La cappella del Succorpo, detta anche confessione
di San Gennaro o cappella Carafa, corrisponde alla cripta della cattedrale.
La
cappella, limpido esempio di architettura
rinascimentale e luogo di singolare ed intensa suggestione, fu eretta tra la fine del Quattrocento e l'inizio del
Cinquecento per volontà del cardinale Oliviero Carafa (1430 - 1511), che riportò in città le reliquie
di san Gennaro, sottratte furtivamente, nell’831, da Sicone I,
principe di Benevento, dal luogo di sepoltura di Napoli – cimitero catacombale
di San Gennaro. Le spoglie mortali del santo furono custodite a Benevento
fino al 1154, ma il re normanno Guglielmo I, non ritenendo più la città un
luogo sicuro e temendo che potessero essere di nuovo trafugate, dispose che
fossero segretamente trasferite presso l’Abbazia
di Montevergine, dove furono tenute nascoste per secoli dai monaci Benedettini
e dove rimasero fino al momento dell’ultima traslazione.
La Cappella del Succorpo è unanimemente considerata,
fin dall'epoca della sua costruzione, «la
principessa de tucte le cappelle» pertanto, fino ad oggi ha goduto
pressoché ininterrottamente di una singolare fortuna nella storiografia
artistica europea – come ha sottolineato di recente Francesco Abbate in La scultura napoletana del Cinquecento del
1992 – che ne ha ripercorso le varie tappe.
Conclusasi l'avventura francese di Carlo VIII in Italia e
succeduto sul trono di Napoli Federico III d’Aragona dopo la prematura morte di
suo nipote Ferrante II, noto come Ferrandino, il 13 gennaio 1497 l'arcivescovo
Alessandro Carafa compì la solenne traslazione nel duomo di Napoli delle
reliquie di San Gennaro dall'abbazia di Montevergine e della quale era abate
commendatario suo fratello il Cardinale Oliviero Carafa, che aveva chiesto ed ottenuto
da Alessandro VI Borgia il permesso di poterle trasportare a Napoli.
Per la conservazione delle reliquie, il cardinale Carafa
fece costruire una cappella, nota come il succorpo
di San Gennaro, che, iniziata nell'ottobre del 1497 quasi sicuramente su progetto del giovane Donato Bramante che, come emerge da uno studio di
Roberto Pane – Guillermo Sagrera, architetto del 1962 – venne
in città su invito di Oliviero Carafa, e che il progetto fu tradotto in opera e terminato nel 1506 dallo
scultore lombardo Tommaso Malvito (seconda
metà del XV secolo – 1524) che ne diresse la realizzazione con suo figlio Giovan Tommaso.
I
lavori per ricavare la cappella nell’area sottostante il presbiterio furono
iniziati con notevoli difficoltà di carattere tecnico e statico nel 1497. Nel
1501 furono alzate le colonne e nel 1506 fu consacrata diventando anche il definitivo luogo di sepoltura del cardinale
Carafa. Nel 1891 la cappella fu egregiamente restaurata da un discendente dei
Carafa ai quali la cappella gentilizia appartiene.
La cripta, opera pregevolissima
che si include nel raffinatissimo filone del Rinascimento napoletano –
particolare declinazione dell’arte rinascimentale – costituisce uno dei più notevoli monumenti rinascimentali di Napoli: si
tratta, infatti, dal punto di vista decorativo e scultoreo, dell'insieme più
significativo del Rinascimento napoletano sia per la qualità e per l'omogeneità
della realizzazione sia per il suo eccellente stato di conservazione. Le scale
d’accesso erano decorate con rilievi mitologici ed allegorici tolti nel
1741-44. All’ingresso ci sono le porte bronzee cinquecentesche
eseguite su disegno di Malvito e decorate dagli stemmi dei Carafa.
L’interno
si presenta come un ambiente rettangolare (12 x 9 m), interamente rivestito di marmi scolpiti e diviso
in tre navate da dieci colonne. Notevole
e di grandissimo molto pregevole è il pavimento cosmatesco, con l’utilizzazione
di tessere e tasselli colorati.
La
decorazione si compone di lesene con grottesche ed elementi allegorici che adornano
i dieci piccoli altari laterali: cinque absidiole per lato, con altrettanti
altari, con diverse decorazioni di puro sapore rinascimentale.
In
fondo alla Cappella si apre un’abside quadrata, coperta a cupola e ornata da
ritratti in due medaglioni.
Nell'abside,
fra due altari, sotto l’altare centrale c’è l’urna bronzea del 1511 che racchiude
l’olla fittile medievale – vaso panciuto corto e dal collo largo e di
ceramica non smaltata – in cui sono conservati i resti mortali di san
Gennaro.
