’altro modo, e si pettinava in quell’altro
modo che non piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si
sacrificava. Vi par poco? Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una
donna? Tanto lo amava!
E io – ora che tutto alla fine mi s’era
chiarito – cominciai a divenire terribilmente geloso – non di me stesso, vi
prego di credere: voi avete voglia di ridere! – non di me stesso, signori, ma
di uno che non ero io, di un imbecille che s’era cacciato tra me e mia moglie;
non come un’ombra vana, no, – vi prego di credere – perché egli anzi rendeva me
ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia
moglie, su le mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In
quanto erano mie, propriamente mie le labbra ch’ella baciava? Aveva ella forse
tra le braccia il mio corpo? Ma in quanto realmente poteva esser mio, quel
corpo, in quanto realmente appartenere a me, se non ero io colui ch’ella
abbracciava e amava? Considerate bene. Non vi sentireste traditi da vostra
moglie con la piú raffinata delle perfidie, se poteste conoscere che ella,
stringendovi tra le braccia, assapora e si gode per mezzo del vostro corpo
l’amplesso d’un altro che lei ha in mente e nel cuore? Ebbene, in che era
diverso dal mio questo caso?
Il mio caso era anche peggiore!
Perché, in quello, vostra moglie – scusate –
nel vostro amplesso si finge soltanto l’amplesso d’un altro; mentre, nel mio
caso, mia moglie si stringeva tra le braccia la realtà di uno che non ero io!
Ed era tanto realtà quest’uno, che quando io alla fine, esasperato, lo volli
distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia moglie, che non
era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita,
come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi piú
amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via.
Sissignori, come vedrete, scappò via.
PREFAZIONE
Io
sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco
lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che
il paziente mi dedica.
Di
psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo
scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli
studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era
vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che
l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia
idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero
stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura
truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le
pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di
dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto
egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante
sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli
ha qui accumulate!...
DOTTOR
S
PREAMBOLO
Vedere
la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti
forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse
tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche
mia ora.
Il
dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose
recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della
notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab
ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo
lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato
di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Dopo
pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di
carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo.
Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è
la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo
compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga
perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge
ed offusca il passato.
Ieri
avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e
non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di
aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata,
perduta per sempre.
Mercé
la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini
bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una
locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture;
chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
Nel
dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può
arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino
in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo
sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto
vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto
grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo
neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di
ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando
arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita,
anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai
investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue
scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto
anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua
culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa.
Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi
sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi –
fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano
ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti
prepararono.
Eccomi
ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.
L’ultima sigaretta
da
La
Coscienza di Zeno di Italo Svevo
·
Il capitolo terzo
della ‘Coscienza di Zeno’ riguarda il vizio del fumo del
protagonista, una dipendenza sviluppata fin da ragazzino e sempre combattuta
senza successo.
·
Zeno ricorda la sua
prima sigaretta fumata da adolescente, inizialmente rubando i soldi al padre
poi, dopo essere stato scoperto, fumando i suoi sigari avanzati. A vent’anni
Zeno si accorge di odiare il fumo e si ammala, ma, nonostante la malattia
decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si evidenzia per la
prima volta la vera malattia psicoanalitica del protagonista.
Inizialmente il fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il
padre - i cui rapporti saranno sviscerati nel capitolo ‘La morte di
mio padre’ – poi si allarga a forma di difesa verso la realtà circostante
e il mondo intero. In tal senso, ogni tentativo di smettere di fumare non
è che uno stimolo ulteriore al desiderio, tanto più se il complimento per la
propria perseveranza viene da una figura come quella del padre: « Mi colse
un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma
prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii
subito liberato dall’inquietudine [...] Finii tutta la sigaretta con
l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne
fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro
in bocca dicendomi: Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei
guarito! Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse
presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.»
·
Da qui nascono
i continui e vani tentativi di smettere di fumare, perché, come ammette
Zeno, “quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di
liberarmi dal primo”.
·
Le giornate di Zeno
finiscono "coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare
più”. La vicenda del fumo viene affrontata sempre con una prospettiva
ironica e demistificante, raggiungendo i migliori esiti nel momento in cui
viene presentata la sigla "u.s. (ultima sigaretta)". Questa sigla e
la data vengono apposte su libri, diari, agende, muri e qualsiasi cosa passi
sotto mano al protagonista: « Una volta, allorché da studente cambiai di
alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le
avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa
era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile
di formarne in quel luogo degli altri.»
