domenica 10 gennaio 2010

La resistenza: fra mito e smitizzazione di Massimo Capuozzo

Al di là del mito resistenziale, non tutto nella resistenza è stato eroico: in tal senso è opportuno, onde evitare ritratti oleografici, riportare tre passi di due lucide coscienze della letteratura del Neorealismo[1], Elio Vittoriani e Cesare Pavese ed uno del giovane Italo Calvino.

L’attentato
da Uomini e no
[2] Elio Vittorini[3]
· Milano, inverno 1944. Città invasa e controllata dai tedeschi contro i quali lottano per la Resistenza numerosi partigiani. Il protagonista, Enne 2, è uno di loro. Quest'ultimo entra in scena per la prima volta quando riconosce la sua amica, Berta, nei pressi di Porta Venezia. I due si conoscono da molto tempo e tra loro è nato un amore che si può dire impossibile poiché lei è già sposata e ha dovuto allontanarsi da Milano a causa della guerra. Si dirigono insieme verso la sua casa quando si imbattono in un gruppo di soldati e dovendo così cambiare strada si rifugiano in casa di Selva, un'anziana signora che aiuta i partigiani offrendo loro rifugio. Partigiani che, avendo intenzione di uccidere i generali nemici, programmano minuziosamente le loro azioni affinchè ogni cosa riesca perfettamente. La mentalità di queste persone era, infatti, quella di non arrendersi mai pur sapendo che avrebbero potuto morire.
· La Resistenza a Milano ha un suo clas­sico nella nostra narrativa: il romanzo-documento di Elio Vittorini, ‘Uomini e no’. Da esso è tratto questo brano nel quale viene descritto l’attentato contro il presidente del Tribunale speciale e i suoi collaboratori tedeschi.
· L’azione si svolge rapida, senza in­dugi descrittivi: gli attentatori agiscono con gesti tanto precisi che sembrano cronome­trati e che rivelano una preparazione lunga e minuziosa e subito dopo si mimetizzano nella folla che li avvolge e li copre. Una folla nella quale l’esasperazione e l’odio con­tro i sopraffattori è più forte del pur acuto terrore per le immancabili rappresaglie la cui violenza e ferocia balena sullo sfondo, nell’immagine evocata del capo fascista chiamato emblematicamente Cane Nero.

Corse fino alle dodici meno un quarto, avanti e indietro[4] per gli alti viali dei bastioni, tra Porta Nuova e Porta Venezia; e alle dodici meno un quarto si fermò davanti a un’edicola.
Una signora[5] che comprava il giornale gli si avvicinò.
«Che faccia scura!» gli disse.
« Sì? » Enne 2 [6]rispose.
Essa aprì la borsetta, ed egli ne ritirò una rivoltella che fece sparire nella ta­sca del soprabito.«In gamba,» egli le disse.
«In gamba,» gli disse lei.
XIV. — Tre uomini in tuta grigia, con borsa da lattonieri a tracolla[7], lo aspettavano poco più in là, le biciclette contro il marciapiede, dietro un grande palazzo.
«Ehi!» egli li salutò.
I tre erano giovani e lieti: con occhi che ridevano[8].
«Allora?»
«Ve l’ho mostrato ieri. Escono a mezzogiorno...»
«Mancano tre minuti. »
«Voi passate con le biciclette, lasciate che salgano sulla macchina.»
«E appena saliti diamo dentro?»
«Appena la macchina si mette in moto.»
«Ma tu, capitano? »
«Ve l’ho detto. Resto dietro.»[9]
I tre ragazzi si guardarono.
«Mica è indispensabile.»
«Andiamo.» Disse Enne 2. «È mezzogiorno.»
I tre montarono in bicicletta.
« In gamba. »
« In gamba. »
Si allontanarono, e l’uomo Enne 2[10], portando per mano la bicicletta, passò davanti alla facciata del palazzo, tra una nera macchina ferma e una breve gra­dinata in cima alla quale montava la guardia un biondo ragazzo tedesco delle S.S.[11], in uniforme anch’essa bionda. Il sole dell’inverno splendeva sulla canna nera del suo mitragliatore, e d’un tratto egli fece un brusco movimento[12], quat­tro uomini uscirono, con lunghi cappotti militari, al sole.
Enne 2 vide un momento le loro facce, tre tedesche, una italiana dalle soprac­ciglia grigie, e passò oltre, andò all’angolo senza mai voltarsi[13].
XV. — I tre ragazzi in bicicletta lo incrociarono.
Parlavano tra loro, pedalando piano, e non lo guardarono, avevano capelli bruni che luccicarono, al sole dell’inverno, come pelo bruno di animali. Enne 2 si voltò, allora, nell’atto di disporsi a salire in bicicletta. Vide sulla gradinata il ragazzo biondo, rimasto impietrito nel suo brusco movimento[14], vide la macchi­na con lo sportello aperto, vide i quattro dai lunghi cappotti ch’erano già al pie­de della gradinata.
I tre dalle facce tedesche si salutavano, quello[15] dalla faccia italiana, un po’ più avanti, teneva chino il capo, ed ecco ch’egli ebbe una risoluzione improvvi­sa, entrò a prendere posto nella macchina.
Ma i tre ragazzi in bicicletta erano già all’altezza della macchina, e ancora i tedeschi si salutavano[16].
Enne 2 vide i tre ragazzi continuare il loro cammino.
«Bene», disse. «Meglio[17]
Due dei tedeschi entrarono in macchina, l’uomo nero chiuse lo sportello, salì a sua volta, e il tedesco rimasto a terra ancora salutava, ancora s’inchinava. En­ne 2 guardò il ragazzo biondo sull’alto della gradinata, e l’ufficiale che salutava al piede di essa.
Partì la macchina.
I tre ragazzi in bicicletta si scansarono davanti ad essa, tutti e tre dalla stessa parte, e allora Enne 2 vide le loro braccia levate in aria[18], udì in tre tempi lo scoppio.
«Ci siamo,» disse. E salì in bicicletta, ed estrasse la rivoltella.
In alto il ragazzo biondo mirava con la sua arma nera i tre che scappavano sulle biciclette, e al piede della gradinata l’ufficiale, che fino a quel momento aveva salutato, toglieva la sicura alla sua rivoltella.
Egli gridava in tedesco.
«Che vuoi tu?» disse Enne 2. «Che vuoi anche tu?[19]»15
Si trovò a far fuoco, due volte, e il ragazzo biondo cadde ripiegato sulla sua arma, l’ufficiale si voltò e sparò contro di lui.
Era come se fosse ingrandito[20].16 Ingrandiva, continuava a ingrandire, egli sparò dentro a quel corpo che ingrandiva, e vide al di là la nera macchina che fumava, in nera rovina attraverso la strada.
XVI. — Presto fu dietro al palazzo.
Entrò in piccole strade dove la gente scappava[21], le facce bianche, e corse con altri[22] che pure correvano in bicicletta. Si chiudevano i portoni, venivano abbas­sate le saracinesche delle botteghe, le facce erano bianche, ed egli domandò che cosa accadesse.
«Cane Nero! Cane Nero![23]»19 gli risposero.
«Cane Nero?» egli domandò.
«Viene Cane Nero! » gli risposero.
Davanti a una latteria c’era una coda per il latte. Il lattaio voleva chiudere, le donne volevano prima il loro latte[24].
«Ma viene Cane Nero! » il lattaio gridò.
Le donne maledissero Cane Nero.
«Ma che cosa è accaduto[25]? » domandò Enne 2.
Egli aveva visto la persona che cercava. Era ferma tra la latteria e un negozio di parrucchiere, dietro la gente che correva, ed era la stessa delle dodici meno un quarto.
«Sembra che abbiano fatto saltare il comando tedesco,» essa gli rispose.
Era intrepida e sorrideva.
«Perdio! » pensò Enne 2 guardandola. E non trovò altro che potesse dire.
«Perdio!» rispose alla sua risposta.
La signora aprì, tra la gente, la sua borsetta, ne prese fuori un fazzoletto e si soffiò il naso.
«Molti morti?» Enne 2 domandò.
La signora guardò nella borsetta, vide che c’era di nuovo la rivoltella.
«Sembra di sì,» rispose. «Venti o trenta.»
Un garzone di droghiere la urtò passando. Passò e gridava: «Hanno fatto fuori un generale! »
La signora aveva richiuso la borsetta, e trattenne il garzone per il braccio.
« Che cosa hanno fatto? »
«Hanno fatto fuori il capo del Tribunale.»
Il garzone era bianco in faccia, ma con gli occhi felici. «Era, era,» rispose. «Lo hanno ammazzato.»
La signora lo lasciò andare, guardò Enne 2 che si accendeva, fermo in sella, una sigaretta, e attraversò la strada. Vicino all’altro marciapiede Enne 2 la rag­giunse.
«In gamba, Lorena,» le disse.
«In gamba,» Lorena gli rispose.


