Ma
a mano a mano che ci avviciniamo, provenendo da nord o da sud, a mano a mano
che ritorniamo a casa, il loro paesaggio diventa più netto, nitido, distinto. Le
sagome si fanno più facilmente distinguibili e la loro varietà, quei dolci
pianori che si alternano ad orridi immensi, ci rievoca una storia tormentata,
geologicamente cominciata quando quei monti erano sommersi e facevano parte
della piattaforma carbonatica tirrenica, in epoche tanto remote di cui è impossibile
perfino immaginarne il senso, che si dilata fino a confondersi con l’eternità.
Ed è in seguito ai movimenti di flessione e di torsione della catena
appenninica, in seguito ad esplosioni vulcaniche di inimmaginabile portata - quelle
del lontano vulcano di Rocccamonfina e quelle del più vicino bacino dei Campi Flegrei
– che hanno avuto vita l’ossatura geologica della nostra felix Campania e, nella sua pianura centrale, il bastione di un
monte, il Vesuvio che, in epoca protostorica e storica, avrebbe finalmente contribuito
alla formazione ed alla definizione del nostro territorio.
Questa terra, amata e bestemmiata, che è diventata il
nostro paesaggio interiore, offrì un quadro terribile e sublime in età remotissime, nei tempi preistorici, quando l’acqua
ed il fuoco si contendevano
il dominio della terra, ancora malferma, quando sconvolgimenti giganteschi, uragani spaventosi, continue oscillazioni del suolo,
abbassavano, sollevavano, cambiavano senza sosta la crosta terrestre.
La penisola sorrentina in quei tempi, prolungamento del
monte Albino, era
tutta circondata dalle acque; la valle
oggi costituita dal Sarno era anch’essa sommersa ed il golfo di Napoli comunicava
con quello di
Salerno per mezzo di uno stretto che, incominciando dalla parte orientale del
territorio di Cava de’ Tirreni, giungeva fino a Vietri. E, quando le acque si ritirarono, la valle restò
asciutta, più o meno come oggi la vediamo. Quel mare, che una volta aveva
lambito le falde
degli Appennini ed aveva riempito tutta la valle del Sarno, mettendo in comunicazione i golfi di Paestum e di
Stabia, e quando il Monte Albino era ancora un’isola, quel mare si spargeva attraverso la
piana di S. Severino, addentrandosi
nella spaziosa valle, racchiusa fra Avellino, Avella e Conza, quel mare occupava tutta la
pianura intermedia
tra quelle montagne fino
a Capri, quel mare un tempo aveva circondato ed inframmezzato i nostri monti, facendoli
assomigliare, nei punti più elevati, ad un ampio arcipelago, per clima e per
forma una specie di Bahamas nostrano.
I nostri monti sono tutti di formazione secondaria,
nettuniana, e sono stati originati dall’addensarsi delle materie che l’acqua vi ha
lasciato. Il Saro, il Saretto, il Solano, il Monte Albino e, sul nostro versante, il Megano, il Sant’Angelo, il
Faito fino al monte Solaro a Capri sono aggregati di strati silicei e calcarei, sovrapposti gli
uni agli altri, e fra essi si distinguono benissimo vestigia di materie organiche, di conchiglie e
conchigliette marine pietrificate.
La formazione vulcanica del Vesuvio fu l’origine del riempimento dei vuoti intermedi,
dell’allontanamento del mare ed infine della congiunzione al continente: gli strati di tufo, che a varie profondità si estraeva
dalle pianure di Nocera, di Pompei,
di Nola, si trova anche sui monti di Vico Equense e di Sorrento, dimostrando che il Vesuvio, dal primo suo sorgere
dal mare fino a quel fatidico 79 d.C., emise un’immensa quantità di cenere, di lapilli e di altre materie, da cui poi si
formò il tufo; tali materiali,
cadendo specialmente nel mare circostante, a poco a poco allontanarono le acque, fino a che, colmati tutti i monti ed i
vuoti, fecero emergere la terra ferma.