Mi
colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai
più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi
sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse
e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state
toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con
cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre
durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca
dicendomi:
-
Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava
questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per
permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo
ad allontanarsi prima.
Quella
malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal
primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi
di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali.
La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno
violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior
indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi
dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
Sul
frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella
scrittura e qualche ornato:
"Oggi,
2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima
sigaretta!!".
Era
un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che
l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto
lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in
un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di
attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per
sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai
alla legge.
Pur
troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui
trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi
rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi
migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero
dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità
manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso
che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato
tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità?
Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che
m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo
comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo
tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa
convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me,
passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa
significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal
Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una
volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie
spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente
lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei
buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli
altri.
Penso
che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre
hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore
dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro
di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si
protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un
po’ più lontano.
Le
date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche
ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata
espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato
al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza
delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare
per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: "Nono giorno del
nono mese del 1899". Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò
delle date ben altrimenti musicali: "Primo giorno del primo mese del
1901". Ancor oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei
iniziare una nuova vita.
Ma
nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse
potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse
un imperativo supremamente categorico, la seguente: "Terzo giorno del
sesto mese del 1912 ore 24". Suona come se ogni cifra raddoppiasse la
posta.
L’anno
1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per
accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data
per dare rilievo ad un’ultima sigaretta.
Molte
date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro
deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un
suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente.
Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio
figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito.
Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e
tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per
diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla
malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento:
"mai più!". Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa?
L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il
proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non
s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
La
malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei
miei vent’anni non ricorderei gran cosa se non l’avessi allora descritta ad un
medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che
non arrivarono a scotere l’aria.
Il funerale di mio padre
·
È questo uno degli
episodi più famosi della Coscienza, e quello in cui è più immediatamente
visibile l’influenza delle teorie di Freud. Anche il dottor Weiss, che pure
aveva frustrato l’ambizione di Svevo di aver scritto un romanzo psicanalitico,
concedeva che questo episodio avesse qualcosa a che fare con la psicanalisi. Lo
sbaglio di funerale compiuto da Zeno, che lo porta a non assistere agli estremi
onori tributati al cognato suicida, è un esempio emblematico di “atto mancato”,
che ben avrebbe potuto figurare nella Psicopatologia della vita quotidiana
dello stesso Freud. Zeno non assiste al funerale del cognato perché in realtà
non vuole, dato che non ha affatto amicizia per Guido, ma lo odia, e al suo
odio dà libero sfogo con quest’ultimo atto di disprezzo. Si può osservare
semmai che l’inconscio di Zeno, per realizzare il proprio obiettivo, non segue
vie tanto nascoste: al contrario, la comicità che caratterizza l’episodio nasce
proprio dalla divergenza esplicita tra l’obiettivo palese e quello nascosto. La
narrazione non presenta punti d’ombra, ma ha l‘evidenza allucinata e
l’andamento incalzante di una sequenza surreale.
·
Guido, col denaro
mandatogli dall’Argentina dal padre, ha fondato una società commerciale, la cui
attività si rivela presto in perdita. Zeno, che gli fa gratuitamente da
contabile, non si accorge di alcuni gravi errori che egli compie nella
conduzione dell’azienda. Con un tentativo di suicidio, Guido ricatta la moglie
per farsi prestare una grossa somma, con la quale possa far figurare che il
bilancio dell’azienda è in pareggio. Poi, per rifarsi rapidamente del denaro
perduto, sotto l’influenza di un agente di cambio, il Nilini, comincia a
giocare in Borsa. Dopo qualche vincita iniziale, perde rovinosamente. Si
rivolge di nuovo alla moglie per chiederle un prestito e questa glielo nega.
Guido ricorre ancora al ricatto del suicidio, ma non mette nel conto
l’imprevedibilità di alcune circostanze. Un forte temporale e una serie di
equivoci, alla base dei quali sta il fatto che la moglie non crede più alla
serietà delle sue minacce, fanno sì che i soccorsi arrivino quando Guido è già
morto. Approfittando del fatto che del suicidio del cognato ancora non si ha
notizia in Borsa, Zeno gioca per suo conto e vince, ripianando i debiti e
ricostituendo un attivo, corrispondente alla metà del capitale iniziale di
Guido.
