La basilica
superiore di Assisi è la chiesa situata al di sopra della basilica
inferiore, con cui forma l'insieme della Basilica papale e del sacro
convento di San Francesco d'Assisi.
La
basilica fu iniziata nel 1228 da Gregorio IX dei Segni e
conclusa nel 1253 da Innocenzo IV Fieschi.
La
basilica superiore che ospita il ciclo di affreschi in oggetto fu fondamentale
nella diffusione del Gotico in Italia e fu predisposta per diventare una
meta di pellegrinaggio. In un certo senso essa divenne una sorta di cappella palatina
papale, che, non a caso, ricorda la Sainte-Chapelle di Parigi.
La
struttura abbastanza semplice che si intendeva dare all'inizio fu quindi modificata
quasi subito secondo linee più maestose, ispirandosi in parte all'architettura
romanica lombarda, con nuovi elementi gotici, legati agli edifici costruiti
dall'Ordine Cistercense.
L'esterno
presenta una semplicità tutta romanica
con qualche elemento gotico come il portale a sesto acuto e gli archi
rampanti.
La
facciata è tripartita orizzontalmente fra tre cornici con mensole e
coronata da timpano triangolare.
L'interno
presenta elementi più maestosi e di matrice gotica è caratterizzato da navata
unica a quattro campate, più un presbiterio composto da tre campate
irregolari e abside poligonale.
La
chiesa presenta una copertura con crociera ed è illuminata da grandi
finestroni gotici presenti lungo tutta la fascia alta della navata e
dell'abside, oltre alla presenza della luce che entra dal rosone della
facciata.
I
grandi finestroni delle campate, il rosone e le vetrate del transetto danno una
forte illuminazione che contrasta con la penombra della basilica inferiore.
Le
pareti interne della chiesa furono interamente ricoperte da affreschi secondo
un programma iconografico organico, legato alla corrispondenza tra le Storie
dell'Antico e le Storie del Nuovo Testamento in concordanza poi con le Storie
di San Francesco, secondo le interpretazioni date da san Bonaventura da
Bagnoregio(1217-1274) nella Legenda aurea.
I
primi affreschi della basilica superiore furono realizzati nel presbiterio da Cimabue
dal 1277, il cui arrivo ad Assisi determinò l'ingresso di artisti
fiorentini nella committenza papale.
I
dipinti sono incorniciati da decorazioni a motivi geometrici, racemi, fogliame
o da teste angeliche, putti, angeli telamoni con vasi e mascheroni.
Le Storie
di san Francesco sono affrescate nella parte inferiore della basilica superiore.
La datazione
del ciclo di affreschi è ancora molto dibattuta e controversa: il ciclo si lega
strettamente con le vicende legate alla contrapposizione tra le fazioni
dei Conventuali e degli Spirituali. Questi ultimi, invocando il
diretto insegnamento di povertà di San Francesco si rifiutavano di
arricchire i luoghi di culto francescani con opere d'arte. La linea spirituale
prevalse nel capitolo generale di Narbona del 1260 e ancora nel capitolo
generale di Assisi del 1279, quando fu ribadita la scelta aniconica,
nonostante l'opposizione di papa Niccolò III Orsini. Molti indicano in
questo papa l'iniziatore del ciclo di affreschi, ma è molto plausibile che
invece sia stato Niccolò IV Masci, quando nel 1288,attraverso una bolla,
stabilì che tutte le offerte donate dai pellegrini in visita ad Assisi fossero
investite nella decorazione della chiesa. I primi affreschi dovrebbero risalire
quindi al 1288.
La
decorazione è continuata dal 1270 al 1280 sulla parete con la
finestra, grazie all'opera di un maestro romano.
Secondo
alcuni storici dell'arte il ciclo di affreschi con le Storie di San Francesco fu
intrapreso subito dopo il 1296.
Le
grandi scene con le Storie di san Francesco riempiono tutta la fascia
centrale della navata. Furono probabilmente dipinte da un ampio numero di
pittori, al capo dei quali la tradizione porrebbe Giotto, diminutivo di
Ambrogio o Angiolo di Bondone.
Giotto
era nato nel 1267, anche se tuttora una minoranza della critica tende a porre
la sua data di nascita nel 1276, secondo la cronologia offerta da Vasari nelle
sue Vite. Sempre secondo Vasari nacque a Colle di Vespignano nel Mugello da una
famiglia di contadini che si era trasferita a Firenze dove il giovane Giotto fu
affidato alla bottega Cenni di Pepi, detto Cimabue. Vasari afferma che Giotto
fu chiamato da Giovanni Minio da Morrovalle, generale dell'ordine francescano
dal 1296 al 1304, entro le cui date potrebbero essere stati dipinti gli
affreschi.
Studi
recenti di Federico Zeri e di Bruno Zanardi, restauratore della Basilica di
Assisi dopo il terremoto del 1997, hanno messo in dubbio l'attribuzione a
Giotto di tutto il ciclo, che potrebbe essere opera di maestri romani, tra cui Pietro
Cavallini, l'unico grande pittore gotico che non figurerebbe nel Cantiere di
Assisi.
La questione
giottesca di Assisi è tuttora aperta, ma gli studiosi, sembrano ormai più
propensi a mantenere l'attribuzione tradizionale a Giotto, per la padronanza
della prospettiva intuitiva negli sfondi, per il realismo, e per l'eloquenza
dei gesti e delle fisionomie.
Indipendentemente
dal fatto che si tratti di Giotto o di un altro pittore, le scene non mostrano
sempre la stessa qualità esecutiva, per cui furono sicuramente dipinte da più
mani all'interno dello stesso cantiere con la supervisione di un protomagister.