Nessun uomo potette assistere a quelle lotte immani fra gli elementi e solo i fossili che
si trovano un po’ dovunque sulle nostre montagne rimangono muti testimoni di
questi cataclismi e, quando il caos si fece calma, lungo tutta la costa, una serie di ripari e di parti
terminali di grotte a livelli diversi evidenziarono che l'ultimo sprofondamento
della costa fosse avvenuto.
Siamo intorno a 8500 anni fa, un tempo geologicamente recente
e la nostra terra era pronta ad
accogliere l’uomo.
Quando l’umano bestione di vichiana memoria, nei secoli che seguirono, venne in questa valle e su queste coste spinse sbigottito lo sguardo ai vulcani che le circondavano e che di notte vomitavano fuoco, fiamme e densi vapori; quando sentì il suolo mugghiare ed agitarsi sotto i suoi piedi, corse allora con la
fantasia ad un potere soprannaturale
ed immaginò che degli esseri superiori
fossero venuti qui a contendersi il dominio del mondo. In questo modo egli aveva cominciato a sentire il bisogno
di astrazione, a concepire l’idea di famiglia, di giustizia e di divinità e
forse a concepire l’idea stessa di arte.
La nostra terra è già abitata da qualcosa di diverso
rispetto all’ominide preistorico. Dopo oltre un secolo di scoperte di oggetti
incisi e scolpiti, di grotte e di ripari ornati di pitture e di incisioni, la preistoria
ci ha insegnato che le sue forme sono
completamente assimilate alla storia generale delle arti figurative, di cui esse
costituiscono, anche sui nostri monti, il primo capitolo.
L’indagine
preistorica è competenza dell’antropologo che, come lo storico, cerca di
ricostruire una probabile successione di eventi, ma deve contare su
testimonianze non scritte dell’attività culturale dell’uomo.
Una
delle poche testimonianze della presenza dell’uomo sulla terra, per un lungo
periodo di tempo, è stato il ritrovamento di una moltitudine di manufatti
litici, utensili in pietra fabbricati intenzionalmente da uomini figli di una
cultura paleolitica.
Ormai
è accertato che fin dal Paleolitico l’uomo abbia occupato il nostro territorio,
ma poco o nulla si sa della presenza di questi nostri antenati preistorici. Il
contributo archeologico nella ricostruzione dell’esistenza della preistoria nell’ambito
dei monti Lattari, attraverso le numerose grotte e tracce dell’arte preistorica che sono state rinvenute
nel territorio, è ancora troppo esiguo. Ma di certo possiamo dire che, grazie
al ruolo di ponte di collegamento che il Mezzogiorno assunse per i popoli
migratori dall’Africa e dall’Oriente verso il nord Europa, tali popolazioni
attraversarono l’area campana e vi lasciarono le tracce della loro presenza e
le loro prime forme artistiche, come
grotte e ciottoli incisi. Sono epoche ancora
remote, che sfuggono anche al metro dell’immaginazione,
quando la vita umana approdò nella
nostra penisola, che conclude il
golfo più bello del mondo.
Il
Paleolitico, inteso come fenomeno espressivo di una prima forma di evoluzione
culturale dell’uomo, fu introdotto nel nostro territorio dalle migrazioni di
popolazioni che vi giunsero dai luoghi da dove tale fenomeno ebbe origine.
Il
rinvenimento di siti archeologici lungo tutta la valle del Sarno con il suo
naturale prolungamento nella penisola sorrentina e nell’isola di Capri attesta
la presenza umana del Paleolitico[2], del
Mesolitico e del Neolitico e rivela che già nel Paleolitico inferiore la
dorsale dei Lattari - all’epoca tutt’uno con Capri - era frequentata dall’uomo.
