Rilievi
morbidi e ondulati, ammantati di verde e terrazzati di vigneti, a tratti si
interrompono e cedono il passo a pareti imponenti e rocciose, a dirupi scoscesi
su cui fiorisce la macchia mediterranea, a picchi che tagliano la costa e
strapiombano nel mare. Qui si respira la salsedine che la brezza ed il
maestrale, sulle ali di antiche leggende, confondono con il profumo della
resina; su queste alture lo sguardo fluttua dall’azzurra immensità del cielo a
quella del mare che si fa subito profondo, imprigionando in un solo battito di ciglia le
immagini suggestive di un paesaggio singolare che si staglia fra cielo e mare.
Questa
combinazione inscindibile di verde e di azzurro, di monti e di mare, incornicia,
in maniera quanto mai idilliaca, un territorio irregolare e variegato che, da
quelle pendici, si estende a macchia d’olio e si insinua fra pianure, conche,
baie ed insenature, fino alle coste di un Tirreno sorprendentemente azzurro,
racchiuso fra due golfi. Paesi di piccole case strette l’una all’altra, borghi
arrampicati sulle colline attorno ad un campanile, circondati da orti e da
terrazze coltivate, sentieri ciottolosi ed antiche strade carrozzabili che
passano per i borghi e si allontanano fra canaloni selvaggi, facendosi spazio
nel sottobosco di pini e castagni. Casolari antichi, antichi conventi, ruderi
di castelli punteggiano le pendici e dominano, superbi e solitari, la pianura
popolosa che ai loro piedi si estende. Nella piana, soleggiata e fertile, si ha
l’impressione di entrare in un’altra dimensione, un’atmosfera diversa, lontana
da quella austera e silenziosa delle verdi pendici. Lassù il tempo è quello dei
paesaggi alpini, lento e rarefatto, quasi immobile.
Quaggiù,
nella piana, tutto è più dinamico, incalzante. Il tempo corre e travolge uomini
ed attività. Poi, magicamente, questa frenesia sembra di nuovo placarsi lungo
la costa dove borghi marinari e pini, arrampicati sulla scogliera, si
specchiano vanitosi in un mare che fa da testimone a tanta bellezza. Il fascino
che avvolge i Monti Lattari non si ferma tuttavia alla bellezza di un paesaggio
ad un tempo alpestre e marittimo, nordico e mediterraneo, ma sempre così
straordinariamente ammaliante. La sua singolare malia che ha sedotto i
viaggiatori di ogni tempo, dai marinai di Ulisse ai visitatori stranieri del
Grand Tour, è piuttosto il risultato di una sintesi perfetta fra natura, storia
ed arte. Ogni angolo di questo territorio è intatti retaggio di antichi
splendori, testimonianza di fasti culturali ed economici fin dall’epoca
preromana.
Per
il semplice fatto di essere collocate in una posizione geografica favorevole,
antiche città come Stabia, Nocera, Sorrento ed Amalfi hanno avuto il privilegio
di incontrare e conoscere le più evolute civiltà fiorite sulle sponde del
Mediterraneo. Ma soprattutto, queste antiche città sono state capaci di
accogliere e di assimilare tendenze culturali fra le più varie che hanno
portato nei nostri tenitori ondate di freschezza culturale, sopravvissute
persine nei secoli bui del medioevo barbarico e feudale. Ma che cos’era la
nostra terra prima di diventare crocevia di grandi civiltà? Era una terra
ricoperta di boschi lussureggianti, ricca di acqua per la sua natura carsica e,
per questo, percorsa dovunque da ruscelli e torrenti dove l’umano bestione,
fin dall’alba della sua avventura, aveva scelto di vivere.
