mercoledì 27 maggio 2015

Incontro con Eugenio Montale

I limoni
Da Ossi di seppia[1]
A questa lirica, composta a cavallo tra 1921 e 1922, Montale affida, insieme alla precedente In limine e alla successiva Non chiederci la parola, alcune fondamentali dichiarazioni programmatiche. La demistificazione dell’aureola dei “poeti laureati” (e della loro roboante retorica, in primis dannunziana), qui rappresentate dalle piante dell’illustre tradizione poetica (i “bossi”, “ligustri” o “acanti” del verso 3), si accompagnano alla celebrazione dell’immagine povera e umile dei limoni, capace tuttavia di provocare un sussulto del cuore, o meglio una vera rivelazione epifanica che dispieghi “il punto morto del mondo” (v. 27), il senso più profondo delle cose: qui si manifesta il relativismo prospettico della filosofia montaliana, il cui anelito più profondo è non tanto quello di trovare la verità assoluta, mai raggiungibile, ma una delle tante verità possibili.
Componimento di quattro strofe di lunghezza variabile (dai dieci ai quindici versi liberamente rimati, spesso endecasillabi e settenari, anche doppi). Fitta è la tramatura di assonanze e consonanze.

Ascoltami[2], i poeti laureati[3]
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati[4]: bossi ligustri o acanti[5].
Io[6], per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate[7] agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze[8] che seguono i ciglioni[9],
discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.

Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall'azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell'aria che quasi non si muove[10],
e i sensi di quest' odore
che non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta[11].
Qui delle divertite[12] passioni
per miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l' odore dei limoni.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s' abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l' anello che non tiene,
il filo da disbrogliare[13] che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d' intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità[14].

Ma l'illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l'azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s'affolta
il tedio dell'inverno sulle case[15],
la luce si fa avara - amara l' anima[16].
Quando un giorno da un malchiuso portone[17]
tra gli alberi di una corte
ci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d' oro della solarità[18].


Non chiederci la parola
·         Montale affida la propria dichiarazione di poetica a questa poesia dall’intonazione lapidaria, epigrammatica (la prima della sezione Ossi di seppia, che dà il titolo al libro), rivolgendosi ad un destinatario imprecisato (con un generico “tu”), e parlando al plurale, a nome di un’intera generazione di poeti.
·         Rigettando facili certezze, con questo componimento si prende atto che la nuova poesia - lungi dall’avvalersi di una parola definitiva, unica, infallibile - può esprimersi solo in negativo (vv. 11-12: “Codesto solo oggi possiamo dirti, | ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”).
·         Il testo si articola in tre quartine di metri di varia lunghezza, con numerosiendecasillabi e doppi settenari, variamente rimati. Schema metrico: ABBA CDDC EFEF (con rima ipermetra ai vv. 6-7).

Non chiederci la parola che squadri da ogni lato
l’animo nostro informe[19], e a lettere di fuoco[20]
lo dichiari e risplenda come un croco[21]
perduto in mezzo ad un polveroso prato.

Ah, l’uomo che se ne va sicuro,
agli altri e a se stesso amico,
e l’ombra sua non cura che la canicola[22]
stampa sopra uno scalcinato muro[23]!

Non domandarci la formula[24] che mondi possa aprirti,
sì qualche storta sillaba e secca[25] come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.

Meriggiare
·         In questa poesia scritta probabilmente nel 1916 e tra le più significative del primo Montale, il paesaggio ligure, colto nel caldo meriggio estivo e ricco di particolari concreti, diventa trascrizione metaforica della vita inaridita e priva di senso: il frusciare delle serpi, il movimento incessante delle formiche, il suono quasi metallico del mare, sono tutte espressioni del brancolare privo di senso, dietro le quali si annida prepotentemente il nulla, così apertamente denunciato nella poesia dello scrittore genovese. Non a caso il componimento si chiude con l’immagine del muro che ha in cima "cocci aguzzi di bottiglia", correlativo oggettivo dell’impossibilità di travalicare il limite della condizione umana e comprenderne il significato più profondo.
·         Il correlativo oggettivo è un procedimento poetico, inizialmente elaborato da Thomas Stearns Eliot e poi autonomamente ripreso e sviluppato da Eugenio Montale, per cui una determinata sensazione o emozione viene rappresentata sulla pagina attraverso alcuni oggetti concreti o una situazione particolare, che dovrebbero suscitare nel lettore ciò che prova il poeta senza necessità di mediazione o di spiegazione.
·         La poesia si compone di tre quartine e una strofa conclusiva di cinque versi (di varia misura, dall’endecasillabo al novenario) con rime secondo lo schema: AABB CDCD EEFF GHIGH (C è rima ipermetra, veccia: intrecciano; I, irrelato, è in consonanza con tutti i versi dell’ultima strofa).

