domenica 19 novembre 2023

Il Manierismo 5: Michelangelo e la battaglia di Cascina

Michelangelo aveva appena completato il cartone della battaglia di Cascina a figure intere quando nel 1506 fu improvvisamente richiamato a Roma da Papa Giulio II della Rovere a causa della spiacevole e difficile situazione che si era creata per la realizzazione rinviata della tomba del Papa.
Michelangelo aveva studiato da vicino e con attenzione la statuaria antica e specialmente il “gruppo del Laocoonte”, rinvenuto qualche mese prima a Roma, proprio in sua presenza.
Quando il maestro era partito per Bologna per riconciliarsi con il Papa e poi insieme per Roma per iniziare i lavori della Sistina, il cartone si trovava nella Sala dell’Ospedale di Sant’Onofrio, dove Michelangelo lo aveva lasciato.
Alla visione panoramica di Leonardo, Michelangelo contrappose un momento preciso della Battaglia di Cascina del 1364, narrata da Filippo Villani, nipote del più noto Giovanni, di cui aveva continuato la “Cronica”.
Fino ad allora Leonardo e Michelangelo si erano guardati e odiati a distanza, ma fu nella Sala del Maggior Consiglio che avvenne il vero confronto tra i due grandi artisti toscani.
Diversamente dal cosmopolita Leonardo che rappresenta un momento, anche se topico della battaglia ma di una qualunque battaglia della sua epoca, il fiorentinissimo Michelangelo sceglie invece di rappresentare la scena specifica che immediatamente precedette lo scontro di Cascina, un episodio molto connotativo di quell’assolato luglio del 1364, che riporta la vicenda dei soldati fiorentini sorpresi dall’attacco dei pisani, mentre, per difendersi dalla calura, si stavano rinfrescando nelle acque dell’Arno.
Michelangelo quindi rappresenta il momento cruciale in cui i fiorentini escono dal fiume e si armano, e afferma anche in quest’opera l’assoluta centralità del nudo maschile che avrebbe accompagnato l’artista lungo l’intero percorso della sua carriera.
Il cartone preparatorio cui ora ci si riferisce, quello fedelmente copiato da Aristotele da Sangallo, racconta, infatti, la scena in cui i soldati dell’esercito fiorentino si erano fermati presso Cascina e, credendosi al sicuro, avevano deciso di rinfrescarsi facendo il bagno nell’Arno per la canicola di fine luglio. I pisani però, avendoli sorpresi impreparati, pensarono di averne facilmente ragione, ma non fu così.
Grazie alla prontezza di Manno Donati, uno dei capitani, al suo coraggio e alla sua capacità di comando, ma grazie anche alla disperazione, che diede ai soldati fiorentini la forza di rivestitisi in fretta e di battersi, essi sconfissero i nemici pisani, pur non essendo ancora adeguatamente equipaggiati.
L’episodio del bagno offrì a Michelangelo maggiore possibilità di dipingere il suo soggetto preferito, un’enorme composizione di nudi rappresentati nelle più diverse movenze, mostrando la sua eccezionale conoscenza dell'anatomia e la sua perfezione nell’uso del disegno.
Per Michelangelo, come per tutti gli artisti del Rinascimento, il corpo umano era il principale oggetto di studio, ma per lui la figura umana era qualcosa di più: era la celebrazione del corpo e in particolare del nudo, che l’artista portava al massimo grado della sua forza espressiva, perché il corpo doveva esprimere eroismo e mostrare, attraverso una potente struttura muscolare, una forza morale titanica. La nudità per Michelangelo è sempre dinamica, viva, colta nelle posture e nei movimenti più audaci e articolati, affinché si potesse mettere in evidenza la bellezza, l’armonia e la plasticità.
La sua arte è antinaturalistica e rifiuta pertanto l’illusione mimetica: se si osserva attentamente il cartone, ci si accorge infatti che il maestro non rispetta la composizione prospettica e rappresenta le figure di scorcio, presentando il punto più lontano come prossimo al più vicino e coprendo con il tratto più corto lo spazio più lungo.
E non solo. Già nel Tondo Doni, che realizza fra il 1505 e il 1506, quindi quasi contemporaneamente al Cartone della Battaglia di Cascina, Michelangelo si era rifatto a Luca Signorelli, autore anche lui di un tondo della cosiddetta Sacra Famiglia di Parte Guelfa della Galleria degli Uffizi. Ma, diversamente da Signorelli, Michelangelo nel Tondo Doni accosta colori opposti, complementari, di grande pulizia timbrica, colori che non si fondono insieme, ma anzi danno un’impressione di stridore e di contrasto.
È immaginabile la stessa cosa per il cartone, se fosse diventato affresco, e anche dei successivi colori che avrebbe utilizzato di lì a poco nella Sistina.
Quello stravolgimento della forma a spirale in favore della forma serpentinata già presente nel Tondo Doni e quei nudi sullo sfondo, irriverente citazione “umanistica” e pastorale ripresa da Signorelli, è forse già sintomo di un turbamento dell’arte che aveva raggiunto la perfezione dei temi e della forma nella corti dell’adulto Rinascimento.
Ebbene, anche nel Tondo Doni con la Sacra Famiglia in primo piano, si nota come Michelangelo continui ad essere uno scultore anche quando dipinge: San Giuseppe la Madonna e anche il Bambino sono caratterizzati da una grande fisicità, da muscoli ben definiti che risaltano dal fondo grazie ad una marcata linea di contorno. Proprio in quest’opera, nell’avvitamento verso l’alto comincia ad apparire completamente distinguibile la linea serpentinata, cioè quella torsione delle figure che segnò il tramonto dell’equilibrio classico.
Al primo sguardo, la Battaglia di Cascina colpisce per le posture dei personaggi, per quelle linee serpentinate che appaiono così lontane dall’equilibrio classico cui si è abituati dallo studio del Rinascimento e che ne sanciscono il tramonto.
Eppure, quel dispiegamento di addominali, di trapezi, di bicipiti e di glutei che suscitano oggi tanta ammirazione negli appassionati di fitness, provocarono il profondo disgusto in Leonardo, che paragonava quei corpi a grossi sacchi di noci, e suscitarono un moralistico orrore del Perugino, forse ancora traumatizzato dalle prediche di Savonarola, e ne rimase profondamente scandalizzato.
Michelangelo, piuttosto rissoso, ingiuriò il Perugino, finirono al tribunale, ma il corpo umano rimase il centro indiscusso di tutta la sua produzione, avendo condotto e continuando a condurre fondamentali ricerche di anatomia, per individuare l’esatta posizione della forma del corpo, e di fisiologia, per individuare il funzionamento dei fasci muscolari, dei tendini, delle cartilagini e delle ossa, per rappresentare con precisione le forme del corpo sia in stasi sia in movimento.
Analizzando poi più attentamente il Cartone, la varietà delle posizioni è impressionante. Ognuna ruota nel proprio spazio come una statua a tutto tondo, ciascuno in una cinetica diversa, in base al movimento che si prepara a compiere. Eppure, nonostante le torsioni anticlassiche a “serpentina” o forse grazie ad esse, i movimenti si presentano sempre naturali.
La scena dell’avviso dell’imminente pericolo del nemico aveva consentito a Michelangelo anche di cimentarsi nella raffigurazione del groviglio di corpi, a lui tanto cara, come aveva dimostrato, ancora giovinetto nella Battaglia fra centauri e Lapiti e come sarebbe stato di lì a poco nella Cappella Sistina. 
Si vede chi si affretta ad armarsi per aiutare ai compagni, chi si allaccia la corazza e molti che indossano le armi in strani atteggiamenti dettati dalla fretta. Chi eretto, chi in ginocchio, chi piegato e chi sorpreso a giacere.