L'importanza
del ciclo francescano sta comunque nelle soluzioni formali rivoluzionarie. Per gli
autori del ciclo lo spazio pittorico doveva ricreare un volume tridimensionale
e l'interruzione tra le scene tramite una serie di colonne simulano una sorta
di loggiato, dal quale come affacciandosi si godono le varie scene. La
composizione è libera dagli schematismi e dalle simmetrie della pittura
precedente, anche se accanto a scenari naturali e architettonici realistici
troviamo ancora delle rappresentazioni di natura arcaica e non tutti gli scorci
sono resi con la stessa sicurezza.
Molto
dibattuta e controversa è la datazione del ciclo di affreschi: il ciclo si lega
strettamente con le vicende legate alla contrapposizione tra le fazioni
dei conventuali e degli spirituali. Questi ultimi, invocando il
diretto insegnamento di povertà di San Francesco si rifiutavano di
arricchire i luoghi di culto francescani con opere d'arte. La linea spirituale
prevalse nel Capitolo generale di Narbona del 1260 e ancora nel Capitolo
generale di Assisi del 1279 quando fu ribadita la scelta aniconica,
nonostante l'opposizione di papa Niccolò III Orsini. Molti indicano in
questo papa l'iniziatore del ciclo di affreschi, ma è molto plausibile invece che
sia stato Niccolò IV Masci quando nel 1288, attraverso una
bolla, stabilì che tutte le offerte donate dai pellegrini in visita ad Assisi
fossero investite nella decorazione della chiesa. I primi affreschi dovrebbero pertanto
risalire al 1288.
La
decorazione è continuata dal 1270 al 1280 sulla parete con la
finestra, grazie all'opera di un "maestro romano".
Intanto
è interessante notare l'organizzazione delle scene, inscritte in finte
architetture che ricordano l'opera del Maestro di Isacco, la cui opera è
presente sulla fascia superiore della seconda campata: al di sotto di una reale
mensola fu dipinta una serie di mensole, sorrette da illusionistiche
colonne tortili con capitelli corinzi. In basso, a livello dello spettatore, è
dipinta invece una cortina di tendaggi appesi.
Tra
colonna e colonna sono poste le ventotto scene della vita del Santo, che quindi
non sono come quadri appesi su pareti a sfondo geometrico, come nei cicli di
affreschi di scuola romana presenti anche nel registro superiore.
La
lettura delle scene inizia vicino all'altare lungo la parete destra, poi
prosegue nella controfacciata e infine nella parete sinistra fino a tornare
vicino all'altare. Vi sono raffigurati episodi della vita del Santo dalla
giovinezza alla morte ai presunti miracoli postumi, con un'alternanza tra
episodi storici ufficiali e leggende di natura agiografica.
In
questo ciclo di affreschi, la vita quotidiana tornò al centro delle attenzioni
della pittura, dopo essere stata esclusa per secoli dai cicli decorativi.
Secondo
i più recenti studi, il ciclo di Assisi sembra essere suddiviso in tre gruppi
distinti: il primo e l'ultimo di sette quadri ciascuno, il mediano di sette
coppie, quattordici in tutto.
I
primi sette episodi rappresentano l'iter della conversione di San Francesco fino
all'approvazione della regola.
Il
gruppo centrale, considerato evidentemente il principale, mostra tutto lo
sviluppo dell'Ordine con San Francesco, fino alla sua morte. Gli ultimi sette affreschi
sono le esequie e la canonizzazione del Santo, compresi i miracoli post mortem
ritenuti necessari a questa.
L’Omaggio
dell'uomo semplice è narrato da San Bonaventura con queste Parole: «Un
uomo di Assisi, molto semplice, certo per ispirazione divina, ogni volta che
incontrava Francesco per le strade della città, si toglieva il
mantello e lo stendeva ai suoi piedi, proclamando che Francesco
era degno di ogni venerazione, perché di lì a poco avrebbe compiuto grandi
cose, per cui sarebbe stato onorato e glorificato da tutti i cristiani.»
Questa
è la prima delle ventotto scene, attribuiti a Giotto.
Fu
dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299 e misura 230x270 cm. Pur essendo
il primo riquadro del ciclo narrativo, fu tra gli ultimi ad essere eseguito,
forse perché questa parte di parete era impegnata con le impalcature per la
costruzione dell'iconostasi.
Gli
spettatori vi potevano facilmente riconoscere la piazza di Assisi tra il
Palazzo comunale (con la torre) e il tempio di Minerva. La narrazione è concisa
ed efficace: il santo passa e un concittadino stende un mantello al suo
passaggio. Il santo non è raffigurato con deformazioni gerarchiche o con una
sacrale posa frontale, ma è dipinto come le altre persone, con la sola presenza
dell'aureola. La datazione più avanzata della scena si intuisce semplicemente
confrontandola con quella vicina di San Francesco dona il mantello a un povero:
in quest'ultima si notano ancora riflessi metallici e spigoli ruvidi, mentre
l'episodio dell'Omaggio ricorda il ciclo
di Padova.
Francesco
dona il mantello a un povero è narrato da San Bonaventura con Queste parole : «Ma
Francesco non conosceva ancora i piani di Dio sopra di lui:
impegnato, per volontà del padre nelle attività esteriori e trascinato verso il
basso dalla nostra natura corrotta fin dall’origine, non aveva ancora imparato
a contemplare le realtà celesti né aveva fatto l’abitudine a gustare le realtà
divine».
