mercoledì 13 maggio 2015

La rivoluzione narrativa di Svevo e Pirandello – letture scelte Massimo Capuozzo

Il romanzo moderno non si è formato nel quadro di una specifica letteratura nazionale, ma si è sviluppato con caratteristiche simili e problematiche corrispondenti nelle varie aree geografico-culturali dell'Europa.
Ne possono pertanto essere considerati rappresentanti scrittori di varia origine come Marcel Proust, James Joyce, Franz Kafka, Robert Musil, Joseph Roth, Thomas Mann, Italo Svevo, Luigi Pirandello nelle cui opere si riflette la crisi storico-scientifica-culturale dell'epoca.
Possiamo infatti constatare una stretta corrispondenza fra i contenuti e le forme di questo genere letterario e la situazione storico-politico-sociale-economica venutasi a configurare tra le due guerre.
La prima guerra mondiale influì particolarmente sulla produzione letteraria, sia descritta come evento temuto ed incombente (ad esempio ne ‘La marcia di Radetzky’ di Roth o ne ‘La montagna incantata’ di Mann), sia come fatto in divenire o già avvenuto (nella ‘Recherche’ di Proust o nella ‘Coscienza di Zeno’ di Svevo). Questa guerra infatti si differenziava da quelle precedenti sia perché fu «mondiale» sia perché si rivelò molto più distruttiva e inumana delle altre a causa dei nuovi mezzi bellici dovuti al progresso della scienza e della tecnica (ad esempio i gas velenosi, gli aerei ed i bombardamenti).
Il progresso della tecnica influì sulla crisi del romanzo come genere anche al di fuori dell'ambito della guerra: la diffusione del giornale, con la sua possibilità di portare notizie attuali, e l'invenzione del cinema muto con la maggiore immediatezza di comunicazione delle immagini contribuirono infatti a far diminuire il numero dei lettori.
Di fronte alle nuove problematiche si rivelano ormai inadeguate le forme convenzionali dei vari sistemi letterari ed artistici, quindi anche quelle del romanzo.
Alcuni caratteri comuni a questo tipo di narrativa sono:
1) Un primo elemento distintivo del romanzo moderno è costituito dall'abolizione della narrazione intesa nella maniera tradizionale: cadono cioè il racconto di avvenimenti concreti, la loro successione cronologica ed i nessi causali, quindi la coerenza della storia; la vita appare ormai illogica e casuale, quindi irraccontabile. La perdita della narrazione è ricompensata tramite la capacità che ha il romanzo di penetrare spiritualmente la sua materia.
2) Ovvia conseguenza delle osservazioni precedenti è il radicale cambiamento del rapporto fra interiorità ed esteriorità: nel romanzo tradizionale fra questi due mondi vi era un rapporto di relazione che prendeva le mosse da un'iniziale frattura o contrasto fra il protagonista e la realtà esterna, per arrivare, attraverso la maturazione o la lotta, ad un diverso stadio finale di miglioramento.
Ad esempio, nel «romanzo di formazione» il protagonista, mediante un lento processo evolutivo, arriva a conciliare le sue aspirazioni con i valori della realtà oggettiva in cui si trova a vivere. Così nel romanzo romantico lo scontro tra ideale e reale diviene drammatico e spesso si risolve con la sconfitta dell'eroe, che però ha pur sempre lottato per modificare la realtà, come nel caso di Jacopo Ortis di Ugo Foscolo. Ora invece il dualismo tra questi due mondi diviene esasperato fino ad eliminare ogni contatto fra di loro: il personaggio si limita a registrare la realtà o a prenderne coscienza, la svalorizza e, ormai convinto di non poter intervenire a modificarla, si ripiega esclusivamente sulla propria interiorità.
Anche nel romanzo ottocentesco si verificava questo processo di ripiegamento, che però portava a un potenziamento dello spirito e all'esaltazione dell'individuo; oggi invece il mondo interiore si svuota e si banalizza, e l'individuo si annulla. Si assiste quindi ad un procedimento diverso da quello dell'epopea che presupponeva una comunità nella quale l'individuo si realizzava: nel romanzo moderno la collettività è invece vista come una massa nella quale l'individuo scompare.
L'interiorità inoltre è ora osservata nei suoi aspetti banali e quotidiani, con lo stesso metodo con cui i naturalisti osservavano e descrivevano il «milieu», cioè l'ambiente esterno: in modo cioè analitico e particolareggiato, frantumandola nei suoi diversi aspetti.
3) I mezzi tecnici più adeguati per esprimere questa frantumazione della realtà interiore sono il monologo interiore ed il suo derivato, il flusso di coscienza (stream of consciousness), entrambi privi di una successione logica di pensieri e di nessi sintattici.
4) Il narratore, pur restando in posizione extradiegetica, non è più onnisciente: se si mette in primo piano, lo fa per evidenziare i suoi dubbi, le sue problematiche, in una visione personale e limitata della realtà; se invece si tira in disparte, lascia che gli eventi si verifichino limitandosi a registrarli senza commentarli.
5) Come il narratore, anche il personaggio va verso la dissoluzione: non vengono più descritti caratteri coerenti ed individualizzati come nel romanzo tradizionale, ma uomini comuni, «senza qualità», e dalla personalità indefinita e continuamente mutevole.
6) Altra caratteristica è il tema della malattia, continuamente presente nella finzione letteraria quale metafora della dissoluzione del personaggio. Questo motivo è apparso spesso con valore simbolico nella produzione artistica fin dal '400. Nell'800 poi la malattia, ed in modo particolare la tubercolosi, era considerata sì un flagello, ma anche l'equivalente della passione amorosa (vedi La signora dalle camelie e La traviata); inoltre la malattia diventava una giustificazione al desiderio dell'artista romantico di sottrarsi agli obblighi di lavoro della vita borghese, e dedicarsi così alla propria arte e all'affinamento dello spirito.
Nella seconda metà dell'800, col diffondersi del positivismo, si inizia a rappresentare la malattia in maniera scientifica e clinica, come avviene nella descrizione degli effetti dell'avvelenamento di Madame Bovary. Ricordiamo inoltre che i naturalisti, in base al principio dell'ereditarietà, videro delle malattie soprattutto gli effetti sociali come in Zola.
Nel 900 è la nevrosi che è assunta a simbolo della disgregazione interiore dell’intellettuale. Spingono a questa funzione metaforica della malattia vari motivi, come la scoperta e la diffusione della psicanalisi ed il fatto che molti intellettuali sono essi stessi malati. È questo un tema ricorrente nelle opere di Proust, Mann, Musil, Kafka, Svevo, Pirandello, ecc.
7) In questa prospettiva anche il ‘tempo’, che gioca un ruolo fondamentale, subisce notevoli trasformazioni. Nel romanzo tradizionale esso era visto oggettivamente, scandiva il ritmo delle azioni, la sequenza degli avvenimenti, stabiliva i nessi causali, comportava modifiche nei personaggi e nei fatti.
Nel romanzo del '900 ‘il tempo è interiorizzato’, non c'è evoluzione nell'azione, ma stasi; non è più quindi il tempo meccanico degli orologi o dei calendari a interessare l'autore, ma quello soggettivo, vissuto individualmente, messo in primo piano dalla filosofia di Henri Bergson. Il tempo quindi non è più quantificato rispetto al suo scorrere oggettivo, ma rispetto alla «durata» che ha nella coscienza del singolo, al quale un'ora può anche sembrare un anno o viceversa. Così cade il rapporto di proporzione fra ‘il tempo narrativo’ (quello che si impiega per leggere il libro e che è richiesto dalla voluminosità del testo) ed ‘il tempo narrato’ (l'ambito temporale cioè in cui si svolge la vicenda): ad esempio l' ‘Ulisse’ narra i pensieri di una sola giornata in 694 pagine!
8) Conseguenza del tempo vissuto soggettivamente è un altro aspetto tipico del romanzo moderno: ‘la simultaneità’, cioè la registrazione contemporanea di tutti i contenuti della coscienza, simultaneità che si sostituisce alla successione degli avvenimenti che caratterizzava il romanzo tradizionale. Sotto questo aspetto il tempo soggettivo del romanzo moderno è inteso in modo diverso dalla durata bergsoniana: questa consiste in un fluire ininterrotto, quello nell'affiancare l'uno all'altro momenti di tempo svincolati dalla successione cronologica: ad esempio i ricordi di Proust o il flusso di coscienza di Joyce.
L'annullamento del tempo meccanico si riflette anche sulla ‘struttura sintattica della frase’, che si frantuma nella esposizione “disordinata” dei momenti della coscienza, o si estende in misura esasperata per seguire il labirintico svolgersi dei pensieri. La disgregazione quindi della sintassi e dei modi di rappresentazione del romanzo moderno riflette il rapporto conflittuale dell'intellettuale con la realtà e la visione caotica, disgregata e incomprensibile che egli ha del mondo esterno.