A quelle anatomie possenti e massicce, a quei corpi che si torcono nei movimenti più disparati, a quei volti dei combattenti si aggiunge l’elemento dello stupore e si riesce quasi a percepire la loro paura per l’avvicinamento improvviso di un pericolo inaspettato e la loro angoscia per l’esito incerto.
Tra tutti, alcuni si evidenziano per una fisionomia particolare e per una maggiore definizione: l’uomo al centro, che si sta avvolgendo la testa con un panno forse è Galeotto Malatesta, capitano di ventura che si era unito ai fiorentini; accanto a lui c’è un uomo non più giovane con una lancia in mano che sembra correre verso lo spettatore. È Manno Donati riconoscibile dall’elmo indossato sul capo e perché impugna uno scudo.
E se è vero che la situazione stessa - l’uscita improvvisa dei soldati dall’acqua del fiume e la fretta di rivestirsi per affrontare il combattimento - imponeva a tutti questi slanci dinamici, è altrettanto vero che a monte del cartone c’era stato un lungo studio delle pose, ben documentato dalle fonti grafiche. E così il disegno prende un andamento circolare, che asseconda le rotondità del corpo, soprattutto in corrispondenza delle spalle e delle natiche, dove cioè la muscolatura si fa più evidente e, al tempo stesso, esalta l’energia e il dinamismo delle figure.
Michelangelo enfatizza la rappresentazione dei vigorosi corpi nudi, in torsioni impossibili, scorci mai visti, pose artificiose, in parte desunte dalla classicità e in parte ispirate al principio della “varietas”, preso a prestito dalla cultura letteraria, ma ormai entrato nel linguaggio figurativo più sperimentale. Su quest’opera così innovativa, ormai lontana dall’equilibrio e dalla compostezza del linguaggio rinascimentale, si sarebbe formata un’intera generazione di giovani artisti, tra i quali si deve ricordare lo stesso Raffaello, a Firenze dal 1504 al 1508.
La fama del cartone, e probabilmente anche di una o di più derivazioni, giunse fino a Venezia, dove Tiziano, all’inizio degli anni Venti, inserì una figura desunta dall’opera di Michelangelo in uno dei quattro dipinti per il Camerino di alabastro del duca Alfonso d’Este.
Anche Cellini nella sua autobiografia, ribadisce come, per la propria formazione, sia stata fondamentale la conoscenza delle opere fiorentine di Michelangelo, in particolare modo della Battaglia di Cascina che descrive così: “...quelle fanterie ignude che corrono a l’arme, e con tanti bei gesti, che mai né degli antichi, né d’altri moderni non si vide opera che arrivasse a così alto segno”.
Proprio a Benvenuto Cellini spetterà la definizione di “scuola del mondo” attribuita sia al cartone di Michelangelo sia a quello di Leonardo, per la loro esemplare funzione di modello innovativo per le nuove generazioni di artisti.
Un altro aspetto considerevole è che anche nella Battaglia di Cascina Michelangelo si ricolleghi a Luca Signorelli, nello specifico alla Resurrezione della carne, una delle scene del Ciclo del Giudizio Universale, nella stupefacente Cappella di San Brizio, del Duomo di Orvieto. Questo riferimento è per me estremamente importante, perché nella Storia dell’Arte gli affreschi orvietani di Signorelli sono sicuramente il più esplicito campanello d’allarme dell’incombente crisi religiosa, che la sensibilità di Michelangelo coglie al volo. Michelangelo era cresciuto nel giardino di San Marco, il convento di patronato mediceo di cui era priore il frate predicatore Girolamo Savonarola e ne aveva ascoltato le brucianti prediche.
Nell'immaginario dell'adolescente Michelangelo l'atmosfera intorno al priore e quella intorno al Magnifico si incrociarono dando vita alla dialettica propria del pensiero michelangiolesco, un orizzonte culturale che teneva insieme aspirazioni riformatrici e passione per l’antichità pagana, la logica del concreto e il misticismo spirituale. Spinte e controspinte dunque che sostennero e che affascinarono sempre Michelangelo e che si equilibrarono, costituendo il sostrato di tutti i suoi capolavori, dagli esordi fino alle sue ultime opere.
Anche in questo caso la raffigurazione michelangiolesca ha una duplice valenza. Da un lato il giovane maestro celebra un episodio eroico della storia fiorentina e per Michelangelo, come per Savonarola, la libertà politica era la condicio sine qua non della vita morale e religiosa, e allude pertanto al momento eroico della spiritualità cristiana. Dall’altro lato, per ogni cristiano, come per il soldato, l’ora della prova estrema giunge sempre inaspettata, ma è proprio quella paura che diventa angoscia può diventare forza di riscatto.
Si delinea così, l’ideale eroico di Michelangelo ancora più di quanto non fosse nel solitario eroe romantico David. Nella Battaglia di Cascina l’eroe è colui che, vincendo l’inerzia e il sonno della carne, afferma la propria spiritualità combattendo il male e si salva.
La figura dell’eroe è massiccia e muscolosa affinché il peso della materia sia evidente; ma anche nella massa si suscita un moto che la scuote, che la strappa all’inerzia, che le imprime una spinta che la riscatta.
Le opere di Leonardo e di Michelangelo erano diventate famose ancora prima della loro esecuzione in affresco per la straordinaria idea che i due artisti ne diedero già nei cartoni preparatori.
Come La battaglia di Anghiari di Leonardo, anche “La Battaglia di Cascina” ci è pervenuta purtroppo solo attraverso qualche bozzetto preparatorio di Michelangelo e attraverso numerose copie, tratte dal cartone ed eseguite da allievi e da artisti di ogni dove, fatte al tempo e in seguito, anche se non tutte fedeli.
Tra queste la più conosciuta e interessante è quella che si avvicina maggiormente all’originale attribuita al suo allievo Aristotele da Sangallo (1481-1551), realizzata con la tecnica della grisaille e oggi conservata alla Holkham Hall di Norfolk. Sangallo ne aveva fatto una prima copia su cartone dalla quale, nel 1542, su suggerimento di Vasari, deriva “un quadro ad olio di chiaro scuro” (quindi non a colori, riproducendo l’effetto del cartone originario), da identificare con la tavola oggi nella collezione Leicester.
Pur essendo andato perduto l’originale, secondo lo studio delle fonti è stato possibile formulare ricostruzione anche se ovviamente abbastanza sommaria: al centro si sarebbe dovuto trovare un soldato indossante le braghe, mentre a sinistra di quest’ultimo sarebbe dovuto esserci un gruppo di cavalieri, mentre ai lati dovrebbero esserci stati altri soldati in corsa, rappresentati nell’atto di salire a cavallo. Nulla osta tuttavia ipotizzare che Michelangelo abbia voluto dipingere solo quella scena a grandezza umana per evidenziare il gigantismo degli eroi.
La datazione della copia più fedele cioè quella del Sangallo dovrebbe risalire a un periodo anteriore al 1519, perché in seguito il cartone fu smembrato in molti pezzi, servendo, infatti, come studio per altri artisti, rimasti affascinati dal capolavoro michelangiolesco.
L‘opera del Sangallo può dare solo l’idea della composizione e della scena centrale, non avendo la certezza se essa raffiguri tutta la composizione di Michelangelo del cartone originale o forse solo una parte dello stesso, ma non meraviglierebbe nemmeno che Michelangelo abbia deciso di raffigurare solamente quella parte della battaglia.