Le
più antiche tracce della presenza di forme
preistoriche nel territorio furono rinvenute, a Capri, nei primi anni del
Novecento durante gli scavi per l’ampliamento dell’Hotel Quisisana: a circa 5 metri
di profondità, fu ritrovato uno strato di argilla rossa mescolato a limo, armi,
attrezzi e resti d’ossa dell’età Paleolitica. Questi erano ricoperti da cenere
e da lapilli di origine vulcanica antecedenti le eruzioni flegree. Le numerose
ossa di animali preistorici testimoniano la diversità del clima e delle
caratteristiche geologiche ed avvalorano che l’isola di Capri fosse collegata
alla terraferma, oltre al fatto che sotto punta Campanella c’è un istmo con
evidenti segni di periodi di emersione.
Tra
le ossa dei grandi mammiferi ci sono quelle del mammut, dell'orso delle
caverne, dell'ippopotamo, del cervo, del maiale, del rinoceronte, del cane.
Queste specie, tipiche di climi diversi, fanno ipotizzare che tali animali
coesistessero tra loro, oppure che nel banco di argilla fossero confluiti
depositi provenienti da giacimenti diversi. Le armi appartengono al periodo in
cui l'uomo viveva di caccia, riconducibili all'età quaternaria, in pietra
scheggiata di quarzite e di selce, materiali non reperibili sull'isola di
Capri. Ciò attesta che un tempo Capri faceva parte di un complesso più grande,
con corsi d'acqua e boschi[3].
Anche
nel territorio di Massa Lubrense vi sono testimonianze che fin dal Paleolitico
medio le grotte fossero frequentate da piccoli nuclei umani. Di particolare
rilievo è la grotta dello Scoglione nella baia del Cantone che ha restituito
oltre ad oggetti litici anche resti di cervo, di bue e di stambecco. Strumenti
munsteriani sono invece testimoniati in alcune grotte della Punta della
Campanella.
Prove
di insediamenti umani nel Mesolitico e nel Neolitico sono attestate dalla
scoperta di grotte tra cui quelle di La Porta
e di Matera a Positano, ed ancora la grotta delle Felci a Capri, ed infine la
grotta Nicolucci a Sorrento e la grotta delle Noglie nella Baia di
Ieranto.
Anche
nella Grotta di La Porta, originariamente
molto grande, ma di cui è crollata tutta la parte anteriore, situata all’ingresso di Positano in
corrispondenza dell’omonima insenatura marina, fu rinvenuto un ciottolo inciso
con la testa di un animale, probabilmente un cavallo che testimonia l’ultimo
scorcio del Paleolitico: l’animale inciso era quello che si voleva cacciare e
la pietra su cui esso era inciso era utilizzata per un rito di propiziazione. Il
particolare dell’incisione dell’animale sul ciottolo rivela come la cultura preistorica concepiva l’animale:
per la maggior parte delle nostre religioni, esso, sacro o cacciato, mangiato o
sacrificato, eroe o mostro, totem o mito, dio o demone, occupa un posto
importante, talvolta persino preponderante nelle arti profane e sacre come se
la sua immagine, da sola, bastasse a soddisfare lo sguardo ed il pensiero.
Sotto molteplici forme grafiche, plastiche, ma anche letterarie, l’animale
compare nella sua nuda o immaginaria bellezza.
La
caccia, da quanto emerge dal rinvenimento di queste forme d’arte, è anche sui nostri monti al centro dell’evoluzione
delle società preistoriche fin dalla loro più lontana comparsa. I rapporti
sociali ed economici si stabiliscono anche qui in funzione della sua
organizzazione e dei cambiamenti causati dalle variazioni climatiche ed
ecologiche.