La vita attuale è inquinata alle radici
Da La coscienza di Zeno[1] di Italo Svevo
·         La vita attuale è inquinata alle radici è una pagina giustamente famosa, una delle più interessanti della letteratura italiana del Novecento, densa di intuizioni che lasciano sbalordito il lettore, perché vi si trovano anticipati di decenni, i più drammatici problemi contemporanei: la questione ambientale, quella demografica, la situazione nucleare venutasi a creare con l'invenzione della bomba atomica.
·         Il messaggio del romanzo termina con l'affermazione del protagonista-narratore di aver finalmente conquistato la “salute” e insieme con la previsione catastrofica dell'estinzione dell'umanità a causa della follia dell'umanità stessa.
·         Al lieto fine della vicenda individuale fa da contrappeso la previsione della conclusione infausta della vicenda collettiva. Ma, a un minimo di riflessione, appare evidente che il successo di Zeno è dovuto alla violenza che egli esercita sugli altri ( la speculazione di guerra, che affama i più deboli, è una violenza tra le più ripugnanti); il successo individuale dell'eroe del romanzo si pone quindi sulla linea che inevitabilmente porta alla catastrofe dell'umanità. Lo psicoanalista che ha in cura Zeno, comunque, non crede nella sua guarigione, e il lettore una volta tanto può essere d'accordo con lui, ma per motivi diversi dai suoi, e che hanno a che fare con la psicoanalisi, e non solo con essa.
·         A parte ogni considerazione sullo spirito profetico della pagina conclusiva del romanzo, pure impressionante per molti versi, ora importa notare le conclusioni cui perviene il narratore. Nella pagina che immediatamente precede questa, Zeno afferma di essere guarito e che a guarirlo è stato il commercio, e cioè la decisione di comperare, proprio durante la guerra, qualunque cosa fosse in vendita. II successo commerciale gli ha dato la fiducia e la convinzione della salute che prima gli mancava («Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute»). Ma per l'appunto si tratta di una mera convinzione (soggettiva e illusoria, come soggettiva e illusoria era la convinzione della salute di Augusta), e Zeno ormai ne è conscio: «Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch'era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico [che nel sogno si rende conto di sognare] di volerla curare anziché persuadere». È la vita stessa ad essere "malattia". La malattia di Zeno s'identifica con la malattia della civiltà. In questa univocità, sta in definitiva la forza del romanzo al momento della sua conclusione. Guarire significa adeguarsi a una società che è radicalmente malata, tanto da trasformare la tragedia della guerra, lo sterminio di milioni di uomini in un'occasione di arricchimento per pochi (e cinici) privilegiati.
·         Le riflessioni conclusive del protagonista vertono appunto sul tema della malattia universale: La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. In gioco non c'è più il destino privato di un personaggio singolare e bizzarro, né la discussione sulle capacità terapeutiche della psicoanalisi, ma il destino della specie umana.
·         La vita, certo, «non è né bella né brutta: è originale», come dice Zeno; ma la civiltà attuale, basata come non mai in passato sul possesso degli «ordigni»,cioè la civiltà dei capitali e delle Borse e degli immensi eserciti e della guerra totale e degli stermini di massa, ha imboccato un corso che è in controtendenza rispetto a quello della «natura», intesa darwinianamente come luogo della lotta per la sopravvivenza del più forte ma anche, rousseauianamente, come luogo dell'autenticità.
·         Secondo il ragionamento di Svevo ‑ e non c'è ragione in questo caso di distinguerlo dal suo personaggio ‑ la teoria della selezione naturale di Darwin è valida per tutte le specie viventi, ma non è applicabile, come pur volevano positivisti e naturalisti, a quella umana; la particolare condizione della specie umana è determinata proprio dall'abbandono della legge che fu su  tutta la terra la creatrice. Grazie alla sua evoluzione scientifica e tecnologica (gli ordigni), l’«occhialuto» uomo si è liberato dalla dipendenza dalla natura ed è ormai in grado di piegarla e utilizzarla per i suoi scopi, molto spesso tutt’altro che nobili. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V'è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. “Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e spazio? Solamente al pensarci soffoco!”.
·         Le pulsioni aggressive, la volontà di dominio e prevaricazione, che l'uomo condivide a livello di istinti con gli altri esseri viventi, non sono più proporzionate ai limiti naturali imposti dalla sua conformazione fisica: l'ordigno non ha più alcuna relazione con l'arto. La malattia è per Svevo un prodotto necessario di questa sproporzione: l'uomo, sempre più ,furbo e più debole, può moltiplicare, gli effetti distruttivi della sua aggressività istintiva, ma non può controllare quegli stessi istinti.
·         Ciò non può che portare a una società fondata sulla menzogna. Il linguaggio stesso in cui l'uomo attuale si esprime è doppio, perché è doppia la realtà alla quale esso si riferisce, e della quale il romanzo ci fornisce continui esempi. La vicenda del «malato» Zeno, che converte la sua malattia in strumento per il successo è bifronte sotto l'aspetto dei valori che in essa vengono a contrasto: il suo segno è positivo-negativo. Augusta, per esempio, è la migliore e la più amorevole e insieme la più stupidamente conformista e la più soffocante delle mogli; Zeno è il più fedele (perché rispetta sempre il nido familiare, a differenza di Guido) e insieme il più fedifrago e il più ipocrita dei mariti. La vittoria sugli altri ottenuta dal protagonista del romanzo-vittoria che si realizza attraverso due tra le modalità più tipiche della società fondata sul profitto, la speculazione di Borsa e quella di guerra è emblematica di una civiltà condannata alla disgregazione per la perdita dell'autenticità.
·         Solo gli animali, privi di coscienza, e capaci di adeguarsi ai bisogni del presente possono godere di una salute integrale. L'uomo ne ha forse goduto nel suo stato primitivo, ma il progresso -e con esso la coscienza, la tecnica, la cultura, la civiltà- lo ha sempre più allontanato da questa condizione. Zeno sottolinea il confine incerto tra malattia e salute nelle condizioni attuali, in cui la vita è inquinata alle radici, poiché l’uomo ha violato le leggi della natura.  
·         Ogni ipotesi di recupero di una salute integrale (e cioè di sconfitta della nevrosi) deve pertanto passare attraverso l'annullamento dell'uomo e attraverso la distruzione della civiltà e della terra medesima.  “…Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.”. Forse solo in questo modo la salute tornerà sul pianeta.
·         I toni così catastrofici - ma nella sostanza azzeccatissimi - possono spiegarsi se guardiamo alla data del romanzo: 1923. Da cinque anni, quindi, si è chiusa la prima guerra mondiale, e non è illogico pensare che il pessimismo di Svevo si basi sull'esperienza degli orrori di un conflitto che ha decimato intere generazioni e ha rivelato nuovi volti della crudeltà dell'uomo sino ad allora inesplorati.
·         Italo Svevo non sentì mai parlare di bomba atomica. Ma la sua acuta sensibilità lo fece diventare inconsapevole profeta di quella che sarà la paura nei confronti del nucleare. Già ai suoi tempi l’uomo aveva perso la fiducia nella tecnologia e, in un certo senso, si aspettava che, prima o poi, proprio tramite essa, si sarebbe autodistrutto a compimento della decadenza ormai inoltrata, come acme della “malattia” diffusa che non risparmiava nessuno.
·         Il brano dell’ultima pagina  è da vedere, anzitutto, come approdo alla vocazione critica di Svevo nei confronti della società borghese. Molti critici insistono sul pessimismo profetico e anticipatore di queste pagine (e alla luce di quello che successe 22 anni dopo la pubblicazione del romanzo, ovvero l’esplosione della prima bomba atomica su Hiroshima, non ne hanno, certo, tutti i torti) e ne prospettano una lettura in senso modernamente impegnato. Secondo l’interpretazione di Pampaloni: “.. Soltanto la fine del mondo potrebbe liberarci dalla malattia. L’uomo moderno, represso dalla inconsapevolezza del proprio stato, incapace d’ironia, non può produrre che catastrofi. Artifici, menzogne ed impotenza vanno di pari passo. L’unica età dell’oro possibile sulla terra è quella dell’uomo che accetta la precarietà ed il condizionamento prepotente della vita. Tolleranza, autocoscienza e ironia sono le vie possibili, a portata di mano, della salvezza.”


24 Marzo 1916
Dal Maggio dell’anno scorso non avevo più toccato questo libercolo. Ecco che dalla Svizzera il dr. S. mi scrive pregandomi di mandargli quanto avessi ancora annotato. È una domanda curiosa, ma non ho nulla in contrario di mandargli anche questo libercolo dal quale chiaramente vedrà come io la pensi di lui e della sua cura. Giacché possiede tutte le mie confessioni, si tenga anche queste poche pagine e ancora qualcuna che volentieri aggiungo a sua edificazione. Ho poco tempo perché il mio commercio occupa la mia giornata. Ma al signor dottor S. voglio pur dire il fatto suo. Ci pensai tanto che oramai ho le idee ben chiare.
Intanto egli crede di ricevere altre confessioni di malattia e debolezza e invece riceverà la descrizione di una salute solida, perfetta quanto la mia età abbastanza innoltrata può permettere. Io sono guarito! Non solo non voglio fare la psico-analisi, ma non ne ho neppur di bisogno. E la mia salute non proviene solo dal fatto che mi sento un privilegiato in mezzo a tanti martiri. Non è per il confronto ch’io mi senta sano. Io sono sano, assolutamente. Da lungo tempo io sapevo che la mia salute non poteva essere altro che la mia convinzione e ch’era una sciocchezza degna di un sognatore ipnagogico di volerla curare anziché persuadere. Io soffro bensì di certi dolori, ma mancano d’importanza nella mia grande salute. Posso mettere un impiastro qui o là, ma il resto ha da moversi e battersi e mai indugiarsi nell’immobilità come gl’incancreniti. Dolore e amore, poi, la vita insomma, non può essere considerata quale una malattia perché duole.
Ammetto che per avere la persuasione della salute il mio destino dovette mutare e scaldare il mio organismo con la lotta e sopratutto col trionfo. Fu il mio commercio che mi guarì e voglio che il dottor S. lo sappia.
Attonito e inerte, stetti a guardare il mondo sconvolto, fino al principio dell’Agosto dell’anno scorso. Allora io cominciai a comperare. Sottolineo questo verbo perché ha un significato più alto di prima della guerra. In bocca di un commerciante, allora, significava ch’egli era disposto a comperare un dato articolo. Ma quando io lo dissi, volli significare ch’io ero compratore di qualunque merce che mi sarebbe stata offerta. Come tutte le persone forti, io ebbi nella mia testa una sola idea e di quella vissi e fu la mia fortuna. L’Olivi non era a Trieste, ma è certo ch’egli non avrebbe permesso un rischio simile e lo avrebbe riservato agli altri. Invece per me non era un rischio. Io ne sapevo il risultato felice con piena certezza. Dapprima m’ero messo, secondo l’antico costume in epoca di guerra, a convertire tutto il patrimonio in oro, ma v’era una certa difficoltà di comperare e vendere dell’oro. L’oro per così dire liquido, perché più mobile, era la merce e ne feci incetta. Io effettuo di tempo in tempo anche delle vendite ma sempre in misura inferiore agli acquisti. Perché cominciai nel giusto momento i miei acquisti e le mie vendite furono tanto felici che queste mi davano i grandi mezzi di cui abbisognavo per quelli.
Con grande orgoglio ricordo che il mio primo acquisto fu addirittura apparentemente una sciocchezza e inteso unicamente a realizzare subito la mia nuova idea: una partita non grande d’incenso. Il venditore mi vantava la possibilità d’impiegare l’incenso quale un surrogato della resina che già cominciava a mancare, ma io quale chimico sapevo con piena certezza che l’incenso mai più avrebbe potuto sostituire la resina di cui era differente toto genere. Secondo la mia idea il mondo sarebbe arrivato ad una miseria tale da dover accettare l’incenso quale un surrogato della resina. E comperai! Pochi giorni or sono ne vendetti una piccola parte e ne ricavai l’importo che m’era occorso per appropriarmi della partita intera. Nel momento in cui incassai quei denari mi si allargò il petto al sentimento della mia forza e della mia salute.
Il dottore, quando avrà ricevuta quest’ultima parte del mio manoscritto, dovrebbe restituirmelo tutto. Lo rifarei con chiarezza vera perché come potevo intendere la mia vita quando non ne conoscevo quest’ultimo periodo? Forse io vissi tanti anni solo per prepararmi ad esso!
Naturalmente io non sono un ingenuo e scuso il dottore di vedere nella vita stessa una manifestazione di malattia. La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure. Sarebbe come voler turare i buchi che abbiamo nel corpo credendoli delle ferite. Morremmo strangolati non appena curati.
La vita attuale è inquinata alle radici. L’uomo s’è messo al posto degli alberi e delle bestie ed ha inquinata l’aria, ha impedito il libero spazio. Può avvenire di peggio. Il triste e attivo animale potrebbe scoprire e mettere al proprio servizio delle altre forze. V’è una minaccia di questo genere in aria. Ne seguirà una grande ricchezza... nel numero degli uomini. Ogni metro quadrato sarà occupato da un uomo. Chi ci guarirà dalla mancanza di aria e di spazio? Solamente al pensarci soffoco!
Ma non è questo, non è questo soltanto.
Qualunque sforzo di darci la salute è vano. Questa non può appartenere che alla bestia che conosce un solo progresso, quello del proprio organismo. Allorché la rondinella comprese che per essa non c’era altra possibile vita fuori dell’emigrazione, essa ingrossò il muscolo che muove le sue ali e che divenne la parte più considerevole del suo organismo. La talpa s’interrò e tutto il suo corpo si conformò al suo bisogno. Il cavallo s’ingrandì e trasformò il suo piede. Di alcuni animali non sappiamo il progresso, ma ci sarà stato e non avrà mai leso la loro salute.
Ma l’occhialuto uomo, invece, inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. I primi suoi ordigni parevano prolungazioni del suo braccio e non potevano essere efficaci che per la forza dello stesso, ma, oramai, l’ordigno non ha più alcuna relazione con l’arto. Ed è l’ordigno che crea la malattia con l’abbandono della legge che fu su tutta la terra la creatrice. La legge del più forte sparì e perdemmo la selezione salutare. Altro che psico-analisi ci vorrebbe: sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati.
Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie.