Il vizio assurdo della violenza
Da Uomini e no di Elio Vittorini

· Il romanzo è ambientato nell'inverno del 1944 a Milano. Alla mentalità dei partigiani è contrapposta quella nazista che mira a rappresaglie dirette per lo più contro persone innocenti. Un episodio rilevante, infatti, fu quello di piazza largo Augusto, dove centinaia di uomini innocenti furono vittime della violenza tedesca.
· Berta, mentre si recava a piazza Fontana, vide gruppi di gente che correva affrettata verso piazza di largo Augusto, dove c'erano mucchi di uomini uccisi, allineati sui marciapiedi. Tra questi mucchi c'erano anche due ragazzi di quindici anni, una bambina, due donne e un vecchietto. Una delle due donne era avvolta nel tappeto di un tavolo, l'altra sembrava che fosse cresciuta, dopo essere morta, dentro il suo vestito a pallini. Il vecchio era ignudo, era solo la sua lunga barba bianca a coprire qualcosa di lui; stava al centro di sette allineati ai piedi del monumento, non segnato da proiettili, ma ricoperto di lividi ed aveva le grandi dita dei piedi nere, le ginocchia nere, come se lo avessero colpito, così nudo, con armi avvelenata di freddo. I due ragazzi, sul marciapiede all'ombra di largo Augusto, erano invece sotto una coperta. Stavano insieme, con i piedi nudi fuori dalla coperta, e in faccia erano seri, non come morti bambini, con tristezza, con paura, ma seri da grandi, come i morti grandi vicino ai quali si trovavano. Più giù tra i quattro del corso, c'era una bambina, la quale aveva undici o dodici anni, ma mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, ma come se nel breve tempo che l'avevano presa e messa al muro avesse fatto di colpo la strada che la separava dall'essere adulta. La sua testa era piegata verso un uomo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano raggrumati nel sangue; la sua faccia guardava seria l'uomo che pendeva al suo fianco, di cui non si vedeva la faccia, ma soltanto le sue forti gambe, coi lungi muscoli di un uomo nel fiore degli anni ed aveva le scarpe ai piedi messe senza calze. Aveva i polsi scuri e le mani chiuse di un uomo che stia stringendo i denti, ma sulla faccia gli era stata gettata una giacca, era come per nascondere un tradimento che gli fosse fatto, a lui nel fiore degli anni, peggiore che agli altri. Tra questi mucchi di morti, c'era anche il piccolo Foppa caduto in combattimento; era coi cinque morti dalla parte al sole di largo Augusto: tra essi era l'unico che fosse del tutto vestito. Egli era caduto con le armi in pugno; non avrebbe dovuto chinare il capo sotto una scure.
· Il narratore del romanzo è esterno, ma ci presenta il punto di vista di Enne 2, il protagonista.
· Il testo è costituito prevalentemente da dialoghi, ma sono presenti anche alcune pause, nelle quali vengono presentati i pensieri di Enne 2. Si trovano anche interventi dell'autore, nei quali si impongono all'attenzione le due realtà in cui l'uomo è condannato a vivere.
· L'intreccio è lineare, in quanto l'ordine cronologico dei fatti non viene alterato, se non per la presenza di alcuni flashback nelle riflessioni di Enne 2.
· Il linguaggio utilizzato è molto semplice, anche per l'abbondanza di dialoghi, e ricco di ripetizioni tipiche della lingua parlata e, quando a parlare sono i soldati delle truppe tedesche vengono utilizzati anche diversi termini stranieri.
· La tematica sociale è fondamentale in questo libro. Infatti, viene narrata la storia di un gruppo di partigiani che combattono per la Resistenza a Milano nel mite inverno del '44. Viene così presentata la realtà di questi giovani come tanti altri, riuniti dalla massa per il loro impegno nel tentativo di lottare contro i tedeschi.
· In una lunga riflessione, Vittorini si chiede qual è l'uomo e cosa ci sia realmente in lui, e se siano uomini anche coloro che opprimono, perseguitano e uccidono i più deboli o se si possano definire tali quelle che subiscono le persecuzioni e soffrono. È proprio questa sua riflessione finale che dà il titolo al romanzo.

LXII. Berta[26] prese il tram, e andò in tram fino a piazza della Scala. L'inverno era lo stesso di due giorni prima; l'aria leggera, viva; lo stesso sole; e barbagli di sole in tutti i vetri. Lo stesso poteva esser lui dietro il tram, sulla sua bicicletta.
Scese, e camminava; guardava da ogni parte, e anche si vol­tava per guardare. Andò, dal Duomo, verso piazza Fon­tana, non sapendo dove andare, volendo camminare, e vide che i tram procedevano di là a passo d'uomo. Gente an­dava, quella nella sua direzione, affrettata e a gruppi; quel­la che veniva in su era invece smarrita, spesso si fermava, e stava voltata a lungo indietro. «È accaduto qualcosa?» Berta domandò. Era un vecchio signore a cui si rivolse; guardava indietro, e teneva il bastone alzato, pallido in volto, rabbioso, teneva al­zato il bastone in uno strano gesto come lei ricordava di aver visto tenere alto il fuso le donne di campagna che filavano. «Oh!» il vecchio rispose. «Niente di straordinario!» Uno più giovane era giallo come un morto, anche lui di coloro che venivano in su fermandosi e stando a lungo vol­tati indietro, e aveva in mano una borsa vuota che conti­nuamente apriva, capovolgeva, scuoteva e poi richiudeva «Così proprio,» disse. «Che di straordinario?» «Niente di straordinario,» il vecchio disse. Si fermarono insieme, e per un po' continuarono, uno come domandando e l'altro come rispondendo, dicendo entrambi la stessa cosa. «Che di straordinario?» «Niente di straordinario.»
Non erano molti che venivano in su, erano uno ogni dieci nella folla che andava in giù, affrettata, a gruppi, ma tatti, se si guardavano, se si vedevano, avevano gesti strani e si parlavano nello stesso modo.
«Che di straordinario? Io non ho veduto niente di straor­dinario.»
«Nemmeno io. Che ho veduto io di straordinario? Niente ho veduto di straordinario.» «Che c'è da vedere di straordinario?» Al largo Augusto[27], Berta vide che la folla era nel mezzo della strada, e camminava tra i due marciapiedi, tutta in un senso, tutta verso la piazza dov'è il monumento delle Cinque Giornate: ma lei continuò per il marciapiede. Si trovò sola, lungo le botteghe chiuse, eppure continuò, e vide davanti a sé degli uomini fermi, con dei berretti strani e lunghi bastoni neri tenuti sulle braccia, come ne aveva veduti il giorno ch'era stata con Enne 2 in bicicletta, sul corso Sempione. Non formavano file, né erano molti, sta­vano sul marciapiede sparpagliati, e il sole brillava sulle canne nere dei loro fucili, sui loro bottoni, e anche su un punto dei loro berretti.
Scese allora dal marciapiede, si mise con la folla, passò davanti a quegli uomini; e guardava che cosa avessero che luccicava al sole sui berretti. Vide che avevano delle teste di morto in metallo bianco, il teschio con le tibie incrociate; ma vide anche che sul marciapiede, tra quegli uomini e altri più in fondo, stavano allineati come dei mucchietti di cenci; qualche mucchietto bianco, e qualche mucchietto invece scuro, di pantaloni, giacche, cappotti: panni usati. Che cos'era?
Guardò, pur camminando, e più da vicino; e vide, fuori da qualcuno di quei mucchi, scarpe. Scarpe anche?
Le vide come ai piedi dell'uomo, quando un uomo è steso in terra. C'era gente in quei piccoli mucchi? C'erano uo­mini? Guardò, quasi spaventata, dietro a sé; nelle facce della folla.
«Ma...» disse. Qualcosa per cominciare. E avrebbe voluto chiedere se ognuno di quei mucchietti fosse un .uomo; e perché fossero li, cinque mucchietti, cinque uomini; se fos­sero uomini catturati, e catturati a che scopo; e perché fos­sero tutti stesi, perché nessuno fosse seduto, nessuno in pie­di, nessuno che si muovesse.
Avrebbe voluto saperlo da qualcuno della folla, non veder­lo da sé; e invece vide da sé; e vide che erano morti, cinque uomini allineati morti sul marciapiede, uno vestito anche con cravatta al collo come se lo avessero ucciso mentre camminava per la strada, ma tutti gli altri in disordine, uno avvolto nel tappeto d'un tavolo, uno con la giacca sulla fac­cia e sotto in mutande e camicia, due in biancheria da let­to con i piedi nudi.
«Ma che cosa,» disse, «è accaduto?» Guardava nelle facce che aveva intorno, voleva sapere, e non c'era che da vedere. Che cosa avevano fatto a quegli uomini? E chi glielo aveva fatto? Perché glielo aveva fatto? Alzò gli occhi su uno dei militi con la testa di morto in mezzo al berretto, e fu per chiederlo a lui. Ma non chiese niente.
Arrossì anzi, e si tirò indietro nella folla, abbassò il capo, camminò via. In fretta, senza quasi più fermarsi, continuò fino al monumento dì piazza Cinque Giornate, poi tornò indietro. Fu di nuovo a piazza Fontana, piazza Duomo, piazza della Scala, tutto quasi correndo, in piazza delle Cinque giornate ai piedi del monumento.