Meriggiare[26] pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.

Nelle crepe dei suolo o su la veccia[27]
spiar le file di rosse formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di minuscole biche[28].

Osservare tra fronde il palpitare
lontano di scaglie di mare[29]
mentre si levano tremuli scricchi[30]
di cicale dai calvi picchi[31].

E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia[32]
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia[33].

Spesso il male di vivere
·         Questa poesia, databile attorno al 1924, fa parte della sezione Ossi di seppia dell’omonima raccolta, ed esplicita il concetto cardine del sistema filosofico montaliano, il “male di vivere” che si staglia icasticamente nella mente del lettore attraverso un susseguirsi di immagini che emblematicamente ne diventano l’espressione.
·         Il bene non è in alcun modo ravvisabile, se non nella “divina Indifferenza”, intesa come unica evasione possibile.
·         È composta da due quartine di endecasillabi (a eccezione dell’ultimo verso, che è un doppio settenario. Schema metrico: ABBA CDDA).

Spesso il male di vivere[34] ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l'incartocciarsi della foglia
riarsa[35], era il cavallo stramazzato[36].

Bene non seppi, fuori del prodigio[37]
che schiude la divina indifferenza[38]:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Dora Markus
Da Le occasioni[39] di Eugenio Montale
·         Testo inserito nella prima sezione delle Occasioni, Dora Markus è poesia che conosce una particolare gestazione: se la prima elaborazione risale all’incirca al 1928 (quando il letterato Bobi Bazlen segnala all’amico Montale la bellezza di una ragazza moldava, Dora Markus, che ispira la prima parte del testo), il poeta completa la poesia aggiungendovi la seconda parte solo nel 1939. La parentesi non è solo cronologica, in quanto collega due stagioni ben distinte della poetica di Montale: dalla ricognizione del proprio “male di vivere” negli Ossi di seppia si passa all’allargamento di prospettiva de Le occasioni.
·         Il ricordo della Markus e dell’incontro con lei a Ravenna (il “porto Corsini” del v. 2) è lo spunto narrativo per imbastire una profonda riflessione sul senso della memoria e delle azioni umane. All’evocazione di Dora dei vv. 1-10 segue infatti la proiezione del ricordo che il poeta ha di lei, e in particolare della “irrequietudine” (v. 16) che la fa somigliare ad un uccello migratore, in perenne lotta per quella sopravvivenza forse assicurata solo da un “amuleto” (v. 25) che Dora ha con sé e che ci ricorda pure la funzione del “correlativo oggettivo” negli Ossi di seppia, cui questa prima parte è assai vicina. Nella seconda parte, Montale allarga e complica il proprio sguardo: se l’“ormai” di apertura (v. 29) indica da subito la frattura temporale tra i due momenti del ricordo della Markus, a ciò s’aggiunge la dislocazione geografica. Da Ravenna si passa alla Carinzia, terra d’origine di Dora e probabile meta del suo vagare da esule. Montale ricostruisce l’ambiente di provenienza della donna, e ne sottolinea la vicenda (quella di un’ebrea su cui sta per abbattersi la “fede feroce” della persecuzione nazista) per alludere tra le righe ad un più generale fallimento esistenziale e storico. Dora, in cui per ammissione dello stesso Montale si sommano le figure di altre donne (tra cui Gerti Frankl Tolazzi, ebrea di origine austriaca e destinataria della poesia Il carnevale di Gerti, e Clizia, e cioè quella Irma Brandeis costretta alla fuga negli Stati Uniti per sfuggire alle leggi razziali), diventa allora simbolo di una vera e propria condizione umana, sradicata e senza certezze, in cui il flusso perverso della Storia (la “voce, leggenda o destino...” del v. 60) pare trascinare senza sosta e senza ragione gli esseri umani. La figura femminile, recuperata dalla memoria, diventa così una ‘occasione’, una possibilità per estrarre una verità (pur di sapore negativo) dalla apparente insensatezza del mondo.
·         Stilisticamente elaborata e caratterizzata dal frequente ricorso ad espressioni letterarie marcate e neologismi di spiccato valore metaforico ("lucida di fuliggine", "le tue parole iridavano come le scaglie | della triglia moribonda", "quel lago | d'indifferenza che è il tuo cuore", tra le altre), Dora Markus è composta da versi liberi, tra cui prevalgono endecasillabi e settenari per quanto riguarda la prima parte (vv. 1-28), novenari ed ottonari per la seconda (vv. 29-61).