lunedì 13 novembre 2023

L’Impressionismo 4: Il muro di gomma dell’Accademia. Di Massimo Capuozzo

Dopo la proiezione in avanti, un flashforward, sempre secondo i ben parlanti, in cui ho mostrato la scomposizione della forma fino al suo stesso dissolvimento, col mio racconto ritorno ora ai pittori accademici che per lungo tempo avevano regnato come sovrani assoluti e incontrastati nell'Académie des beaux-arts e avevano dominato il Salone di Pittura e Scultura, comunemente detto il Salon che, come già sappiamo, era luogo di passaggio obbligato per poter esporre, per avere visibilità, per farsi conoscere e infine per ottenere le tanto agognate commissioni pubbliche e statali.
Tutto questo sempre secondo il tipico sistema di un’Arte di regime.
In questo caso, quello assolutista e quello napoleonico.
In termini di unità nazionale, la Francia era lo Stato di più lunga vocazione e tradizione unitaria del continente europeo e di riflesso da secoli non esisteva più alcun policentrismo neppure culturale. Cioè esisteva, ma non contava, e se l’Arte continuava ad esistere, era quella delle botteghe. La bottega come luogo di produzione non sarebbe uno svantaggio, anzi, ma quest’arte rimaneva marginale e di limitata visibilità. Insomma era solo un fenomeno locale.
Il processo di centralizzazione dello Stato, cominciato nel nebuloso passaggio dal primo al secondo millennio, aveva avuto come riflesso la centralità della capitale con la presenza della corte reale e degli uffici: dal che la Francia si era incominciata a identificare con Parigi e tutto ciò che non era parigino era meno importante, anzi era invisibile.
Questo però non era un fenomeno completamente e sempre positivo, perché produceva una mancata dialettica fra centro e periferia.
I re, una volta realizzata la monarchia nazionale, avevano realizzato una monarchia assoluta, raggiunta pienamente con il regno di Luigi XIV, il Re Sole.
I sovrani dettavano legge nella nazione, Parigi dettava legge in termini di moda, l’Accademia dettava legge nell’Arte mentre altri centri culturali non facevano alcun testo ed erano considerati la sonnolenta provincia.
Paris, c'est la France! o La France, c'est Paris!, come si diceva allora e come ancor oggi si è soliti dire e pensare.
Per questo motivo era quasi impossibile risplendere nel campo artistico nazionale senza passare per Parigi e per l’Accademia con le sue ferree e inamovibili regole.
La Scuola di Belle Arti di Parigi aveva il compito di insegnare le conoscenze tecniche essenziali alla professione di pittore, di architetto e di scultore.
Questo non sarebbe un errore perché in tutto ci vuole know how.
Il curriculum per gli studenti di Belle Arti prevedeva numerose prove, oltre quella di ammissione. Naturalmente al concorso di ammissione si doveva giungere già preparati.
L’aspirante studente doveva prepararsi preventivamente in laboratori privati ​​guidati da artisti più o meno famosi.
Non tutti avevano lo stesso livello, ma i migliori laboratori offrivano la possibilità di imparare, tra le altre cose, a macinare i pigmenti, a preparare le tele e a sondare il marmo.
La difficoltà della prova comportava infatti che l'allievo dovesse presentarsi al concorso solo dopo aver seguito un lungo percorso di apprendistato presso un qualche laboratorio privato, nel quale aveva già seguito un rigoroso itinerario di studio: copia di disegni o di stampe e, dopo mesi di esercizio, passava al tratteggio e allo sfumato. Un successivo passaggio consisteva nella copia dei gessi, nella riproduzione di busti o d'intere opere classiche, accompagnata dallo studio della Storia dell'Arte, della Letteratura e della Mitologia, essendo frequenti i temi che nella pittura e nella scultura erano tratti da qui.
Superata questa fase, l'allievo poteva iniziare lo studio della natura, disegnando un modello vivente secondo alcuni passaggi: dal semplice schizzo, alla maggiore definizione dell'abbozzo in cui si imparava a dividere le ombre dalle penombre e dalla luce, fino alla cura del dettaglio e al disegno completo. Infine il modello vivente andava in ogni caso corretto, eliminando le imperfezioni della natura, correggendole secondo un modello ideale di nobiltà e di decoro.
Intanto l'allievo proseguiva per suo conto lo studio della composizione con la pratica dello schizzo rapido di momenti di vita quotidiana, un esercizio utile per sollecitare l'immaginazione personale, che era tradotta poi su appositi quaderni.
Giunto all’Accademia dopo un severo esame di ammissione, lo studente ripeteva il corso di disegno già seguito nel laboratorio nel quale si era preparato per frequentare finalmente il corso di pittura, simile a quello di disegno.
Allo schizzo, per il quale nell'Accademia erano tenuti appositi corsi, era attribuita grande importanza, seguiti poi da concorsi: lo schizzo provava la creatività dell'allievo che, trascurando i dettagli, dava forma generale alla propria concezione della composizione. Questa creatività doveva tuttavia essere sottoposta a disciplina e regolata dallo studio. Così, dallo schizzo si procedeva all'abbozzo, eseguito a carboncino sul quale si passava la cosiddetta salsa, un rosso-mattone leggero, poi si impastavano i chiari e si diluivano le ombre per renderle quasi trasparenti.
Il cardine del corso accademico risiedeva dunque nella copia: del modello vivente, dei gessi, che riproducevano la statuaria antica, e dei dipinti dei maestri del Rinascimento. In questo modo l'allievo non solo s'impadroniva della loro tecnica manuale e del loro modo di organizzare i volumi, ma assumeva soprattutto una forma mentis rivolta al passato, da dove traeva costantemente la fonte della propria invenzione, che spesso non era altro che una citazione di opere classiche: il pittore formato in questo modo dall'Accademia era indotto a rifare il già fatto o a variare il già inventato o a mimetizzare le fonti utilizzate.
La formazione accademica attestava la professionalità dell'artista, che poteva così presentarsi in società con le carte in regola. Per ottenere però il definitivo riconoscimento e garantirsi le commissioni ufficiali dello Stato e quelle private dei collezionisti occorreva però la pubblica consacrazione di un successo che avveniva al Prix de Rome e al Salon di Parigi.
Il famoso concorso Prix de Rome era la prova più importante e consentiva ai vincitori di soggiornare presso l’Académie de France a Roma. I temi del concorso, come del resto quelli di ammissione, erano sempre tratti dalla storia antica, dalle storie bibliche o dalla mitologia e, una volta a Roma, i destinatari del premio continuavano a essere controllati dall'Accademia, dovendo inviare a Parigi diverse opere, mentre studiavano dal vivo il patrimonio artistico dell'Antichità e del Rinascimento nella culla stessa del classicismo.
Dopo il loro soggiorno a Roma, gli artisti dovevano continuare a inviare opere all'Accademia per essere ammessi all'annuale famigerato Salon, mentre ormai già incominciavano a lavorare per ricchi mecenati e, se erano più fortunati, per lo Stato.
Il controllo dell'Accademia era dunque totale e si estendeva anche alla giuria del Salon, i cui membri erano scelti ogni anno fra i componenti stessi dell’Accademia in una sorta di conclave in cui i giurati erano naturalmente scelti dal senato accademico in base alla loro piena ortodossia e la giuria era pertanto la sua espressione più diretta.
In questo modo il cerchio si chiudeva: la giuria, emanazione del verbo dell’Accademia e dei suoi comandamenti, rifiutava in ogni caso qualsiasi opera che non ne rispettasse i principi.
In soldoni non era consentito agli artisti di esplorare altri soggetti, nuove tecniche o semplicemente di innovare nel loro processo creativo e, sic et simpliciter, non li si ammetteva all’esposizione.
Certo tutti potevano democraticamente inviare le loro opere, ma se non erano conformi ai gusti dell’Accademia esse erano rinviate al mittente senza alcuna motivazione.
Col passare dei decenni, si era creato quindi l’accademismo – in questo caso il suffisso ismo è inteso come una degenerazione del fenomeno –, una specie di fortino dell’inamovibilità e della conservazione che propugnava a oltranza l’osservanza scrupolosa e priva di originalità dei canoni dell'insegnamento accademico nell'esecuzione di un'opera d’Arte e che resisteva a oltranza all’avanzare del nuovo, nonostante le forti critiche al suo conservatorismo non solo da parte degli artisti alternativi, ma anche da parte della stampa più illuminata.
Già nel suo saggio critico all’edizione del Salon del 1845, Charles Baudelaire (1821 – 1867) aveva concluso il suo scritto augurandosi di vedere nel successivo Salon «il vero pittore, [che è] colui che sa carpire alla contemporaneità il suo lato epico e l'avvento del nuovo!».
Nel 1846, era capitato che il pittore realista Gustave Courbet (1819 – 1867) avesse presentato al Salon, ben otto tele ancorché in forma anonima e di esse era stato accettato solo il Ritratto dell'artista, conosciuto come L'uomo dalla cintura di cuoio, oggi al ‘Museo d’Orsay’ a Parigi.
Nonostante l’anonimato però alcuni giurati avevano riconosciuto il pittore e lo avevano punito, escludendo dall’esposizione anche quella tela che avevano precedentemente accettato. Courbet si sentì profondamente ferito, protestò vivamente e quest’episodio, che rifletteva esplicitamente la prevenzione della giuria, suscitò l'ira di due scrittori che erano anche rinomati e ascoltati critici d’arte: Charles Baudelaire e Jules Champfleury (1821 – 1889).
Nel saggio sul Salon del 1846, Baudelaire, alzò infatti ancora di più l’asticella della polemica contro gli Accademici, dichiarando che i veri artisti erano lavoratori emancipati (leggasi svincolati, liberi) e, se non fosse stato chiaro, aggiunse che, quando si parlava di veri artisti, non si trattava dei prodotti delle scuole.
Se riflettiamo su questi due concetti, Baudelaire, appena prima della metà dell’Ottocento parlava di nuovo di Romanticismo naturalmente di quello essenziale, non della moda romantica. Nella sua riflessione andava oltre, affermando che il Romanticismo si identifica[va] con il presente e dichiarava che per lui il Romanticismo era l'espressione più recente, più attuale della bellezza. Quasi nella conclusione saggio aggiungeva una vera e propria stilettata, definendo il colore come l’autentica ricerca dell'armonia dei due toni, dell’equilibrio fra caldo e freddo e concludeva con un affondo dicendo che un disegnatore è solo un colorista fallito.
Tenuto conto dei principi su cui si basava l’Accademia, si trattava di una vera e propria dichiarazione di guerra. Le parole di Baudelaire innervosirono sicuramente gli Accademici, ma i tempi non erano ancora maturi per considerare quest’attacco destabilizzante e tutto rimase com’era prima.
Courbet, anche se non vendeva - e occorre dire che non vendeva perché le sue opere erano lontane dall’orizzonte delle attese degli acquirenti -, cominciava però a diventare personaggio di spicco sullo scenario artistico parigino.
Dopo quest’insuccesso del 1846, Courbet, fiero e sdegnoso, se ne partì con l’amico Champfleury alla scoperta del Belgio che visitò come scrisse lui stesso da cima a fondo e dove fece una vera e propria scorpacciata dei pittori fiamminghi e della loro visione lenticolare della realtà.
Quando ritornò a Parigi poco prima della fine del 1847 si trasferì in uno studio a Rue Hautefeuille, non lontano dalla birreria Andler-Keller, che però frequentava già da alcuni anni.
Andler-Keller era una delle prime birrerie aperte a Parigi ed era gestita da Mère Grégoire di cui Courbet avrebbe dipinto nel 1855 il ritratto che vediamo qui sotto.
Mi soffermo su questo perché non è solo una nota di colore, ma perché questa birreria diventò un formidabile luogo di arte e di cultura in cui Courbet stabilì il suo quartier generale. Lì, in mezzo ad amici, si elaboravano grandi teorie. La frequentavano Charles Baudelaire che abitava lì nei pressi e lo scultore Auguste Clésinger (1814 – 1883) autore del Monumento funebre a Chopin e di una ineffabile Pietà nella Chiesa di Saint-Sulpice a Parigi, e che diceva di sentirsi di casa da Mère Grégoire. Anche il cosiddetto gruppo di Ornans si incontrava lì: tra loro c’erano Urbain Cuenot (1820 - 1867), Adolphe Marlet, il poeta narratore e traduttore Max Buchon (1818 - 1869) e il musicista Alphonse Promayet (1822–1872), amici di infanzia del pittore ai quali fece dei bei ritratti.