Mia moglie e il mio naso.
da Uno nessuno e centomila[2] di Luigi Pirandello
– Che fai? – mia moglie mi domandò, vedendomi insolitamente indugiare davanti allo specchio.
– Niente, – le risposi, – mi guardo qua, dentro il naso, in questa narice. Premendo, avverto un certo dolorino.
Mia moglie sorrise e disse:
– Credevo ti guardassi da che parte ti pende.
Mi voltai come un cane a cui qualcuno avesse pestato la coda:
– Mi pende? A me? Il naso?
E mia moglie, placidamente:
– Ma sí, caro. Guàrdatelo bene: ti pende verso destra.
Avevo ventotto anni e sempre fin allora ritenuto il mio naso, se non proprio bello, almeno molto decente, come insieme tutte le altre parti della mia persona. Per cui m’era stato facile ammettere e sostenere quel che di solito ammettono e sostengono tutti coloro che non hanno avuto la sciagura di sortire un corpo deforme: che cioè sia da sciocchi invanire per le proprie fattezze. La scoperta improvvisa e inattesa di quel difetto perciò mi stizzí come un immeritato castigo.
Vide forse mia moglie molto piú addentro di me in quella mia stizza e aggiunse subito che, se riposavo nella certezza d’essere in tutto senza mende, me ne levassi pure, perché, come il naso mi pendeva verso destra, cosí...
– Che altro?
Eh, altro! altro! Le mie sopracciglia parevano sugli occhi due accenti circonflessi, ^ ^, le mie orecchie erano attaccate male, una piú sporgente dell’altra; e altri difetti...
– Ancora?
Eh sí, ancora: nelle mani, al dito mignolo; e nelle gambe (no, storte no!), la destra, un pochino piú arcuata dell’altra: verso il ginocchio, un pochino.
Dopo un attento esame dovetti riconoscere veri tutti questi difetti. E solo allora, scambiando certo per dolore e avvilimento, la maraviglia che ne provai subito dopo la stizza, mia moglie per consolarmi m’esortò a non affliggermene poi tanto, ché anche con essi, tutto sommato, rimanevo un bell’uomo.
Sfido a non irritarsi, ricevendo come generosa concessione ciò che come diritto ci è stato prima negato. Schizzai un velenosissimo «grazie» e, sicuro di non aver motivo né d’addolorarmi né d’avvilirmi, non diedi alcuna importanza a quei lievi difetti, ma una grandissima e straordinaria al fatto che tant’anni ero vissuto senza mai cambiar di naso, sempre con quello, e con quelle sopracciglia e quelle orecchie, quelle mani e quelle gambe; e dovevo aspettare di prender moglie per aver conto che li avevo difettosi.
– Uh che maraviglia! E non si sa, le mogli? Fatte apposta per scoprire i difetti del marito.
Ecco, già – le mogli, non nego. Ma anch’io, se permettete, di quei tempi ero fatto per sprofondare, a ogni parola che mi fosse detta, o mosca che vedessi volare, in abissi di riflessioni e considerazioni che mi scavavano dentro e bucheravano giú per torto e su per traverso lo spirito, come una tana di talpa; senza che di fuori ne paresse nulla.
– Si vede, – voi dite, – che avevate molto tempo da perdere.
No, ecco. Per l’animo in cui mi trovavo. Ma del resto sí, anche per l’ozio, non nego. Ricco, due fidati amici, Sebastiano Quantorzo e Stefano Firbo, badavano ai miei affari dopo la morte di mio padre; il quale, per quanto ci si fosse adoperato con le buone e con le cattive, non era riuscito a farmi concludere mai nulla; tranne di prender moglie, questo sí, giovanissimo; forse con la speranza che almeno avessi presto un figliuolo che non mi somigliasse punto; e, pover’uomo, neppur questo aveva potuto ottenere da me.
Non già, badiamo, ch’io opponessi volontà a prendere la via per cui mio padre m’incamminava. Tutte le prendevo. Ma camminarci, non ci camminavo. Mi fermavo a ogni passo; mi mettevo prima alla lontana, poi sempre piú da vicino a girare attorno a ogni sassolino che incontravo, e mi maravigliavo assai che gli altri potessero passarmi avanti senza fare alcun caso di quel sassolino che per me intanto aveva assunto le proporzioni d’una montagna insormontabile, anzi d’un mondo in cui avrei potuto senz’altro domiciliarmi.
Ero rimasto cosí, fermo ai primi passi di tante vie, con lo spirito pieno di mondi, o di sassolini, che fa lo stesso. Ma non mi pareva affatto che quelli che m’erano passati avanti e avevano percorso tutta la via, ne sapessero in sostanza piú di me. M’erano passati avanti, non si mette in dubbio, e tutti braveggiando come tanti cavallini; ma poi, in fondo alla via, avevano trovato un carro: il loro carro; vi erano stati attaccati con molta pazienza, e ora se lo tiravano dietro. Non tiravo nessun carro, io; e non avevo perciò né briglie né paraocchi; vedevo certamente piú di loro; ma andare, non sapevo dove andare.
Ora, ritornando alla scoperta di quei lievi difetti, sprofondai tutto, subito, nella riflessione che dunque – possibile? – non conoscevo bene neppure il mio stesso corpo, le cose mie che piú intimamente m’appartenevano: il naso le orecchie, le mani, le gambe. E tornavo a guardarmele per rifarne l’esame.
Cominciò da questo il mio male. Quel male che doveva ridurmi in breve in condizioni di spirito e di corpo così misere e disperate che certo ne sarei morto o impazzito, ove in esso medesimo non avessi trovato (come dirò) il rimedio che doveva guarirmene.

Com’io volevo esser solo
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Io volevo esser solo in un modo affatto insolito, nuovo. Tutt’al contrario di quel che pensate voi: cioè senza me e appunto con un estraneo attorno.
Vi sembra già questo un primo segno di pazzia?
Forse perché non riflettete bene.
Poteva già essere in me la pazzia, non nego, ma vi prego di credere che l’unico modo d’esser soli veramente è questo che vi dico io.
La solitudine non è mai con voi; è sempre senza di voi, è soltanto possibile con un estraneo attorno: luogo o persona che sia, che del tutto vi ignorino, che del tutto voi ignoriate, cosí che la vostra volontà e il vostro sentimento restino sospesi e smarriti in un’incertezza angosciosa e, cessando ogni affermazione di voi, cessi l’intimità stessa della vostra coscienza. La vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi.
Cosí volevo io esser solo. Senza me. Voglio dire senza quel me ch’io già conoscevo, o che credevo di conoscere. Solo con un certo estraneo, che già sentivo oscuramente di non poter piú levarmi di torno e ch’ero io stesso: l’estraneo inseparabile da me.
Ne avvertivo uno solo, allora! E già quest’uno, o il bisogno che sentivo di restar solo con esso, di metterme­lo davanti per conoscerlo bene e conversare un po’ con lui, mi turbava tanto, con un senso tra di ribrezzo e di sgomento.
Se per gli altri non ero quel che ora avevo creduto d’essere per me, chi ero io?
Vivendo, non avevo mai pensato alla forma del mio naso; al taglio, se piccolo o grande, o al colore dei miei occhi; all’angustia o all’ampiezza della mia fronte, e via dicendo. Quello era il mio naso, quelli i miei occhi, quella la mia fronte: cose inseparabili da me, a cui, dedito ai miei affari, preso dalle mie idee, abbandonato ai miei sentimenti, non potevo pensare.
Ma ora pensavo:
«E gli altri? Gli altri non sono mica dentro di me. Per gli altri che guardano da fuori, le mie idee, i miei sentimenti hanno un naso. Il mio naso. E hanno un pajo d’occhi, i miei occhi, ch’io non vedo e ch’essi vedono. Che relazione c’è tra le mie idee e il mio naso? Per me, nessuna. Io non penso col naso, né bado al mio naso, pensando. Ma gli altri? gli altri che non possono vedere dentro di me le mie idee e vedono da fuori il mio naso? Per gli altri le mie idee e il mio naso hanno tanta relazione, che se quelle, poniamo, fossero molto serie e questo per la sua forma molto buffo, si metterebbero a ridere.» Cosí, seguitando, sprofondai in quest’altra ambascia: che non potevo, vivendo, rappresentarmi a me stesso negli atti della mia vita; vedermi come gli altri mi vedevano; pormi davanti il mio corpo e vederlo vivere come quello d’un altro. Quando mi ponevo davanti a uno specchio, avveniva come un arresto in me; ogni spontaneità era finita, ogni mio gesto appariva a me stesso fittizio o rifatto.
Io non potevo vedermi vivere.
Potei averne la prova nell’impressione dalla quale fui per cosí dire assaltato, allorché, alcuni giorni dopo, camminando e parlando col mio amico Stefano Firbo, mi accadde di sorprendermi all’improvviso in uno specchio per via, di cui non m’ero prima accorto. Non poté durare piú d’un attimo quell’impressione, ché subito seguí quel tale arresto e finí la spontaneità e cominciò lo studio. Non riconobbi in prima me stesso. Ebbi l’impressione d’un estraneo che passasse per via conversando. Mi fermai. Dovevo esser molto pallido.
Firbo mi domandò:
– Che hai?
– Niente, – dissi. E tra me, invaso da uno strano sgomento ch’era insieme ribrezzo, pensavo:
«Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio cosí, io, di fuori, quando - vivendo - non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già io quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non cosí, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.»
E mi fissai d’allora in poi in questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io cosí come gli altri lo vedevano e conoscevano.
Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimè, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.
Quando cosí il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.

Inseguimento dell’estraneo
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Dirò per ora di quelle piccole che cominciai a fare in forma di pantomime, nella vispa infanzia della mia follia, davanti a tutti gli specchi di casa, guardandomi davanti e dietro per non essere scorto da mia moglie, nell’attesa smaniosa ch’ella, uscendo per qualche visita o compera, mi lasciasse solo finalmente per un buon pezzo.
Non volevo già come un commediante studiar le mie mosse, compormi la faccia all’espressione dei varii sentimenti e moti dell’animo; al contrario: volevo sorprendermi nella naturalezza dei miei atti, nelle subitanee alterazioni del volto per ogni moto dell’animo; per un’improvvisa maraviglia, ad esempio (e sbalzavo per ogni nonnulla le sopracciglia fino all’attaccatura dei capelli e spalancavo gli occhi e la bocca, allungando il volto come se un filo interno me lo tirasse); per un profondo cordoglio (e aggrottavo la fronte, immaginando la morte di mia moglie, e socchiudevo cupamente le pàlpebre quasi a covar quel cordoglio); per una rabbia feroce (e digrignavo i denti, pensando che qualcuno m’avesse schiaffeggiato, e arricciavo il naso, stirando la mandibola e fulminando con lo sguardo).
Ma, prima di tutto, quella maraviglia, quel cordoglio, quella rabbia erano finte, e non potevano esser vere, perché, se vere, non avrei potuto vederle, ché subito sarebbero cessate per il solo fatto ch’io le vedevo; in secondo luogo, le maraviglie da cui potevo esser preso erano tante e diversissime, e imprevedibili anche le espressioni, senza fine variabili anche secondo i momenti e le condizioni del mio animo; e cosí per tutti i cordogli e cosí per tutte le rabbie. E infine, anche ammesso che per una sola e determinata maraviglia, per un solo e determinato cordoglio, per una sola e determinata rabbia io avessi veramente assunto quelle espressioni, esse erano come le vedevo io, non già come le avrebbero vedute gli altri. L’espressione di quella mia rabbia, ad esempio, non sarebbe stata la stessa per uno che l’avesse temuta, per un altro disposto a scusarla, per un terzo disposto a riderne, e cosí via.
Ah! tanto bel senno avevo ancora per intendere tutto questo, e non poté servirmi a tirare dalla riconosciuta inattuabilità di quel mio folle proposito la conseguenza naturale di rinunciare all’impresa disperata e starmi contento a vivere per me, senza vedermi e senza darmi pensiero degli altri.
L’idea che gli altri vedevano in me uno che non ero io quale mi conoscevo; uno che essi soltanto potevano conoscere guardandomi da fuori con occhi che non erano i miei e che mi davano un aspetto destinato a restarmi sempre estraneo, pur essendo in me, pur essendo il mio per loro (un “mio” dunque che non era per me!); una vita nella quale, pur essendo la mia per loro, io non potevo penetrare, quest’idea non mi diede piú requie.
Come sopportare in me quest’estraneo? quest’estraneo che ero io stesso per me? come non vederlo? come non conoscerlo? come restare per sempre condannato a portarmelo con me, in me, alla vista degli altri e fuori intanto della mia?