LXIII. I morti al largo Augusto non erano cinque altri ve n'erano sul marciapiede dirimpetto; e quattro era­no sul corso di Porta Vittoria; sette erano nella piazza delle Cinque Giornate, ai piedi del monumento. Cartelli dicevano dietro ogni fila di morti: Passati per le armi. Non dicevano altro, anche i giornali non dicevano altro, e tra i morti erano due ragazzi di quindici anni, C'era anche una bambina, c'erano due donne e un vecchio dalla barba bianca. La gente andava per il largo e il corso di Porta Vittoria fino a piazza delle Cinque Gior­nate, vedeva i morti al sole su un marciapiede, i morti al­l'ombra su un altro marciapiede, poi i morti sul corso, i morti sotto il monumento, e non aveva bisogno dì saper al­tro. Guardava le facce morte, i piedi ignudi, i piedi nelle scarpe, guardava le parole dei cartelli, guardava ì teschi con le tibie incrociate sui berretti degli uomini di guardia, e sembrava che comprendesse ogni cosa. Come? Anche quei due ragazzi di quindici anni? Anche la bambina? Ogni cosa? Per questo, appunto, sembrava anzi che comprendesse ogni cosa. Nessuno sì stupiva di niente. Nessuno domandava spiegazioni. E nessuno si sbagliava, C'era, tra la gente, il Gracco. C'erano Orazio e Metastasio; Scipione; Mambrino. Ognuno era per suo conto, come ogni uomo ch'era nella folla. C'era Barca Tartaro. Passò, un mo­mento, anche El Paso. C'era Figlio-di-Dio. E c'era Enne 2. Essi, naturalmente, comprendevano ogni cosa; anche il per­ché delle donne, della bambina, del vecchio, dei due ra­gazzi; ma ogni uomo ch'era nella folla sembrava comprendere come ognuno dì loro: ogni cosa.
Perché[28]? il Gracco diceva.
Una delle due donne era avvolta nel tappeto di un tavolo. L'altra, sotto il monumento, sembrava che fosse cresciuta, dopo morta, dentro il suo vestito a pallini: se lo era aperto lungo il ventre e le cosce, dal seno alle ginocchia; e ora la­sciava vedere il reggicalze rosa, sporco dì vecchio sudore, con una delle giarrettiere che pendeva attraverso la coscia dove avrebbe dovuto avere le mutandine. Perché quella don­na nel tappeto? Perché quell'altra? E perché la bambina? Il vecchio? I due ragazzi? Il vecchio era ignudo, senz'altro che la lunga barba bianca a coprire qualcosa di lui, il colmo del petto; stava al centro dei sette allineati ai piedi del monumento, non segnato da proiettili, ma livido nel corpo ignudo, e le grandi dita dei piedi nere, le nocche alle mani nere, le ginocchia nere, come se Io avessero colpito, così nudo, con armi avvelenate di freddo.
I due ragazzi, sul marciapiede all'ombra di largo Augusto, erano invece sotto una coperta. Una in due, e stavano in­sieme, nudi ì piedi fuori della coperta, e in faccia serii, non come morti bambini, con paura, con tristezza, ma serii da grandi, come i morti grandi vicino ai quali si trova­vano.
E perché, loro?
Il Gracco vide, dove lui era, Orazio e Metastasio. Con chi aveva parlato, nella vigilia dell'automobile, di loro due? Con l'uno o l'altro, egli aveva parlato tutta la sera, sempre conversava con chi si incontrava, e ora lo stesso parlava, conversava, come tra un uomo e un uomo sì fa, o come un uomo fa da solo, di cose che sappiamo e a cui pur cerchia­mo una risposta nuova, una risposta strana, una svolta di parole che cambi il corso, in un modo o in un altro, della nostra consapevolezza.
Li guardò, dal lato suo dell'angolo che passava attraverso i morti, e una piccola ruga venne, rivolta a loro insieme allo sguardo, in mezzo alle labbra di quella sua faccia dalle tempie bianche.
Grazio e Metastasio gli risposero quasi nello stesso modo. Come se lui avesse chiesto: E perché loro? Mossero nello stesso modo la faccia, e gli rimandarono la domanda: E perché loro?
LXIV. Ma c'era anche la bambina.
Più giù, tra i quattro del corso, dagli undici o dodici anni che aveva mostrava anche lei la faccia adulta, non di morta bambina, come se nel breve tempo che l'avevano presa e messa al muro avesse di colpo fatta la strada che la sepa­rava dall'essere adulta. La sua testa era piegata verso l'uo­mo morto al suo fianco, quasi recisa nel collo dalla scarica dei mitragliatori e i suoi capelli stavano nel sangue rag­grumati, la sua faccia guardava seria la seria faccia del­l'uomo che pendeva un poco dalla parte di lei. Perché lei anche?
Gracco vide passare un altro degli uomini che aveva cono­sciuto la sera prima, il piccolo Figlio-di-Dio, e fu un mi­nuto con lui nella sua conversazione eterna. Rivolse a lui il movimento della sua faccia, quella ruga improvvisa in mezzo alle labbra, quel suo sguardo d'uomo dalle tempie bianche; e Figlio-di-Dio fece per avvicinarglisi. Ma poi restò dov'era. Perché lei? il Gracco chiedeva. E Figlio-di-Dio rispose nello stesso modo, guardandolo. Gli rimandò lui pure la domanda: Perché lei? Perché? la bambina esclamò. Come perché? Perché sì! Tu lo sai e tutti lo sapete. Tutti lo sappiamo. E tu lo do­mandi?
Essa parlò con l'uomo morto che gli era accanto. Lo domandano, gli disse. Non lo sanno? Sì, sì, l'uomo rispose. Io lo so. Noi lo sappiamo. Ed essi no? la bambina disse. Essi pure lo sanno.
Vero, disse il Gracco. Egli lo sapeva, e i morti glielo dice­vano. Chi aveva colpito non poteva colpire di più nel se­gno. In una bambina e in un vecchio, in due ragazzi di quindici anni, in una donna, in un'altra donna: questo era il modo migliore di colpir l'uomo. Colpirlo dove l'uomo era più debole, dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la sua costola staccata e il cuore, scoperto : dov'era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all'uomo. Non voleva fargli paura? E questo modo di col­pire era il migliore che credesse di avere il lupo per fargli paura.
Però nessuno, nella folla, sembrava aver paura. Aveva paura il Gracco? O Figlio-di-Dio? Scipione? Barca Tartaro? Non potevano averne. O poteva averne Enne 2? Non poteva averne. Allo stesso modo ogni uomo ch'era nel­la folla non aveva paura. Ognuno, appena veduti i morti, era come loro, e comprendeva ogni cosa come loro, non aveva paura come non ne avevano loro. Avrebbe anche po­tuto essere stato con loro, la sera prima. Poteva anche con­versare col Gracco.
Il Gracco conversava, infatti, con ognuno. Era dinanzi ai morti, uno incontrava la sua faccia, e a lui veniva, nel mezzo delle labbra, quella piccola ruga. Perché, tu dici? Questo il Gracco diceva: Perché, tu dici? Perché? l'altro diceva. Certo che lo dico. Non debbo dirlo? Puoi dirlo se lo vuoi, diceva il Gracco. E la donna? l'altro diceva. Lo dico sì. Perché la donna? Oppure: Perché la bambina? Oppure: Perché questi due ragazzi? Diceva allora il Gracco: E quest'uomo no? Perché que­st'uomo?
Era un uomo di cui non si vedeva la faccia. Si vedevano le sue gambe, forti, coi lunghi muscoli di uomo nel fiore de­gli anni, le scarpe ai piedi messe senza le calze, e, per il resto, in mutande e camicia. Aveva scuri i polsi, e le mani chiuse di uno che stia stringendo i denti. Ma gli era stata gettata una giacca.
Perché? Era come per nascondere un tradimento che gli si fosse fatto, a lui nel fiore degli anni, peggiore che agli altri. Perché quest'uomo? diceva il Gracco. E quello che parlava con lui: Già. Perché? Il Gracco lo diceva di ognuno dei morti. Gli veniva la ruga in mezzo alle labbra, guardava, e quello guardava allo stesso modo. Ogni uomo morto era come la bambina, Una cosa si sapeva per tutti i morti, e se si cercava una ri­sposta nuova, parole che cambiassero il corso della nostra consapevolezza, non si poteva chiedere perché che pei tutti insieme.
LXV. Anche il Foppa[29], caro Scipione. Perché il Foppa ? Il piccolo Foppa, caduto ìn combattimento, era coi cinque morti dalla parte al sole di largo Augusto: tra essi l'unico che fosse del tutto vestito. Egli era caduto con le arali in pugno; non aveva dovuto chinare il capo sotto una scure. Chi, tuttavia, poteva dire che la sua morte fosse giusti­ficata?