In
primo piano si trovano San Francesco col suo cavallo e il mendicante, che in
realtà è però un nobile caduto in miseria. Sullo sfondo si notano le mura della
città di Assisi e un monastero nel quale aveva soggiornato San Benedetto. Il
paesaggio è aspro, con montagne senza grande vegetazione e con la linea delle
due valli che si incontra in corrispondenza della testa di San Francesco. È la
seconda scena del ciclo, dopo l'Omaggio dell'uomo semplice, ma fu probabilmente
la prima a essere dipinta: infatti, mostra riflessi quasi metallici e gli
spigoli appuntiti di matrice cimabuesca. La rappresentazione del paesaggio è
ancora arcaica, forse tipicamente bizantina. Ai lati, si vedono dei gruppi di
edifici, che forse rappresentano Assisi. La descrizione dei dettagli è attenta,
con l'utilizzo di costumi contemporanei, come i berretti, i drappi e gli abiti.
Il Sogno delle armi è narrato da San
Bonaventura di Bagnoregio con queste parole: «Di lì a poco si mise in viaggio;
ma, appena giunto nella città più vicina, udì nella notte il Signore, che in
tono familiare gli diceva: «Francesco, chi ti può giovare di più: il signore o
il servo, il ricco o il poverello?». «Il signore e il ricco», rispose
Francesco. E subito la voce incalzò: «E allora perché lasci il Signore per il
servo; Dio così ricco, per l’uomo, così povero?».
Nel 1204-1205 San
Francesco, dopo essersi rimesso da una malattia e rivestito il povero cavaliere
dei suoi vestiti, sognò un palazzo pieno d'armi e udì una voce promettergli che
tutto quello sarebbe stato suo; il sogno gli parve premonitore di una gloria
militare (in realtà allude alla milizia francescana). Giunto però a Spoleto,
un nuovo sogno gli fece capire che stava servendo il servo (l'uomo), non il padrone
(Dio) e lo invitò a tornare ad Assisi per restare in attesa della volontà
divina. La scena è divisa in due fasce: il letto con san Francesco dormiente e
Gesù che indica il palazzo. La struttura compositiva ricorda la costruzione
della scena di Isacco che respinge Esaù del Maestro di Isacco nel
registro superiore della basilica, e il palazzo con le armi accatastate. Il
palazzo, su un piano leggermente arretrato, è rappresentato con una prospettiva
intuitiva, che mostra i pavimenti ai primi piani e i soffitti ai piani più
alti. La forma della stanza da letto, con le due cortine scortate, suggerisce
un'idea di scansione di piani in profondità, mentre il grande letto sembra una
sorta di proscenio, proprio come nelle Storie di Isacco. Un tempo il manto
di Cristo aveva lumeggiature dorate che lo rendevano scintillante, oggi in
larga parte perdute.
La Preghiera
in San Damiano è narrata da San Bonaventura con queste parole:« Un giorno
era uscito nella campagna per meditare. Trovandosi a passare vicino
alla chiesa di San Damiano, che minacciava rovina, vecchia com’era, spinto
dall’impulso dello Spirito Santo, vi entrò per pregare. Pregando inginocchiato
davanti all’immagine del Crocifisso, si sentì invadere da una grande
consolazione spirituale e, mentre fissava gli occhi pieni di lacrime nella
croce del Signore, udì con gli orecchi del corpo una voce scendere verso di lui
dalla croce e dirgli per tre volte: «Francesco, va e ripara la mia chiesa che,
come vedi, è tutta in rovina!».
Secondo
la leggenda il santo si rifugiò nella chiesa di San Damiano presso Assisi e
sentì parlare il crocifisso che gli chiedeva di riparare la sua Chiesa, con il
significato ambivalente di edificio e di comunità cristiana corrotta. San
Francesco è rappresentato in preghiera davanti al Crocifisso di San Damiano
entro la chiesetta diroccata nei pressi di Assisi. La croce è rappresentata in
maniera simbolica, non strettamente fedele all'originale.
Francesco
rinuncia ai beni terreni è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Vendette
tutto quanto aveva portato; si liberò anche, mercante fortunato, del cavallo,
col quale era venuto, incassandone il prezzo».
La
scena, che nella realtà si svolse in piazza del Duomo a Foligno, è organizzata
secondo uno schema molto efficace di due fasce verticali intervallate dallo
sfondo neutro: a sinistra Pietro Bernardone, il padre di Francesco, col volto
contratto, è trattenuto da un uomo per un braccio; egli ha il pugno chiuso e si
solleva la veste come per volersi lanciare contro il figlio, un vero e proprio
"gesto parlante"; dall'altra parte san Francesco spogliato che prega
verso la mano di Dio benedicente che appare tra le nuvole. La netta spaccatura
della scena è efficacemente simbolica delle posizioni inconciliabili dei due
schieramenti, che sono il passato e il presente di Francesco. Alcune incertezze
assonometriche si possono notare nella scaletta esterna sulla sinistra, dove i
gradini non sono dritti per permettere l'innaturale visione del pavimento.
Figure e sfondo appaiono efficacemente integrate, con colori chiari e brillanti
dalle valenze anche simboliche: l'abito del padre ad esempio è giallo, simbolo
di ricchezza mondana.
Il Sogno
di Innocenzo III è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Egli, infatti
raccontò al Pontefice, come Dio gliel’aveva suggerita, la parabola di un ricco
re che con gran gioia aveva sposato una donna bella e povera e ne aveva avuto
dei figli che avevano la stessa fisionomia del re, loro padre e che, perciò,
vennero allevati alla mensa stessa del re».
Durante
un sogno papa Innocenzo III vede l'umile Francesco che regge la Basilica del
Laterano, che all'epoca rappresentava quello che oggi è San Pietro in Vaticano,
cioè il cuore della Chiesa latina. La basilica sta crollando, come si deduce
dalla forte inclinazione dell'edificio, secondo uno stratagemma di origine
medievale, usato ad esempio da Cimabue nel transetto destro, nella scena della Caduta
di Babilonia. È qui riproposto il letto a baldacchino con il papa e due guardie
dormienti, mentre a sinistra si svolge il sogno, con una basilica notevolmente
inclinata, sorretta con un gesto molto eloquente dal santo, che qui appare per
la prima volta nelle vesti di frate e che diventa "colonna della
Chiesa". I volti ricordano la mano del Maestro di Isacco.