Altro frequentatore assiduo era lo scrittore parigino Henry Murger (1822 – 1861) autore di Scene di vita della Bohème, un’opera interessantissima per conoscere i vari personaggi di spicco del Quartiere latino sulla riva sinistra della Senna, del quale Courbet eseguì un ritratto oggi al Museo d’Orsay, il pittore Alexandre Schanne (1823 – 1887) e l’intero mondo bohémien parigino, un mondo nato ai margini del movimento romantico che si traduceva in uno stile di vita che riuniva in sé il rifiuto del dominio borghese e della sua razionalità e la ricerca di un ideale artistico.
Di questo mondo bohémien Courbet assunse l'atteggiamento, il look – capelli, barba e pipa –, ma soprattutto gli ideali.
Il giornalista Alfred Delvau (1825 – 1867), aedo di questo mondo, riferisce che Courbet parlava a voce alta e impostata che la sua imponente statura e il suo gusto per la birra e per la musica, facevano di lui un leader.
A febbraio del 1848, la rivoluzione li sorprese, fu proclamata la Seconda Repubblica che immediatamente abolì la commissione giudicatrice dei Salon, che sarebbe stata ripristinata poco dopo.
L’effetto immediato in campo artistico fu che il Salon di quell’anno accettò contemporaneamente tre disegni e sette tele di Courbet che, nonostante una menzion d'onore, non trovò nessun acquirente.
La critica si risvegliò ancor più sonora di prima in suo favore: nel quotidiano democratico Le National, Prosper Haussard (1802 - 1866) lodò soprattutto Le Violoncelliste”, un altro autoritratto che il critico disse ispirato da Rembrandt, mentre Jules Champfleury in Le Pamphlet ammirò La Nuit de Walpurgis.
                                                    Massimo Capuozzo

lunedì 6 novembre 2023

Il Manierismo 4: Leonardo da Vinci e la battaglia di Anghiari di Massimo Capuozzo

Leonardo, dopo aver lavorato per più di un anno al cartone preparatorio nello studio che gli era stato allestito dalla Signoria di Firenze nella Sala del Papa del Convento di Santa Maria Novella, cominciò anche la realizzazione del dipinto in Palazzo Vecchio.
La Battaglia di Anghiari del 29 giugno 1440 doveva rappresentare l’epico scontro non solo militare ma anche ideologico tra l’esercito repubblicano fiorentino e quello milanese dei dispotici Visconti. Lo scontro quindi non si giocava solo sul piano politico: la libertas repubblicana era infatti difesa ad ogni costo contro nemici e tiranni che ne impedivano la realizzazione.
Un’ideologia di tacitiana memoria.

Sebbene il capolavoro di Leonardo non sia sopravvissuto, il dipinto, prima del sovrastante affresco di Vasari, non doveva essere rovinato del tutto, se, negli anni successivi, alcuni autori descrissero la scena della Battaglia e se ne fu eseguito un discreto numero di copie, da artisti contemporanei o di poco successivi, ancorché di diverso valore.
Dell’opera se ne può tuttavia avere qualche idea, anche attraverso alcuni studi e alcuni schizzi preparatori dello stesso Leonardo. La più famosa e interessante testimonianza della Battaglia di Anghiari, a parte i disegni di Leonardo, resta sicuramente la copia di Rubens, che il maestro fiammingo, circa un secolo dopo, dovette eseguire copiando direttamente dal cartone preparatorio che allora esisteva ancora. Il disegno di Rubens è oggi conservato nel Museo del Louvre a Parigi.
La Battaglia di Anghiari aveva visto la schiacciante vittoria dei soldati fiorentini comandati da Gian Paolo Orsini sulle truppe di Filippo Maria Visconti, comandate da Nicolò Piccinino in seno ad una guerra che vedeva schierati il Papa, la Repubblica di Venezia e quella di Firenze, riuniti in una lega contro la politica espansionistica dei Visconti.

Dal dipinto di Rubens si evince che Leonardo mette subito a fuoco l’episodio centrale intorno a cui sarebbe dovuto ruotare tutto il resto: lo scontro fra i due condottieri Orsini e Piccinino per il possesso dello stendardo visconteo.
Nell’impaginazione, Leonardo riprende un’invenzione già utilizzata più di vent’anni prima, nello sfondo dell’Adorazione dei magi della Galleria degli Uffizi, trasformando il gruppo antropoequino, come lo definisce Longhi, in una sorta di moto centrifugo di incontrollata violenza, pronto, come una specie di buco nero, a fagocitare tutto ciò che trova intorno a sé: sembra quasi che nella giovanile Adorazione dei magi, trasposta in enorme scala, Leonardo abbia sostituito il composto ed armonico gruppo della Madonna col bambino con quella pazzia bestialissima, come il maestro definiva una battaglia. In altri termini è come se quella zuffa che nell’Adorazione era relegata nel fondo della scena, ingrandita qui a dismisura, abbia conquistato il proscenio, eliminando il gruppo sacro.

Dagli studi preparatori di Leonardo e dalla copia di Rubens, si comprende l’idea straordinaria del genio di Leonardo che, per evidenziare la violenza della guerra e, in un certo senso, per dimostrarne il dissenso, concepisce un’immagine vorticosa di uomini e cavalli impegnati in una lotta furibonda, frutto soltanto di un furore cieco.
Questa composizione rappresenta quattro cavalieri che lottano instancabilmente per conquistare un gonfalone: quello in primo piano afferra l’asta di schiena, torcendosi animatamente, quelli centrali si scontrano direttamente sguainando le spade, mentre i loro cavalli sbattono il muso l'uno contro l'altro quasi a volersi azzannare, l’ultimo cavaliere è appena visibile in secondo piano, col cavallo che spalanca il morso come a voler strappare l'estremità dell'asta. Tre fanti sono stati atterrati e colpiti dagli zoccoli dei cavalli: due al centro, uno addosso all'altro, mentre quello in primo piano cerca invano di coprirsi con uno scudo.
Leonardo rende il senso vorticoso del movimento, la precarietà della lotta, l’atmosfera polverosa e anche il furore dei combattenti, smentendo decisamente l’idea che egli sapesse rappresentare solo la dolcezza dei sentimenti.

Il disegno di Rubens e gli schizzi di Leonardo rivelano l’impaginazione del dipinto: una serie di episodi individuali che, aggrovigliandosi, raccontano di lotte furiose, narrate nel minimo dettaglio, curate nella perfezione anatomica di uomini e cavalli, con grande uso del chiaroscuro e di effetti a tre dimensioni, scolpiti nelle anatomie di impetuosi cavalli e di veementi cavalieri.
Quello stupendo groviglio di corpi equini e umani lascia intuire come poteva essere concepita da Leonardo una battaglia, e non solo quella di Anghiari, tra cavalli imbizzarriti e contorti, armigeri pronti al combattimento o già impegnati fino allo stremo delle forze, ma tutti accecati dall’odio.
È un’immagine sublime che avviluppa anche lo spettatore.
Diversamente dalle precedenti rappresentazioni di battaglie, Leonardo concepì la sua come un fenomeno della natura, come un turbine vorticoso che ricorda le nubi che si scontrano durante una tempesta: tra quei vortici di fumo e di polvere, il dipinto raffigura episodi di una lotta furibonda, cavalieri e cavalli animati in una lotta serrata, cavalli che sembrano belve infuriate e smorfie feroci di combattenti contorti in torsioni innaturali, eccitati dal sangue e carichi di adrenalina allo scoccare della battaglia, caratterizzati da espressioni forti e drammatiche.
Tutta la scena riflette il pensiero di Leonardo fondato su una visione pessimistica dell'uomo che, scatenando una battaglia, sconvolge la natura, uomini e bestie senza alcuna differenza, e confonde tutto nel turbine polveroso di un ritmo senza principio né fine. La tensione drammatica e la potenza di rappresentazione che dovevano caratterizzare il dipinto traspaiono in questa copia, tratta sia dai disegni preparatori sia dal cartone, tanto che Shearman[1] parla di un livello mai immaginato di energia e violenza nella pittura storica prima di quel momento.
Insomma un capolavoro grandissimo e di altrettanto grandi proporzioni. Se, come sembra, doveva trattarsi di un grande trittico murale, Leonardo aveva realizzato solo la zona centrale della battaglia, riservandosi forse di dipingere in seguito i due pannelli laterali.
Grande sperimentatore e uomo di scienze, come nel caso del Cenacolo, Leonardo non si fermò all’esecuzione del lavoro, ma tentò di attuare l’antica tecnica dell’encausto: fece la prova su un quadrato della Sala del Papa che diede esito positivo, ma quando si trattò di applicare il procedimento sull’ampia superficie muraria in Palazzo Vecchio, accendendo dei fuochi alla base, mentre la zona inferiore si seccò regolarmente, «lassù alto per la distantia grande non vi aggiunse il calore e colò»[2].
A causa di questo esito disastroso, fra la fine del 1505 e l’inizio del 1506, Leonardo, demoralizzato, sospese i lavori avendo dunque realizzato soltanto la parte centrale del grande dipinto.
Sembra che la serena grandezza della Vergine delle rocce si sia rarefatta e che al suo posto sia subentrato come un demone un pathos drammatico più michelangiolesco che leonardesco.

Dai due disegni preparatori dei volti di cavalieri, corrucciati o urlanti nell’impeto dell’assalto, conservati oggi al Museum of fine art di Budapest, traspare la consapevolezza dell’universalità di certi istinti primordiali: il volto dell’uomo, devastato dalla ferocia dell’urlo, con la testa di tre quarti, è abitualmente identificato con Niccolò Piccinino subisce una terribile, brutale trasformazione per esprimere l’essenza della guerra.