Gracco s'incontrò con Scipione, davanti al Foppa, Si riconobbero? Forse no: uno poteva essere stato ìn una macchina, e uno nell'altra. Si guardarono senza sapere., for­se, che avevano combattuto insieme la sera prima: roa si par­larono, la ruga venne in mezzo alle labbra di Gracco, & vi fu un movimento sul volto dì Scipione. Parlarono del Foppa.
Perché il Foppa?
Egli amava andare al cinematografo, amava i cinesi, e di­ceva che tutto era più nutritivo del pane, persine Ì buchi da seta. La sua faccia era stata ferma e buona. Egli era sta­to un uomo pacifico, un uomo semplice. Perché, ora, era morto?
Avrebbe potuto non combattere: soltanto amare il cinema­tografo e i cinesi. Ma era stato costretto a combattere, ed era come la bambina ch'era stata tirata fuori dal letto e fucilata. Era la stessa cosa. Non meno di lei innocente, e la sua morte come quella di lei. Non meno ingiustificata. Lo stesso era Coriolano.
Morto anche lui con le armi in pugno, ma anche lui morto innocente, e la sua morte anche ingiustificata. SÌ poteva dire anche di lui: E perché lui? Era un uomo pacifico e sempli­ce, si portava dietro la compagna e i figlioli in tutti i suoi nascondigli, voleva abitare a tutti i costi con loro, e diceva die non avrebbe saputo far nulla senza avere un buco dove ogni giorno tornare e ritrovare la sua compagna, i suoi
Egli era morto perché era stato costretto a combattere. E perché era stato costretto a combattere? Lo disse il Gracco.
Vide Barca Tartaro come guardava lui morto, e vide che Barca Tartaro lo diceva. Lo dissero insieme: E perché lui? Era lui che aveva la morta bambina accanto. La testa di lei stava piegata dalla sua parte, ed era la sua la faccia che pendeva verso di lei. Il Gracco la riconobbe, vedendo Barca Tartaro che la guardava. Una volta era stata aperta e buo­na. Ciao, gli disse, in faccia. Ciao, il morto rispose.
Rispose ciao anche la bambina. Tutti i morti risposero ciao. E tutti avevano la stessa faccia.
Nulla più, là dentro, di aperto e di buono; o di fermo e di buono, di acuto e di buono, dì concentrato e di buono; come nulla di infantile o dì vecchio. Vi era soltanto serietà, e la ferocia che è della serietà: perdono ma vendetta insie­me, nel perdono stesso.
Dinanzi a questo, sembrava che nessuno dì chi guardava, ora, o di chi aveva guardato, distinguesse tra l'una e l'altra faccia. Ognuno, s'era uomo, era dinanzi a questo come dinanzi a un'unica famiglia trucidata. E poteva chiedere anche di Coriolano: Perché lui? Anche del Foppa: Perché lui? Poteva non distinguere tra la bambina e chi era caduto con le armi in pugno. Che cosa c'era da distinguere? Coriolano e il Foppa erano caduti come gli uomini validi cadono. No? disse il Gracco a Enne 2.
Con la sua bicicletta per mano Enne 2 passava tra i morti, tra un marciapiede e l'altro, e il Gracco vide il suo sguardo da lontano.
Questo è quello che pensiamo tutti, gli disse il Gracco. Non gli si avvicinò, ma la piccola ruga era di nuovo in mezzo alle labbra sulla sua faccia dalle tempie bianche. Gli disse; Non vi è da pensare altro. Enne 2, per non perderlo di vista, si era fermato. Non gli rispose niente, eppure il Gracco vide ch'era anche lui un uomo pacifico e semplice, malgrado la sua faccia disperata. Pensava quello che tutti pensavano.

Al di là del ‘mito’ resistenziale, non tutto nella resistenza è stato eroico: in tal senso è opportuno, onde evitare ritratti oleografici, riportare due passi di due lucide coscienze della letteratura del neorealismo, Cesare Pavese ed Italo Calvino.

L’arresto di Cate
Da La casa in collina
[30] di Cesare Pavese[31]
· Il brano contiene la narrazione dell’arresto di Cate e degli altri partigiani.
· Corrado, che assiste da lontano alla scena, immobilizzato dalla paura, riesce a fuggire con l’aiuto di Elvira, l’anziana signorina presso la quale vive ed evita di essere anch’egli catturato.
· La novità del romanzo sta nell’aver scelto un personaggio che ha i tratti dell’antieroe. I suoi attributi sono, infatti, il disimpegno, la paura e la fuga. L’io narrante non cerca giustificazioni né si costruisce alibi, ma evidenzia tutte le sue debolezze, si guarda, si trova colpevole e si accusa impietosamente. Il romanzo pertanto assume i tratti di un esame di coscienza lucida e terribile, ma anche estremamente coraggioso, soprattutto se si pensa che il personaggio è la proiezione autobiografica dell’autore il quale racconta il suo dramma interiore di uomo e di intellettuale di fronte alla Resistenza che per lui è una scelta mancata.
· L’articolazione del racconto è basata sulla successione di frasi brevi e su frequenti ripetizioni che creano un effetto di monotonia voluta.

Seguì una notte di tiepida pioggia che liberò la primavera. L’indomani nel sereno stillante si respirava un odore di terra. Passai metà della mattina nei boschi, nella conca sul sentiero del Pino ritrovando i muschi e i vecchi tronchi. Mi parve ieri che c’ero salito con Bino, mi chiesi per quanto tempo ancora sarebbe stato il mio solo orizzonte, e guardavo il ciclo fresco come una vetrata di chiesa. Belbo correva al mio fianco.
Tornando passai per una cresta da cui si dominava il versante delle Fontane. Molte volte con Dino avevamo cercato di lassù lo stradone e la casa. Quel giorno fra i tronchi spogli, vidi subito il cortile, e vidi due automobili ferme, color verde-azzurro, e intorno figurine umane dello stesso colore. Provai un senso di nausea, di gelo, tentai di dirmi ch’eran gli uomini di Ponsò, 10 mi parve che il sole si fosse coperto. Guardai meglio; non c’erano dubbi, vidi i fucili nelle mani dei soldati.
Per qualche secondo non mi mossi; fissavo la conca, il ciclo terso, il gruppetto laggiù; non pensavo a me stesso, non ebbi paura. Mi sbalordì il modo inatteso che hanno le cose di accadere; avevo visto tante volte quella casa dall’alto, mi ero pensato in ogni sorta di pericoli, ma una scena così - vista dal ciclo nel mattino - non l’avevo preveduta.
Ma il tempo stringeva. Che fare? Potevo far altro che attendere? Avrei voluto che ogni cosa fosse finita, fosse già ieri: il cortile deserto, le automobili scomparse. Pensavo a Cate, se era scesa a Torino, se la stavano arrestando a Torino. Pensai di accostarmi, di sentire le voci. Mi riprese quel senso di nausea. Era evidente che dovevo correre subito a Torino, rischiare ogni cosa. Sperai vagamente che fosse rimasta.
Nel cortile si agitavano. Vidi gonne, abiti borghesi, non distinsi le facce. Salivano sulle automobili. Di casa uscirono soldati, salirono anche loro. Riconobbi la vecchia. «Bruceranno la casa?» pensavo. Poi, remoto, mi giunse lo scoppio dei motori che si allontanavano.
Passò del tempo. Non mi mossi. Di nuovo, tutto era terso e tranquillo. «Se hanno preso la vecchia» pensavo, «hanno preso tutti». Mi accorsi di Belbo, che, accucciato ai miei piedi, ansimava. Gli dissi: «Laggiù» e lo sospinsi col piede. Lui saltò sulle zampe abbaiando. Per la paura mi ritrassi dietro un tronco. Ma Belbo era già partito come una lepre.
Lo vidi arrivare trotterellando per la strada. Lo vidi entrare nel cortile. Mi ricordai quella notte d’estate che alle Fontane si cantava e tutto doveva ancora succedere. Col cuore sospeso tesi l’orecchio e spiavo se qualcuno era rimasto laggiù. Belbo, piantato nel cortile, riprese ad abbaiare, contro la porta, provocante. Si udì il canto di un gallo, strepitoso e lontano; si udì dalla strada del Pino il cigolio di carri in condotta.
Il cortile era sempre deserto. Poi vidi Belbo che saltava e aveva smesso di latrare; saltava intorno a qualcuno, a un ragazzetto, Dino, sbucato da sotto la siepe. Li vidi scendere in strada e incamminarsi insieme sul sentiero che avevo percorso tante volte rientrando. Senza dubbio era Dino. Riconobbi la rossa sciarpa che portava sul soprabito, il passo trottante. Mi misi a correre fra sterpi e foglie marce, mi scansavo e battevo nei rami bagnati, correvo come un pazzo; la paura, l’orgasmo, la smania, diventarono corsa affannosa. Da una radura vidi ancora le Fontane, il cortile tranquillo. Non c’era nessuno. Incontrai Dino a mezzacosta. S’arrampicava con le mani in tasca. Si fermò rosso in faccia e ansimando. Non mi pareva spaventato. «I tedeschi» mi disse. «Sono venuti stamattina in automobile. Hanno dato dei pugni a Nando. Volevano ucciderlo...». «La mamma dov’è?».