Innocenzo
III conferma la Regola francescana è narrata da San Bonaventura con queste
parole: «Il Vicario di Cristo ascoltò attentamente questa parabola e la sua
interpretazione e, pieno di meraviglia, riconobbe senza ombra di dubbio che, in
quell’uomo, aveva parlato Cristo. Ma si sentì rassicurato anche da una visione,
da lui avuta in quella circostanza, nella quale lo Spirito di Dio gli aveva
mostrato la missione a cui Francesco era destinato. Infatti, come egli
raccontò, in sogno vedeva che la Basilica del Laterano ormai stava per rovinare
e che, un uomo poverello, piccolo e di aspetto spregevole, la sosteneva,
mettendoci sotto le spalle, perché non cadesse.»
Questa
scena è importante per la straordinaria coerenza con la quale è definita
l'ambientazione architettonica della scena stessa, soprattutto nella
sorprendente parte superiore, dove le volte a botte su mensole sono
rappresentate in prospettiva e scorcio intuitivi. I frati non sono più
allineati in file orizzontali, come nella tradizione bizantina, ma per file
disposte in profondità. Di grande umanità è il volto di san Francesco barbuto
mentre, sorridente, riceve la benedizione del papa Innocenzo III e la bolla che
autorizza l'ordine francescano.
L’Apparizione
di Francesco su un carro di fuoco è tratto dalle parole di San Bonaventura: «Ma
ecco: verso la mezzanotte – mentre alcuni frati riposavano ed altri vegliavano
in preghiera – un carro di fuoco di meraviglioso splendore entrò dalla porta
della casa e per tre volte fece il giro dell’abitazione: sopra il carro si
trovava un globo luminoso, in forma di sole, che dissipò il buio della notte».
In
questa scena lo spazio è diviso in tre parti: la struttura architettonica, a
sinistra, con i frati addormentati, i frati all'esterno che chiamano i
confratelli e la potente visione del carro in cielo, che è inclinato a
sottolineare una dimensione di sogno. La capanna descritta da Bonaventura ha
lasciato il posto a un sontuoso palazzo, decorato da fregi, lacunari e
medaglioni.
La Visione
dei troni è narrata da San Bonaventura con queste parole: «Vide nel cielo
molti seggi e, tra essi, uno più splendido e glorioso di tutti gli altri,
costellato di pietre preziose. Ammirando lo splendore di quel trono così
eminente, cominciò a chiedersi ansiosamente chi mai fosse destinato ad
occuparlo. In mezzo a questi pensieri, udì una voce che gli diceva: «Questo
seggio apparteneva a uno degli angeli ribelli ed ora è riservato per l’umile
Francesco». Ritornato finalmente in sé, dopo quella preghiera estatica, il
frate seguì il Santo che stava uscendo dalla chiesa».
In
alto è disposto il trono vuoto di Francesco, con accanto altri quattro troni
più piccoli. Amorevole è la cura descrittiva dei dettagli. Il piccolo altare ad
esempio è illuminato da una lampada tenuta sospesa da una cordicella, e sopra
di esso sta un panno di lino e una croce appoggiata. Come nella vicina Apparizione di san
Francesco su un carro di fuoco, anche in questo caso la visione ultraterrena
dei troni ha uno scorcio opposto a quello dell'architettura, amplificando un
divario tra sfera celeste e mondo terreno.
La Cacciata
dei diavoli da Arezzo è narrata da San Bonaventura con queste parole:« Corre,
quel vero obbediente, a compiere i comandi del Padre, innalzando inni di lode
alla presenza di Dio, e, giunto davanti alla porta della città, incomincia a
gridare gagliardamente: «Da parte di Dio onnipotente e per comando del suo
servo Francesco, andatevene via, lontano da qui, o demoni tutti quanti!».
A
sinistra è rappresentata una grande cattedrale gotica in tutta la sua potenza
architettonica. Oltre le mura della città sporgono le torri, costruite con
colori chiari come cubi incastrati l'uno nell'altro, secondo una prospettiva
intuitiva e non geometricamente allineata. Tre figure di passanti si
intravedono affacciarsi dalle porte cittadine. In alto, i diavoli scappano
cacciati dal confratello, su ordine di Francesco, che è inginocchiato dietro di
lui. Nella raffigurazione dei demoni, dalle ali di pipistrello, furono usati
tratti legati all'immaginario popolare, non privi di elementi patetici o
burleschi. Da un punto di vista simbolico essi rappresentano le discordie che
sfociavano nelle tante guerriglie urbane nell'Italia comunale.
Francesco
davanti al Sultano è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Francesco,
il servo di Dio, con cuore intrepido rispose che egli era stato inviato non da uomini,
ma da Dio altissimo, per mostrare a lui e al suo popolo la via della salvezza e
annunciare il Vangelo della verità. E predicò al Soldano il Dio uno e trino e
il Salvatore di tutti, Gesù Cristo, con tanto coraggio, con tanta forza e tanto
fervore di spirito, da far vedere luminosamente che si stava realizzando con
piena verità la promessa del Vangelo: Io vi darò un linguaggio e una sapienza a
cui nessuno dei vostri avversari potrà resistere o contraddire».