Così
s’iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in
tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e
giù l’ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti. Io
temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome
non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni
non si attribuì quella morte a suicidio.
Poi,
quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati
eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al
momento di ricevere gli stabiliti[3], fui informato che su
tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo
quell’agitazione come un vero e proprio lavoro. Ho la curiosa sensazione nel
mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso
al tavolo da giuoco succhiellando le carte[4]. Io non conosco nessuno
che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile. Ogni movimento di
prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto
innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva[5]. Persino le mie notti
furono insonni.
Temendo
che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l’opera di
salvataggio cui m’ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà
del mese quando giunse. Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di
quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione.
Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato
stabilito a suo tempo, perché la fortuna m’aveva subito assecondato. Era tale
il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo
compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l’esposizione
del mio danaro. Fin qui m’accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo
tempo prima accanto a lui[6]. Soffersi tanto di
quell’agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio.
Ma
a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col
non intervenire al funerale di Guido[7]. La cosa avvenne così.
Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto.
Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo
ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora
solamente dimezzato[8]!
Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. Avveniva proprio quello che
il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensì ma che ora,
naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava
quale un sicuro profeta. Secondo me egli aveva previsto questo e anche il
contrario. Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva
ch’egli restasse nell’affare con la sua ambizione. Anche il suo desiderio
poteva influire sui prezzi.
Partimmo
dall’ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale
doveva aver luogo alle due e tre quarti.
All’altezza
dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di
riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col
Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il
funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare.
Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo
dell’andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla
Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio
con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto
mio.
–
Per il momento – dissi io, e non so perché arrossissi[9], – io non lavoro che per
conto del mio povero amico.
Quindi,
dopo una lieve esitazione, aggiunsi:
–
Poi penserò a me stesso. – Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al
giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico. Ma fra me e me
formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano
tua!» Egli si mise a predicare.
–
Chissà se si può cogliere un’altra simile occasione! – Dimenticava d’avermi
insegnato che alla Borsa v’era l’occasione ad ogni ora.
Quando
si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la
testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a
procedere dietro al funerale[10] che s’avviava al cimitero
greco.
–
Il signor Guido era greco? – domandò sorpreso. Infatti il funerale passava
oltre al cimitero cattolico e s’avviava a qualche altro cimitero, giudaico,
greco, protestante o serbo.
–
Può essere che sia stato protestante! – dissi io dapprima, ma subito mi
ricordai d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
–
Dev’essere un errore! – esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo
fuori di posto.
Il
Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò
privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella
piccola faccia.
–
Ci siamo sbagliati! – esclamò. Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua
ilarità, mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché
io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!
Irritato,
io non avevo riso con lui ed ora m’era difficile di sopportare i suoi
rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore
solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura
per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l’entrata del cimitero cattolico.
La vettura ci seguì. M’accorsi che i superstiti dell’altro defunto ci
guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a
quell’estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello.
Il
Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazione:
–
Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?
Il
portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica[11]. Rispose che non lo
sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell’ultima mezz’ora due
funerali.
Perplessi
ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse
già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso
d’intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla. Dunque non sarei
entrato in cimitero[12]. Ma d’altronde non potevo
rischiare d’imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere
all’interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre
Servola. Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di
presenza per riguardo ad Ada ch’egli conosceva.
Con
passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna
che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi
sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non
potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva:
dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio
della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch’ero riuscito di
ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto
fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e,
dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era
perciò esatto. Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa
certamente m’avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale[13].
Quel
giorno il tempo s’era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile
e, sulla campagna ancora bagnata, l’aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel
movimento che non m’ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto
salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al
povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta
nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me. Anche
la campagna dall’erba giovine. L’estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe
dell’altro giorno[14], dava ora soli benefici
effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata.
Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più
discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo[15]. Ma questa era la
previsione dell’esperienza ed io non la ricordai; m’afferra solo ora che
scrivo. In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di
tutta la natura; salute perenne.
Il
mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo
dalla collina di Servola s’affrettò fin qui quasi alla corsa. Giunto al
passeggio di Sant’Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il
senso di una grande facilità. L’aria mi portava.