[I sezione] Fu dove il ponte di legno
mette a Porto Corsini sul mare alto[40]
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti. Con un segno
della mano additavi all'altra sponda
invisibile la tua patria vera[41].
Poi seguimmo il canale fino alla darsena[42]
della città, lucida di fuliggine[43],
nella bassura dove s'affondava
una primavera inerte, senza memoria.
E qui dove un'antica vita
si screzia in una dolce
ansietà d'Oriente[44],
le tue parole iridavano come le scaglie
della triglia moribonda.
La tua irrequietudine mi fa pensare
agli uccelli di passo[45] che urtano ai fari
nelle sere tempestose:
è una tempesta anche la tua dolcezza,
turbina e non appare[46],
e i suoi riposi sono anche più rari.
Non so come stremata tu resisti
in questo lago
d'indifferenza[47] ch'è il tuo cuore; forse
ti salva un amuleto che tu tieni
vicino alla matita delle labbra,
al piumino, alla lima: un topo bianco
d'avorio; e così esisti!
[II sezione] Ormai nella tua Carinzia[48]
di mirti fioriti e di stagni,
china sul bordo sorvegli
la carpa che timida abbocca
o segui sui tigli, tra gl'irti
pinnacoli[49] le accensioni
del vespro e nell'acque un avvampo
di tende da scali e pensioni[50].
La sera che si protende
sull'umida conca non porta
col palpito dei motori
che gemiti d'oche e un interno
di nivee maioliche dice
allo specchio annerito che ti vide
diversa[51] una storia di errori
imperturbati[52] e la incide
dove la spugna non giunge[53].
La tua leggenda, Dora!
Ma è scritta già in quegli sguardi
di uomini che hanno fedine
altere[54] e deboli in grandi
ritratti d'oro e ritorna
ad ogni accordo che esprime
l'armonica guasta[55] nell'ora
che abbuia, sempre più tardi.
È scritta là. Il sempreverde
alloro[56] per la cucina
resiste, la voce non muta[57],
Ravenna è lontana, distilla
veleno una fede feroce[58].
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino...[59]
Ma è tardi, sempre più tardi.