San
Francesco si recò realmente in oriente con la Quinta Crociata ed incontrò il
sultano ayyubide al-Malik al-Kāmil. L'incontro tra i due personaggi è
sicuramente avvenuto; improbabile la versione secondo la quale san Francesco
abbia tentato di convertire il sultano, che rimase comunque colpito dalla
figura ascetica del santo. La prova del fuoco cui si sottopose volontariamente
Francesco gli fece guadagnare molta stima nei confronti del sultano e della
corte. Francesco si rivolge al fuoco, accettando la sfida di passarci incolume
attraverso di esso per dimostrare la veridicità dei suoi argomenti religiosi e
la protezione assegnatagli da Dio, mentre un gruppo di astanti appare sorpreso
e spaventato. Anche in questo caso, come in altre scene, l'architettura dello
sfondo ha il ruolo di coordinare la scansione dei gruppi e quindi facilitare la
lettura della scena. Alcuni attribuiscono questa scena a Memmo di Filippuccio o
al maestro della volta dei Dottori della Chiesa.
Francesco
in estasi è narrato da San Bonaventura con queste parole: «E l'uomo di
Dio, restandosene tutto solo e in pace, riempiva i boschi di gemiti, cospargeva
la terra di lacrime, si percuoteva il petto e, quasi avesse trovato un più
intimo santuario, discorreva col suo Signore. Là rispondeva al Giudice, là
supplicava il Padre, là dialogava con l'Amico. Là pure, dai frati che piamente
lo osservavano, fu udito interpellare con grida e gemiti la Bontà divina a
favore dei peccatori; piangere, anche, ad alta voce la passione del Signore,
come se l'avesse davanti agli occhi. Là, mentre pregava di notte, fu visto con
le mani stese in forma di croce, sollevato da terra con tutto il corpo e
circondato da una nuvoletta luminosa: luce meravigliosa diffusa intorno al suo
corpo, che meravigliosamente testimoniava la luce risplendente nel suo
Spirito». Notevole è la costruzione della scena secondo linee ascensionali che
evidenziano la salita del frate su una nuvola verso Dio, che si sporge
dall'angolo in alto a destra, piegandosi per benedirlo. Anche in questo caso,
come in altre scene, i gruppi sono orchestrati con l'aiuto dell'architettura
dello sfondo, con una grande porta cittadina, fatta di volumi cubici e
colorati, che torreggia dietro al gruppo dei frati e Francesco, isolato, che si
staglia contro il cielo, in una posa che ricorda la crocifissione. A destra
invece una collinetta con alberi segna una sintetica notazione naturalistica,
forse allusione al Monte Tabor o alla Verna. I fautori della tesi del
non Giotto registrano come gli incarnati, in questa scena come in quelle
vicine, siano diversi da quelli solitamente dipinti dal pittore fiorentino,
facendo piuttosto il nome del "secondo capo bottega", forse il
romano Pietro Cavallini.
Il Presepe
di Greccio è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Come il beato
Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il
presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l'asino; e
predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua
orazione, un cavaliere scorse il Gesù Bambino in luogo di quello
che il santo aveva portato». Durante la notte di Natale del 1223, a Greccio (in
provincia di Rieti), Francesco rievocò la nascita di Gesù, organizzando una
rappresentazione vivente di quell'evento. Durante la Messa, sarebbe apparso
nella culla un bambino in carne ed ossa, che Francesco prese in braccio. Da
questo episodio ebbe origine la tradizione del presepe. Nessun pittore si era
mai spinto a tanto realismo: lo spettatore osserva dalla parte di solito
riservata ai soli sacerdoti e religiosi, dove sono rappresentate le
caratteristiche dell'ambiente oltre il tramezzo che lo separa dalla navata. Una
folla di persone assiste alla scena in primo piano di Francesco con il santo
Bambino tra le mani, ma le donne non possono entrare e osservano dalla porta.
Solo i frati sporgono in alto perché sono in piedi sugli stalli del coro di cui
si intuisce la presenza solo da un piccolo dettaglio accanto alla porta. Molte
delle vesti dei personaggi, a tempera, avevano originariamente colori ben
diversi da quelli oggi visibili.
Il Miracolo
della sorgente è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Terminata
finalmente la preghiera disse all’uomo: «Va in fretta a quella pietra e là
troverai l’acqua viva, che in questo momento Cristo, nella sua misericordia, ha
fatto sgorgare dal sasso per te».
Dettagliata
è la resa dei particolari, come il basto dell'asino. Se qui ritorna il
paesaggio ancora bizantineggiante delle rocce sporgenti (come nella scena dell'Elemosina
del Mantello), l'insieme crea un gioco di linee che drammatizza la scena.
Nell’affresco è presente la caratteristica composizione a diagonale di Giotto,
che fa ricadere lo sguardo su Francesco, posto al centro e fulcro del dipinto.
La presenza divina non è manifestata direttamente, con simboli o apparizioni,
ma è nascosta nella natura, secondo una concezione simile a quella francescana.
Giotto costruisce la scena su una composizione caratterizzata da essenzialità,
come richiedeva l’ordine francescano. La composizione è liberata dalla rigidità
dell’arte bizantina e romanica e dagli schemi astratti diffusi in quelle
tipologie di arte.
La Predica
agli uccelli è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Andando il beato
Francesco verso Bevagna, predicò a molti uccelli; e quelli esultanti stendevano
i colli, protendevano le ali, aprivano i becchi, gli toccavano la tunica; e
tutto ciò vedevano i compagni in attesa di lui sulla via».
Secondo
la tradizione, la predica agli uccelli ebbe luogo sull'antica strada che
congiungeva il castello di Cannara a quello di Bevagna. Oggi il punto dove San
Francesco d'Assisi fece il miracolo è segnalato da una pietra sita in loco. È
una delle scene più famose del ciclo, perché racconta un episodio molto amato
dalla devozione popolare: forse Bonaventura voleva alludere con questo episodio
alla capacità di Francesco di parlare a poveri ed emarginati. Il santo è
rappresentato invecchiato e il suo volto esprime una grande dolcezza. Lo sfondo
è di una semplicità accattivante, con alberi in primavera sullo sfondo del
cielo di lapislazzuli.