Anche
per questi nostri antenati primordiali, l’arte è stata essenzialmente
animalistica nell’ispirazione ed ha derivato la sua originale e primitiva bellezza
proprio dalle raffigurazioni di animali. L’unione estetica e simbolica degli
artisti di quei popoli cacciatori con la grande fauna selvatica è l’erede dei
rapporti dell’uomo con l’animale, divenuti sempre più complessi e intensi dall’alba
dell’umanità. Per questi nostri antenati, oppressi dalla natura perfino nelle
più piccole attività, la caccia era azione. Per la mobilità, l’aggressività, la
resistenza o la forza, moltissimi animali rappresentano una sfida per i popoli
cacciatori: prima di divenire prede uccise, essi sono selvaggina bramata, sogni
di un immaginario quotidiano imposto dalla fame. Le pelli di alcuni diventano
trofei che facevano regnare negli accampamenti e nelle capanne lo spirito
inafferrabile della belva dominata, ma ancora temuta. Tutte queste mirabili
opere d’arte ereditano la propria profonda bellezza dall’animale, naturale
protagonista per gli uomini preistorici nel loro comune destino di vita e di
morte, attraverso gli ampi spazi selvaggi.
Altre
tracce che attestano l’esistenza di una cultura
preistorica con le prime forme d’arte sono state rinvenute anche in altre due
grotte: La Grotta Nicolucci di
Sorrento e la Grotta delle Felci di
Capri.
La
Grotta Nicolucci, situata in
periferia nell’alto dirupo calcareo, a circa 20 metri dal livello
stradale, ha il nome del suo scopritore G. Nicolucci che, nel corso della
seconda metà del XIX secolo, si adoperò alla ricerca di presenze preistoriche
nelle province campane. Essa conteneva una sequenza stratigrafica piuttosto
ampia, comprendente in basso strati del neolitico ed in alto materiali
riconducibili al IV secolo a.C.
La
grotta ha forma irregolare e misura circa 20 x 14 metri ed è poco visibile a
causa di un grande masso crollato dalla montagna e situatosi proprio davanti
all'ingresso.
Le
indagini furono iniziate da Ignazio Cerio alla fine dell’Ottocento: dalle
frammentarie osservazioni dei vecchi scavi risultava che lo strato superficiale
conteneva, oltre a cocci moderni, anche ceramiche romane e dell’età del Bronzo,
indizio di un’ininterrotta frequentazione del sito.
Il
gran numero di schegge ritrovate di ossidiana, selce e giada, durante gli scavi
di Cerio, attestano la lavorazione di tali materiali importati nella preistoria
come l'ossidiana proveniente dalle Eolie, la selce dagli Appennini e la giada
dalla Liguria.
I
successivi scavi, promossi dall'Istituto Italiano di Paleontologia e guidati da
Rellini nel 1922, alla fine hanno potuto stabilire che la grotta è stata
frequentata dall'uomo gia in età molto antica, i reperti ritrovati coprono un
arco temporale che va dal Paleolitico Superiore fino all'Età del Bronzo.
Al
di sotto dei materiali dell’età del Bronzo (1700-1000 a.C.) sono stati
inventariati e studiati reperti neolitici (4000-3500 a.C.) e, a quasi sei metri
sotto questi ultimi, furono ritrovati dei livelli sabbiosi e vulcanici con
faune prevalentemente costituite da cervidi e molluschi di terra.
I
lavori si scavo effettuati in anfratti della parte nord-occidentale della
grotta portarono alla luce sei o sette sepolture ad inumazione di epoca
neolitica con ricco corredo. Questo evidenziava la presenza di una cultura
Neolitica che segnalava come tale grotta avesse all’epoca una funzione a scopo
funerario o rituale. I resti umani erano corredati da due macine in arenaria,
assieme ai loro macinelli, dipinti con ocra rossa e da oggetti di ceramica:
facendo il confronto con altre sepolture simili si è dedotto che, probabilmente
i morti erano stati sepolti nel corso di particolari riti funebri in cui
venivano tinti con ocra rossa. Nello strato più antico, furono rinvenuti cinque
ciottoli su cui erano dipinte, sempre con ocra rossa, alcune figure umane
stilizzate, comuni anche ad altri siti tardopaleolitici in Spagna, Francia,
Liguria e Sicilia: confrontando questi oggetti con altri simili in uso presso
quelle popolazioni coeve, gli antropologi li hanno interpretati come oggetti
religiosi che rappresentano simbolicamente lo spirito degli antenati.