[1] Ossi di seppia - Già in apertura della prima raccolta montaliana, con la poesia I limoni, incontriamo il nucleo di questa angoscia: il mondo morto che come una rete strìnge nell'orrore della necessità, dell'alienazione; e d'altra parte la ricerca disperata di un «fantasma» che salvi, di una «maglia rotta nella rete», l'illusione di una fuga, di una possibile libertà.
La salvezza può essere simbolicamente l'odore dorato e divino dei limoni, apparsi da un «malchiuso portone», oppure può essere un «vento» che sembra smuovere per un istante le «giostre d'ore troppo uguali», oppure l'epifania di una fanciulla che si tuffa fulminea in acqua (come Esterina in Falsetto, che inizia una lunga serie di donne-simbolo). Non a caso queste prime poesie si chiamano Movimenti: forme musicali, ma ancor più lampi di speranza, slanci che paiono interrompere la paralisi che avvolge e congela ogni gesto della vita. Ma i segni del negativo, dell'aridità, della morte, non si dissolvono mai del tutto, e dopo ogni illusione tutto si richiude sugli uomini, sul poeta che percorre le inospitali strade dei paesaggi liguri: l'agave abbarbicata sullo scoglio diventa la perfetta allegoria di questa dolorosa e inutile esistenza.
Dopo i Movimenti leggiamo le poesie intitolate Sarcofaghi, ed il mondo sembra davvero addormentato per sempre, pietrificato. Sta proprio qui, in quest'intuizione della durezza più insensibile del vivere, la ispirazione più personale e atroce del primo Montale, che si avvicina così per certi aspetti a Sbarbaro. La poesia del negativo, tutta intessuta dei segni dell'impossibilità, tocca il culmine nella sezione intitolata appunto Ossi di seppia: una serie di rapide illuminazioni paesaggistiche che si dilatano ogni volta a dimensioni quasi metafìsiche. E cosi gli «scalcinati muri», questa terra «abbagliata» dal sole, schiaffeggiata dal vento, diventano gli emblemi di una condizione umana senza vie d'uscita: «Codesto solo oggi possiamo dirti, / ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Gli Ossi sono la misurazione disperata del perimetro d'una «muraglia» entro la quale i gesti della sopravvivenza si ripetono identici, dove regna il «disagio», la «pena invisibile», la stanchezza: una prigione che rende tutto uguale, «miele e assenzio», un «male di vivere» che toglie ogni «luce», lasciando solo la calura di un eterno clima canicolare. L'attesa della «buona pioggia» è destinata a non essere mai esaudita. Unico sollievo, allora, sono certi incanti della memoria, come benefica acqua che disseta, riflesso purissimo che per un attimo sconfigge il «fuoco» ossessivo dell'esistenza (e si leggano, ma già fuori dalla serie degli Ossi, poesie come Vasca o Fine dell'infanzia).
Per pronunciare questa negatività la poesia montaliana si serve di oggetti e ritmi che non appartengono tutti al repertorio sublime della poesia tradizionale, e non rinuncia a utilizzare le suggestioni più varie, legandosi per esempio in stretto rapporto con la poesia dannunziana oltre che con le prove crepuscolari. Il risultato è una ambigua e difficile mescolanza di cadenze povere e aristocratiche (pensiamo per esempio a certo raffinatissimo lessico), che si accompagna però sempre ad un'esibizione della propria incapacità a poetare «alla grande»: la dizione montaliana, insomma, è nonostante tutto sempre una «debole vita che si lagna», un «balbo parlare», «lettere fruste e inaridite». Ed allora i termini rari, le musicali cadenze, come gli oggetti più splendidi e d'eccezione, non sono altro che le reliquie di un catalogo caotico e scompaginato, accavallate senza scopo accanto ai paesaggi più banali, ai dati più elementari (e si legga la serie di Mediterraneo, che è una sorta di dichiarazione di poetica, proprio sotto il segno di un linguaggio «scabro ed essenziale»).