La Morte
del cavaliere di Celano è narrata da San Bonaventura con queste parole: «Quando
il beato Francesco impetrò la salute dell'anima per un cavaliere di Celano,
che devotamente a pranzo l'aveva invitato; il quale, dopo la confessione e dopo
aver disposto per la sua casa, mentre gli altri si mettevano a mangiare,
d'improvviso esalò l'anima, addormentandosi nel Signore».
La
scena, una delle più drammatiche del ciclo, è divisa nettamente in due parti,
con l'architettura che inquadra il banchetto con san Francesco e un altro frate
e la parte destra con la folla accorsa al nobile cavaliere disteso, perché
colto dalla morte. Molto bello è l'aggetto dell'architettura che si sporge con
una profondità verosimile, mentre è piacevolmente dettagliata la descrizione
delle suppellettili sul tavolo. Per questo affresco, la Predica dinanzi a
Onorio III e l'Apparizione al Capitolo di Arles, già dallo Gnudi in poi si
parla di una personalità distinta da quella del capo bottega.
La Predica
davanti ad Onorio III è narrata da San Bonaventura con queste parole: «Quando
il beato Francesco, al cospetto del santo papa e dei cardinali, predicò con
tale devozione e tale efficacia da apparire chiaramente come egli parlasse non
con dotte parole d'umana sapienza, ma per divina ispirazione».
Un
virtuosismo è la rappresentazione in prospettiva intuitiva delle volte a
crociera. Eloquente e realistico è il gesto del papa Onorio III che ascolta con
attenzione san Francesco, appoggiando il mento sul dorso della mano che calza
un guanto bianco, così come quello di Francesco, che indica col pollice teso,
un gesto ripreso ad esempio anche da Pietro Lorenzetti nella Madonna col
Bambino tra i santi Francesco e Giovanni Evangelista nella Basilica inferiore.
La stanza è arredata sontuosamente, con drappi appesi alle pareti e il trono
papale con decori cosmateschi. L'ornamento della parte superiore, con i vasi di
fiori, fu aggiunto dopo l'esecuzione delle arcate, forse in un'epoca successiva
al completamento del ciclo.
San
Francesco appare al Capitolo di Arles è narrato da San Bonaventura con queste
parole: «Predicando il beato Antonio in capitolo ad Arles sul titolo
della Croce, il beato Francesco, benché corporalmente assente, apparve; e stese
le mani, benedisse i frati, così come poté vedere il frate Monaldo; e gli altri
frati ne ebbero una grande consolazione».
Si
tratta di una delle scene più efficaci di tutto il ciclo, con la realistica
architettura gotica e l'apparizione del santo al centro della scena con le
braccia platealmente alzate. Non tutti gli astanti però hanno la visione, infatti,
sono girati verso di lui solo Monaldo e il frate predicatore, sant'Antonio da
Padova.
Francesco
riceve le stimmate è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Pregando
il beato Francesco sul fianco del monte della Verna, vide Cristo in aspetto di
serafino crocefisso; il quale gl'impresse nelle mani e nei piedi e anche nel
fianco destro le stimmate della Croce dello stesso Signore Nostro Gesù Cristo».
Nell'aspro
paesaggio della Verna, vicino a un piccolo romitorio, un angelo dona le
stimmate al santo, con cinque raggi di luce che si dirigono nei punti delle
ferite di Cristo. La scena riprende l'iconografia inventata dai pittori
italiani nella prima metà del secolo, tra cui la più antica testimonianza certa
è la tavola con San Francesco e storie della sua vita di Bonaventura
Berlinghieri del 1235. L'affresco è di solito ritenuto pienamente autografo del
capo bottega, ipotizzando che fosse proprio Giotto. Solo la figura di frate
Leone, seduto nell'angolo in basso a destra, è riferibile a un collaboratore.
La Morte di san Francesco è narrato da San
Bonaventura con queste parole:« Come, nel momento del trapasso del
beato Francesco, un frate vide l'anima sua salire al cielo sotto forma di
stella fulgidissima».
La
scena è una vera e propria apoteosi, organizzata per fasce orizzontali: i frati
disperati accanto al corpo del santo, gli ecclesiastici che celebrano il
funerale, e gli angeli in cielo che reggono un clipeo con san Francesco che si
trova già in paradiso. Giotto, disegnandolo, ha probabilmente voluto far capire
che i demoni non vedranno mai né Dio, né tutti i santi, perché sono ricoperti
dai peccati, rappresentati dalle nuvole, e perché si trovano nell'inferno per
l'eternità.
Le Visioni
di frate Agostino e del vescovo di Assisi è narrato da San Bonaventura con
queste parole: «Il ministro, in Terra di Lavoro, infermo e presso alla fine e
già da tempo avendo perduto la loquela, gridò e disse: «Aspettami, padre, vengo
teco»; e subito spirato, seguì il santo padre. Oltre a ciò, essendo il vescovo
sopra il monte di San Michele arcangelo, vide il beato Francesco che gli
diceva: «Ecco che salgo in cielo»; e in tale ora fu così trovato».
Il
tema riguarda due avvenimenti occorsi contemporaneamente alla morte di
Francesco, in altre parole l'apparizione di quest'ultimo all'infermo frate
Agostino e al vescovo Guido d'Assisi, sul Gargano. Particolarmente complessa è
l'architettura della chiesa nella quale è collocata la scena, con una sorta di
tripla navata gotica sorretta da archi rampanti. Più esiguo è l'ambiente della
stanza del vescovo, in cui si riprende in tema del sogno già utilizzato in
scene quali il Sogno delle armi e il Sogno di Innocenzo III.