La
Grotta delle Felci aveva quindi un’evidente funzione rituale, sottolineata
anche dal rinvenimento di amuleti in pietra con raffigurazioni magico-religiose
e di ceramiche di particolare raffinatezza.
Essa
mantenne il suo ruolo sacrale per tutta la preistoria: furono ritrovati nella
grotta, un grosso e pregiato pugnale di selce eneolitico (3500-2300 a.C.) e
vasi riccamente decorati databili all’età del Bronzo.
La
Grotta delle Felci era utilizzata dall'uomo primitivo inizialmente come luogo
di culto e sepoltura, poi come luogo dove ripararsi in periodi climatici
avversi.
I
materiali ritrovati, sono presenti non solo nel museo di Antropologia di Roma,
ma anche al Museo Nazionale di Napoli, mentre un’interessante collezione è
custodita nel centro "Cerio" a Capri stessa.
Il
rito funerario é certamente indizio di un’evoluzione culturale del mondo
preistorico perché ne segnala l’evoluzione verso una concezione della vita e
della morte meno animale e sempre più umana. Queste sepolture sono, infatti, la
testimonianza di comportamenti particolari, talvolta molto complessi, legati
alla morte ed alla sua proiezione psichica, persino metafisica o religiosa.
A
seconda delle varie fasi preistoriche e delle loro diverse culture, si notano
differenze importanti, ma i principali tratti archeologici dei rituali di morte
posti in evidenza dagli scavi, dall’inizio di questo secolo, consentono di
riassumere e di riunirli in questi modi: scavo di una fossa con talvolta una o
più operazioni secondarie, quale lo spargimento di ocra rossa oppure la posa
di un coperchio fatto di pietre; posizioni diverse imposte ai corpi, che
implicano in certi casi legature con flessioni forzate delle membra; oggetti
ornamentali dei morti e deposizione di armi, di utensili, di offerte
sacrificali certamente varie ma le cui uniche vestigia conservate sono, per
esempio, palchi di cervidi, crani ed estremità dì zampe di erbivori.
È
in questa anteriorità delle stirpi e delle culture che conviene cercare i primi
vaghi gradi di un’ascesa della coscienza verso la pratica metafisica di un
aldilà del reale, di cui l’arte è un’espressione compiuta.
Altre
tracce della presenza dell'uomo nel Neolitico e nell'Età del Bronzo sono state
trovate in altre zone di Capri ed Anacapri[4].
Le
indagini stratigrafiche e delle tre importanti grotte dove sono stati condotti
gli scavi, la Grotta La Porta, la Grotta del Mezzogiorno e la Grotta Erica, hanno evidenziato forti
analogie: gli scavi hanno restituito un gran numero di molluschi terrestri e
marini e il resto degli animali è rappresentato da resti di mammiferi, uccelli,
anfibi e pesci. Le genti che frequentavano le grotte avevano un’economia basata
prevalentemente sulla raccolta di molluschi, mentre la caccia agli uccelli come
ai mammiferi aveva un ruolo piuttosto marginale. I molluschi marini prevalgono
rispetto a quelli terrestri negli strati più recenti perché, evidentemente, il
livello del mare dovette innalzarsi e le grotte si trovarono in prossimità del
mare, favorendo così la raccolta di quelli marini. Il prevalere fra questi
molluschi da spiaggia e da laguna su quelli da scogliera fa pensare a coste
basse e lagunari, prima dei successivi assestamenti geologici. Tra i mammiferi
presenti i resti più cospicui sono rappresentati da ossa di cinghiale e di
stambecco, poi di cervo, capriolo e altri: ciò dimostra che nel periodo in cui
le grotte furono abitate le pendici dei Monti Lattari cominciavano a coprirsi
di vegetazione e gli animali di macchia o di foresta vi trovavano un habitat
particolarmente favorevole, mentre sulle loro vette gli stambecchi continuavano
ad essere rappresentati, seppur in misura minore. I cinghiali in aumento e gli
stambecchi in diminuzione sono infatti segni che intorno a 8500 anni fa, la
foresta si infoltiva ed il clima evolveva in senso caldo e oceanico. Nella
penisola sorrentina i gruppi umani continuarono ad esercitare la raccolta dei
molluschi anche quando grossi mammiferi tornarono a popolare i monti:
l'esperienza del Mesolitico, inizialmente imposta dai mutamenti climatici ed
ambientali, aveva ormai profondamente caratterizzato il sistema di vita di
queste popolazioni costiere. Pur essendosi verificate condizioni favorevoli
alla sua ripresa, la caccia costituiva un’attività marginale e, sebbene non
cessasse mai completamente, assunse un ruolo sempre minore rispetto alla
raccolta dei molluschi, un’attività che vantava ormai una così lunga e radicata
tradizione da aver determinato un diverso orientamento nel sistema di vita
economico e culturale.