Avevo
perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico.
Avevo
il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un
omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
Andai
all’ufficio a vedere i corsi di chiusa. Erano un po’ più deboli, ma non fu
questo che mi tolse la fiducia. Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo
che sarei arrivato allo scopo[16].
Dovetti
finalmente recarmi alla casa di Ada. Venne ad aprirmi Augusta. Mi domandò
subito:
–
Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l’unico uomo nella nostra famiglia[17]?
Deposi
l’ombrello e il cappello, e un po’ perplesso le dissi che avrei voluto parlare
subito anche con Ada per non dover ripetermi. Intanto potevo assicurarla che
avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale. Non ne ero più tanto
sicuro e improvvisamente il mio fianco s’era fatto dolente forse per la
stanchezza[18].
Doveva essere quell’osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della
possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo;
vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano
dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.
Ada non venne. Poi seppi
che non era stata neppure avvisata ch’io l’attendessi. Fui ricevuto dalla
signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le
avevo mai visto. Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con
cui ero volato dal cimitero in città. Balbettavo. Le raccontai anche qualche
cosa di meno vero in appendice della verità, ch’era la mia coraggiosa
iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell’ora del
funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che
non m’ero sentito di allontanarmi dall’ufficio prima di aver ricevuta la
risposta. Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma
due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta.
Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors’anche perché non
potevo dirla tutta e raccontare dell’operazione tanto importante cui io da
giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali. Ma la
signora Malfenti mi scusò quando sentì la cifra cui ora ammontava la perdita di
Guido. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi. Ero di nuovo non l’unico uomo
della famiglia, ma il migliore[19].
[1] La
coscienza di Zeno - Scritto di
getto nel 1919 e pubblicato nel 1922, dopo il lungo silenzio letterario
dell’autore. Raggiunge il successo nazionale e internazionale grazie a Eugenio Montale, che in un articolo del 1925 tessé le
lodi del romanzo, e a James Joyce
che fece conoscere il romanzo in Francia.
La struttura del romanzo, costruito ad episodi e non secondo una successione
cronologica precisa e lineare è
innovativa.
Il narratore è il protagonista, Zeno Cosini, che ripercorre sei
momenti della sua
vita all'interno di una terapia di psicoanalisi.
Il romanzo si apre con la Prefazione del dottore
psicoanalista (identifica
dall'ironicamente beffarda etichetta di "dottor S.", con un sotterraneo
richiamo al cognome dell'autore reale) che ha avuto in cura Zeno e che l'ha
indotto a scrivere la sua autobiografia. Il protagonista si è sottratto alla
psicoanalisi e il medico per
vendetta decide di
pubblicare la sue memorie. I sei episodi della vita di Zeno Cosini sono: Il
fumo, La morte di mio padre, La storia
del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di
un’associazione commerciale e Psico-analisi.
Ogni episodio è narrato dal punto di vista del
protagonista, e il suo resoconto degli eventi risulta spesso inattendibile; egli presenta la sua versione dei fatti, modificata
e resa come innocua in un atto
inconscio di autodifesa, per
apparire migliore agli occhi del dottor S. (una sorta di secondo padre, sotto i
cui occhi recitare la parte del "figlio buono"), dei lettori e forse
anche ai propri).
Dopo una Prefazione e un Preambolo sulla propria infanzia, nel terzo capitolo Zeno scrive del suo vizio del fumo (Il fumo): fin da ragazzino il protagonista è
dedito a questo vizio, da cui cerca inutilmente di liberarsi con diversi
tentativi infruttuosi, testimoniati dalle pagine di diari e dai libri (noché
dai muri...) su cui vengono scritte la data e la sigla u.s. (ultima sigaretta).
Infine per liberarsi dal fumo il protagonista si fa ricoverare in una clinica,
da cui fugge, corrompendo con una bottiglia di cognac l’infermiera che lo
sorveglia. L’episodio del fumo permette a Zeno di riflettere
sulla propria mancanza di forza di volontà e sull'incapacità di perseguire un fine con forza e
decisione. Tale debolezza è attribuibile al senso di vuoto che egli sente nella
sua vita, e all’assenza nella sua infanzia di una figura paterna che fornisca
regole e norme comportamentali.