Girolamo
esamina le stimmate è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Nella
Porziuncola giacendo morto il beato Francesco, Messer Geronimo, celebre dottore
e letterato, moveva i chiodi, e le mani, i piedi, il costato del santo con le proprie
mani frugava».
Nell'ambito
delle esequie del santo furono infatti in molti, sia religiosi che laici, a
voler controllare la veridicità del miracolo, incaricandone appositamente un
noto medico. La scena, molto affollata, è la diretta prosecuzione di quella
della Morte di san Francesco, con Girolamo che solleva con un gesto molto
naturale il vestito del santo alla presenza dei frati e degli ecclesiastici.
Nella parte più alta è riprodotto l'interno di una chiesa (la stessa Basilica
superiore), dove sporgono un Crocifisso sagomato ed una Maestà appese.
Il Saluto
di Chiara e delle sue compagne a Francesco è narrato da San Bonaventura
con queste parole: «Le turbe che erano convenute, trasportando verso la città
d'Assisi con rami d'alberi e moltitudine di ceri accesi il sacro corpo fregiato
delle celesti gemme, lo presentarono alla vista della beata Clara e delle sacre
vergini».
Davanti
a una bellissima facciata gotica, la prima rappresentata per intero in un
dipinto, il corpo di san Francesco è appena uscito dai funerali e riceve
l'accorato saluto di santa Chiara e delle suore, che con teneri gesti
abbracciano il corpo e gli baciano le mani. Il dettaglio è uno spaccato di vita
quotidiana di sorprendente realismo, che mai prima d'ora era entrato in una scena
pittorica e che si ritroverà nell'Ingresso a Gerusalemme della Cappella degli
Scrovegni.
La Canonizzazione
di san Francesco (Luglio 1228, bolla papale Mira circa nos). È una
delle scene più danneggiate con ampie parti dell'affresco perdute e sostituite
in fase di restauro da campiture colorate che danno un'idea della scena: molta
umidità dovette, infatti, filtrare dalla finestra soprastante.
Francesco
appare a Gregorio IX è narrato da San Bonaventura con queste parole: «Dubitando
alquanto il santo papa Gregorio della piaga del costato, gli disse in sogno il
beato Francesco: «Dammi una fiala vuota». E, come gliela diede, la si vide
riempire dal sangue del costato».
La
scena del sogno si svolge in una stanza verosimile, coperta da preziosi
apparati. Il santo, con un gesto molto eloquente, appare a Gregorio IX
dormiente, ne prende la mano e lo invita a toccare le stimmate sul costato che
scopre con l'altra mano. Molto realistico è il baldacchino teso da corde e
precisa è la resa dei cassettoni del soffitto. L'esecuzione pittorica è quasi
interamente riferita ad aiuti del capo bottega.
La Guarigione
dell'uomo di Ilerda è narrata da San
Bonaventura. « 1 In Cathalonia quoque apud Ilerdam accidit, virum quemdam
nomine Ioannem, beato Francisco devotum, quodam sero per quamdam incedere viam,
in qua pro inferenda morte latitabant insidiae, non quidem ipsi, qui
inimicitias non habebat, sed alteri cuidam, qui videbatur similis eius et tunc
erat in comitatu ipsius. 2 Exsurgens autem quidam de insidiis, cum hostem suum
hunc esse putaret, tam letaliter eum plagis pluribus gladiavit, ut nulla
prorsus superesset spes recuperandae salutis. 3 Siquidem primo inflicta
percussio humerum cum brachio pene totum absciderat, et ictus alius sub
mammilla tantam reliquerat aperturam, ut flatus inde procedens circa sex
candelas simul iunctas exstingueret. 4 Cum igitur iudicio medicorum ipsius
impossibilis esset curatio, pro eo quod, putrescentibus plagis, ex eis foetor
tam intolerabilis exhalaret, ut etiam ipsa eius uxor vehementer horreret,
nullisque iam humanis iuvari posset remediis, convertit se ad beati Patris
Francisci patrocinium quanta poterat devotione poscendum, quem et inter ipsos
ictus una cum beata Virgine fidentissime invocarat. 5 Et ecce, misero in
lectulo calamitatis solitario decubanti, cum Francisci nomen vigilans et
eiulans frequentius replicaret, adstitit quidam in habitu fratris Minoris, per
fenestram, ut ei videbatur, ingressus. 6 Qui vocans eum ex nomine cfr. Is
40,26), dixit: ”Quia fiduciam habuisti in me, ecce, Dominus liberabit te”. 7 A
quo cum aeger, quis esset, inquireret, Franciscum ille se esse respondit et
statim appropians vulnerum illius ligaturas resolvit et eum unguento per omnes
plagas, ut videbatur, perunxit. 8 Statim autem, ut sensit illarum sacrarum
manuum stigmatum Salvatoris virtute sanare valentium suavem contactum, expulsa
putredine, restituta carne et vulneribus solidatis, restitutus est integre
pristinae sospitati. 9 Quo facto, beatus Pater abscessit. 10 Et ipse sentiens
se sanatum et in vocem divinae laudis et beati Francisci laetanter erumpens,
vocavit uxorem. 11 At illa celerius currens et stare iam videns quem
sepeliendum credebat in crastino, cum esset stupore vehementer perterrita,
viciniam totam clamore complevit. 12 Accurrentes autem sui, cum illum
niterentur tamquam phreneticum in lecto reponere, et ille econtra renitens
assereret et ostenderet se sanatum; tanto sunt stupore attoniti, ut quasi sine
mente omnes effecti, phantasticum esse crederent quod videbant, quia quem paulo
ante conspexerant plagis atrocissimis laniatum et totum iam marcidum, plena
cernebant incolumitate iucundum. 56/75 13 Ad quos ille qui factus fuerat sanus:
”Nolite timere”, inquit, ”nolite credere inane quod cernitis, quia sanctus
Franciscus modo a loco recessit et illarum sacrarum manuum tactu me integre ab
omni plaga curavit”. 14 Crebrescente tandem huius fama miraculi, accelerat
populus omnis et videntes in tam aperto prodigio stigmatum beati Francisci
virtutem, admiratione simul et gaudio replebantur Christique signiferum magnis
laudum praeconiis extollebant. 15 Digne quidem beatus Pater, carne iam mortuus
et vivens cum Christo, praesentiae suae ostensione mirabili et manuum sacrarum
palpatione suavi vulnerato letaliter viro sanitatem concessit, 16 cum illius in
se stigmata tulerit, qui, misericorditer moriens et mirabiliter surgens,
vulneratum genus humanum et semivivum relictum IcfLuc 10,30) plagarum suarum
virtute sanavit.» A Lerida (Lleida) in Spagna, un uomo è guarito dall’apparizione
di san Francesco accompagnato da due angeli, dopo che i dottori l'hanno dato
per spacciato allontanandosi dalla sua stanza. Le figure sono molto più
statiche e dipinte in una maniera che fa risaltare meno il volume e più la
linea, le architetture appaiono gracili più che mai. In ogni caso i disegni
preparatori sono attribuiti allo stesso maestro che ha curato tutto il ciclo.