Questi
uomini primitivi, cacciatori selvaggi e raccoglitori di molluschi, nel buio di
quelle che oggi sono le più belle grotte della costiera e dell’isola di Capri,
affilavano le loro armi rudimentali con pietre scheggiate e coltellini di selce
e, da quei covi segreti, da quei ripari rocciosi, ancestrali e protettivi come
un grembo materno, risuonavano i rumori sordi della scalfittura ed i versi brutali
di uomini ancora così vicini alla bestialità. Ma le vicende di quei temerari
della preistoria sono ormai troppo lontane ed è forse meglio tralasciarle per
spostarci in un’epoca meno remota e sicuramente meglio documentata. E’ nel
periodo romano che Stabiae, Surrentum, Nuceria Alfaterna, Marcina l’etrusca,
fioriscono come grandi centri urbani ed importanti poli commerciali ed è ad
esse che sono collegati i borghi periferici dell’entroterra. Dal ciglione della
collina di Varano, estrema propaggine settentrionale dei monti Lattari, ai
promontori tufacei che, come splendide terrazze, si affacciano sul mare di
Equa, di Sorrento, di Massa su cui aleggia ancora la leggenda delle Sirene,
fino a Minori, è tutto un fiorire di grandiose ville di otium, imponenti nella
loro complessità. I loro architetti, sempre attenti ad adattarsi alla natura
rocciosa ed ineguale del suolo, sempre pronti a guadagnare in altezza quanto
perdevano in larghezza ed in profondità, caratterizzarono tutta la costa con
questi luoghi di lusso e di riposo che, con un sapiente alternarsi di scalee,
con terrazze, porticati, esedre e ninfei degradanti verso il mare con un
grandioso effetto scenografico, testimoniano l’alto grado di raffinatezza
raggiunto dal patriziato romano. A fronte di queste splendide dimore di
piacere, sulle pendici dei monti, fra viti ed ulivi, serpeggiavano sentieri e
strade che dalla costa penetravano verso l’interno e che univano le città
costiere alle ville rustiche dell’ager, caratterizzate dalla presenza di
torchi, frantoi, aie e magazzini. Da qui, periodicamente, partivano carri
colmi di olio e di vino che, attraverso i viottoli polverosi, giungevano ai
commercianti dei centri costieri e di qui ai grandi empori del Mediterraneo.
Col naufragio del mondo classico, scandito dalle invasioni barbariche e dalla
guerra tra Goti e Bizantini, le città su cui i monti Lattari gravitavano
decaddero: Marcina, rinomata per ricchezza, lusso ed eleganza, celebre per il
culto delle arti da cui si manifestava la sua origine etrusca, fu distrutta dai
Vandali ed i suoi superstiti si dispersero in piccole comunità sui monti;
Nuceria decadde e, sotto i colpi dei Longobardi, la sua popolazione si spostò
verso occidente disperdendosi in numerosi villaggi; gli stessi abitanti di
Stabiae, minacciati dalle continue scorrerie dei Longobardi, diedero origine a
numerosi borghi montani. Il vuoto di potere lasciato dalle città antiche portò
alla ribalta la potenza commerciale della repubblica marinara di Amalfi che
estese il suo Stato proprio sui monti Lattari, ribadendo, ancora una volta, il
fecondo connubio fra costa ed entroterra. Da qui, infatti, arrivavano i carichi
di legname per la costruzione di navi, piccole e veloci, con le quali gli
amalfitani solcavano il Mediterraneo per trafficare con Arabi e Bizantini. Gli
intensi contatti con queste floride civiltà lasciarono bene impressi, nell’architettura
e nell’urbanistica della repubblica, quegli stilemi orientali che ancora oggi
sono visibili nelle cupole e nei campanili maiolicati. Ma da quelle montagne
provenivano anche pastori e contadini che all’occorrenza si trasformavano in
marinai, amalgamandosi con le genti della costa, per poi ritornare alle loro
normali attività rurali.
E’
proprio questa vita anfibia degli abitanti delle colline che sta alla base
della loro mentalità industriosa e mercantile ed è grazie a questa che essi
riuscirono a strappare alla montagna, brulla ed impervia, terreni coltivabili,
terrazzamenti fruttuosi e giardini fioriti.
Con
il suo splendore Amalfi sopravvisse alle secolari lotte contro i Longobardi
dell’entroterra beneventano e salernitano, ma poi, soggiogata dai Normanni e
smembrata dal feudalesimo che essi avevano introdotto, Amalfi chinò il capo,
restrinse i suoi confini e, mestamente, si chiuse in un dignitoso isolamento
aiutata anche dai monti Lattari che la serravano sul mare dall’interno. Così,
proprio mentre Amalfi scendeva dal palcoscenico dei grandi potentati,
Castellammare, Sorrento, Cava dei Tirreni e Nocera vi risalivano, forti di un’economia
in continua espansione. Eppure, la floridezza dei centri costieri dovette fare
spesso i conti con le tormentose scorrerie dei saraceni che, con saccheggi e
distruzioni, decretarono il declino di Sorrento e Massa Lubrense. In questo
clima di sconvolgimenti i monti Lattari si trovarono ancora ad assorbire
coloro che dalla costa cercavano rifugio nei borghi e nei casali dell’entroterra.