Rientrando in città
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
Guardatemi ora questi alberi che scortano di qua e di là, in fila lungo i marciapiedi, questo nostro Corso di Porta Vecchia, che aria smarrita, poveri alberi cittadini, tosati e pettinati!
Probabilmente non pensano, gli alberi; le bestie, probabilmente, non ragionano. Ma se gli alberi pensassero, Dio mio, e potessero parlare, chi sa che direbbero questi poverelli che, per farci ombra, facciamo crescere in mezzo alla città! Pare che chiedano, nel vedersi cosí specchiati in queste vetrine di botteghe, che stiano a farci qua, tra tanta gente affaccendata, in mezzo al fragoroso tramestío della vita cittadina. Piantati da tanti anni, sono rimasti miseri e squallidi alberelli. Orecchi, non mostrano d’averne. Ma chi sa, forse gli alberi, per crescere, hanno bisogno di silenzio.
Siete mai stati nella piazzetta dell’Olivella, fuori le mura? al conventino antico dei Trinitarii bianchi? Che aria di sogno e d’abbandono, quella piazzetta, e che silenzio strano, quando dalle tegole nere e muschiose di quel convento vecchio, s’affaccia bambino, azzurro azzurro, il riso della mattina!
Ebbene, ogni anno la terra, lì, nella sua stupida materna ingenuità, cerca d’approfittare di quel silenzio. Forse crede che lì non sia piú città; che gli uomini abbiano disertato quella piazzetta; e tenta di riprendersela, allungando zitta zitta, pian pianino, di tra il selciato, tanti fili d’erba. Nulla è piú fresco e tenero di quegli esili timidi fili d’erba di cui verzica in breve tutta la piazzetta. Ma ahimè non durano piú d’un mese. È città lì; e non è permesso ai fili d’erba di spuntare. Vengono ogni anno quattro o cinque spazzini; s’accosciano in terra e con certi loro ferruzzi li strappano via.
Io vidi l’altr’anno, lì, due uccellini che, udendo lo stridore di quei ferruzzi sui grigi scabri quadratini del selciato, volavano dalla siepe alla grondaia del Convento, di qua alla siepe di nuovo, e scotevano il capino e guardavano di traverso, quasi chiedessero, angosciati, che cosa stéssero a fare quegli uomini là.
– E non lo vedete, uccellini? – io dissi loro. – Non lo vedete che fanno? Fanno la barba a questo vecchio selciato.
Scapparono via inorriditi quei due uccellini.
Beati loro che hanno le ali e possono scappare!
Quant’altre bestie non possono, e sono prese e imprigionate e addomesticate in città e anche nelle campagne; e com’è triste la loro forzata obbedienza agli strani bisogni degli uomini! Che ne capiscono? Tirano il carro, tirano l’aratro. Ma forse anch’esse le bestie, le piante e tutte le cose, hanno poi un senso e un valore per sé, che l’uomo non può intendere, chiuso com’è in quelli che egli per conto suo dà alle une e alle altre, e che la natura spesso, dal canto suo mostra di non riconoscere e d’ignorare.
Ci vorrebbe un po’ piú d’intesa tra l’uomo e la natura. Troppo spesso la natura si diverte a buttare all’aria tutte le nostre ingegnose costruzioni. Cicloni, terremoti... Ma l’uomo non si dà per vinto. Ricostruisce, ricostruisce, bestiolina pervicace. E tutto è per lui materia di ricostru­ 52zione. Perché ha in sé quella tal cosa che non si sa che sia, per cui deve per forza costruire, trasformare a modo suo la materia che gli offre la natura ignara, forse, e, almeno quando vuole, paziente. Ma si contentasse soltanto delle cose, di cui, fino a prova contraria, non si conosce che abbiano in sé facoltà di sentire lo strazio a causa dei nostri adattamenti e delle nostre costruzioni! Nossignori. L’uomo piglia a materia anche se stesso, e si costruisce, sissignori, come una casa.
Voi credete di conoscervi se non vi costruite in qualche modo? E ch’io possa conoscervi, se non vi costruisco a modo mio? E voi me, se non mi costruite a modo vostro? Possiamo conoscere soltanto quello a cui riusciamo a dar forma. Ma che conoscenza può essere? È forse questa forma la cosa stessa? Sí, tanto per me, quanto per voi; ma non cosí per me come per voi: tanto vero che io non mi riconosco nella forma che mi date voi, né voi in quella che vi do io; e la stessa cosa non è uguale per tutti e anche per ciascuno di noi può di continuo cangiare, e difatti cangia di continuo.
Eppure, non c’è altra realtà fuori di questa, se non cioè nella forma momentanea che riusciamo a dare a noi stessi, agli altri, alle cose. La realtà che ho io per voi è nella forma che voi mi date; ma è realtà per voi e non per me; la realtà che voi avete per me è nella forma che io vi do; ma è realtà per me e non per voi; e per me stesso io non ho altra realtà se non nella forma che riesco a darmi. E come? Ma costruendomi, appunto.
Ah, voi credete che si costruiscano soltanto le case? Io mi costruisco di continuo e vi costruisco, e voi fate altrettanto. E la costruzione dura finché non si sgretoli il materiale dei nostri sentimenti e finché duri il cemento della nostra volontà.
E perché credete che vi si raccomandi tanto la fermezza della volontà e la costanza dei sentimenti? Basta che quella vacilli un poco, e che questi si alterino d’un punto o cangino minimamente, e addio realtà nostra! Ci accorgiamo subito che non era altro che una nostra illusione. Fermezza di volontà, dunque. Costanza nei sentimenti. Tenetevi forte, tenetevi forte per non dare di questi tuffi nel vuoto, per non andare incontro a queste ingrate sorprese.
Ma che belle costruzioni vengono fuori!

Quel caro Gengè.
da Uno nessuno e centomila di Luigi Pirandello
– No no, bello mio, statti zitto! Vuoi che non sappia quel che ti piace e quel che non ti piace? Conosco bene i tuoi gusti, io, e come tu la pensi.
Quante volte non m’aveva detto cosí Dida mia moglie? E io, imbecille, non ci avevo fatto mai caso. Ma sfido ch’ella conosceva quel suo Gengè piú che non lo conoscessi io! Se l’era costruito lei! E non era mica un fantoccio. Se mai, il fantoccio ero io.
Sopraffazione? Sostituzione?
Ma che! Per sopraffare uno, bisogna che questo uno esista; e per sostituirlo, bisogna che esista ugualmente e che si possa prendere per le spalle e strappare indietro per mettere un altro al suo posto.
Dida mia moglie non m’aveva né sopraffatto né sostituito. Sarebbe sembrata a lei al contrario una sopraffazione e una sostituzione, se io, ribellandomi e armando comunque una volontà d’essere a mio modo, mi fossi tolto dai piedi quel Suo Gengè.
Perché quel suo Gengè esisteva, mentre io per lei non esistevo affatto, non ero mai esistito.
La realtà mia era per lei in quel suo Gengè che ella s’era formato, che aveva pensieri sentimenti e gusti che non eran i miei e che io non avrei potuto minimamente alterare, senza correre il rischio di diventar subito un altro che ella non avrebbe piú riconosciuto, un estraneo che ella non avrebbe piú potuto né comprendere né amare.
Purtroppo non avevo mai saputo dare una qualche forma alla mia vita; non mi ero mai voluto fermamente in un modo mio proprio e particolare, sia per non avere mai incontrato ostacoli che suscitassero in me la volontà di resistere e di affermarmi comunque davanti agli altri e a me stesso, sia per questo mio animo disposto a pensare e sentire anche il contrario di ciò che poc’anzi pensava e sentiva, cioè a scomporre e a disgregare in me con assidue e spesso opposte riflessioni ogni formazione mentale e sentimentale; sia infine per la mia natura cosí inchinevole a cedere, ad abbandonarsi alla discrezione altrui, non tanto per debolezza, quanto per noncuranza e anticipata rassegnazione ai dispiaceri che me ne potessero venire.
Ed ecco, intanto, che me n’era venuto! Non mi conoscevo affatto, non avevo per me alcuna realtà mia propria, ero in uno stato come di illusione continua, quasi fluido, malleabile; mi conoscevano gli altri, ciascuno a suo modo, secondo la realtà che m’avevano data; cioé vedevano in me ciascuno un Moscarda che non ero io, non essendo io propriamente nessuno per me; tanti Moscarda quanti essi erano, e tutti più reali di me che non avevo per me stesso, ripeto, nessuna realtà.
Gengè, sí, l’aveva, per mia moglie Dida. Ma non potevo in nessun modo consolarmene perché v’assicuro che difficilmente potrebbe immaginarsi una creatura piú sciocca di questo caro Gengè di mia moglie Dida. E il bello, intanto, era questo: che non era mica senza difetti per lei quel suo Gengè. Ma ella glieli compativa tutti! Tante cose di lui non le piacevano, perché non se l’era costruito in tutto a suo modo, secondo il suo gusto e il suo capriccio: no.
Ma a modo di chi allora?
Non certo a modo mio, perché io, ripeto, non riuscivo davvero a riconoscere per miei i pensieri, i sentimenti, i gusti che ella attribuiva al suo Gengè. Si vede dunque chiaramente che glieli attribuiva perché, secondo lei, Gengè aveva quei gusti e pensava e sentiva cosí, a modo suo, c’è poco da dire, propriamente suo, secondo la sua realtà che non era affatto la mia.
La vedevo piangere qualche volta per certe amarezze ch’egli, Gengè, le cagionava. Egli, sissignori! E se le domandavo:
-          Ma perché, cara?
Mi rispondeva:
– Ah, me lo domandi? Ah, non ti basta quello che m’hai detto or ora?
– Io?
– Tu, tu, sí!
– Ma quando mai? Che cosa?
Trasecolavo.
Era manifesto che il senso che io davo alle mie parole era un senso per me; quello che poi esse assumevano per lei, quali parole di Gengè, era tutt’altro. Certe parole che, dette da me o da un altro, non le avrebbero dato dolore, dette da Gengè, la facevano piangere, perché in bocca di Gengè assumevano chi sa quale altro valore; e la facevano piangere, sissignori.
Io dunque parlavo per me solo. Ella parlava col suo Gengè. E questi le rispondeva per bocca mia in un modo che a me restava al tutto ignoto. E non è credibile, come diventassero sciocche, false, senza costrutto tutte le cose ch’io le dicevo e che ella mi ripeteva.
– Ma come? – le domandavo.
– Io ho detto cosí? – Sí, Gengè mio, proprio cosí!
Ecco: erano di Gengè suo quelle sciocchezze; ma non erano sciocchezze: tutt’altro! Era il modo di pensare di Gengè, quello.
E io, ah come lo avrei schiaffeggiato, bastonato, sbranato! Ma non lo potevo toccare. Perché, non ostanti i dispiaceri che le cagionava, le sciocchezze che diceva, Gengè era molto amato da mia moglie Dida; rispondeva per lei, cosí com’era, all’ideale del buon marito, a cui qualche lieve difetto si perdona in grazia di tant’altre buone qualità.
Se io non volevo che Dida mia moglie andasse a cercare in un altro il suo ideale, non dovevo toccare quel suo Gengè.
In principio pensavo che forse i miei sentimenti erano troppo complicati; i miei pensieri, troppo astrusi; i miei gusti, troppo insoliti; e che perciò mia moglie, spesso, non intendendoli, li travisava. Pensavo, insomma, che le mie idee e i miei sentimenti non potessero capire, se non cosí ridotti e rimpiccoliti, nel cervellino e nel coricino di lei; e che i miei gusti non si potessero accordare con la sua semplicità.
Ma che! ma che! Non li travisava lei, non li rimpiccoliva lei i miei pensieri e i miei sentimenti. No, no. Cosí travisati, cosí rimpiccoliti come le arrivavano dalla bocca di Gengè, mia moglie Dida li stimava sciocchi; anche lei, capite?
E chi dunque li travisava e li rimpiccoliva cosí? Ma la realtà di Gengè, signori miei! Gengè, quale ella se l’era foggiato, non poteva avere se non di quei pensieri, di quei sentimenti, di quei gusti. Sciocchino ma carino. Ah sí, tanto carino per lei! Lo amava cosí: carino sciocchino. E lo amava davvero.
Potrei recar tante prove. Basterà quest’una: la prima che mi viene a mente.
Dida, da ragazza, si pettinava in un certo modo che piaceva non soltanto a lei, ma anche a me, moltissimo. Appena sposata, cangiò pettinatura. Per lasciarla fare a suo modo io non le dissi che questa nuova pettinatura non mi piaceva affatto. Quand’ecco, una mattina, m’apparve all’improvviso, in accappatoio, col pettine ancora in mano, acconciata al modo antico e tutt’accesa in volto.
– Gengè! – mi gridò, spalancando l’uscio, mostrandosi e rompendo in una risata. Io restai ammirato, quasi abbagliato.
– Oh, – esclamai, – finalmente!
Ma subito ella si cacciò le mani nei capelli, ne trasse le forcinelle e disfece in un attimo la pettinatura.
– Va’ là! – mi disse.
– Ho voluto farti uno scherzo. So bene, signorino, che non ti piaccio pettinata cosí!
Protestai, di scatto:
– Ma chi te l’ha detto, Dida mia? Io ti giuro, anzi, che...
Mi tappò la bocca con la mano.
– Va’ là! – ripeté. – Tu me lo dici per farmi piacere. Ma io non debbo piacere a me, caro mio. Vuoi che non sappia come piaccio meglio al mio Gengè? E scappò via.
Capite? Era certa certissima che al suo Gengè piaceva meglio pettinata in quell’altro modo, e si pettinava in quell’altro modo che non piaceva né a lei né a me. Ma piaceva al suo Gengè; e lei si sacrificava. Vi par poco? Non sono veri e proprii sacrifici, questi, per una donna? Tanto lo amava!
E io – ora che tutto alla fine mi s’era chiarito – cominciai a divenire terribilmente geloso – non di me stesso, vi prego di credere: voi avete voglia di ridere! – non di me stesso, signori, ma di uno che non ero io, di un imbecille che s’era cacciato tra me e mia moglie; non come un’ombra vana, no, – vi prego di credere – perché egli anzi rendeva me ombra vana, me, me, appropriandosi del mio corpo per farsi amare da lei.
Considerate bene. Non baciava forse mia moglie, su le mie labbra, uno che non ero io? Su le mie labbra? No! Che mie! In quanto erano mie, propriamente mie le labbra ch’ella baciava? Aveva ella forse tra le braccia il mio corpo? Ma in quanto realmente poteva esser mio, quel corpo, in quanto realmente appartenere a me, se non ero io colui ch’ella abbracciava e amava? Considerate bene. Non vi sentireste traditi da vostra moglie con la piú raffinata delle perfidie, se poteste conoscere che ella, stringendovi tra le braccia, assapora e si gode per mezzo del vostro corpo l’amplesso d’un altro che lei ha in mente e nel cuore? Ebbene, in che era diverso dal mio questo caso?
Il mio caso era anche peggiore!
Perché, in quello, vostra moglie – scusate – nel vostro amplesso si finge soltanto l’amplesso d’un altro; mentre, nel mio caso, mia moglie si stringeva tra le braccia la realtà di uno che non ero io! Ed era tanto realtà quest’uno, che quando io alla fine, esasperato, lo volli distruggere imponendo, invece della sua, una mia realtà, mia moglie, che non era stata mai mia moglie ma la moglie di colui, si ritrovò subito, inorridita, come in braccio a un estraneo, a uno sconosciuto; e dichiarò di non potermi piú amare, di non poter piú convivere con me neanche un minuto e scappò via. Sissignori, come vedrete, scappò via.