Il secondo episodio (La morte di mio padre)
è appunto incentrato sulla figura del padre di Zeno. Il protagonista-narratore analizza il difficile
rapporto con il genitore, che
non riesce a identificare come figura di riferimento e guida. Zeno infatti non
ha mai tentato di stabilire un rapporto affettivo e di reciproca intesa con il
padre. Quando quest'ultimo è colto da paralisi, il figlio, in cerca di approvazione e
giustificazione, prova ad accudirlo prima che sia troppo tardi. Ma durante la
notte, il padre viene colpito da un edema
cerebrale. Ormai incapace di
intendere e volere l’uomo è destinato a morte certa, e Zeno spera, per evitare
ulteriori sofferenze al padre e soprattutto fatiche per se stesso, in una fine
rapida e indolore. Nell’estremo momento della morte in un gesto incontrollato il padre schiaffeggia il figlio, per poi spegnersi; gesto che segnerà irrimediabilmente
il protagonista e ne orienterà tutti i malcelati tentativi di spiegare quel
gesto, o di giustificare il proprio atteggiamento.
Terzo evento del romanzo (La storia del mio matrimonio)
è la storia del matrimonio di Zeno. Il protagonista, dopo aver conosciuto Giovanni
Malfenti, uomo d’affari triestino, inizia a frequentare la sua casa e la sua
famiglia. Zeno si innamora di una delle quattro figlie di Malfenti, Ada, la più
bella, che però è innamorata di un altro, Guido Speier. Il protagonista si dichiara ad Ada, da cui viene rifiutato. Si
rivolge allora anche alle tre sorelle con la stessa proposta di matrimonio, ma
tale proposta viene accolta solo dalla meno affascinante, Augusta, che tuttavia sa garantire all’uomo un matrimonio
borghese ed apparentemente felice, dato che entrambi i coniugi vedono
realizzati i loro desideri
inconsci (e cioè,
trovare una seconda "madre" per il protagonista, o trovare un marito
per Augusta). In questo capitolo il personaggio appare come l’inetto dei due romanzi precedenti: immerso nelle sue fantasie, viene trascinato dagli
eventi senza essere in grado di scegliere.
Il quarto
episodio della
vita di Zeno è la
storia dell’amante (La
moglie e l'amante): in un desiderio di conformarsi a un costume sociale il protagonista trova una giovane amante, Carla. La relazione con la donna si rivela ambigua per
Zeno, che da una parte non vuole far soffrire la moglie, mentre dall’altra è
attratto dall'esperienza trasgressiva del tradimento coniugale. La storia con Carla (nei confronti della quale Zeno
prova sia desiderio che senso di colpa) si conclude, tuttavia quando la
ragazza, stanca delle contraddizioni del protagonista, sposa il suo insegnante
di canto, mentre Zeno ritorna dalla moglie incinta.
In Storia di
un’associazione commerciale si
assiste invece al fallimento
dell’azienda messa in piedi da Zeno e Guido, marito di Ada, a causa dello sperpero del patrimonio
da parte di quest’ultimo. Guido, dopo due tentativi di suicidio simulati per
avere ulteriore denaro dalla moglie e salvare così l'impresa, riesce
erroneamente a uccidersi. Zeno, dopo aver sbagliato corteo funebre, riscuote
successo negli affari, ma ciò non serve a conquistargli le simpatie di Ada, che
ormai lo disprezza e parte per il Sudamerica.
Infine nell’ultimo episodio, intitolato Psico-analisi,
Zeno riprende, dopo sei mesi di interruzione, a scrivere le sue memorie, per
ribellarsi al medico, esprimendo il
suo disprezzo e il suo rifiuto per la psicoanalisi. Ma in questo ultimo atto si rende conto che la
malattia interiore di cui si sentiva vittima e da cui riesce a curarsi è una
condizione comune a tutta l’umanità e che coincide con il progresso del mondo
intero. Il romanzo si conclude con una drammatica profezia di
un’esplosione che causerà la scomparsa dell’uomo dalla faccia della Terra.