Ancora una volta la costa si trasferisce sui monti ed ancora una volta si
rafforzano i rapporti fra montagna, rude ma tranquilla, e costa, civilizzata ma
sicuramente più pericolosa. Fu proprio grazie al suo passato cosmopolitico che
la nostra terra, frontiera fra oriente e occidente, è diventata, soprattutto a
partire dal Rinascimento, uno scrigno di gemme tanto preziose quanto sconosciute
e dimenticate.
Questa
terra di ubertosi pascoli, di audaci navigatori e di romantici briganti, non è,
dunque, solo scenario naturale, ma anche storia, arte di un popolo
straordinario, che ha illuminato le tenebre medievali e ha donato all’Occidente,
insieme alla bussola ed ai rudimenti del diritto della navigazione, una
magistrale lezione di tolleranza e di apertura mentale verso lo straniero. Il
percorso che la storia dell’arte ha realizzato nella nostra area è stato spesso
un percorso periferico, troppo a lungo eclissato dallo splendore artistico di
ben più grandi città d’arte. Eppure anche le nostre città, i nostri borghi, le
nostre coste, pur non elevandosi mai a centri di elaborazione di tendenze
pittoriche originali, seppero prontamente recepire quanto avveniva altrove e
seppero fondare, su quegli stimoli, una cultura artistica di non poco conto.
Pittori
duttili e astuti che, dalle timide botteghe d’arte della zona, hanno con
tenacia gettato lo sguardo ai di là dei monti assorbendo tendenze e stili
pittorici fra i più elevati della cultura figurativa italiana. E, accanto a
questi, altri talenti italiani e stranieri hanno fatto sporadico ingresso nella
nostra terra, impreziosendola di volta in volta con le loro inconfondibili
pennellate. La presenza nella nostra zona di una così folta schiera di artisti
indigeni e stranieri è segno di un’offerta di lavoro piuttosto abbondante e
diffusa e, visto che la maggior parte delle opere sono a soggetto sacro, non è
difficile capire che la committenza era soprattutto ecclesiastica e che essa
coinvolgeva i numerosi ordini religiosi, come quello dei Cappuccini, diffusi
nel nostro territorio in seguito alla Controriforma.
Gioielli
architettonici, scultorei e ancor più pittorici sopravvivono a fatica in una
modernità ed in una quotidianità che li ignora, li tralascia, li trascura in
nome di una classificazione superata e miope, ma quanto mai viva e resistente,
che pretende di distinguere un’arte maggiore da una minore. Eppure basterebbe
fermarsi di fronte ad una chiesa, percorrere con lo sguardo l’imponenza delle
sue pareti, la simmetria delle forme, i colori sbiaditi degli stucchi.
Basterebbe varcare la soglia talvolta erbosa ed alzare gli occhi su una tela,
scrutarne le immagini, sentire la morbidezza dei panneggi, percepire gesti e
movimenti, guardare quelle immagini così intensamente fino ad avvertirne anche
il respiro.
Basterebbe questo per riscoprire il fascino di un passato immortale. E
così, viandanti dell’anima, fra i sentieri che serpeggiano tra i monti su cui i
passi vanno leggeri, giungeremo nelle chiese a noi più familiari, edifici senza
tempo, talvolta dalle facciate dimesse, alla scoperta di quei tesori pittorici
ignorati da chi, giorno dopo giorno, li lega ad una ritualità puramente
devozionale e che, come pezzi di storia consumati dall’incuria del tempo e
degli uomini, meritano a pieno titolo di essere sottratti alla dimenticanza e
ancor più all’indifferenza perché essi sono l’arte di un popolo e, come tale,
sono lo specchio fedele della sua mente carica di storia e di cultura.
Massimo Capuozzo
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