Il secondo disegno corrisponde alla figura di un guerriero che si trova nella parte destra della scena: potrebbe trattarsi di Gian Paolo Orsini, il giovane capitano fiorentino.

Grande interesse per un’ideale ricostruzione della Battaglia di Anghiari è un lavoro di Giovan Francesco Rustici (1475-1554), un allievo della bottega del Verrocchio, che realizzò dei modelli in creta dei cavalieri dipinti da Leonardo, forse proprio mentre il maestro realizzava la stesura in Palazzo Vecchio o forse sono riconducibili al cartone originario di Leonardo: questi modellini sono conservati nel Museo Nazionale del Bargello a Firenze. 

Tra questi si possono distinguere alcune pose disegnate anche da Rubens, insieme ad altre mai rappresentate da artisti posteriori grazie alle quali, sono sopravvissute anche altre scene originarie, non riportate altrove.

                                                Massimo Capuozzo



[1] John Shearman, Mannerism, Harmondsworth, 1967, edizione italiana Manierismo, SPES, 1983.

[2] Anonimo Gaddiano (Cod. Magliab. XVII, 17, Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze)

lunedì 30 ottobre 2023

I fiamminghi 4: il Rinascimento nordico e la questione fiamminga

Come esiste una questione omerica nella Storia della Letteratura greca così esiste una questione fiamminga nella Storia dell’Arte.
Entrambe al momento sono irrisolvibili e non so se mai potranno essere risolte. Conoscerne tuttavia i termini è molto utile per comprendere più a fondo i due fenomeni.
Nel caso della questione fiamminga, il dibattito sul carattere, tardomedievale o rinascimentale, va avanti da oltre due secoli durante i quali storici dell'Arte, pensatori e studiosi di Storia hanno espresso le più disparate opinioni sul ruolo che questi artisti ebbero nello sviluppo dell'Arte in Europa.
In questo appassionante dibattito, il nazionalismo ha giocato un ruolo considerevole e spesso deviante, come sempre accade con ogni nazionalismo.
Hanno Wijsman – in Rinascimento nordico? L'arte borgognona e olandese nell'Europa del Quattrocento del 2010 –, mostra la disamina delle posizioni degli storici dell'Arte, indica poi il profondo disaccordo su una soluzione conclusiva dei vari problemi posti in campo, e sostiene infine che in questa discussione ancora non ci si è liberati di due idee guida: da un lato, sulla scorta di Burckhardt, dell'autoproclamata supremazia degli artisti italiani come Ghiberti, Alberti, Vasari e Michelangelo, dall’altro della caratterizzazione incisiva e ancora molto incidente di Huizinga sull'Arte nordica come prodotto ancora tardo medievale.
Certamente non è facile definire le direzioni artistiche attive in tutto il continente europeo, ma bisogna tenere conto delle tre forze in gioco, componenti ineludibili nel Quattrocento: la cultura delle corti, la cultura civica nata nell'ambiente urbano, e non ultima la cultura degli umanisti in latino.
Il latino, lingua franca durante tutto il Medioevo, era diventata nel Quattrocento la lingua degli intellettuali europei e dell'Umanesimo mentre i vari volgari continuavano a svilupparsi e a soppiantarlo sempre più articolatamente nell’uso quotidiano e anche esordendo nella letteratura: in ragione dell’Umanesimo in Italia fu naturale, quasi automatico, che il Rinascimento fosse considerato l'Arte dell'Umanesimo. E per molti aspetti fu così: in Italia infatti la base intellettuale del Rinascimento era stata la versione in Arte e in Letteratura del pensiero filosofico umanistico, derivato dal concetto di humanitas romana e dalla riscoperta del pensiero classico greco che voleva l'uomo misura di tutte le cose.
Questo nuovo modo di pensare, questa nuova visione del mondo si manifestò in ogni aspetto della cultura.
Su questo fenomeno prettamente italiano successivamente si è innestata l’espressione Rinascimento nordico riferita all’Arte fiamminga del Quattrocento e usata da Hippolyte Taine per la prima volta in Philosophie de l'art dans les Pays-Bas del 1869.
Wijsman trova però inadeguata la definizione Rinascimento nordico di Taine e seguenti perché la pittura fiamminga è lontana dal concetto centrale di rinascita del mondo classico a cui invece l’Arte rinascimentale è sostanzialmente ancorata: il recupero della classicità non appare infatti nella pittura delle Fiandre, a meno che non ci si riferisca a quei pittori della fine del Quattrocento che si calarono così profondamente nell’atmosfera italiana da dare origine alla corrente dei romanisti.
Wijsman aggiunge che anche l’espressione Ars Nova, mutuata dal campo musicale e oggi talvolta ricorrente per definire l’Arte fiamminga, potrebbe sembrare solo apparentemente valida per descrivere la direzione presa dall'Arte nei Paesi Bassi del Quattrocento, ma lo studioso olandese non la trova comunque del tutto adeguata perché finirebbe per isolare quest'Arte da quanto le è accaduto intorno in Italia, in Francia e nell’area tedesca sulla riva destra del Reno. Infine Wijsman conclude il suo articolo dichiarando il problema al momento irrisolto.
In questo racconto di oggi, percorrerò la strada delle proposte, almeno delle più significative, perché ogni intervento, anche se limitatamente e talvolta opinabilmente, aiuta a comprendere meglio e più criticamente il fenomeno dell’Arte fiamminga del Quattrocento.
Si può parlare di Rinascimento nordico? Sono rinascimentali tutte le opere del Quattrocento e del Cinquecento o solo quelle che si ispirano all'Arte greco-romana piuttosto che a quella medievale? E ancora. I primi fiamminghi, cioè quelli del Quattrocento, si possono definire rinascimentali?
Se per rinascimentale noi intendiamo solo il recupero dell’antico allora l’aggettivo nordico non è appropriato, e non riduttivamente per la scuola fiamminga, ma perché essa è diversa, è semplicemente altro rispetto alla scuola italiana, perché il primo Rinascimento, quello del Quattrocento, fu un fenomeno prettamente italiano legato al recupero dell’antico, al di là del fatto che poi nel suo complesso, il Rinascimento possa essersi successivamente diffuso in quasi tutta l’Europa occidentale del Cinquecento.
Se non esiste un preciso riferimento alla diffusione dell’Arte italiana e se l’Arte non è nettamente ispirata alle forme classiche, allora è preferibile parlare più genericamente di una fioritura premoderna delle varie scuole europee che abbiano risentito di una più o meno vaga influenza di alcune tecniche messe in campo dagli artisti italiani del Rinascimento finché poi nella sua fase conclusiva, quella del famigerato Manierismo, la moda rinascimentale dilagò a macchia d’olio in tutta l’Europa.
Si rifletta però su questo punto perché è quello da cui parte la posizione dello storico olandese Johan Huizinga (1872 – 1945) molto interessante, ma in parte discutibile, che ha polarizzato la questione fiamminga.
Huizinga non trovava rinascimentali i primi fiamminghi, ma li considerava ancora tardo medioevali e riteneva che, per quanto riguardava il Nord Europa, il Rinascimento non fosse stato tanto l'inizio di qualcosa di nuovo, quanto la sua scomparsa: nella sua opera L’Autunno del Medioevo, del 1919 più volte riveduto e tradotto in Italia nel 1940, parla letteralmente di una consunzione delle forme culturali medievali.
Huizinga parla di questo crepuscolo della civiltà medievale a proposito del Rinascimento in Francia e nei Paesi Bassi della Borgogna. Per lui il Trecento e il Quattrocento sono stati un grandioso e malinconico riepilogo e, insieme, un lento e inesorabile tramonto della civiltà medioevale e dell'Arte tardogotica. Nell'esasperata formalità e nel romanticismo della vita di corte tardomedievale, l’eminente studioso non vede altro che un meccanismo di difesa contro il crescente involgarimento della società moderna.
Le critiche mosse a Huizinga sono fondate soprattutto sul fatto che la sua rappresentazione di quei due secoli si basava eccessivamente sui rituali specifici della corte borgognona e non teneva conto della vitalità crescente delle industriose e fiorenti città commerciali dei Paesi Bassi della Borgogna.
Come Burckhardt, che Huizinga ammirava molto, neanche lui deliberatamente si volle servire di documenti d'archivio, ma studiò cronache e letteratura. Una sorta di controstoria, scritta attraverso il pensiero che gli intellettuali avevano di sé e del loro mondo. Del loro sentiment.
Quando fu pubblicata, la sua opera fu qualcosa di nuovo nel panorama critico e storiografico perché, più che essere uno studio storico, fu un esempio di storia della cultura e della mentalità di cui Il tramonto del Medioevo è stato uno degli archetipi.
Huizinga ha cercato di evocare l'immagine di un'epoca, seguendo l'esempio di Jacob Burckhardt. Prendendo in considerazione gli stessi secoli dello studioso svizzero, ma in un’altra area, quest’opera, colta e affascinante, offre parecchi spunti di riflessione e, nella misura in cui lo storico elvetico evidenzia la novità della civiltà del Rinascimento in Italia, lo storico olandese sottolinea la continuità della civiltà medioevale durante il Trecento e il Quattrocento, ma ne evidenzia anche il senso e la consapevolezza della sua fine. Sono due opere diverse, ma complementari: mentre Burckhardt celebra il nuovo di un mondo che nasce, Huizinga rievoca il vecchio di un mondo che muore.