Anche Cate era presa. Anche il vecchio Gregorio. Tutti. Lui e la mamma uscivano per andare a Torino e li avevano visti arrivare. Non avevano fatto in tempo a voltarsi che già i tedeschi eran saltati correndo nel cortile. Puntavano dei fucili corti, gridando. La mamma tremava. Nando faceva colazione e non aveva più finito. C’era ancora la scodella sul tavolo. «Sono entrati in cantina?».
Un tedesco aveva preso una cesta di bottiglie. Si, Nando l’aveva picchiato in cantina, si sentiva urlare. Avevano trovato le casse e i fucili. Gridavano in tedesco. Li comandava un ometto in borghese, che parlava italiano. La moglie di Nando era caduta per t’erra. A lui la mamma aveva detto che cercasse di nascondersi, poi venisse da me a dirmi tutto. Ma avrebbe voluto restare con gli altri, salire anche lui in automobile; era venuto avanti e i tedeschi non l’avevano lasciato salire. Allora la mamma gli aveva fatto gli occhiacci e lui era scappato nel campo e la nonna chiamava, gridava. Tanto valeva nascondersi. «Ti ha detto di dirmi qualcosa?».
Dino disse di no e si rimise a descrivere quel che aveva veduto. L’uomo in borghese aveva chiesto a chi servivano le stanze di sopra. Quanti venivano di sera all’osteria. Poi parlava in tedesco con gli altri.
Arrivammo al cancello. Dino disse che aveva già mangiato e che s’era riempito le tasche di mele. Per tutta la strada io pensai alle ville nascoste nei parchi, e che nessuna era sicura per nascondersi.
Ma sulla porta ci aspettava l’Elvira. S’era messa il mantello e aspettava. Era scura, nervosa. Mi corse incontro e più rossa del fuoco balbettò senza voce: «Ci sono i tedeschi».
«Lo so già» volli dirle, ma un suo gesto di prendermi il braccio e tirarmi in disparte senza nemmeno fare caso a Dino, mi spaventò. Non era rossa per pudore, aveva gli occhi costernati. «Sono venuti due tedeschi» disse ansando, «hanno detto il suo nome... Sono entrati... hanno visto la stanza...». Fu più che una nausea, mi si disciolsero le gambe. Dissi qualcosa, non usci la voce.
«Un’ora fa» disse l’Elvira bassa e rauca, «non sapevo dove era... non volevo che l’aspettassero. Gli ho scritto su un foglio la scuola e la via. Ci sono andati... Ma ritornano, ritornano...». Oggi ancora mi chiedo perché quei tedeschi non mi aspettarono alla villa mandando qualcuno a cercarmi a Torino. Devo a questo se sono ancora libero, se sono quassù. Perché la salvezza sia toccata a me e non a Gallo, non a Tono, non a Cate, non so. Forse perché devo soffrire dell’altro? Perché sono il più inutile e non merito nulla, nemmeno un castigo? Perch’ero entrato quella volta in Chiesa? L’esperienza del pericolo rende vigliacchi ogni giorno di più. Rende sciocchi, e sono al punto che esser vivo per caso, quando tanti migliori di me sono morti, non mi soddisfa e non mi basta. A volte, dopo avere ascoltato l’inutile radio, guardando dal vetro le vigne deserte penso che vivere per caso non è vivere. E mi chiedo se sono davvero scampato.
Quel mattino non stetti a pensare. Un sapore di morte mi riempiva la bocca. Saltai nel sentiero dietro i boschi; dissi all’Elvira sul cespuglio che desse i miei soldi e il libretto di banca al ragazzo, io correvo ad aspettarlo nella conca delle felci. Dissi a Dino di fare attenzione che non lo seguissero. Gli dissi di andare al cancello e guardare.
Ai tedeschi, raccomandai all’Elvira, bisognava rispondere che sovente passavo settimane a Torino e che lei non sapeva dove. Dino gridò. Disse: «C’è un uomo».
Mi appiattii sulla ghiaia bagnata. Tornò l’Elvira e bisbigliò: «Non era niente. Un carretto che passa».
Allora dissi «Siamo intesi», e mi salvai.
Arrivai tra le felci ch’ero tutto sudato. Non mi sedetti. Passeggiavo avanti e indietro per sfogarmi. Fra gli alberi spogli s’apriva il grande cielo, leggero, mai visto così. Compresi cos’è il cielo per i carcerati. Quel sapore di sangue che m’empiva la bocca m’impediva di pensare. Guardai l’orologio. Mi pentii di aver promesso di aspettare. Quell’attesa era orribile. Tendevo l’orecchio se sentivo abbaiare dei cani, sapevo che i tedeschi usano i cani poliziotti. «Purché Belbo non venga a cercarmi» dicevo, «sono capaci di seguirlo».
Poi cominciarono i sospetti e le questioni. Se i tedeschi arrestavano l’Elvira e la madre, la madre diceva certo ch’ero qui. Avrei voluto ritornare e supplicarle. Ripensai quanti torti avevo fatto all’Elvira. Mi chiesi se Dino le aveva già detto dei suoi arresti e dei fucili. Mi calmò un poco ricordarmi che fucili da me non ne avevano nemmeno cercati.
Così passavo quell’attesa, appoggiandomi ai tronchi, parlando tra me, passeggiando, seguendo la luce. Mi venne fame, guardai l’orologio, erano le undici e dieci. Aspettavo da solo mezz’ora. A Cate, a Nando, a tutti gli altri non osavo pensare, quasi per darmi un attestato d’innocenza. A un certo punto mi scrollai, mi feci schifo. Per la terza volta pisciai contro un tronco. Dino arrivò due ore dopo, insieme all’Elvira, che s’era messo il velo nero sul capo come quando tornava da messa. «Non si è visto nessuno» mi dissero. Portavano un pacco e un pacchetto più piccolo. «C’è da mangiare e c’è la roba» disse lei. La roba erano calze, fazzoletti, il rasoio. «Siete matti» strillai. Ma l’Elvira mi disse che ci aveva pensato, che mi aveva trovato un bel rifugio sicuro. Era oltre il Pino, in pianura, il collegio di Chieri, una casa tranquilla con letti e refettorio. «C’è un bel cortile e fanno scuola. Starà bene» mi disse. «Qui c’è una lettera del parroco. È una scuola di preti. Tra loro s’aiutano, i preti».
Parlava tranquilla, non più spaventata. Anche il rossore era scomparso. Tutto avveniva naturale, consueto. Ripensai quelle sere che le dicevo «Buona notte». «E Dino?» dissi.
Per ora restava con loro. Disse: «Ci siamo già spiegati» guardandolo appena, e lui fece di sì col mento.
La stanchezza, il sapore di sangue tornavano a invadermi. Mi si annebbiarono gli occhi. Galleggiavo dentro un mare di bontà, di terrore, e di pace. Anche i preti, e il perdono cristiano. Cercai di sorridere ma la faccia non mi disse. Brontolai qualcosa, che rientrassero su che soprattutto non venissero a cercarmi. Presi i pacchi e partii.
Mangiai nei boschi e verso sera ero entrato nel collegio per una viuzza fuori mano. Nessuno aveva veduto. Giurai, se potevo, di non uscirne mai più.

Andato al comando
da I racconti
[32] Italo Calvino[33]
· Il racconto è una tragica passeggiata: un partigiano ha preso una spia e si accinge a portarla al Comando, dove lo fucileranno come già è accaduto ad altre spie della zona. Ma ad un certo punto il partigiano è attratto dalle scarpe del suo prigioniero (le scarpe del partigiano sono scalcagnate e tutte buchi) e con un pretesto se le fa dare; poi, fingendo di puntargli contro l’arma per gioco, lo uccide.
· L’ambiente della vicenda ha l’aspetto di quell’interno ligure in cui è collocato anche il famoso romanzo resistenziale di Calvino, ‘Il sentiero dei nidi di ragno’.
· L’essenza del racconto è costituita dalla situazione psicologica dei due personaggi che giocano ognuno nei confronti dell’altro un gioco nascosto: il partigiano, che sa la fine che aspetta la spia, gli lascia tuttavia credere che, appurata la sua innocenza, al Comando lo rilasceranno; la spia che, mentre sostiene la propria estraneità alle delazioni, pensa come si farà bello al Comando tedesco per aver ingannato il partigiano, e intanto, di tempo in tempo, sprazzi di terrore lo attanagliano.

Il bosco era rado, quasi distrutto dagli incendi, grigio nei tronchi bruciati, rossiccio negli aghi secchi dei pini. L’uomo armato e l’uomo senz’armi se ne venivano a zig-zag tra gli alberi, scendendo.
«Al comando, - diceva quello armato. - Al comando, andiamo. Mezz’ora di cammino a dir tanto.»
«E poi?»
«Poi cosa?»