[2] Uno,
nessuno e centomila – Luigi Pirandello, sebbene inizi a lavorare
a Uno, nessuno e centomila già
da tempo, riesce a completare questa sua fatica letteraria solo nel 1926,
quando l'opera fu pubblicata prima a puntate sulle pagine della rivista Fiera letteraria, e successivamente in volume. Come ne Il fu Mattia Pascal il tema
centrale è quello dell’identità, o per meglio dire delle molteplici identità
dell'io narrante, che, ricorrendo spesso al monologo tra sé e sé, indaga sulle
molte sfaccettature della propria intima natura. E, in accordo con il saggio
pirandelliano sull'umorismo, a questa autoanalisi introspettiva si
accompagnano sempre le tinte del grottesco, che invita a riflettere
sulla condizione umana.
Inizialmente Vitangelo
Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un uomo del
tutto comune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo
esistenziale né materiale: conduce una vita agiata e priva di problemi grazie
alla banca ereditata dal padre. Un giorno questa piatta tranquillità è però
turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente commento pronunciato
dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un
po’ da una parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia
completamente, poiché Gengé si rende conto di apparire al prossimo molto
diverso da come egli si è sempre percepito. Così decide di cambiare
radicalmente il suo stile di vita, nella speranza di scoprire chi sia
veramente, e a quale proiezione di sé corrisponda il suo animo.
Nel
processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a
quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di
affittuari per poi donare loro una casa, si sbarazza della banca ereditata dal
padre, inimicandosi familiari e parenti, e inizia ad ossessionare chi gli sta
vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare
per pazzo agli occhi della comunità.
La
situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa coniugale, e,
insieme ad alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col fine
d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo momento solo un’amica della moglie,
Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di Vitangelo, arriva
addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio.
Vitangelo,
il cui "io" è ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter
ego, sembra trovare una tregua ai propri patimenti solo nel confronto con un
religioso, Monsignor Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi beni
terreni in favore dei meno fortunati.
Il
tormentato protagonista pirandelliano, rifugiatosi nell'ospizio che egli
stesso ha donato alla città, riesce così a trovare un po’ di pace e di serenità
solo nella fusione totalizzante (e quasi misticheggiante) con il
mondo di Natura, l'unico in cui egli può abbandonare senza timori tutte
le "maschere" che
la società umana gli ha a mano a mano imposto.
Il tema della scomposizione ad
infinito della personalità e della "forma" umana si riflette sia
nello stile di Pirandello sia nella struttura del romanzo, composto
da otto capitoli condotti dalla voce narrante di Gengé stesso, come
già avveniva per le "memorie" de Il fu Mattia Pascal; in più la riflessione sulla personalità
modifica qui anche alcune linee di forza della poetica pirandelliana.
All'umorismo, che permea la narrazione e che ritrova nel Tristam
Shandy di Laurence Sterne (1713-1768) uno dei suoi modelli, si aggiunge
la dimensione grottesca, che descrive la progressiva follia di Vitangelo,
con effetti di straniamento e di distorsione nella rappresentazione
di una realtà che, per l'ultimo Pirandello, diventa ormai solo una somma
di frammenti privi di senso.
[3] gli stabiliti: i titoli che
aveva dato ordine di acquistare.
[4] succhiellando le carte: nel
gergo degli agenti di Borsa dell’epoca, «succhiellare le carte» significava
probabilmente osservare con attenzione ininterrotta gli importi dei titoli
acquistati, calcolando il continuo variare dei guadagni e delle perdite
[5] come...conveniva: Per una sorta
di lucida superstizione, Zeno ha l’impressione di poter regolare i movimenti di
prezzo dei titoli con il suo desiderio
[6] il sogno di bontà...a lui: la
«bontà» di Zeno è molto equivoca: per «bontà» Zeno sorveglia gli amori di Guido
con la bella segretaria Carmen (alla quale peraltro fa anche lui delle avances,
prontamente respinte dalla ragazza), e si premura di farne un rendiconto ad
Augusta, che, come prevedibile, ne informa Ada, la quale trae dal tradimento motivo
per negare aiuto finanziario al marito; per «bontà» scopre un grosso ammanco
nella contabilità di Guido, e ne informa, sempre attraverso Augusta, la
famiglia Malfenti; per «bontà», infine, offre il proprio aiuto finanziario a
Guido – ma troppo tardi – e facendo comunque pesare questa sua generosità che
contrasta con il fermo atteggiamento negativo di Ada.