PREFAZIONE
Io sono il dottore di cui in questa novella si parla talvolta con parole poco lusinghiere. Chi di psico-analisi s’intende, sa dove piazzare l’antipatia che il paziente mi dedica.
Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza. Debbo scusarmi di aver indotto il mio paziente a scrivere la sua autobiografia; gli studiosi di psico-analisi arricceranno il naso a tanta novità. Ma egli era vecchio ed io sperai che in tale rievocazione il suo passato si rinverdisse, che l’autobiografia fosse un buon preludio alla psico-analisi. Oggi ancora la mia idea mi pare buona perché mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se il malato sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sappia però ch’io sono pronto di dividere con lui i lauti onorarii che ricaverò da questa pubblicazione a patto egli riprenda la cura. Sembrava tanto curioso di se stesso! Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante verità e bugie ch’egli ha qui accumulate!...
DOTTOR S


PREAMBOLO
Vedere la mia infanzia? Più di dieci lustri me ne separano e i miei occhi presbiti forse potrebbero arrivarci se la luce che ancora ne riverbera non fosse tagliata da ostacoli d’ogni genere, vere alte montagne: i miei anni e qualche mia ora.
Il dottore mi raccomandò di non ostinarmi a guardare tanto lontano. Anche le cose recenti sono preziose per essi e sopra tutto le immaginazioni e i sogni della notte prima. Ma un po’ d’ordine pur dovrebb’esserci e per poter cominciare ab ovo, appena abbandonato il dottore che di questi giorni e per lungo tempo lascia Trieste, solo per facilitargli il compito, comperai e lessi un trattato di psico-analisi. Non è difficile d’intenderlo, ma molto noioso.
Dopo pranzato, sdraiato comodamente su una poltrona Club, ho la matita e un pezzo di carta in mano. La mia fronte è spianata perché dalla mia mente eliminai ogni sforzo. Il mio pensiero mi appare isolato da me. Io lo vedo. S’alza, s’abbassa... ma è la sua sola attività. Per ricordargli ch’esso è il pensiero e che sarebbe suo compito di manifestarsi, afferro la matita. Ecco che la mia fronte si corruga perché ogni parola è composta di tante lettere e il presente imperioso risorge ed offusca il passato.
Ieri avevo tentato il massimo abbandono. L’esperimento finì nel sonno più profondo e non ne ebbi altro risultato che un grande ristoro e la curiosa sensazione di aver visto durante quel sonno qualche cosa d’importante. Ma era dimenticata, perduta per sempre.
Mercé la matita che ho in mano, resto desto, oggi. Vedo, intravvedo delle immagini bizzarre che non possono avere nessuna relazione col mio passato: una locomotiva che sbuffa su una salita trascinando delle innumerevoli vetture; chissà donde venga e dove vada e perché sia ora capitata qui!
Nel dormiveglia ricordo che il mio testo asserisce che con questo sistema si può arrivar a ricordare la prima infanzia, quella in fasce. Subito vedo un bambino in fasce, ma perché dovrei essere io quello? Non mi somiglia affatto e credo sia invece quello nato poche settimane or sono a mia cognata e che ci fu fatto vedere quale un miracolo perché ha le mani tanto piccole e gli occhi tanto grandi. Povero bambino! Altro che ricordare la mia infanzia! Io non trovo neppure la via di avvisare te, che vivi ora la tua, dell’importanza di ricordarla a vantaggio della tua intelligenza e della tua salute. Quando arriverai a sapere che sarebbe bene tu sapessi mandare a mente la tua vita, anche quella tanta parte di essa che ti ripugnerà? E intanto, inconscio, vai investigando il tuo piccolo organismo alla ricerca del piacere e le tue scoperte deliziose ti avvieranno al dolore e alla malattia cui sarai spinto anche da coloro che non lo vorrebbero. Come fare? È impossibile tutelare la tua culla. Nel tuo seno – fantolino! – si va facendo una combinazione misteriosa. Ogni minuto che passa vi getta un reagente. Troppe probabilità di malattia vi sono per te, perché non tutti i tuoi minuti possono essere puri. Eppoi – fantolino! – sei consanguineo di persone ch’io conosco. I minuti che passano ora possono anche essere puri, ma, certo, tali non furono tutti i secoli che ti prepararono.
Eccomi ben lontano dalle immagini che precorrono il sonno. Ritenterò domani.

L’ultima sigaretta
da La Coscienza di Zeno di Italo Svevo
·         Il capitolo terzo della ‘Coscienza di Zeno’ riguarda il vizio del fumo del protagonista, una dipendenza sviluppata fin da ragazzino e sempre combattuta senza successo.
·         Zeno ricorda la sua prima sigaretta fumata da adolescente, inizialmente rubando i soldi al padre poi, dopo essere stato scoperto, fumando i suoi sigari avanzati. A vent’anni Zeno si accorge di odiare il fumo e si ammala, ma, nonostante la malattia decide di fumare un’ultima sigaretta; ed è qui che si evidenzia per la prima volta la vera malattia psicoanalitica del protagonista. Inizialmente il fumo è per Zeno una reazione al rapporto con il padre - i cui rapporti saranno sviscerati nel capitolo ‘La morte di mio padre’ – poi si allarga a forma di difesa verso la realtà circostante e il mondo intero. In tal senso, ogni tentativo di smettere di fumare non è che uno stimolo ulteriore al desiderio, tanto più se il complimento per la propria perseveranza viene da una figura come quella del padre: « Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai piú, ma prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine [...] Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi: Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito! Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta.»
·         Da qui nascono i continui e vani tentativi di smettere di fumare, perché, come ammette Zeno, “quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo”.
·         Le giornate di Zeno finiscono "coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più”. La vicenda del fumo viene affrontata sempre con una prospettiva ironica e demistificante, raggiungendo i migliori esiti nel momento in cui viene presentata la sigla "u.s. (ultima sigaretta)". Questa sigla e la data vengono apposte su libri, diari, agende, muri e qualsiasi cosa passi sotto mano al protagonista: « Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo piú possibile di formarne in quel luogo degli altri.»