«Dico se poi mi lasciano andare» fece l’uomo disarmato; a ogni risposta si metteva in ascolto, sillaba per sillaba, come cercasse una nota falsa.
«Certo che vi lasciano andare, - disse l’armato. - Io do il documento del battaglione, segnano sul registro e allora potete tornare a casa.»
Il disarmato scuoteva il capo, faceva il pessimista.
«Eh, son cose lunghe, capisco... » diceva, forse solo per sentirsi ripetere:
«Vi lasceranno subito, vi dico».
«Facevo conto, - aggiunse, - facevo conto d’essere a casa per stasera. Pazienza».
«Io dico che ci arriverete, - rispose l’armato. - Il tempo che loro facciano il verbale, poi vi lasciano. Bisogna bene che cancellino il vostro nome dal registro delle spie.»
«Avete il registro delle spie?»
«Sicuro che l’abbiamo. Tutti quelli che fanno la spia, noi lo sappiamo. E uno per uno li prendiamo».
«E c’è il mio nome segnato sopra?»
«Già. C’era anche il vostro nome. Ora bisogna bene che lo cancellino, se no rischiate d’esser preso di nuovo».
«Allora bisogna proprio che vada io là, che spieghi a loro tutta la storia.»
«Ecco che stiamo andando. Bisogna bene che vedano, che controllino.»
«Ma ormai, - disse l’uomo senz’armi, - ormai lo sapete che sono dei vostri, che non ho mai fatto la spia.»
«Appunto. Ormai lo sappiamo. Ormai siete tranquillo.»
Il disarmato annuiva e si guardava intorno. Erano in una grande radura, con pini e larici magri, uccisi dagli incendi, ingombra di rami caduti. Avevano abbandonato, ritrovato e riperso il sentiero, andavano come a caso per i pini radi, traversando il bosco. Il disarmato non riconosceva i luoghi, la sera saliva con lame sottili di nebbia, in basso il bosco s’infoltiva dentro il buio.
L’allontanarsi dal sentiero lo faceva inquieto; provò - visto che l’altro sembrava camminasse a caso - provò a piegare verso destra, dove forse il sentiero proseguiva: l’altro piegò anche lui a destra, come a caso. Se lui si rimetteva a seguirlo, riprendeva a sinistra o a destra, secondo com’era più agevole il cammino.
Si decise a domandare: «Ma dov’è il comando?»
«Ci andiamo, - rispose l’armato. - Ora lo vedrete.»
«Ma in che luogo, in che regione, pressappoco?»
«Come si fa a dire? - rispose. - Il comando non si dice che è in un luogo, in una regione. Il comando è dov’è il comando. Voi capite.»
Capiva; era un uomo che capiva le cose, il disarmato. Pure chiese: Ma non c’è una strada, per andarci?»
L’altro rispose: «Una strada. Voi capite. Una strada va sempre in qualche luogo. Al comando non si va per le strade. Voi capite.»
Il disarmato capiva, era un uomo che capiva le cose, un uomo astuto.
Chiese: «Voi ci andate spesso al comando?»
«Spesso, - disse l’armato. - Spesso, ci vado.»
Aveva una faccia triste, senza sguardo. Conosceva poco i luoghi: sembrava, ogni tanto, che si fosse smarrito, e pure continuava a camminare come non gli importasse.
«È perché siete di turno per la corvè, quest’oggi, che v’hanno mandato a accompagnarmi?» chiese il disarmato, studiandolo.
«È un lavoro che spetta a me, l’accompagnarvi, - rispose - Accompagno io la gente al comando.»
«La staffetta, siete?»
«Ecco, - disse l’armato, - la staffetta.»
«Una strana staffetta, - pensava il disarmato, - che non conosce i luoghi. Ma, - pensava, - oggi non vuole passare per le strade perché io non capisca dov’è il comando, perché non si fidano di me». Brutto segno, che non si fidassero ancora di lui; il disarmato s’ostinava a pensare questo.
Ma c’era, in questo brutto segno, una sicurezza, che davvero lo stessero conducendo al comando e volessero lasciarlo libero, e al di fuori di questo brutto segno un segno più brutto ancora, c’era il bosco che si faceva più fitto e da cui non s’accennava a uscire, c’era il silenzio, la tristezza di quell’uomo armato.
«Il segretario l’avete pure accompagnato al comando? E i fratelli del mulino? E la maestra?» Fece questa domanda d’un fiato, senza rifletterci, perché era la domanda decisiva, che significava tutto: il segretario comunale, i fratelli, la maestra, erano tutta gente portata via, mai più tornata, di cui mai più nulla s’era saputo.
«Il segretario era un fascista, - disse l’armato, - i fratelli erano nella milizia, la maestra era nelle ausiliarie.»
«Dicevo così per sapere, visto che non sono tornati più indietro.»
«Dico, - insisté l’armato. - Loro erano quello che erano. Voi siete quello che siete. Non c’è da far confronti.»
«Certo, - fece l’altro, - non c’è da far confronti. Solo chiedevo cosa ne è stato, così, per curiosità.»
Si sentiva sicuro di sé, il disarmato, enormemente sicuro di sé. Era l’uomo più astuto del paese, era difficile fargliela. Gli altri, segretario e maestra, non erano più tornati: lui sarebbe tornato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Partisan niente kaputt me. Io kaputt tutti partisan». Forse il maresciallo si sarebbe messo a ridere.
Ma il bosco bruciato era interminabile e i pensieri dell’uomo erano fasciati di sconosciuto e di oscuro, come zone di radura in mezzo a un bosco.
«Io non so bene del segretario, di tutti quegli altri. Faccio la staffetta io.»
«Ma al comando lo sapranno, - insisteva il disarmato.»
«Ecco. Lo domanderete al comando. Là lo sanno.»
Si faceva sera. Bisognava camminare guardingo, in mezzo alla brughiera, badando come metteva i passi, per non scivolare su sassi nascosti sotto i cespugli fitti. E badare come si mettevano i pensieri, uno dietro l’altro, nel fitto dell’inquietudine, per non trovarsi a un tratto sepolto di paura.
Certo, se lo avessero creduto una spia non l’avrebbero lasciato così nel bosco, solo con quell’uomo che sembrava non gli badasse nemmeno; avrebbe potuto scappargli tutte le volte che avesse voluto. Se lui tentava di fuggire, cosa avrebbe fatto, l’altro?
Il disarmato cominciò, scendendo in mezzo agli alberi, a prendere un po’ di distanza, a piegare a destra quando quello piegava a sinistra. Ma l’armato continuava a camminare quasi senza badargli, e scendevano così per il bosco rado, distanti ormai l’uno dall’altro. Talora anche si perdevano di vista, nascosti da tronchi, da cespi di arbusti, ma a tratti il disarmato tornava a vedere l’altro sopra di lui che sembrava non gli badasse e pure gli teneva sempre dietro, a distanza.
«Se mi lasciano libero un momento, è la volta che non mi pigliano più», aveva pensato fin allora il disarmato. Ma ora si sorprese a pensare: «Se faccio tanto da riuscire a scappargli, è la volta...» E già vedeva nella sua mente i tedeschi, tedeschi a colonne, tedeschi su camion e autoblinde, visione di morte per gli altri, di sicurezza per lui, uomo astuto, uomo a cui nessuno poteva farla.
Erano usciti dalle radure e dalle brughiere, erano entrati nel bosco fitto e verde, risparmiato dagli incendi: il suolo era coperto d’aghi secchi di pino. L’uomo armato era rimasto indietro, forse aveva preso un altro cammino. Il disarmato allora, cauto, con la lingua tra i denti, affrettò il passo, si spinse più nel folto, cacciandosi giù per i dirupi, tra i pini. Stava scappando: se ne accorse. Allora ebbe paura; ma comprese che ormai s’era allontanato troppo, che l’altro s’era certo accorto del suo voler scappare e certo lo stava inseguendo: non c’era che continuare a correre, guai se ricascava a tiro dell’altro, adesso che aveva tentato di fuggire.
Si voltò a un calpestio sopra di sé: a pochi metri c’era l’uomo armato che se ne veniva col suo passo calmo, indifferente. Aveva l’arma in mano. Disse: «Di qua ci dev’essere una scorciatoia, - e gli fece cenno di precederlo.»
Allora tutto tornò come prima: un mondo ambiguo, tutto in male o tutto in bene: il bosco che invece di finire, s’infittiva, quell’uomo che quasi lo lasciava scappare senza dir niente.
Chiese: «Ma non finisce mai, questo bosco?»
«Appena girata la collina ci siamo, - disse l’altro. - Coraggio, che stanot­te siete a casa.»
«Così, senz’altro mi lasceranno andare a casa? Dico, non vorranno tenermi lì come ostaggio, per esempio?»
«Non siamo mica tedeschi, noi, da prendere degli ostaggi. Tutt’al più potranno prendervi gli scarponi, per ostaggio, che siamo tutti mezzo scalzi.»
L’uomo prese a brontolare come se gli scarponi fossero la cosa per cui temesse più che tutto, ma in fondo ci si rallegrava: ogni particolare della sua sorte, in bene o in male, serviva a ridargli un po’ di sicurezza.