La Confessione
della donna resuscitata. « 1 In castro Montis Marani prope Beneventum mulier
quaedam sancto Francisco peculiari devotione cohaerens, viam universae carnis
intravit (cfr. Ios 23,14). 2 Convenientibus autem clericis nocte ad exsequias
et vigilias cum Psaltertis decantandas, subito cunctis cernentibus, erexit se
mulier super lectum et unum de adstantibus sacerdotem, patrinum videlicet suum,
vocavit dicens: “Volo confiteri, pater, audi peccatum meum! 3 Ego enim mortua
duro eram carceri mancipanda, quoniam peccatum, quod tibi pendam, necdum
confessa fueram. 4 Sed orante”, inquit, ”pro me sancto Francisco, cui, dum
viverem, devota mente servivi, redire nunc ad 57/75 corpus indultum est mihi,
ut, illo revelato peccato, sempiternam promerear vitam. 5 Et ecce, vobis
videntibus, postquam illud detexero, ad promissam requiem properabo”. 6
Trementer ergo sacerdoti trementi confessa, post absolutionem receptam quiete
se in lecto collegit et in Domino feliciter obdormivit (cfr. Act 7,60). » Tra
lo stupore dei familiari la donna si risveglia e confessa i suoi peccati a un
religioso, mentre un angelo nella stanza scaccia via un diavolo con ali di
pipistrello, simbolo della redenzione della donna. Notevole è comunque,
nell'angolo in alto a destra, la figura di Francesco che, voltato e di scorcio,
prega verso il Cristo.
Francesco
libera l'eretico Pietro di Alife. Scrive Bonaventura « 1 Residente in sede
beati Petri domino Gregorio Nono, quidam Petrus nomine de civitate Alifia, de
haeresi accusatus, Romae captus est et de mandato eiusdem Pontificis, ad
custodiendum traditus episcopo Tiburtino. 2 Quem sub poena episcopatus
accipiens, compedibus alligavit obscuroque ipsum carcere, ne posset effugere,
fecit includi, panem ei praebens in pondere et poculum in mensura (cfr. Ez
4,16). 3 Coepit autem homo ille beatum Franciscum ad sui miserendum multis
precibus et fletibus invocare, eo quod audierat solemnitatis eius iam adesse
vigiliam. 4 Et quoniam fidei puritate omnem abdicaverat haereticae pravitatis
errorem totaque cordis devotione adhaeserat fidelissimo Christi servo
Francisco, intercedentibus ipsius meritis, a Domino meruit exaudiri. 5 Instante
enim iam nocte suae festivitatis, circa crepusculum beatus Franciscus in
carcerem miseratus descendit et illum suo nomine vocans, ut cito surgeret,
imperavit. 6 Qui timore perterritus (cfr. 1Par 10,4), quisnam esset,
interrogans, beatum Franciscum adesse audivit. 7 Cumque virtute praesentiae
viri sancti vincula pedum suorum confracta conspiceret cecidisse, et tabulas
carceris clavis ultro prosilientibus aperiri, et apertum iter sibi ad exeundum
praeberi: solutus tamen et obstupefactus fugere nesciebat, sed ad ianuam
clamans, custodes omnes perterruit. 8 Qui cum eum liberatum a vinculis episcopo
nuntiassent, post intellectum ordinem rei, ad carcerem pontifex devotus
accessit, et manifeste Dei virtutem cognoscens, ibidem Dominum adoravit (cfr.
Mar 5,30; Gen 24,26). 9 Vincula quoque coram domino Papa et cardinalibus delata
fuerunt, qui, videntes quod factum fuerat (cfr. Luc 23,47), admirati plurimum
benedixerunt Deum (cfr. Luc 23,47).» Pietro di Alife, accusato di eresia era
stato arrestato a Roma e preso in custodia dal vescovo di Tivoli; nel carcere,
per intercessione del santo, Pietro è liberato dai ceppi e al vescovo non resta
che riconoscere il prodigio. L'esecuzione degli ultimi tre affreschi è
attribuita a un allievo, forse il cosiddetto Maestro della Santa Cecilia.
Infatti, se le architetture sono ancora fantasticheggianti e ben definite, le
figure umane hanno perso quel volume tipico di Giotto, anzi sono allungate e la
loro figura è più impostata a un linearismo statico, i gesti sono forzati. La
figura di Pietro ricorda già alcuni tipi presenti nella Cappella degli
Scrovegni.
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