Ai
lati, l’intradosso delle finestre è ornato da angeli con lo stemma dei Carafa. Si
ricorda ancora una figura di Madonna con Bambino e gli
Evangelisti Matteo, Marco, Luca e Giovanni.
Nella
navata centrale campeggia a fronte dell'altare
la notevolissima scultura del committente
Oliviero Carafa inginocchiato in preghiera,
su di uno sgabello di qualità nettamente inferiore rispetto alla stessa figura
del presule genuflesso, un tempo attribuita a Giovan Tommaso Malvito o addirittura a Michelangelo, ma che oggi si propende ad attribuire
ad uno scultore romano non precisamente identificabile. In ogni caso, la nitida geometria rinascimentale che ospita la statua
del committente in preghiera, trasforma l'ambiente in un luogo dove spirito,
pietra e carne si compongono e si incontrano, in una dimensione inedita e
teatrale.
Volgendo
lo sguardo al soffitto di Tommaso Malvito, esso è frazionato in
diciotto cassettoni, ornati da figure di santi e da quattro teste
di cherubini: il soffitto è praticamente un cielo composto di diciotto formelle
di cui dieci hanno il nome del Santo in una tabella e otto son riconoscibili
dai simboli iconografici. Come pietre angolari ai quattro angoli del soffitto campeggiano
le figure dei quattro principali dottori della Chiesa occidentale San Gregorio Magno, Sant’Agostino da Ippona, Sant’Ambrogio e San
Girolamo, tutti e quattro a stringere verso il centro del
cassettonato i primi sette patroni della città di Napoli ritratti in busti e
divisi per gruppi ed ovvero San Gennaro, Sant’Agrippino,
Sant’Aspreno, Sant’Atanasio, San Severo e Sant’Eufebio con Sant’Agnello.
I bassorilievi del soffitto includono inoltre episodi di David e Giuditta.
Nell'esecuzione
dei marmi Tommaso Malvito ebbe come aiuti il figlio Giovan Tommaso, Nunziato
d'Amato ed altri della sua vasta bottega.
Tommaso Malvito è stato un grande maestro che ha saputo
respirare la cosiddetta atmosfera dell’arco:
dopo un probabile tirocinio nella sua terra d'origine, confermato da alcuni stilemi
rilevabili nelle opere documentate, la storiografia è sostanzialmente concorde
nel ritenerlo attivo a Napoli all'inizio degli anni Settanta del Quattrocento,
coinvolto in alcuni importanti cantieri scultorei presso i quali erano operanti
maestranze lombarde, come l'altare
Miroballo a S. Giovanni a Carbonara
e la Tomba di Diomede Carafa a
S. Domenico Maggiore. Dopo un periodo marsigliese al seguito di
Francesco Laurana, giunse la definitiva consacrazione di Malvito nell'ambito della produzione scultorea partenopea con la
direzione del cantiere del succorpo del duomo, celebrato dai contemporanei come
la reina di tucte le cappelle. Se è
dubbia la paternità del progetto architettonico, non sussistono dubbi nel
riferirgli la regia della vasta decorazione marmorea che si sviluppa lungo le pareti
e il soffitto. Tale impresa ha contribuito a definire Malvito come artista che
eccelse soprattutto nell'ambito della decorazione a grottesche. Le pareti sono
infatti articolate da paraste ornate con candelabre di estrema delicatezza e
fantasia nell'intaglio, alcune delle quali messe in relazione ad analoghi
esempi realizzati da Andrea Bregno a Roma. La rappresentazione della figura
umana è invece relegata al soffitto, che presenta riquadri con la Madonna col Bambino e busti di santi, di più debole
esecuzione, ma segnando comunque un momento elevatissimo della stagione
rinascimentale italiana.
Un ruolo
fondamentale riguarda il committente, Oliviero Carafa tipica figura di uomo del
rinascimento: Cardinale e uomo d'armi, capo
della flotta cristiana contro i Turchi, prese Smirne. Ebbe larga parte in un
disegno di riforma della Chiesa, preparato per ordine di Alessandro VI nel 1497, e,
come protettore dell'ordine domenicano, sostenne Savonarola, finché questi non
si ribellò al pontefice. Promosse le arti a Roma fece costruire la cappella Carafa in S. Maria sopra Minerva affrescata da Filippino Lippi, fece restaurare
S. Lorenzo fuori
le mura, S. Maria in Aracoeli, a
Napoli fece costruire il succorpo del duomo
e protesse letterati e filosofi.
Massimo
Capuozzo
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