Mi colse un’inquietudine enorme. Pensai: "Giacché mi fa male non fumerò mai più, ma prima voglio farlo per l’ultima volta". Accesi una sigaretta e mi sentii subito liberato dall’inquietudine ad onta che la febbre forse aumentasse e che ad ogni tirata sentissi alle tonsille un bruciore come se fossero state toccate da un tizzone ardente. Finii tutta la sigaretta con l’accuratezza con cui si compie un voto. E, sempre soffrendo orribilmente, ne fumai molte altre durante la malattia. Mio padre andava e veniva col suo sigaro in bocca dicendomi:
- Bravo! Ancora qualche giorno di astensione dal fumo e sei guarito!
Bastava questa frase per farmi desiderare ch’egli se ne andasse presto, presto, per permettermi di correre alla mia sigaretta. Fingevo anche di dormire per indurlo ad allontanarsi prima.
Quella malattia mi procurò il secondo dei miei disturbi: lo sforzo di liberarmi dal primo. Le mie giornate finirono coll’essere piene di sigarette e di propositi di non fumare più e, per dire subito tutto, di tempo in tempo sono ancora tali. La ridda delle ultime sigarette, formatasi a vent’anni, si muove tuttavia. Meno violento è il proposito e la mia debolezza trova nel mio vecchio animo maggior indulgenza. Da vecchi si sorride della vita e di ogni suo contenuto. Posso anzi dire, che da qualche tempo io fumo molte sigarette… che non sono le ultime.
Sul frontispizio di un vocabolario trovo questa mia registrazione fatta con bella scrittura e qualche ornato:
"Oggi, 2 Febbraio 1886, passo dagli studii di legge a quelli di chimica. Ultima sigaretta!!".
Era un’ultima sigaretta molto importante. Ricordo tutte le speranze che l’accompagnarono. M’ero arrabbiato col diritto canonico che mi pareva tanto lontano dalla vita e correvo alla scienza ch’è la vita stessa benché ridotta in un matraccio. Quell’ultima sigaretta significava proprio il desiderio di attività (anche manuale) e di sereno pensiero sobrio e sodo.
Per sfuggire alla catena delle combinazioni del carbonio cui non credevo ritornai alla legge.
Pur troppo! Fu un errore e fu anch’esso registrato da un’ultima sigaretta di cui trovo la data registrata su di un libro. Fu importante anche questa e mi rassegnavo di ritornare a quelle complicazioni del mio, del tuo e del suo coi migliori propositi, sciogliendo finalmente le catene del carbonio. M’ero dimostrato poco idoneo alla chimica anche per la mia deficienza di abilità manuale. Come avrei potuto averla quando continuavo a fumare come un turco?
Adesso che son qui, ad analizzarmi, sono colto da un dubbio: che io forse abbia amato tanto la sigaretta per poter riversare su di essa la colpa della mia incapacità? Chissà se cessando di fumare io sarei divenuto l’uomo ideale e forte che m’aspettavo? Forse fu tale dubbio che mi legò al mio vizio perché è un modo comodo di vivere quello di credersi grande di una grandezza latente. Io avanzo tale ipotesi per spiegare la mia debolezza giovanile, ma senza una decisa convinzione. Adesso che sono vecchio e che nessuno esige qualche cosa da me, passo tuttavia da sigaretta a proposito, e da proposito a sigaretta. Che cosa significano oggi quei propositi? Come quell’igienista vecchio, descritto dal Goldoni, vorrei morire sano dopo di esser vissuto malato tutta la vita?
Una volta, allorché da studente cambiai di alloggio, dovetti far tappezzare a mie spese le pareti della stanza perché le avevo coperte di date. Probabilmente lasciai quella stanza proprio perché essa era divenuta il cimitero dei miei buoni propositi e non credevo più possibile di formarne in quel luogo degli altri.
Penso che la sigaretta abbia un gusto più intenso quand’è l’ultima. Anche le altre hanno un loro gusto speciale, ma meno intenso. L’ultima acquista il suo sapore dal sentimento della vittoria su sé stesso e la speranza di un prossimo futuro di forza e di salute. Le altre hanno la loro importanza perché accendendole si protesta la propria libertà e il futuro di forza e di salute permane, ma va un po’ più lontano.
Le date sulle pareti della mia stanza erano impresse coi colori più varii ed anche ad olio. Il proponimento, rifatto con la fede più ingenua, trovava adeguata espressione nella forza del colore che doveva far impallidire quello dedicato al proponimento anteriore. Certe date erano da me preferite per la concordanza delle cifre. Del secolo passato ricordo una data che mi parve dovesse sigillare per sempre la bara in cui volevo mettere il mio vizio: "Nono giorno del nono mese del 1899". Significativa nevvero? Il secolo nuovo m’apportò delle date ben altrimenti musicali: "Primo giorno del primo mese del 1901". Ancor oggi mi pare che se quella data potesse ripetersi, io saprei iniziare una nuova vita.
Ma nel calendario non mancano le date e con un po’ d’immaginazione ognuna di esse potrebbe adattarsi ad un buon proponimento. Ricordo, perché mi parve contenesse un imperativo supremamente categorico, la seguente: "Terzo giorno del sesto mese del 1912 ore 24". Suona come se ogni cifra raddoppiasse la posta.
L’anno 1913 mi diede un momento d’esitazione. Mancava il tredicesimo mese per accordarlo con l’anno. Ma non si creda che occorrano tanti accordi in una data per dare rilievo ad un’ultima sigaretta.
Molte date che trovo notate su libri o quadri preferiti, spiccano per la loro deformità. Per esempio il terzo giorno del secondo mese del 1905 ore sei! Ha un suo ritmo quando ci si pensa, perché ogni singola cifra nega la precedente. Molti avvenimenti, anzi tutti, dalla morte di Pio IX alla nascita di mio figlio, mi parvero degni di essere festeggiati dal solito ferreo proposito. Tutti in famiglia si stupiscono della mia memoria per gli anniversarii lieti e tristi nostri e mi credono tanto buono!
Per diminuirne l’apparenza balorda tentai di dare un contenuto filosofico alla malattia dell’ultima sigaretta. Si dice con un bellissimo atteggiamento: "mai più!". Ma dove va l’atteggiamento se si tiene la promessa? L’atteggiamento non è possibile di averlo che quando si deve rinnovare il proposito. Eppoi il tempo, per me, non è quella cosa impensabile che non s’arresta mai. Da me, solo da me, ritorna.
La malattia, è una convinzione ed io nacqui con quella convinzione. Di quella dei miei vent’anni non ricorderei gran cosa se non l’avessi allora descritta ad un medico. Curioso come si ricordino meglio le parole dette che i sentimenti che non arrivarono a scotere l’aria.

Il funerale di mio padre
·         È questo uno degli episodi più famosi della Coscienza, e quello in cui è più immediatamente visibile l’influenza delle teorie di Freud. Anche il dottor Weiss, che pure aveva frustrato l’ambizione di Svevo di aver scritto un romanzo psicanalitico, concedeva che questo episodio avesse qualcosa a che fare con la psicanalisi. Lo sbaglio di funerale compiuto da Zeno, che lo porta a non assistere agli estremi onori tributati al cognato suicida, è un esempio emblematico di “atto mancato”, che ben avrebbe potuto figurare nella Psicopatologia della vita quotidiana dello stesso Freud. Zeno non assiste al funerale del cognato perché in realtà non vuole, dato che non ha affatto amicizia per Guido, ma lo odia, e al suo odio dà libero sfogo con quest’ultimo atto di disprezzo. Si può osservare semmai che l’inconscio di Zeno, per realizzare il proprio obiettivo, non segue vie tanto nascoste: al contrario, la comicità che caratterizza l’episodio nasce proprio dalla divergenza esplicita tra l’obiettivo palese e quello nascosto. La narrazione non presenta punti d’ombra, ma ha l‘evidenza allucinata e l’andamento incalzante di una sequenza surreale.
·         Guido, col denaro mandatogli dall’Argentina dal padre, ha fondato una società commerciale, la cui attività si rivela presto in perdita. Zeno, che gli fa gratuitamente da contabile, non si accorge di alcuni gravi errori che egli compie nella conduzione dell’azienda. Con un tentativo di suicidio, Guido ricatta la moglie per farsi prestare una grossa somma, con la quale possa far figurare che il bilancio dell’azienda è in pareggio. Poi, per rifarsi rapidamente del denaro perduto, sotto l’influenza di un agente di cambio, il Nilini, comincia a giocare in Borsa. Dopo qualche vincita iniziale, perde rovinosamente. Si rivolge di nuovo alla moglie per chiederle un prestito e questa glielo nega. Guido ricorre ancora al ricatto del suicidio, ma non mette nel conto l’imprevedibilità di alcune circostanze. Un forte temporale e una serie di equivoci, alla base dei quali sta il fatto che la moglie non crede più alla serietà delle sue minacce, fanno sì che i soccorsi arrivino quando Guido è già morto. Approfittando del fatto che del suicidio del cognato ancora non si ha notizia in Borsa, Zeno gioca per suo conto e vince, ripianando i debiti e ricostituendo un attivo, corrispondente alla metà del capitale iniziale di Guido.