Le poesie conclusive della raccolta, riunite nella sezione Meriggi e ombre, riprendono i medesimi temi con un'orchestrazione molto più complessa e intricata, portando la poesia montaliana già alle soglie delle Occasioni (pensiamo per esempio al poemetto Arsenio, a testi come Incontro o Casa sul mare, splendide sintesi dei modi di questo primo Montale). E intanto i versi insistono sempre più sul motivo del tempo che trascina e sconvolge le cose, come un flusso insensato e sempre uguale, come l'avanti e indietro del mare: tutto discende in uno «sfacelo» senza nome, in un'infinita fatica che non porterà mai alla libertà, che non districherà mai una ragione dal «limbo squallido / delle monche esistenze». «Tutto è fisso», dunque, «tutto è scritto». L'invito col quale Montale con­clude l'ultima poesia della raccolta (Riviere), l'invito a ripetere un giorno gli slanci dell'adolescenza, a «cangiare in inno l'elegia», l'invito a «rifiorire», risuona davvero come una triste e consapevole ironia.
[2] Ascoltami: imperativo e apostrofe al lettore, al quale il poeta si rivolge con il “tu”.
[3] laureati: cinti d’alloro, cioè riconosciuti pubblicamente come poeti.
[4] usati: rima al mezzo con il precedente "laureati".
[5]bossi ligustri o acanti: Montale usa ironicamente questi tecnicismi per irridere la retorica dell’illustre tradizione poetica. In realtà il componimento non è privo di ricercatezza stilistica, che si esplica nella terminologia, negli artifici fonici, nelle scelte metriche.
[6] Io: con il pronome a inizio verso,  in posizione marcata, Montale ribadisce la presa di distanza rispetto ai poeti laureati.
[7] mezzo seccate: l’attributo (come il successivo “sparuta”) concorre a designare il paesaggio brullo e arido dell’adolescenza montaliana, così ricorrente nella sua produzione poetica ed emblema di una condizione esistenziale.
[8] Attraverso l’immagine della stradina che sbuca tra gli alberi dei limoni, il descrittivismo di questa prima strofe si imprime di un forte slancio vitalistico.
[9] ciglioni: sono i bordi dei fossi.
[10] nell’aria che quasi non si muove: un’immagine di staticità che si contrappone a quella che chiudeva la prima strofa. Si ricordi che negli Ossi di seppia è sempre importante lo scenario, paesaggistico ed atmosferico, in cui s’ambientano le parole del poeta.
[11]dolcezza inquieta: l’ossimoro dà ben conto della contraddizione tra il miracolo epifanico dell’odore dei limoni e l’inquietudineprovocata da questo evento.
[12] divertite: pervertite (dal latino divertere, “volgere altrove”).
[13] il filo da disbrogliare: assieme con lo “sbaglio di natura” (v. 26), il “punto morto del mondo” (v. 27), “l’anello che non tiene” (v. 27), è uno degli emblemi di una possibile dimensione salvifica postulata dal poeta, cui si può accedere solo per dei casuali pertugi che si aprono nella vita di tutti i giorni.
[14] qualche disturbata Divinità: la pace, ancorché precaria, provocata da questi silenzi, consente quasi di individuare una presenza divina nell’uomo: si tratta però di un’illusione, come chiarito fin dalla congiunzione avversativa che apre la strofa successiva.
[15] Il miracolo non si è realizzato davvero, e le immagini del tedio cittadino (il “tedio dell’inverno sulle case”) riportano il poeta ad una constatazione dell’amara realtà.
[16] Il verso è costruito chiasticamente, con i due aggettivi al centro (“avara - anima”, e i rispettivi nomi all’estremità; la costruzione, letterariamente connotata, riassume la situazione di crisi dell’uomo estraneo al miracolo epifanico dei “limoni”, e in un certo senso ne prepara l’irrompere nel “gelo del cuore” (v. 46) e l’esplosione delle “trombe d’oro della solarità” (v. 49).
[17] un malchiuso portone: rappresenta efficacemente l’anelito di felicità dell’uomo, una felicità - per quanto precaria - ravvisabile in immagini rasserenanti, epifanie salvifiche, come quella offerta dal giallo solare dei limoni.
[18] le trombe d’oro della solarità: la chiusura del testo non è solo una capitale dichiarazione di poetica, ma è anche studiata dal punto di vista formale; nell’ultimo verso, la felicissima sinestesia unisce al suono squillante delle trombe (che quasi annunciano la rivelazione dei “limoni”) il colore splendente del sole, che si oppone alla triste stagione invernale e annuncia una possibilità di felicità per il poeta in mezzo ai tormenti del mondo.
[19] L’animo è informe in quanto disgregato: di quest’alienazione e scissione dell’io non si può dare conto se non attraverso una parola altrettanto alienata e disgregata, ben diversa dalla parola assoluta, che squadra e definisce in maniera perentoria ed asseverativa.
[20] lettere di fuoco: impresse indelebilmente. Sono le parole del poeta-vate, figura anacronistica e già contestata nell’incipit de I limoni, non più adatta a esprimere la condizione contemporanea.