Per essere capiti a fondo, Burckhardt e Huizinga, vanno contestualizzati: sono figli del loro tempo e della loro cultura di formazione e se Burckhardt ha una visione idealistico-romantica del Rinascimento e lo predilige, Huizinga ha una visione decadentista del tardo Medioevo e lo commuove.
Huizinga ha studiato la cultura del tardo Medioevo attraverso l’immaginario culturale e il titolo dell’opera lo chiarisce immediatamente creando la metafora dell’autunno, stagione che non è ancora la fine, ma che ad essa si avvia, per catturare quella cultura nella sua interezza. Il sottotitolo invece chiarisce seccamente di cosa si tratta: uno studio sulle forme di vita e di pensiero dei secoli XIV e XV in Francia e nei Paesi Bassi.
Il titolo, l’autunno, è l'immagine che lo stesso Huizinga ebbe di quei secoli, non secoli di fioritura, ma secoli di appassimento: come avviene per la vegetazione in autunno.
Huizinga studiò il Medioevo in modo completamente diverso rispetto a molti storici prima di lui: non raccontò infatti una storia di guerre e di trattati, oppure una storia di agricoltura e di commercio, ma raccontò come la gente nel tardo Medioevo affrontava la vita. Una vita molto più intensa della sua, per certi aspetti della nostra epoca. Tutto allora era più duro del lusso moderno: l'uomo medievale si confrontava con la ferocia della vita e per affrontare quella ferocia, per darle un senso e un significato, il Medioevo aveva creato ogni tipo di forme di vita: le storie, i rituali, i dipinti, la moda, gli edifici.
Huizinga discute queste diverse forme di vita attraverso una varietà di temi, come l'ideale cavalleresco di coraggio e di onore, l’amore e l’erotismo, e la fede cristiana. Ma poi ci avverte che in quell’autunno del Medioevo, in quel Trecento e Quattrocento franco-borgognoni, queste forme si erano completamente svuotate, avevano perduto il potere di dare un senso alla vita e avevano invece incominciato a condurre una vita propria, che aveva sempre meno a che fare con la vita reale in uno iato insanabile. Huizinga, per esempio, descrive come i cavalieri volessero aderire così tanto alla forma di cavaliere che doveva apparire sempre coraggioso e onorevole: quei cavalieri finivano per comportarsi in modo goffo durante i loro viaggi e le loro battaglie e di conseguenza talvolta perdevano la vita inutilmente come era accaduto nella battaglia di Poitiers e molto più evidentemente nella battaglia di Azincourt. Quasi come antenati di Don Chisciotte, incapaci di adeguarsi ai cambiamenti del mondo.
Alla fine del Medioevo, gli uomini talvolta dimenticavano ciò che era veramente necessario, ostinandosi a ubbidire a ciò che le forme di vita di un altro tempo, ormai andato, esigevano da loro.
In L'autunno del Medioevo per esempio parla ampiamente del rituale del lutto come di una di quelle forme svuotate con cui l'uomo del tardo medioevo affrontava la vita e la morte, ma si trattava ovviamente del lutto per i re e per i principi. In quella fine del Medioevo, lo sfarzo funebre era diventato semplicemente un fatto artistico e un vuoto spettacolo. Si pensi ai solenni funerali di Filippo l’Ardito e a quelli di suo figlio Giovanni senza Paura, tradotti in scultura nei loro meravigliosi mausolei funebri.
In quello sfarzo funebre diventato opera d’arte c'era qualcosa di smisurato, l’iperbole del dolore, contraltare dell'iperbole della gioia delle altrettanto smisurate feste di corte e a tal proposito si pensi invece al matrimonio di Carlo VI di Francia o di Filippo il Buono o di Carlo il Temerario, duchi di Borgogna.
Per quanto quelle forme diventassero artificiali nel tardo Medioevo, esse restavano necessarie per esprimere ogni passione, ogni violenza, per dare significato a ogni dubbio e bellezza nella vita come nella morte di un monarca. Così lo spirito del Medioevo indugia tra il dolore e la sua espressione iperbolica, e tra la bellezza colorata delle forme e la disperazione nera della vita vera.
Huizinga interpreta quei due secoli come nutriti di nostalgia per quel mondo che stava scomparendo, ma comunque nutriti anche del senso di precarietà della vita, della morte, da cui l'uomo cercava di evadere, sfuggendo alla malinconia, per rifugiarsi nelle regioni del sogno, in contrapposizione all’esplosione gioiosa della vita che Burckhardt vedeva brulicare nel Rinascimento in Italia.
E proprio a proposito di Jan van Eyck, artista simbolo di questo significativo momento nelle Fiandre, Huizinga scrisse: “... il naturalismo dei van Eyck, che nella Storia dell'Arte è solitamente considerato un preludio al Rinascimento, dovrebbe piuttosto essere considerato come il pieno sviluppo dello spirito tardo medievale”. Un concetto che può essere ampiamente controbattuto, ma che lascia comprendere che in fondo è la radicalità soggettiva del pensiero dello storico che affascina e che d’altro canto stimola la riflessione.
Prima di Huizinga altri studiosi si erano applicati al fenomeno fiammingo. Per questo potremmo definire L’autunno del Medioevo una sorta di summa.
In Germania, storici di varia ispirazione compreso l'intenditore d'Arte e storico Georg Friedrich Waagen (1794 – 1868), hanno approfondito il tema dell’origine tedesca del senso della realtà dei fiamminghi. E secondo Waagen, nel suo pamphlet sui fratelli van Eyck del 1832, l'Arte europea aveva imboccato nel Quattrocento due direzioni principali: quella idealizzante e quella realistica. L'idealizzazione era l'eredità dell'Arte greca classica ed era stata raccolta dagli italiani a partire dal Trecento e per lui questo tipo di Arte si adattava maggiormente al temperamento dei popoli latini, mentre l'emersione dell'Arte fiamminga era la manifestazione del realismo germanico. Una visione molto interessante, ma in ogni caso Waagen considerava anche lui l'arte di Jan van Eyck un’Arte ancora medievale.
L'Abate francese Chrétien Dehaisnes (1825 – 1897), nell’Histoire de l’art dans la Flandre, l’Artois et le Hainaut avant le XV siècle del 1886, pone un altro problema relativo alla questione fiamminga.
In quale ambiente sociale nasce per lui l’Arte fiamminga?
Per Dehaisnes la grandezza dell'Arte dei primi fiamminghi è dovuta alla loro avversione per la vita di corte e alla loro profonda religiosità. Secondo lui, infatti Jan van Eyck era chiaramente inferiore a suo fratello Hubert perché l’opera di Jan era molto meno religiosa e molto più realisticamente religiosa di quella di Hubert, che era riuscito invece a trovare un equilibrio ragionevole tra le due opposte correnti del realismo: da un lato la grandezza dell'idealismo e dall'altro l'influenza cristiana. Per Dehaisnes anche Rogier van der Weyden mancava dell'idealismo cristiano e della verità dei grandi maestri, mentre Memling era stato l'artista più devoto e più cristiano che le Fiandre avessero mai prodotto e il più grande pittore della scuola fiamminga. Anche per Dehaisnes, il senso della realtà dei primi fiamminghi potrebbe essere ricondotto al loro senso germanico della realtà, ma non approfondiva e tanto meno argomentava il problema suscitato.
Per lui, la grandezza della pittura fiamminga consiste nella sua religiosità che è la sua matrice più autentica e non in quella della corte, e nello specifico di quella borgognona. Occorre riflettere però sul fatto che nella pittura fiamminga, pur essendo essa nata dall’alveo della cultura cortese del Gotico internazionale, si legge una maggiore consistenza fisica rispetto alle immagini idealizzate del lusso aristocratico e una maggiore verosimiglianza materiale delle immagini. Da che cosa dipendeva tutto questo?
Era stata l’arte della borghesia fiamminga, non certo nata nell’ambiente della corte, a dar vita ad un arricchimento dello stile Gotico internazionale infondendovi un senso tutto nuovo di naturalismo basato sui valori emergenti della cultura mercantile borghese: un assoluto realismo nella rappresentazione delle figure umane, di oggetti, di ambienti naturali o interni, di personaggi sacri e perfino nella resa della luce e della realtà atmosferica. Questo vuol dire che l’Arte fiamminga si è nutrita anche dei valori più terreni e materiali della cultura mercantile in cui essa si stava sviluppando.