[7] finii...Guido: è un clamoroso
«atto mancato». L’«atto mancato», secondo Freud, è un atto il cui risultato
coscientemente perseguito non viene raggiunto, ma viene sostituito da un altro,
voluto dall’inconscio. Nella Psicopatologia della vita quotidiana Freud
dimostra che gli atti mancati sono, così come i sintomi nevrotici, formazioni
di compromesso tra l’intenzione cosciente del soggetto e il desiderio rimosso.
Zeno coscientemente vuole partecipare al funerale di Guido, che egli non perde
mai l’occasione di proclamare suo «amico», ma finisce con non parteciparvi
perché in realtà lo odia.
[8] dimezzato: Zeno, con la sua
fortunata speculazione, ha annullato i debiti contratti da Guido in conseguenza
dell’attività commerciale e di quella in Borsa, e ha inoltre ricostituito metà
dell’ingente capitale iniziale del cognato suicida. Il futuro della vedova e
dei figli è quindi assicurato. Il successo conseguito da Zeno è strepitoso, se
si considera che Ada e tutti i Malfenti erano ormai convinti che non solo il
patrimonio di Guido fosse distrutto interamente, ma che il suo nome fosse
destinato a rimanere infangato dalla inevitabile dichiarazione di fallimento e dalla
rivelazione della scorretta amministrazione di cui Guido era responsabile
[9] e...arrossissi: si arrossisce
per vergogna, e proviamo vergogna quando diamo di noi agli altri un’immagine
che non corrisponde alla nostra vera identità. Zeno cerca di presentarsi come
sollecito verso il suo «povero amico», ma il lettore attento si è certamente
accorto che egli non si è adoperato affatto per il bene di Guido; anzi, c’è da
supporre che abbia dato un valido, anche se sotterraneo, apporto alla sua
rovina. L’inconscio di Zeno questo lo sa benissimo, e non è quindi strano che
egli, suo magrado, arrossisca
[10] più la Borsa che il funerale:
Zeno lo dichiara apertamente: a lui interessava la Borsa, non il funerale.
Perché in Borsa stava ottenendo un successo strepitoso, che avrebbe dovuto
cancellare definitivamente anche l’immagine di Guido agli occhi di Ada.
[11] Il portiere...comica:
l’impassibilità di un personaggio estraneo rivela a Zeno la comicità della
situazione che sta vivendo, e della quale finora non si è accorto.
[12] A me...in cimitero: questa
giustificazione che Zeno adduce non è convincente, e comunque sottolinea la sua
estraneità e la sua indifferenza al destino del povero Guido. In realtà Zeno
non vuole assistere al funerale del cognato.
[13] perdonato...funerale: attraverso
lo stile indiretto libero lo Zeno narratore riferisce le opinioni dello Zeno al
momento dell’azione. Zeno, come sempre quando ha a che fare con Ada, si sbaglia
[14] L’estesa...giorno: il nubifragio
che, ostacolando e rendendo tardivo il soccorso, indirettamente aveva provocato
la morte di Guido.
[15] Era certo…a tempo:
quest’affermazione esemplifica il principio enunciato poche righe prima: «La
salute non risalta che da un paragone». (Principio che potremmo definire
leopardiano, pur che si sostituisca «salute» con «felicità»: si pensi a La
quiete dopo la tempesta). La «salute» è una condizione non destinata a
permanere; anzi, essa non è nemmeno di per sé definibile, ma è definibile solo
per contrasto. Il cielo azzurro è una manifestazione effimera che non può
durare, così come il trionfo di Zeno. Passata l’eccitazione, il cielo azzurro
gli ricorderà la sua illusione di salute e di felicità, e quindi gli sarà
«discaro».
[16] non dubitavo…scopo: il valore
dei titoli acquistati da Zeno per conto di Guido è leggermente diminuito, ma
Zeno, preso dall’entusiasmo per il successo ottenuto, ha la fiducia superstiziosa
che, tornando a registrare accuratamente l’andamento dei cambi, gli sarà
possibile farlo risalire.
[17] come hai fatto...famiglia?: una
visione più realistica della situazione s’impone a Zeno in seguito all’ovvia
domanda di Augusta, che suona inevitabilmente come un rimprovero
[18] il mio fianco...stanchezza: il
senso di colpa di Zeno prende di regola la forma di un dolore fisico.
[19] il migliore: è naturale che la
prima a perdonare Zeno sia la suocera, che impersona l’etica borghese, al
centro della quale c’è il denaro.
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