[21] croco: è il fiore dello zafferano, che con il suo colore acceso stride nello squallore desolante del “polveroso prato” della contemporaneità.
[22] canicola: è il sole di mezzogiorno, che disegna l’immagine di colui che passa sul muro.
[23] Il muro, come in Meriggiare pallido e assorto, è nella poesia montaliana emblema del limite. Qui c’è un’ulteriore connotazione desolante, espressa dall’attributo scalcinato.
[24] Non domandarci la formula: il poeta torna, con variatio, a ribadire quanto già espresso nel primo verso. Quella che prima però era una “parola” (cioè una massima, una legge di vita universale) è qui una “formula”: per Montale, sia i valori umanistici sia l’indagine scientifico-matematica del mondo non possono più assicurare alcun tipo di certezza.
[25] storta sillaba e secca: il periodare ellittico e l’ipallage ben si adeguano, a livello stilistico, a una parola che può esprimersi solo in modo stentato, conforme ad una poesia che rifugge ogni retorica in favore di una forma scarna ed essenziale.
Figura retorica (dal greco hypallásso, “modifico, cambio”) per cui un termine viene grammaticalmente riferito ad un elemento diverso da quello cui si riferirebbe dal punto di vista del significato.
[26] Meriggiare: è il primo di una lunga serie di infiniti e forme impersonali (“ascoltare” “Osservare”, “andando”, “sentire”, “seguitare”) che ricorrono nel componimento, a dar conto di una situazione di desolante staticità nella quale l’io poetico è immerso, in impassibile e inerte contemplazione.
[27]  veccia: è una pianta rampicante.
[28] biche: sono i mucchietti di terra, prodotti dal continuo scavare delle formiche. Nella descrizione dell’insensatezza di vivere che pervade il creato, questa descrizione sembra ricordare quella del “Giardino del dolore” che Leopardi aveva affidato alle pagine dello Zibaldone.
[29] scaglie di mare: immagine che Montale ebbe modo di spiegare nel Quaderno genovese: “Un mare che si dibatte sulla riva fangosa e trema e splende in tutte le scaglie come un pesce gigantesco”. Caratteristica degli Ossi di seppia è propria questa capacità di cogliere nel dato paesaggistico le luci, i colori e le forme e nel tradurli nella manifestazione concreta di uno stato esistenziale, che in essi si oggettiva.
[30] tremuli scricchi: il suono vibrante delle cicale è reso anche fonicamente. I suoni aspri, che ricorrono per tutta la poesia (fino a subire un’accentuazione nella strofa finale), ricordano le scelte stilistiche del Dante delle “rime petrose”.
[31] calvi picchi: cime rocciose prive di qualsiasi forma di vegetazione ("calvi"), a ribadire l’immagine di aridità già suggerita nel primo verso. L’impressione di inquietudine esistenziale, oltre che dal paesaggio brullo e dal ricorso ai correlativi oggettivi, è data anche dal ricorso assai insistito e talora combinato a suoni aspri e secchi della - c - velare (“schiocchi”, “crepe”, “formiche”, “biche”, “scricchi”, “picchi”) della - s - e della - r - (“merli”, “frusci”, “serpi”, “s’intrecciano”, “frondi”, “triste”), del gruppo - gl - (“abbaglia”, “meraviglia”, “travaglio”, “muraglia”, “bottiglia”), oltre che ovviamente da alcune rime particolarmente evidenti, come quelle dell’ultima strofe.
[32] triste meraviglia: è la consapevolezza dell’impossibilità (e dell’inutilità) di qualsiasi ribellione al “male di vivere", per l’assenza di una qualsiasi spiegazione alla nostra esistenza di là del muro.
[33] La poesia si chiude con l’immagine della muraglia con in cima cocci di vetro (“muraglia”, e non semplicemente “muro”: a suggerire l’idea di qualcosa di davvero invalicabile, quasi che si trattasse, più che di una barriera fisica, di una condizione metafisica ed esistenziale). Il muro è emblema del limite che non può in alcun modo essere superato e dell'insensatezza dell’esistenza in tanta produzione poetica novecentesca: si pensi, a titolo esemplificativo, all’eloquente titolo scelto da Giorgio Caproni per una delle sue ultime e più importanti raccolte poetiche, Il muro della terra.
[34] il male di vivere: lo spunto è quello del pessimismo cosmico leopardiano, come definito al v. 104 del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia: “[...] a me la vita è male”.