Così s’iniziarono per me le cinquanta ore di massimo lavoro cui abbia atteso in tutta la mia vita. Dapprima e fino a sera restai a misurare a grandi passi su e giù l’ufficio in attesa di sentire se i miei ordini fossero stati eseguiti. Io temevo che alla Borsa si fosse risaputo del suicidio di Guido e che il suo nome non venisse più ritenuto buono per impegni ulteriori. Invece per varii giorni non si attribuì quella morte a suicidio.
Poi, quando il Nilini finalmente poté avvisarmi che tutti i miei ordini erano stati eseguiti, incominciò per me una vera agitazione, aumentata dal fatto che al momento di ricevere gli stabiliti[3], fui informato che su tutti io perdevo già qualche frazione abbastanza importante. Ricordo quell’agitazione come un vero e proprio lavoro. Ho la curiosa sensazione nel mio ricordo che ininterrottamente, per cinquanta ore, io fossi rimasto assiso al tavolo da giuoco succhiellando le carte[4]. Io non conosco nessuno che per tante ore abbia saputo resistere ad una fatica simile. Ogni movimento di prezzo fu da me registrato, sorvegliato, eppoi (perché non dirlo?) ora spinto innanzi ed ora trattenuto, come a me, ossia al mio povero amico, conveniva[5]. Persino le mie notti furono insonni.
Temendo che qualcuno della famiglia avesse potuto intervenire ad impedirmi l’opera di salvataggio cui m’ero accinto, non parlai a nessuno della liquidazione di metà del mese quando giunse. Pagai tutto io, perché nessun altro si ricordò di quegli impegni, visto che tutti erano intorno al cadavere che attendeva la tumulazione. Del resto, in quella liquidazione era da pagare meno di quanto fosse stato stabilito a suo tempo, perché la fortuna m’aveva subito assecondato. Era tale il mio dolore per la morte di Guido, che mi pareva di attenuarlo compromettendomi in tutti i modi tanto con la mia firma che con l’esposizione del mio danaro. Fin qui m’accompagnava il sogno di bontà che avevo fatto lungo tempo prima accanto a lui[6]. Soffersi tanto di quell’agitazione, che non giuocai mai più in Borsa per conto mio.
Ma a forza di «succhiellare» (questa era la mia occupazione precipua) finii col non intervenire al funerale di Guido[7]. La cosa avvenne così. Proprio quel giorno i valori in cui eravamo impegnati fecero un balzo in alto. Il Nilini ed io passammo il nostro tempo a fare il calcolo di quanto avessimo ricuperato della perdita. Il patrimonio del vecchio Speier figurava ora solamente dimezzato[8]! Un magnifico risultato che mi riempiva di orgoglio. Avveniva proprio quello che il Nilini aveva preveduto in tono molto dubitativo bensì ma che ora, naturalmente, quando ripeteva le parole dette, spariva ed egli si presentava quale un sicuro profeta. Secondo me egli aveva previsto questo e anche il contrario. Non avrebbe fallato mai, ma non glielo dissi perché a me conveniva ch’egli restasse nell’affare con la sua ambizione. Anche il suo desiderio poteva influire sui prezzi.
Partimmo dall’ufficio alle tre e corremmo perché allora ricordammo che il funerale doveva aver luogo alle due e tre quarti.
All’altezza dei volti di Chiozza, vidi in lontananza il convoglio e mi parve persino di riconoscere la carrozza di un amico mandata al funerale per Ada. Saltai col Nilini in una vettura di piazza, dando ordine al cocchiere di seguire il funerale. E in quella vettura il Nilini ed io continuammo a succhiellare. Eravamo tanto lontani dal pensiero al povero defunto che ci lagnavamo dell’andatura lenta della vettura. Chissà quello che intanto avveniva alla Borsa non sorvegliata da noi? Il Nilini, a un dato momento, mi guardò proprio con gli occhi e mi domandò perché non facessi alla Borsa qualche cosa per conto mio.
– Per il momento – dissi io, e non so perché arrossissi[9], – io non lavoro che per conto del mio povero amico.
Quindi, dopo una lieve esitazione, aggiunsi:
– Poi penserò a me stesso. – Volevo lasciargli la speranza di poter indurmi al giuoco sempre nello sforzo di conservarmelo interamente amico. Ma fra me e me formulai proprio le parole che non osavo dirgli: «Non mi metterò mai in mano tua!» Egli si mise a predicare.
– Chissà se si può cogliere un’altra simile occasione! – Dimenticava d’avermi insegnato che alla Borsa v’era l’occasione ad ogni ora.
Quando si arrivò al posto dove di solito le vetture si fermano, il Nilini sporse la testa dalla finestra e diede un grido di sorpresa. La vettura continuava a procedere dietro al funerale[10] che s’avviava al cimitero greco.
– Il signor Guido era greco? – domandò sorpreso. Infatti il funerale passava oltre al cimitero cattolico e s’avviava a qualche altro cimitero, giudaico, greco, protestante o serbo.
– Può essere che sia stato protestante! – dissi io dapprima, ma subito mi ricordai d’aver assistito al suo matrimonio nella chiesa cattolica.
– Dev’essere un errore! – esclamai pensando dapprima che volessero seppellirlo fuori di posto.
Il Nilini improvvisamente scoppiò a ridere di un riso irrefrenabile che lo gettò privo di forze in fondo alla vettura con la sua boccaccia spalancata nella piccola faccia.
– Ci siamo sbagliati! – esclamò. Quando arrivò a frenare lo scoppio della sua ilarità, mi colmò di rimproveri. Io avrei dovuto vedere dove si andava perché io avrei dovuto sapere l’ora e le persone ecc. Era il funerale di un altro!
Irritato, io non avevo riso con lui ed ora m’era difficile di sopportare i suoi rimproveri. Perché non aveva guardato meglio anche lui? Frenai il mio malumore solo perché mi premeva più la Borsa, che il funerale. Scendemmo dalla vettura per orizzontarci meglio e ci avviammo verso l’entrata del cimitero cattolico. La vettura ci seguì. M’accorsi che i superstiti dell’altro defunto ci guardavano sorpresi non sapendo spiegarsi perché dopo di aver onorato fino a quell’estremo limite quel poverino lo abbandonassimo sul più bello.
Il Nilini spazientito mi precedeva. Domandò al portiere dopo una breve esitazione:
– Il funerale del signor Guido Speier è già arrivato?
Il portiere non sembrò sorpreso della domanda che a me parve comica[11]. Rispose che non lo sapeva. Sapeva solo dire che nel recinto erano entrati nell’ultima mezz’ora due funerali.
Perplessi ci consultammo. Evidentemente non si poteva sapere se il funerale si trovasse già dentro o fuori. Allora decisi per mio conto. A me non era permesso d’intervenire alla funzione forse già cominciata e turbarla. Dunque non sarei entrato in cimitero[12]. Ma d’altronde non potevo rischiare d’imbattermi nel funerale, ritornando. Rinunziavo perciò ad assistere all’interramento e sarei ritornato in città facendo un lungo giro oltre Servola. Lasciai la vettura al Nilini che non voleva rinunziare di far atto di presenza per riguardo ad Ada ch’egli conosceva.
Con passo rapido, per sfuggire a qualunque incontro, salii la strada di campagna che conduceva al villaggio. Oramai non mi dispiaceva affatto di essermi sbagliato di funerale e di non aver reso gli ultimi onori al povero Guido. Non potevo indugiarmi in quelle pratiche religiose. Altro dovere m’incombeva: dovevo salvare l’onore del mio amico e difenderne il patrimonio a vantaggio della vedova e dei figli. Quando avrei informata Ada ch’ero riuscito di ricuperare tre quarti della perdita (e riandavo con la mente su tutto il conto fatto tante volte: Guido aveva perduto il doppio del patrimonio del padre e, dopo il mio intervento, la perdita si riduceva a metà di quel patrimonio. Era perciò esatto. Io avevo ricuperata proprio tre quarti della perdita), essa certamente m’avrebbe perdonato di non essere intervenuto al suo funerale[13].
Quel giorno il tempo s’era rimesso al bello. Brillava un magnifico sole primaverile e, sulla campagna ancora bagnata, l’aria era nitida e sana. I miei polmoni, nel movimento che non m’ero concesso da varii giorni, si dilatavano. Ero tutto salute e forza. La salute non risalta che da un paragone. Mi paragonavo al povero Guido e salivo, salivo in alto con la mia vittoria nella stessa lotta nella quale egli era soggiaciuto. Tutto era salute e forza intorno a me. Anche la campagna dall’erba giovine. L’estesa e abbondante bagnatura, la catastrofe dell’altro giorno[14], dava ora soli benefici effetti ed il sole luminoso era il tepore desiderato dalla terra ancora ghiacciata. Era certo che quanto più ci si sarebbe allontanati dalla catastrofe, tanto più discaro sarebbe stato quel cielo azzurro se non avesse saputo oscurarsi a tempo[15]. Ma questa era la previsione dell’esperienza ed io non la ricordai; m’afferra solo ora che scrivo. In quel momento c’era nel mio animo solo un inno alla salute mia e di tutta la natura; salute perenne.
Il mio passo si fece più rapido. Mi beavo di sentirlo tanto leggero. Scendendo dalla collina di Servola s’affrettò fin qui quasi alla corsa. Giunto al passeggio di Sant’Andrea, sul piano, si rallentò di nuovo, ma avevo sempre il senso di una grande facilità. L’aria mi portava.
Avevo perfettamente dimenticato che venivo dal funerale del mio più intimo amico.
Avevo il passo e il respiro del vittorioso. Però la mia gioia per la vittoria era un omaggio al mio povero amico nel cui interesse era sceso in lizza.
Andai all’ufficio a vedere i corsi di chiusa. Erano un po’ più deboli, ma non fu questo che mi tolse la fiducia. Sarei tornato a «succhiellare» e non dubitavo che sarei arrivato allo scopo[16].
Dovetti finalmente recarmi alla casa di Ada. Venne ad aprirmi Augusta. Mi domandò subito:
– Come hai fatto a mancare al funerale, tu, l’unico uomo nella nostra famiglia[17]?
Deposi l’ombrello e il cappello, e un po’ perplesso le dissi che avrei voluto parlare subito anche con Ada per non dover ripetermi. Intanto potevo assicurarla che avevo avute le mie buone ragioni per mancare dal funerale. Non ne ero più tanto sicuro e improvvisamente il mio fianco s’era fatto dolente forse per la stanchezza[18]. Doveva essere quell’osservazione di Augusta, che mi faceva dubitare della possibilità di far scusare la mia assenza che doveva aver causato uno scandalo; vedevo dinanzi a me tutti i partecipi alla mesta funzione che si distraevano dal loro dolore per domandarsi dove io potessi essere.
Ada non venne. Poi seppi che non era stata neppure avvisata ch’io l’attendessi. Fui ricevuto dalla signora Malfenti che incominciò a parlarmi con un cipiglio severo quale non le avevo mai visto. Cominciai a scusarmi, ma ero ben lontano dalla sicurezza con cui ero volato dal cimitero in città. Balbettavo. Le raccontai anche qualche cosa di meno vero in appendice della verità, ch’era la mia coraggiosa iniziativa alla Borsa a favore di Guido, e cioè che poco prima dell’ora del funerale avevo dovuto spedire un dispaccio a Parigi per dare un ordine e che non m’ero sentito di allontanarmi dall’ufficio prima di aver ricevuta la risposta. Era vero che il Nilini ed io avevamo dovuto telegrafare a Parigi, ma due giorni prima, e due giorni prima avevamo ricevuta anche la risposta. Insomma comprendevo che la verità non bastava a scusarmi fors’anche perché non potevo dirla tutta e raccontare dell’operazione tanto importante cui io da giorni attendevo cioè a regolare col mio desiderio i cambii mondiali. Ma la signora Malfenti mi scusò quando sentì la cifra cui ora ammontava la perdita di Guido. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi. Ero di nuovo non l’unico uomo della famiglia, ma il migliore[19].