«Sentite, - disse l’armato, - visto che ci tenete tanto, facciamo così: mettetevi i miei, di scarponi, fin tanto che siamo al comando, che i miei sono tutti rotti e non ve li pigliano. Io mi metto i vostri e quando vi accompagno indietro ve li rendo.
Ora anche un bambino avrebbe capito che era tutta una storia. L’uomo armato voleva i suoi scarponi, ebbene, il disarmato gli avrebbe dato tutto quel che voleva, era un uomo che capiva, lui, era contento di cavarsela così a buon mercato. «Io grande kamarad, - avrebbe detto al maresciallo. - Io dato loro scarpe e loro lasciato me andare». Il maresciallo forse gli avrebbe fatto avere un paio di stivaletti come i soldati tedeschi.
«Allora voi non tenete nessuno: ostaggio, prigioniero? Nemmeno il segretario comunale e gli altri?» «Il segretario aveva fatto prendere tre nostri compagni; i fratelli facevano i rastrellamenti con la milizia, la maestra andava a letto con quelli della Decima.»
L’uomo disarmato si fermò. Disse: «Non credete mica che sia una spia anch’io. Non mi avete portato mica qui per ammazzarmi» -e scoprì un po’ i denti, come per sorridere
«Se vi credessimo una spia, - disse l’armato, - non starei tanto a far così».
Tolse la sicurezza all’arma.– E’ così». La puntò alla spalla, fece l’atto di sparargli addosso.
«Ecco, - pensava la spia, - non spara».
Ma l’altro non abbassava l’arma, schiacciava il grilletto, invece.
«A salve, a salve spara», fece in tempo a pensare la spia. E quando sentì i colpi sferrati addosso a lui come pugni di fuoco che non si fermavano più, riuscì ancora a pensare: «Crede d’avermi ucciso, invece vivo».
Cascò con la faccia al suolo e l’ultima cosa che vide fu un paio di piedi calzati coi suoi scarponi che lo scavalcavano.
Così rimase, cadavere nel fondo del bosco, con la bocca piena d’aghi di pino. Due ore dopo era già nero di formiche.

Una voce femminile della Resistenza: Renata Viganò
Nelle valli di Comacchio
da L’Agnese va a morire
[34] di Renata Viganò[35]
La neve continuò a venir giù sulla valle. L’acqua appariva più grigia per la bianchezza pesante dei «dossi», dei tetti carichi. Gli isolotti non erano più terra, ma neve, pareva che dovessero sprofondare, disfarsi, scomparire nel grigio. Anche le case bianche sembravano incompiute e provvisorie, senza fondamenta, galleggianti con tutto il loro peso di neve e di gente nascosta.
Davano il senso di barconi ancorati, non saldi, che da un momento all’altro potevano mettersi in moto, sfasciarsi in un naufragio tranquillo.
Gli uomini della «caserma» di Clinto stavano stretti là dentro, in pochi metri cubi d’aria densa, col silenzio più oppressivo del rumore; un deserto dove non si poteva camminare, uno spazio senza respiro. Stavano là dentro, mangiavano, dormivano, vivevano. Erano ancora vivi, in mezzo a un mondo senza vita, e gli occhi guardavano un paesaggio privo di colore, come nei sogni, e non lo vedevano più. Bianco e grigio in silenzio. Ma anche di questo non si moriva.
L’unica gioia: l’arrivo delle barche. Spuntavano, una, due, cose nere che crescevano, prendevano forma, sembravano nascere a poco a poco dall’acqua, dalla neve. Un miracolo di tutti i giorni. I partigiani si ammassavano contro le finestre, si litigavano il posto, s’insultavano. Bisognò fare i turni: a chi toccava vedere arrivare le barche.
L’unica speranza: la venuta del Comandante, o di una staffetta, che portasse l’ordine dell’azione, la partenza per la battaglia. Mangiavano, dormivano, vivevano. Stavano là dentro, stretti al caldo nelle stanze della casa coperta di neve. Erano al sicuro. Ma tutti volevano andar via, andar fuori, nell’acqua, nel freddo, contro i proiettili tedeschi, contro la morte delle armi tedesche. Per rivedere il disegno della terra, delle strade, dei paesi, per ritrovare il rumore, la forma della vita, anche nei luoghi dove veniva data la morte. Per cambiare colore davanti agli occhi. Non più solo bianco e grigio, ma anche nero, anche rosso, anche sangue.
Invidiavano quelli di un’altra «caserma» più al largo nella valle, che di notte, tornando su sei barconi dopo una azione in una base di «brigate nere», si scontrarono con le motobarche tedesche. Udirono i motori da lontano, un battere pigro nella nebbia, si dissero una parola, da barca a barca: - Attacchiamo? - Attacchiamo -. I vogatori tirarono su i remi, la fila si fermò, dondolando sull’acqua scura. Non si vedeva niente. Cominciava a piovere piano, aghi freddi di pioggia sulle mani, sulla faccia. Le motobarche venivano avanti, si sentivano più forte i motori, erano nella direzione giusta. Gli orecchi esperti degli uomini della valle scoprivano il loro procedere, come se fosse giorno, e senza nebbia. Una voce, dal primo barcone, ordinò: - Fatevi più a destra, ci arrivano addosso -. Il comando fu trasmesso alle altre barche; subito si mossero, in tempo perché svanisse ogni strepito di remi, e fossero di nuovo nascoste dietro cortine nere, nell’onda muta della pioggia. Quando la prima motobarca passò vicino, rimasero immobili, aspettarono che tutta la formazione si distendesse in riga contro i barconi. Nel buio si accesero le fiamme degli spari, un muro di fuoco, una scarica paurosa che aggredì le motobarche di fianco, le sbandò come un urto, picchiò insieme alla pioggia sui tedeschi a bordo, fitti ed invisibili. Quelli che non caddero alla prima ondata misero in azione le mitragliatrici, i nastri cominciarono a scorrere vibrando, l’aria fu piena di vampe incrociate. Barconi e motobarche non si vedevano, tutti sparavano contro gli spari nemici. Ma dietro ognuno di quegli spari stava un uomo, e spesso veniva colpito. Allora, in quel punto, cessavano per un momento gli scoppi rossi, finché un altro uomo non occupava il vuoto. Armi contro armi, galleggianti sul nero della valle, sul nero del ciclo: e su tutto la pioggia, che aumentava, diventava un tessuto ondeggiante, inondava le barche, i cappotti, le ferite, i corpi rovesciati, le facce senza vita, le armi che sparavano; bagnava la neve sui «dossi», la disfaceva sugli argini, intorno alla battaglia, come per cancellarla, acqua nell’acqua. Un barcone partigiano andò a picco. Chi riuscì, si salvò a nuoto. Anche due motobarche affondarono, con il loro peso umano, forse già tutto morto. Una aveva una fiammata accesa a prora, una lingua azzurra che si spense friggendo come un fiammifero immerso in un bicchiere pieno. Le altre cinque aumentarono il rombare del motore, si scostarono, fuggivano. Si videro più distante i fuochi a catena delle mitragliatrici. I partigiani, radi, tiravano ancora. Poi le mitragliatrici tedesche tacquero dopo una raffica lunga, un ultimo passaggio di morte sui barconi. Sempre più radi, i partigiani spararono al buio contro il battere ormai lontano dei motori, pigro come prima, nel silenzio riconquistato.
Quelli di guardia alla «caserma» di Clinto udirono, in piena notte, quel rimbombo di scoppi, come una riga di rumore sull’orizzonte cieco: svegliarono i compagni. Stettero un poco in ascolto, ma anche il fronteparte opposta. Dissero: - È l’eco del fronte, - e si rimisero a dormire. Lo seppero il giorno dopo, quando venne il Comandante, che c’era stata battaglia in acqua, e fu allora che invidiarono lui e i partigiani dei barconi, l’ora di quella notte, il sentirsi vivi dopo quell’ora, e il ritorno nell’alba, anche con undici feriti, e un barcone perduto, e sette uomini di meno in brigata.
Note
[1] Alla scoperta dell’Italia reale: il Neorealismo – Il fenomeno neorealista è uno dei più complessi e sfuggenti della cultura italiana del Novecento. È difficile darne una definizione univoca, fissarne con esattezza i limiti cronologici, enuclearne con precisione la poetica infine indicare con sicurezza gli scrittori che possono essere considerati neorealisti anche perché il neorealismo non si definì, non elaborò mai un manifesto programmatico, non fu una scuola. Questo spiega perché scrittori diversissimi[1] possono essere definiti come neorealisti.
Esistono molti problemi di classificazione:
1. Problemi di differenze di generazione e di formazione come nel caso di Pavese, Moravia e Vittorini[1] la cui formazione avvenne durante il Fascismo, mentre Calvino e Fenoglio appartenevano alla generazione successiva.
2. Problemi contenutistici come antifascismo, meridionalismo, lotta armata (Resistenza), Liberazione, ricostruzione del dopoguerra, formano un continuum tematico tanto variegato, complesso ed articolato, che la presenza di tali tematiche in un’opera la definisca con sicurezza neorealista[1].