[35] foglia riarsa: l’elenco, la climax ascendente, delle manifestazioni concrete del “male” è ulteriormente sottolineato dal netto enjambement tra i vv. 3-4, duplicato nella seconda quartina ai vv. 7-8 (“nella sonnolenza | del meriggio”).
[36] Lo stato sofferente della natura e il momento “negativo” della contemplazione della realtà da parte di Montale è ravvisabile in un ruscello ostacolato nel suo corso, in una foglia colta nel suo accartocciarsi, in un cavallo stramazzato, tutti correlativi oggettivi del “male di vivere”.
[37] prodigio: come tipico della poetica degli Ossi di seppia, è l’inattesa salvezza che si può sprigionare da un istante casuale della nostra esistenza.
[38] divina Indifferenza: è da intendersi come “atarassia” (dal greco ἀταραξία, “imperturbabilità”), termine che, dalla filosofia di Democrito in poi ma soprattutto per eredità delle scuole epicuree, stoiche e scettiche, designa l’atteggiamento di distacco e di liberazione dalle passioni che dovrebbe perseguire il saggio. Per Montale la disamina dei mali del mondo condotta nella prima quartina non può che condurre, come unica e precaria forma di felicità e bene, all’indifferenza rispetto ai propri tormenti interiori. Non a caso le immagini della seconda quartina sono statiche e nettamente contrapposte al dinamismo pur sofferente della natura, catturato in modo così efficace nella prima strofa. La contrapposizione si esprime anche nelle scelte foniche: ai suoni “rivo”, “foglia”, “cavallo”, si contrappongono i suoni aspri della serie “strozzato”, “gorgoglia”, “incartocciarsi”, “stramazzato”.
[39] Le occasioni – È la seconda raccolta poetica di Montale, pubblicata da Einaudi nel 1939. Essa annovera al suo interno la produzione poetica dell’autore tra il 1928 e il 1939, e la raccolta conoscerà anche, nelle edizioni successive, modifiche ed aggiunte.
Rispetto ad Ossi di seppia, sono evidenti da subito alcuni cambiamenti nella poetica montaliana: dalla poesia del paesaggio ligure di Ossi di seppia passiamo (complice anche il trasferimento del poeta a Firenze nel 1927) a testi che si concentrano maggiormente su una figura femminile, di nome Clizia, che, amata e mancante, diventa una figura emblematica della poesia di Montale. Clizia - al secolo, Irma Brandeis - assume contemporaneamente i tratti di una donna reale e quelli della donna salvatrice e angelicata, che, richiamando alla memoria la tradizione stilnovista, diventa per il poeta l'ultima àncora di salvezza dal disastro storico e personale cui egli assiste. Questo miraggio di salvezza che Montale intravede (e che lo distoglie, almeno in parte, da una condizione di solitudine), verrà ulteriormente sviluppato nella raccolta successiva, La bufera. Tuttavia, ne Le occasioni, anche la realtà esterna e contingente riveste un compito importante: il pessimismo montaliano (che assume quasi i tratti di un filosofia esistenzialista), si sviluppa ulteriormente, accettando come un dato di fatto la disarmonia del mondo e della vita già intuita nella raccolta precedente.
Questo moto introspettivo si traduce in una poesia più complessa e 'difficile' rispetto a quella della raccolta precedente: spesso gli oggetti reali che il poeta evoca (recuperando la lezione del "correlativo oggettivo" del poeta inglese T. S. Eliot, per cui alcuni oggetti diventano il corrispettivo concreto di una specifica emozione) sono simboli o sfumate allusioni per dare forma ai propri stati interiori. Sul piano stilistico, colpiscono le scelte letterariamente più elaborate da parte di Montale, l'uso di termini non comuni e rari, una sintassi più complessa e frequentemente "spezzata" dal ricorso all'enjambement o dall'uso di figure retoriche emetafore (in particolar modo, per la figura femminile).
[40] Lo sfondo è geograficamente ben determinabile: si tratta del ponte sul canale che collega Ravenna al Porto Corsini, e al suo molo che si protende sull’Adriatico. Da metà Settecento fino alla Prima guerra mondiale il Porto Corsini è stato il principale scalo marittimo della città romagnola.
[41] la tua patria vera: a seconda delle possibili identità di “Dora”, questa “patria” può essere individuata nella Moldavia (da dove proviene Dora Makus), nella Carinzia di Gerti Frankl, o - più probabilmente - alla terra d’Israele, intesa come patria ideale delle diverse figure femminili ebree (Dora, Gerti, Irma Brandeis) che confluiscono nella protagonista di questo testo.