Giovanni Battista Cavalcaselle (1819 –1897) e John Crowe (1825 - 1896) in Storia dell’antica pittura fiamminga del 1899, ebbero un’opinione molto diversa dall'Abate Dehaisnes, e considerarono invece l'Arte dei primi fiamminghi come il prodotto della cultura della corte borgognona. Questo nessuno può del tutto negarlo. Per questi due studiosi la pittura fiamminga fu una forma d’Arte che mise in evidenza la ricchezza e il lusso di quella corte, con le rappresentazioni realistiche delle vesti di broccato d'oro, dei gioielli e di sfarzosità simili. Ma per loro quel realismo duro, a volte anche crudele, non lasciava spazio all'elevazione dell'uomo, che sarebbe dovuta essere il vero traguardo di un’Arte rinascimentale, un traguardo che però non poteva essere raggiunto a causa del legame con la corte che ancorava quest’arte al Medioevo. Cavalcaselle e Crowe sentivano per esempio che Rogier van der Weyden non idealizzava a sufficienza i volti di Maria e di Cristo e che solo Memling sapeva esprimere la grazia nei loro occhi. Pertanto per loro la storia dell'Arte fiamminga fu una storia di declino, il declino del Medioevo – preannunciando così la visione di Huizinga – mentre quella dell'Arte italiana cioè quella rinascimentale fu una storia di un’ascesa verso la modernità – come aveva proclamato Burckhardt.
I due studiosi accentuarono l’origine di corte della prima pittura fiamminga ed evidenziarono che essa, essendo legata a una struttura medievale come la corte, persiste in una iconografia non ancora moderna.
I francesi Théophile Toré (1807 – 1869), Charles Blanc (1813 –1882) e Paul Mantz (1821 -1895) nella seconda metà dell’Ottocento nutrivano molta ammirazione per la scuola realista olandese del Seicento. Un elemento questo che apparentemente c’entrerebbe poco con la questione fiamminga, ma che invece introduce un altro problema ancorché collaterale, quello dei rapporti fra la pittura fiamminga del Quattrocento e quella Olandese del Seicento.
La posizione di Torè, Blanc e Mantz era il risultato delle fervide discussioni in Francia tra i classicisti, rispettosi delle norme accademiche, e i repubblicani che erano invece dei convinti sostenitori del realismo ed erano fin troppo felici di trovare nel realismo olandese del Seicento degli antesignani e di emulare questa scuola, che secondo loro era il risultato della cultura borghese-repubblicana dell’Olanda. Essi però non vedevano alcuna connessione tra i primi fiamminghi che consideravano fondamentalmente pittori di corte mentre la pittura olandese del Seicento nasceva invece dal libero spirito repubblicano delle Sette Province Unite del Nord.
Autori di poco successivi, come Alfred Michiels (1813 - 1892) e Hippolyte Taine (1828 – 1893), consideravano invece i primi fiamminghi come pionieri di pittori come Jacob van Ruysdael, Meindert Hobbema, Govert Flinck e Rembrandt.
Questa tesi diventò sempre più comune in Francia e diventò opinione maggioritaria che la scuola olandese fosse l'erede dei primi fiamminghi.
La questione dell’eredità fiamminga nella pittura olandese è una tesi piuttosto facilmente sostenibile, ma ovviamente non si può assumere in modo assoluto.
Il travaso estetico dalle Fiandre ai Paesi Bassi del nord era avvenuto realmente e non per via ipotetica nel Cinquecento quando Anversa era ancora la capitale culturale di tutti i Paesi Bassi. La ricchezza della città forniva molta clientela quindi altrettanta domanda d’Arte pertanto la concorrenza reciproca tra gli artisti fiamminghi stimolò l'innovazione e il miglioramento della produzione artistica. Quando però nei Paesi Bassi scoppiarono disordini dopo l'iconoclastia del 1566, il dominio di Anversa finì e durante l'assedio della città nel 1585, circa 150.000 fiamminghi fuggirono nei Paesi Bassi del Nord, dove erano più sicuri.
Grazie alla relativa tranquillità di Haarlem, la città diventò l'insediamento preferito dai rifugiati fiamminghi e in una ventina d’anni Haarlem raddoppiò la sua popolazione: fra questi rifugiati c'erano anche molti artisti, come il pittore manierista e primo storico dell’Arte dei Paesi Bassi: ‘Karel van Mander. È fuori discussione che la pittura paesaggistica mostri chiaramente l'influenza dei fiamminghi sullo sviluppo dell'Arte olandese: i fiamminghi dipingevano da secoli paesaggi come sfondo per i ritratti, e rifugiati fiamminghi come Roelandt Savery e Gillis van Coninxloo portarono con sé nei Paesi Bassi del Nord la tradizione del paesaggismo fiammingo e resero il paesaggio sempre più preminente nei loro dipinti. Lo stesso vale per le opere di David Vinckboons che dipinse opere religiose e scene di vita quotidiana: nei suoi dipinti, chiese e castelli olandesi sembrano apparire in un paesaggio montano italiano. È sorprendente come la realtà non fosse importante in questi primi paesaggi: essi creavano principalmente atmosfere, ma non riproducevano necessariamente la realtà.
Dopo l'iconoclastia e la rivolta contro il re di Spagna, nei Paesi Bassi la chiesa scomparve come committente importante. Gli artisti risposero a questa nuova situazione adattandosi e dipingendo altri soggetti e ora che i cittadini stavano incominciando a prendere il potere, c’era più richiesta di ritratti e di scene di vita quotidiana. Anche la ritrattistica olandese di Frans Hals deve molto agli artisti fiamminghi. Nel Cinquecento ad Anversa erano raffigurati ritratti su larga scala in uno stile molto realistico nel solco di Jan van Eyck e di Hans Memling diversamente dallo stile degli artisti italiani che dipingevano ritratti idealizzati.
Fu dunque grazie ai rifugiati fiamminghi, che l’approccio realistico giunse anche nei Paesi Bassi del Nord, dove fino allora non esisteva una tradizione di ritrattistica. L'influenza di Rubens in Frans Hals è chiaramente visibile nei suoi primi dipinti e solo più tardi Hals avrebbe sviluppato il suo caratteristico stile sciolto e gli sfondi scuri, ma, per tutta la sua vita, avrebbe mantenuto il realismo dei ritratti fiamminghi.
L'immigrazione di centinaia di artisti fiamminghi ebbe perciò grande influenza sullo sviluppo dell'arte olandese e non so se la grande Arte, quella del cosiddetto Secolo d'oro olandese, avrebbe avuto così tanto successo senza la conoscenza e la tradizione dei pittori fiamminghi.
Nella sua opera prima citata Taine, basandosi ancora sulla definizione di Burckhardt, parlò per la prima volta in forma estensiva di un Rinascimento nordico, fiammingo o cristiano, contrapposto al più paganeggiante Rinascimento italiano.
Meno di dieci anni dopo, Eugène Fromentin (1820 – 1876) nel suo Les Maîtres d'autrefois del 1876 affrontò la questione di una doppia origine, cortese e religiosa, nella pittura fiamminga del Quattrocento, citando due esempi campione: Jan van Eyck rappresentante della sfarzosa cultura di corte borgognona e Hans Memling esponente dell'ascetismo della vita monastica, ma definì entrambi ancora chiara espressione della cultura medievale.
Dal 1870 anche gli olandesi incominciarono a esprimersi sull'argomento. Il primo fu Johannes van Vloten (1818 – 1883) nel 1874, che ricalcava in gran parte quanto espresso da Thoré e da Taine, ma, diversamente da Thoré, seguì il pensiero di Taine, vedendo nei primi fiamminghi l'inizio di una scuola olandese.
Van Vloten fu seguito da Conrad Busken Huet (1826 – 1886), che nel suo ampio studio La terra di Rembrandt, completato nel 1884, ebbe un'influenza duratura sull'immagine dei Paesi Bassi soprattutto nel Seicento.
La storiografia olandese deve ancora molto a quest’opera per l’immagine della cultura e dell’arte olandese fornita da Huet che si colloca sullo stesso livello storiografico dell'Autunno del Medioevo di Huizinga anche se con minore notorietà internazionale.
Nella sua prefazione al volume, Huet afferma di voler presentare gli Olandesi dal punto di vista della Storia d'Europa, gettando così una nuova luce sul suo popolo le cui molte contraddizioni rimangono tuttora irrisolti: il Calvinismo e il duro modo olandese di commerciare, il carattere religioso della società e lo spietato sfruttamento coloniale in Occidente e in Oriente. Sulla base delle sue convinzioni Huet vide infatti la scuola fiamminga e quella olandese come espressione di due culture diverse. Per lui, la pittura olandese del Seicento era il risultato dell'energia nazionale e il realismo dei pittori olandesi del Seicento aveva radici ben più antiche rispetto ai primi fiamminghi: a testimonianza di ciò faceva ampio riferimento all’arte di Claus Sluter, lo scultore di Filippo l’Ardito che, nonostante il suo lavoro nel sud e a Digione, aveva conservato la sua identità olandese.
All'inizio del Novecento, gli orientamenti non puntavano tutti nella stessa direzione e questo sarebbe continuato per qualche tempo: Louis Courajod aveva infatti riportato in scena il termine Rinascimento del Nord e la mostra di Bruges del 1902 rilanciò la discussione.
All’idea di Huizinga di una permanenza tardomedievale nell’Arte fiamminga del Quattrocento hanno avuto posizioni molto diverse altri studiosi che lo hanno preceduto, tra cui Louis Courajod (1841 – 1896) e Hippolyte Fierens-Gevaert (1870 – 1926), che sostennero invece che i primi fiamminghi potessero essere visti come i fondatori di un Rinascimento settentrionale anzi sostenevano che era stata la loro arte a dare origine al Rinascimento italiano.