[1] La coscienza di Zeno  - Scritto di getto nel 1919 e pubblicato nel 1922, dopo il lungo silenzio letterario dell’autore. Raggiunge il successo nazionale e internazionale grazie a Eugenio Montale, che in un articolo del 1925 tessé le lodi del romanzo, e a James Joyce che fece conoscere il romanzo in Francia.
La struttura del romanzo, costruito ad episodi e non secondo una successione cronologica precisa e lineare è innovativa.
Il narratore è il protagonista, Zeno Cosini, che ripercorre sei momenti della sua vita all'interno di una terapia di psicoanalisi.
Il romanzo si apre con la Prefazione del dottore psicoanalista (identifica dall'ironicamente beffarda etichetta di "dottor S.", con un sotterraneo richiamo al cognome dell'autore reale) che ha avuto in cura Zeno e che l'ha indotto a scrivere la sua autobiografia. Il protagonista si è sottratto alla psicoanalisi e il medico per vendetta decide di pubblicare la sue memorie. I sei episodi della vita di Zeno Cosini sono: Il fumo, La morte di mio padre, La storia del mio matrimonio, La moglie e l’amante, Storia di un’associazione commerciale e Psico-analisi. 
Ogni episodio è narrato dal punto di vista del protagonista, e il suo resoconto degli eventi risulta spesso inattendibile; egli presenta la sua versione dei fatti, modificata e resa come innocua in un atto inconscio di autodifesa, per apparire migliore agli occhi del dottor S. (una sorta di secondo padre, sotto i cui occhi recitare la parte del "figlio buono"), dei lettori e forse anche ai propri).
Dopo una Prefazione e un Preambolo sulla propria infanzia, nel terzo capitolo Zeno scrive del suo vizio del fumo (Il fumo): fin da ragazzino il protagonista è dedito a questo vizio, da cui cerca inutilmente di liberarsi con diversi tentativi infruttuosi, testimoniati dalle pagine di diari e dai libri (noché dai muri...) su cui vengono scritte la data e la sigla u.s. (ultima sigaretta). Infine per liberarsi dal fumo il protagonista si fa ricoverare in una clinica, da cui fugge, corrompendo con una bottiglia di cognac l’infermiera che lo sorveglia. L’episodio del fumo permette a Zeno di riflettere sulla propria mancanza di forza di volontà e sull'incapacità di perseguire un fine con forza e decisione. Tale debolezza è attribuibile al senso di vuoto che egli sente nella sua vita, e all’assenza nella sua infanzia di una figura paterna che fornisca regole e norme comportamentali.
Il secondo episodio (La morte di mio padre) è appunto incentrato sulla figura del padre di Zeno. Il protagonista-narratore analizza il difficile rapporto con il genitore, che non riesce a identificare come figura di riferimento e guida. Zeno infatti non ha mai tentato di stabilire un rapporto affettivo e di reciproca intesa con il padre. Quando quest'ultimo è colto da paralisi, il figlio, in cerca di approvazione e giustificazione, prova ad accudirlo prima che sia troppo tardi. Ma durante la notte, il padre viene colpito da un edema cerebrale. Ormai incapace di intendere e volere l’uomo è destinato a morte certa, e Zeno spera, per evitare ulteriori sofferenze al padre e soprattutto fatiche per se stesso, in una fine rapida e indolore. Nell’estremo momento della morte in un gesto incontrollato il padre schiaffeggia il figlio, per poi spegnersi; gesto che segnerà irrimediabilmente il protagonista e ne orienterà tutti i malcelati tentativi di spiegare quel gesto, o di giustificare il proprio atteggiamento.
Terzo evento del romanzo (La storia del mio matrimonio) è la storia del matrimonio di Zeno. Il protagonista, dopo aver conosciuto Giovanni Malfenti, uomo d’affari triestino, inizia a frequentare la sua casa e la sua famiglia. Zeno si innamora di una delle quattro figlie di Malfenti, Ada, la più bella, che però è innamorata di un altro, Guido Speier. Il protagonista si dichiara ad Ada, da cui viene rifiutato. Si rivolge allora anche alle tre sorelle con la stessa proposta di matrimonio, ma tale proposta viene accolta solo dalla meno affascinante, Augusta, che tuttavia sa garantire all’uomo un matrimonio borghese ed apparentemente felice, dato che entrambi i coniugi vedono realizzati i loro desideri inconsci (e cioè, trovare una seconda "madre" per il protagonista, o trovare un marito per Augusta). In questo capitolo il personaggio appare come l’inetto dei due romanzi precedenti: immerso nelle sue fantasie, viene trascinato dagli eventi senza essere in grado di scegliere.
Il quarto episodio della vita di Zeno è la storia dell’amante (La moglie e l'amante): in un desiderio di conformarsi a un costume sociale il protagonista trova una giovane amante, Carla. La relazione con la donna si rivela ambigua per Zeno, che da una parte non vuole far soffrire la moglie, mentre dall’altra è attratto dall'esperienza trasgressiva del tradimento coniugale. La storia con Carla (nei confronti della quale Zeno prova sia desiderio che senso di colpa) si conclude, tuttavia quando la ragazza, stanca delle contraddizioni del protagonista, sposa il suo insegnante di canto, mentre Zeno ritorna dalla moglie incinta. 
In Storia di un’associazione commerciale si assiste invece al fallimento dell’azienda messa in piedi da Zeno e Guido, marito di Ada, a causa dello sperpero del patrimonio da parte di quest’ultimo. Guido, dopo due tentativi di suicidio simulati per avere ulteriore denaro dalla moglie e salvare così l'impresa, riesce erroneamente a uccidersi. Zeno, dopo aver sbagliato corteo funebre, riscuote successo negli affari, ma ciò non serve a conquistargli le simpatie di Ada, che ormai lo disprezza e parte per il Sudamerica.
Infine nell’ultimo episodio, intitolato Psico-analisi, Zeno riprende, dopo sei mesi di interruzione, a scrivere le sue memorie, per ribellarsi al medico, esprimendo il suo disprezzo e il suo rifiuto per la psicoanalisi. Ma in questo ultimo atto si rende conto che la malattia interiore di cui si sentiva vittima e da cui riesce a curarsi è una condizione comune a tutta l’umanità e che coincide con il progresso del mondo intero. Il romanzo si conclude con una drammatica profezia di un’esplosione che causerà la scomparsa dell’uomo dalla faccia della Terra.
[2] Uno, nessuno e centomila – Luigi Pirandello, sebbene inizi a lavorare a Uno, nessuno e centomila già da tempo, riesce a completare questa sua fatica letteraria solo nel 1926, quando l'opera fu pubblicata prima a puntate sulle pagine della rivista Fiera letteraria, e successivamente in volume. Come ne Il fu Mattia Pascal il tema centrale è quello dell’identità, o per meglio dire delle molteplici identità dell'io narrante, che, ricorrendo spesso al monologo tra sé e sé, indaga sulle molte sfaccettature della propria intima natura. E, in accordo con il saggio pirandelliano sull'umorismo, a questa autoanalisi introspettiva si accompagnano sempre le tinte del grottesco, che invita a riflettere sulla condizione umana. 
Inizialmente Vitangelo Moscarda (Gengé per gli amici) ci viene presentato come un uomo del tutto comune e normale, senza nessun tipo di angoscia né di tipo esistenziale né materiale: conduce una vita agiata e priva di problemi grazie alla banca ereditata dal padre. Un giorno questa piatta tranquillità è però turbata: l’elemento disturbatore è un banale e innocente commento pronunciato dalla moglie di Vitangelo riguardo al fatto che il suo naso penda un po’ da una parte. Da questo momento la vita del protagonista cambia completamente, poiché Gengé si rende conto di apparire al prossimo molto diverso da come egli si è sempre percepito. Così decide di cambiare radicalmente il suo stile di vita, nella speranza di scoprire chi sia veramente, e a quale proiezione di sé corrisponda il suo animo.
Nel processo di ricerca per trovare sé stesso compie azioni che vanno contro a quella che era stata la sua natura sino a quel momento: sfratta una famiglia di affittuari per poi donare loro una casa, si sbarazza della banca ereditata dal padre, inimicandosi familiari e parenti, e inizia ad ossessionare chi gli sta vicino, con discorsi e riflessioni oscure che lo fanno passare per pazzo agli occhi della comunità.
La situazione si aggrava al punto che la moglie abbandona la casa coniugale, e, insieme ad alcuni amici, inizia un'azione legale contro Vitangelo col fine d’interdirlo. Gli rimane fedele in un primo momento solo un’amica della moglie, Anna Rosa, che poco dopo però, spaventata dai ragionamenti di Vitangelo, arriva addirittura a sparargli, senza ucciderlo ma ferendolo in modo serio. 
Vitangelo, il cui "io" è ormai completamente frantumato nei suoi "centomila" alter ego, sembra trovare una tregua ai propri patimenti solo nel confronto con un religioso, Monsignor Partanna, che lo sprona a rinunciare a tutti i suoi beni terreni in favore dei meno fortunati.
Il tormentato protagonista pirandelliano, rifugiatosi nell'ospizio che egli stesso ha donato alla città, riesce così a trovare un po’ di pace e di serenità solo nella fusione totalizzante (e quasi misticheggiante) con il mondo di Natura, l'unico in cui egli può abbandonare senza timori tutte le "maschere" che la società umana gli ha a mano a mano imposto.
Il tema della scomposizione ad infinito della personalità e della "forma" umana si riflette sia nello stile di Pirandello sia nella struttura del romanzo, composto da otto capitoli condotti dalla voce narrante di Gengé stesso, come già avveniva per le "memorie" de Il fu Mattia Pascal; in più la riflessione sulla personalità modifica qui anche alcune linee di forza della poetica pirandelliana. All'umorismo, che permea la narrazione e che ritrova nel Tristam Shandy di Laurence Sterne (1713-1768) uno dei suoi modelli, si aggiunge la dimensione grottesca, che descrive la progressiva follia di Vitangelo, con effetti di straniamento e di distorsione nella rappresentazione di una realtà che, per l'ultimo Pirandello, diventa ormai solo una somma di frammenti privi di senso.
[3] gli stabiliti: i titoli che aveva dato ordine di acquistare.
[4] succhiellando le carte: nel gergo degli agenti di Borsa dell’epoca, «succhiellare le carte» significava probabilmente osservare con attenzione ininterrotta gli importi dei titoli acquistati, calcolando il continuo variare dei guadagni e delle perdite
[5] come...conveniva: Per una sorta di lucida superstizione, Zeno ha l’impressione di poter regolare i movimenti di prezzo dei titoli con il suo desiderio
[6] il sogno di bontà...a lui: la «bontà» di Zeno è molto equivoca: per «bontà» Zeno sorveglia gli amori di Guido con la bella segretaria Carmen (alla quale peraltro fa anche lui delle avances, prontamente respinte dalla ragazza), e si premura di farne un rendiconto ad Augusta, che, come prevedibile, ne informa Ada, la quale trae dal tradimento motivo per negare aiuto finanziario al marito; per «bontà» scopre un grosso ammanco nella contabilità di Guido, e ne informa, sempre attraverso Augusta, la famiglia Malfenti; per «bontà», infine, offre il proprio aiuto finanziario a Guido – ma troppo tardi – e facendo comunque pesare questa sua generosità che contrasta con il fermo atteggiamento negativo di Ada.

[7] finii...Guido: è un clamoroso «atto mancato». L’«atto mancato», secondo Freud, è un atto il cui risultato coscientemente perseguito non viene raggiunto, ma viene sostituito da un altro, voluto dall’inconscio. Nella Psicopatologia della vita quotidiana Freud dimostra che gli atti mancati sono, così come i sintomi nevrotici, formazioni di compromesso tra l’intenzione cosciente del soggetto e il desiderio rimosso. Zeno coscientemente vuole partecipare al funerale di Guido, che egli non perde mai l’occasione di proclamare suo «amico», ma finisce con non parteciparvi perché in realtà lo odia.

[8] dimezzato: Zeno, con la sua fortunata speculazione, ha annullato i debiti contratti da Guido in conseguenza dell’attività commerciale e di quella in Borsa, e ha inoltre ricostituito metà dell’ingente capitale iniziale del cognato suicida. Il futuro della vedova e dei figli è quindi assicurato. Il successo conseguito da Zeno è strepitoso, se si considera che Ada e tutti i Malfenti erano ormai convinti che non solo il patrimonio di Guido fosse distrutto interamente, ma che il suo nome fosse destinato a rimanere infangato dalla inevitabile dichiarazione di fallimento e dalla rivelazione della scorretta amministrazione di cui Guido era responsabile
[9] e...arrossissi: si arrossisce per vergogna, e proviamo vergogna quando diamo di noi agli altri un’immagine che non corrisponde alla nostra vera identità. Zeno cerca di presentarsi come sollecito verso il suo «povero amico», ma il lettore attento si è certamente accorto che egli non si è adoperato affatto per il bene di Guido; anzi, c’è da supporre che abbia dato un valido, anche se sotterraneo, apporto alla sua rovina. L’inconscio di Zeno questo lo sa benissimo, e non è quindi strano che egli, suo magrado, arrossisca
[10] più la Borsa che il funerale: Zeno lo dichiara apertamente: a lui interessava la Borsa, non il funerale. Perché in Borsa stava ottenendo un successo strepitoso, che avrebbe dovuto cancellare definitivamente anche l’immagine di Guido agli occhi di Ada.
[11] Il portiere...comica: l’impassibilità di un personaggio estraneo rivela a Zeno la comicità della situazione che sta vivendo, e della quale finora non si è accorto.
[12] A me...in cimitero: questa giustificazione che Zeno adduce non è convincente, e comunque sottolinea la sua estraneità e la sua indifferenza al destino del povero Guido. In realtà Zeno non vuole assistere al funerale del cognato.
[13] perdonato...funerale: attraverso lo stile indiretto libero lo Zeno narratore riferisce le opinioni dello Zeno al momento dell’azione. Zeno, come sempre quando ha a che fare con Ada, si sbaglia
[14] L’estesa...giorno: il nubifragio che, ostacolando e rendendo tardivo il soccorso, indirettamente aveva provocato la morte di Guido.
[15] Era certo…a tempo: quest’affermazione esemplifica il principio enunciato poche righe prima: «La salute non risalta che da un paragone». (Principio che potremmo definire leopardiano, pur che si sostituisca «salute» con «felicità»: si pensi a La quiete dopo la tempesta). La «salute» è una condizione non destinata a permanere; anzi, essa non è nemmeno di per sé definibile, ma è definibile solo per contrasto. Il cielo azzurro è una manifestazione effimera che non può durare, così come il trionfo di Zeno. Passata l’eccitazione, il cielo azzurro gli ricorderà la sua illusione di salute e di felicità, e quindi gli sarà «discaro».
[16] non dubitavo…scopo: il valore dei titoli acquistati da Zeno per conto di Guido è leggermente diminuito, ma Zeno, preso dall’entusiasmo per il successo ottenuto, ha la fiducia superstiziosa che, tornando a registrare accuratamente l’andamento dei cambi, gli sarà possibile farlo risalire.
[17] come hai fatto...famiglia?: una visione più realistica della situazione s’impone a Zeno in seguito all’ovvia domanda di Augusta, che suona inevitabilmente come un rimprovero
[18] il mio fianco...stanchezza: il senso di colpa di Zeno prende di regola la forma di un dolore fisico.
[19] il migliore: è naturale che la prima a perdonare Zeno sia la suocera, che impersona l’etica borghese, al centro della quale c’è il denaro.

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