[42] fino alla darsena: si tratta del porto interno di Ravenna.
[43] lucida di fuliggine: l’espressione, che allude al fatto che vicino alla “darsena” c’è una stazione ferroviaria, ha valore antifrastico, poiché la città splende pur coperta dalla coltre dei fumi delle locomotive.
[44]  una dolce ansietà d’Oriente: l’immagine paesaggistica e la “antica vita” (v. 11) alludono all’influenza bizantina sulla storia della città, ai cui preziosi mosaici fa riferimento il verbo “screziarsi” del v. 12, ai quali si sovrappone la “dolce ansietà” che è anche un tratto psicologico di Dora Markus, combattuta tra l’irrequietezza profonda e l’apparente impassibilità.
[45] uccelli di passo: si tratta di uccelli abituati a migrare, così come gli ebrei, nel mondo, sono in eterno pellegrinaggio, in quanto privi di una patria.
[46] turbina e non appare: altro rimando alla psicologia e all’identità ebraica di Dora, la cui ansia intima (nella seconda parte della poesia, dovuta anche all’incubo nazista all’orizzonte) non trapela quasi mai all’esterno, almeno per chi non la conosce bene.
[47] quel lago d’indifferenza: l’espressione è di origine letteraria: “Allor fu la paura un poco queta, | che nel lago del cor m’era durata”, Dante, Inferno, I, vv. 19-20.
[48] Carinzia: regione meridionale dell’Austria, in cui Montale immagina che si trovi Dora nel momento in cui scrive (sovrapponendole i dati biografici di Gerti Frankl, originaria appunto di quella regione). Quattro i laghi della regione (Faaker See, Millstaettersee,Ossiacher See, Wörther See).
[49] gl’irti pinnacoli: Montale si riferisce all’architettura neogotica tipica del XIX secolo e caratteristica delle cittadine austriache.
[50] Costruzione vv. 29-36: “Ormai sorvegli, nella tua Carinzia di mirti fioriti e di stagni, china sul bordo, la carpa che timida abbocca o segui sui tigli le accensioni del vespro tra gl’irti pinnacoli e [segui] nell’acque un avvampo di tende da scali e pensioni”
[51] diversa: forte, nella seconda parte di Dora Markus, il senso del passaggio inesorabile del tempo: da un lato, la protagonista e il poeta sono ormai separati e lontani; dall’altro, la stessa Dora si trova in un mondo che l’ha vista “diversa”, cioè giovane e potenzialmente felice.
[52] errori imperturbati: è il tema - dal latino errare, vagare continuamente - della continua diaspora, individuale e collettiva, cui è costretta Dora, che reagisce a questa situazione con la sua classica manifestazione di imperturbabilità.
[53] Si noti come nei vv. 36-45 Montale insista molto sulla dimensione coloristica, che affianca il tono cupo e pessimistico di questa strofe; sul calare della sera, dall’“avvampo di tende” (vv. 35-36) si passa al bianco delle “oche” e delle “nivee maioliche” (vv. 40-41), riflesse da uno “specchio annerito” dal passare del tempo.
[54] fedine severe: riferimento alla moda delle basette portate all’austroungarica, con riferimento cioè allo Stato natale di Dora.
[55]l’armonica guasta: si tratta, più precisamente, di un’armonica a bicchieri (o glassarmonica), strumento musicale settecentesco composto da una serie di coppe di vetro, fatte ruotare e suonate per mezzo delle dita inumidite. In questo caso, è un simbolo esplicito del declino del mondo asburgico, e dell’imminente tempesta della guerra mondiale.
[56] il sempreverde alloro: altro segno della crisi e del declino (con sotterranea ironia contro i “poeti laureati” già citati nel v. 1 de I limoni negli Ossi di seppia); il rametto della pianta che sanciva in passato la gloria poetica è qui, più prosaicamente, destinato all’uso in cucina.
[57] la voce non muta: Montale intende qui con “voce” il destino storico di sradicamento inscritto nel sangue di un popolo (e di Dora stessa).
[58] una fede feroce: allusione indiretta ma nettissima alla “fede feroce” (cioè, folle ed insensata) del nazismo, e all’Anschluss dell’Austria del marzo del 1938.
[59]  In chiusura di Dora Markus, piano individuale e piano collettivo (“voce, leggenda o destino”) si uniscono, nel constatazione senza speranza che è “sempre più tardi” per tutti.

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