Nelle sue opere Louis Courajod cercò costantemente di contraddire le tesi generalmente accettate secondo le quali la cultura italiana aveva dato origine all'Arte rinascimentale. Secondo lui, invece, nessuna innovazione essenziale nella cultura e nelle arti si trova in Italia, ma solo nel nord della Francia e nei Paesi Bassi, e l'Italia avrebbe solo aggiunto una patina antica all'opera compiuta. Purtroppo però Courajod è stato sempre molto apodittico e non ha mai argomentato come.
L’influsso fiammingo sull’Arte italiana da una certa data in poi è indubitabile.
Ma che cosa si può intendere per Rinascimento settentrionale se non una diffusione dell’Arte italiana nella fase del Manierismo che ha concluso il Rinascimento? E questo è avvenuto solo dopo che si era placata l’ondata della Riforma, frantumatasi poi nei suoi variegati protestantesimi, e dopo che la Riforma aveva gravemente danneggiato l’Arte con le sue radicali iconoclastie.
Courajod usava forse il termine Rinascimento intendendo il Quattrocento e gran parte del Cinquecento e considerava rinascimentale quel periodo di tempo? Ma se è così commetteva un errore grossolano perché neppure in Italia l’Arte di quel periodo può essere definita tutta rinascimentale, per la presenza ancora viva del linguaggio Gotico internazionale.
Tirando ora le fila del discorso, tutta l’Arte europea agli inizi del Quattrocento, compresa quella italiana, parlava ancora univocamente un solo linguaggio artistico: quello dell’Arte tardo gotica. Ma fermenti di novità erano già chiaramente visibili all’orizzonte ed essi si concentravano soprattutto in due precise aree geografiche: la Toscana e le Fiandre. In Toscana, come è noto, si sviluppò quell’arte che noi oggi definiamo «rinascimentale». Nelle Fiandre si sviluppò negli stessi anni un’arte, che oggi chiamiamo «fiamminga», destinata anch’essa a conoscere un’ampia fortuna e ad influenzare nel profondo il resto dell’Arte europea successiva.
All’inizio del Quattrocento la situazione artistica era simile a quella che si era verificata a fine Duecento inizio Trecento: allora c’era un’arte di tradizione, quella bizantina che, con la sua quasi millenaria tradizione, aveva attraversato in lungo e in largo tutto il Medioevo ed aveva egemonizzato il panorama artistico, dall’altra c’erano due nuove proposte che si stavano sviluppando tra l’Italia e i paesi a nord delle Alpi, dove stavano sorgendo due nuovi stili che scossero molto profondamente la stagnante estetica bizantina: l’Arte italiana prerinascimentale, per intenderci quella di Giotto, dei Pisano, di Cavallini, dei Lorenzetti e così via, e l’Arte gotica nata al di là delle Alpi.
Agli inizi del Quattrocento la situazione era quasi simile, solo che questa volta l’arte che monopolizza la scena internazionale era quella gotica, mentre le nuove proposte stilistiche provenivano dall’Arte fiamminga nel solco della tradizione tardogotica, e da quella rinascimentale italiana nel solco di quella trecentesca. Nel corso del Quattrocento fu sempre più l’Arte italiana rinascimentale a diffondersi in Europa e a conquistare i gusti della committenza finché, alla fine del secolo, fu proprio il Rinascimento ad imporsi come nuovo linguaggio artistico europeo soppiantando in larga parte il Gotico, tranne nell’Architettura.
Le differenze tra l’Arte rinascimentale e quella fiamminga sono molte, ma se ne devono evidenziare subito due: mentre l’Arte del Rinascimento rivoluzionò un po’ tutte le arti figurative – architettura, pittura, scultura e arti applicate –, le novità dell’Arte fiamminga riguardarono invece solo la pittura. L’altra differenza sostanziale è che l’Arte rinascimentale ebbe una portata molto più rivoluzionaria, in quanto impostò una nuova visione artistica più autenticamente moderna, e per questo alla fine ebbe ragione di altri stili artistici, mentre l’Arte fiamminga in fondo va vista, come aveva già intuito Huizinga, come un’evoluzione dell’Arte tardo gotica, e comunque un’evoluzione tesa a conquistare un maggior naturalismo, ma che sostanzialmente non metteva del tutto in crisi uno stile che era ancora espressione di un mondo basato su princìpi e valori propri del Medioevo europeo: sacralità, cortesia e cavalleria.
Molti e variegati sono stati i protagonisti dell’Arte fiamminga. Tra di loro il più noto è sicuramente Jan Van Eyck che la tradizione storiografica ha indicato come l’inventore di questo nuovo movimento artistico. Oggi però le nostre conoscenze ci permettono di affermare che, in realtà, a far nascere il nuovo stile contribuì essenzialmente anche un altro artista, la cui personalità appare ancora non sempre ben definita: Robert Campin il nome con cui attualmente è riconosciuto un artista che, fino a poco tempo fa, era noto solo con il nome convenzionale di Maestro di Flemalle.
Ma è esistito un prima di questi due grandi maestri, come in Italia è esistito un prima di Masaccio.
Sebbene il Gotico internazionale fosse molto più in linea con il mondo della corte, e sebbene rimanesse ancora un’arte molto idealizzata e spesso innaturale nella rappresentazione delle persone e dell'architettura, lo stile dei Primi Fiamminghi – ma come del resto anche l’Arte del Rinascimento in Italia aveva le sue radici nel Gotico Internazionale –, tra il 1350 e il 1420 ebbe alcuni maestri dell’area dei Paesi Bassi che incominciarono ad allontanarsi dalla leziosità di quello stile, adottando un’espressione più realistica, definita realismo pre-eyckiano.
Una bella manifestazione di questo realismo fiammingo si trova nell'Apocalisse in medio olandese all’incirca del 1400 di due  ignoti miniaturisti del luogo.
Ma già dalla seconda metà del Trecento, sempre più artisti provenienti dalle Fiandre, dall'Hainaut, da Liegi, dal Limburgo, dalla Gheldria e dall'Olanda si erano trasferiti in Francia, prima presso Giovanni II di Francia e poi presso suo figlio Carlo V, per lavorare per la corte regia o per i fratelli di Carlo V: Filippo l’Ardito, Giovanni di Berry e Luigi I d'Angiò.
Alcuni di loro svolsero un lavoro pionieristico aprendo la strada al realismo, ad esempio, il Maestro di Le Remède de Fortune, che diede origine alla suggestione spaziale anche nel piano bidimensionale di una miniatura.
Nel 1371 il pittore di corte Jan Boudolf eseguì un ritratto probabilmente abbastanza realistico del sovrano e introdusse l'arco diaframma per chiudere lo spazio tra il re e il spettatore, un'inventio che sarebbe stata seguita fino a Petrus Christus, Rogier van der Weyden e Dirk Bouts. Il pittore di Bruges Jacob Coene (1405 – 1430), associabile al Maestro di Boucicaut, fu l’inventore della prospettiva aerea, una tecnica pittorica in cui è possibile creare un'impressione di profondità nel dipinto, principalmente attraverso l'uso del colore, e fu anche un precursore nel campo della raffigurazione del paesaggio.
I primi pittori coinvolti in questa evoluzione della pittura fiamminga, perché non si tratta di una rivoluzione attuata da Campin e van Eyck, furono Jean de Beaumetz di Atrecht e Jan Maelwael di Gheldria, che lavoravano anche a Digione per Filippo l’Ardito. Melchior Broederlam di Ypres, insieme a Jacob de Baerze di Dendermonde, ricevettero proprio dal duca Filippo l'incarico di eseguire la grande pala d'altare per Champmol: per esempio Broederlam dipinse un Giuseppe così realistico nel pannello con la Fuga in Egitto, che non sembrerebbe fuori luogo in un dipinto di Pieter Brueghel il Vecchio.
E indimenticabili per questa evoluzione furono i fratelli di Limburgo, che, come miniaturisti, produssero opere meravigliose e di grande novità.
Le origini di Jan van Eyck e di Robert Campin sono da ricercare tutte in questi pittori.
Ma oltre questi due artisti, l’Arte fiamminga conobbe altri straordinari interpreti per tutto il Quattrocento: Petrus Christus, Rogier van der Weyden, Hans Memling, Giusto di Gand, Hugo Van der Goes, Quinten Massys e Dirk Bouts solo per citare i più noti.
Giusto di Gand, Hugo van der Goes e Rogier van der Weyden, furono attivi anche in Italia, influenzando notevolmente lo sviluppo dell’Arte rinascimentale stessa. Ma le influenze non furono a senso unico. Anzi, il contatto con l’Arte italiana determinò una svolta anche nell’Arte fiamminga nel passaggio dal Quattrocento al Cinquecento, restando quest’ultima profondamente segnata da un gusto classico di chiara impronta italianizzante.
Ne restarono immuni solo due artisti, tra i più originali dell’intera scuola fiamminga: Hieronymus Bosch attivo tra fine Quattrocento e primi anni del Cinquecento e Pieter Brueghel il Vecchio attivo alla metà del Cinquecento. La loro visione fantastica e inquietante, a volte grottesca a volte perfino plebea, parlava un linguaggio pittorico assolutamente originale che, recuperando filoni più popolareschi della tradizione nordica e tedesca, giunse a risultati completamente diversi rispetto alla tradizione stessa inaugurata dai fiamminghi dei primi decenni del Quattrocento.
                                Massimo Capuozzo

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