Gli
strumenti in pietra che i frequentatori di queste grotte usavano nel
quotidiano, la cosiddetta industria litica[5],
illustra bene il cambiamento di abitudini alimentari cui si è accennato:
l'economia basata sulla caccia vede uomini costretti ad allontanarsi dalla
grotta e dunque una tendenza al nomadismo, contrariamente alla raccolta dei
molluschi che si fondò su un modo di vita decisamente sedentario. Le
popolazioni più antiche dedite alla caccia trovavano, la materia prima per
fabbricare gli strumenti su un'area molto più vasta, grazie a continui
spostamenti; le popolazioni dedite alla raccolta utilizzavano raschiatoi,
grattatoi, bulini, lame, punte ottenute da ciottoli marini, selci e diaspri
rinvenibili nel ristretto raggio di azione attorno alle grotte. Questi ultimi
strumenti si presentano dunque piccoli per l'uso cui erano deputati e per le
ridotte dimensioni della materia prima. Taluni sono stati interpretati come
scalpelli per patelle, mentre delle lame a margine ricurvo ricordano
morfologicamente coltelli da chiocciolaio. Non mancano punte e punteruoli
ossei.
Una breve considerazione a parte merita la Grotta delle Noglie, una grotta di piccole dimensioni, situata lungo il declivio meridionale di Monte
San Costanzo, domina il golfo di Nerano e la parte orientale del promontorio di
Punta della Campanella risale all’età neolitica e rappresenta un momento di
passaggio ad una economia agricola. È una piccola cavità di accesso abbastanza
agevole e fu studiata a più riprese da parte di M. W. Stoop che recuperò alcuni
frammenti ceramici grezzi e del materiale litico, appartenenti presumibilmente alla
cultura del Gaudo. Un’accettina verde, probabilmente votiva, è stata rinvenuta
in prossimità della grotta; altri strumenti litici, già raccolti dal Bonucci
nel 1866 e 1867, tra il villaggio di Acquara ed il Deserto, documentano una
frequentazione piuttosto importante del territorio durante l’Eneolitico.
[1]
Marziano Vicedomini è nato a Gragnano il 24/07/1972. Risiede a Casola di
Napoli, in Via Roma 211. Ha frequentato l’I.T.C. “Don Lorenzo Milani”
conseguendo la maturità tecnico-commerciale nell’anno scolastico 1992. Si è
laureato a pieni voti in giurisprudenza presso l’Università “Federico II” con
tesi sul procedimento dinnanzi al giudice
di pace. Ha continuato a coltivare i suoi interessi in campo
storico-filosofico. Esercita con successo la professione di Avvocato penalista
sul nostro territorio.
[2] come dimostrano le tracce
trovate nell’area del Hotel Quisisana a Capri.
[3] I
ritrovamenti sono conservati al Centro Caprense Ignazio Cerio, al Gabinetto di
Antropologia di Napoli e al Museo Preistorico di Roma.
[4] nelle località Due Golfi, Tiberio, Tragara, Castiglione,
Campo di Prisco e Campitello.
[5] conservata presso il Museo
L. Pigorini a Roma
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