3. Problemi formali perché un testo letterario si crea nel punto di incontro fra livelli tematico-ideologici e formali per cui è fondamentale studiare i modi in cui determinati temi sono formalizzati in una determinata struttura narrativa.
Infine, una questione importante è quella della continuità-rottura che si coagula intorno alla Resistenza, ossia la questione del significato della Resistenza nella storia italiana, del modo in cui la Resistenza ha influenzato l’itinerario degli scrittori italiani.
Nel 1933 la rivista L’universale (1931-1936) pubblicò il Manifesto realista, che chiamava la cultura italiana a dare il proprio contributo alla rivoluzione fascista, un contributo critico di dissenso antiborghese, anticapitalistico, antiidealistico e dunque realistico, fuori della logica del Concordato con la chiesa. Anche gli intellettuali de Il Bargello rivendicavano spazi di autonomia all’interno del Fascismo, in nome della cultura popolare e del rilancio degli aspetti sociali del primo Fascismo.
Gli intellettuali de L’universale e de Il Bargello, pur essendo fascisti, criticano la fisionomia che va assumendo il regime: essi sono contrari alla filosofia di Giovanni Gentile, legata alla visione del mondo liberale, sono contro l’imborghesimento del movimento fascista, esprimono idee anticapitaliste, si richiamano alle origini rivoluzionarie del Fascismo, lo stesso Mussolini era stato socialista rivoluzionario ed il primo Fascismo era ricco di suggestioni socialisteggianti.
La base sociale di tali atteggiamenti anticapitalistici era costituita dai reduci, da quelli che avevano duramente combattuto nella prima guerra mondiale e, al ritorno in patria, si trovavano a fare i conti con la miseria, con la disoccupazione, e a prendere atto che una ristretta classe di capitalisti si era invece arricchita grazie alla guerra.
Intorno a L’universale e a Il Bargello si raccolgono i fascisti di sinistra che riprendono la polemica anticapitalista de Il Selvaggio, intendono mantenere viva la dialettica all’interno del Fascismo e l’autonomia della base nei confronti dei quadri dirigenti.
L’universale e Il Bargello, a differenza di Solaria, sostengono l’intervento della cultura, l’influenza della cultura sulla politica. Ma esistono rapporti fra Solaria da una parte, e L’universale e Il Bargello dall’altra parte, ed è proprio l’interesse per il romanzo che crea contatti fra queste posizioni culturali.
E infatti Elio Vittorini (1908-1966), che collaborava a Il Bargello, pubblicò a puntate fra il 1933 e il 1934 su Solaria il suo primo romanzo, Il garofano rosso, storia di uno studente borghese che disprezza la sua classe, è attirato dagli operai, viene da loro respinto, proprio in quanto borghese. La censura vietò il romanzo, giacché questo studente vive il crollo dello stato liberale non certo in maniera eroica, adatta alla Italia luminosa fascista, ma in maniera critica e antiborghese. Quando l’Italia appoggiò il moto reazionario di Franco, Vittorini si allontanò dal Fascismo di sinistra e scrisse di getto Conversazione in Sicilia, in cui il protagonista torna in Sicilia, suo luogo natale, e attraverso una continua conversazione con la madre, con la gente del popolo, attraverso una rivisitazione del paesaggio siciliano, popolato da uomini che soffrono rassegnati, egli riscopre il valore dell’essere umano e prende atto dell’offesa che all’uomo arrecano la discriminazione sociale, la miseria, l’oppressione del potere.
Chiaro punto di riferimento di Vittorini è il romanzo Gente in Aspromonte (1930) di Corrado Alvaro (1895-1956), che racconta la lotta di un ragazzo calabrese, figlio di poveri pastori, contro i ricchi possidenti. Gente in Aspromonte e Conversazione in Sicilia hanno come scenario la Calabria e la Sicilia, cioè il Meridione d’Italia. E infatti i due romanzi occupano un posto di grande rilievo nella narrativa meridionalistica, che ha notevole rilievo nel realismo degli anni Trenta.
A tale narrativa meridionalistica appartiene anche Don Giovanni in Sicilia (1941), di Vitaliano Brancati (1907-1954). Brancati era stato dannunziano, fascista, e poi, grazie all’amicizia con Alvaro e Moravia, si avvicinò all’antifascismo. Il registro stilistico di Don Giovanni in Sicilia non è lirico, come in Gente in Aspromonte e in Conversazione in Sicilia, ma fortemente ironico. Si tratta della ironica descrizione della vita in una città siciliana, delle abitudini e dei miti dei suoi abitanti piccolo-borghesi, soprattutto dei giovani, fieri della loro mascolinità, che sognano l’avventura o il matrimonio con la donna nordica, ma con risultati deludenti.
Più importante è l’opera di Ignazio Silone (1900-1979), soprattutto il suo romanzo Fontamara (1934), definito da Luigi Russo "il poema epico-drammatico della plebe meridionale, in cui per la prima volta questa assurge a protagonista di una storia, acquista un volto."[1] In un paese dell’Abruzzo i contadini, i cafoni, prendono progressivamente coscienza di quanto essi vengano sfruttati ed offesi dai ricchi proprietari, sostenuti dai fascisti. Il romanzo è importante per diverse ragioni. In primo luogo fu scritto nel 1930 in esilio (a Davos), al fine di testimoniare al mondo la reale condizione del popolo italiano dietro la cortina che il Fascismo gli aveva calato davanti.
Se Vittorini, Alvaro, Brancati, Moravia, Pavese furono osteggiati ma in qualche modo tollerati dal regime, Silone, per la sua dichiarata fede comunista (dal Partito comunista egli però si allontanò in seguito alle persecuzioni staliniane), fu costretto all’esilio. Sarà forse per tale ragione, come pensa Luperini, che Fontamara è molto diverso da Conversazione in Sicilia. E qui siamo alla seconda ragione dell’importanza del romanzo: [...] il racconto è corale e la voce narrante è rappresentata dai personaggi sempre diversi, e spesso anonimi, del coro (composto dagli abitanti di un paese di cafoni, Fontamara, appunto): la persona che narra muta di continuo senza che l’autore si preoccupi di annunciare al lettore il cambiamento. Attraverso tale artificio, la narrazione è tutta condotta dall’interno del mondo rappresentato, cosicché l’impegno ideologico non si sovrappone alla vicenda [...]. La lezione de I Malavoglia è evidente ma è possibile anche che Silone, che nel 1930 era ancora un dirigente comunista di primo piano, fosse al corrente del dibattito sul realismo che era allora in corso in URSS, e questo spiegherebbe secondo Luperini il fatto che la problematica artistica e ideologica del romanzo appaia "assimilabile a quella del neorealismo postbellico: qui c’è già l’impegno sociale, la presa di posizione esplicitamente politica, l’eroe positivo." Ma è un altro il motivo di originalità del romanzo di Silone. In Fontamara la Norm-Agitation, più che essere legata alla presenza dell’eroe positivo, discende soprattutto dalla coralità del racconto, dalla diegesi stessa, e trova la sua massima concretizzazione nella declinazione finale del "che fare?".
Così la lezione di Verga si salda con il bisogno di ribellione, di denuncia, di impegno.
Originale nel realismo degli anni Trenta è il romanzo Tre operai, che Carlo Bernari (nato a Napoli nel 1909) riesce a pubblicare nel 1934 tra varie difficoltà, dovute al fatto che il romanzo viene guardato con sospetto dai censori del regime. Già il titolo, che pone al centro il proletariato, desta il sospetto di un impegno sociale troppo spinto, poco rispettoso dell’ortodossia fascista. In effetti Tre operai è l’unica opera del periodo che punti l’attenzione sul mondo operaio meridionale, sulle città di Napoli e di Taranto, nelle quali si stava sviluppando l’industrializzazione, anche se non con l’ampiezza con cui si era sviluppata nelle città del Nord. La storia di tre operai, Teodoro, Marco, Anna, nel periodo del biennio rosso (1919-1920), delle loro esperienze d’amore e di lavoro, dei loro problemi esistenziali, della loro maturazione ideologica, in una Italia meridionale (soprattutto Napoli) lontanissima dalla tradizione turistica, ma analizzata storicamente con particolare attenzione alle differenze nei confronti del Nord, alle difficoltà dovute alla arretratezza, alle lotte operaie.
Bernari si considerava crociano-socialista: da questa scelta ideologica derivavano l’interesse per la prospettiva storica e per il mondo operaio. Al tempo stesso egli aveva viaggiato, a Parigi era stato influenzato dal surrealismo, aveva cercato di fondare a Napoli un circolo letterario d’avanguardia.
Questo secondo punto si nota nello stile dell’opera, si legga ad esempio l’inizio del capitolo XVII: “I nostri due bravi operai arrivano intanto in città, e si recano ai Sindacati; Marco vuol presentare Teodoro come "uno che ci sa fare". In questo momento occorrono elementi capaci, dirà; ma egli pensa egoisticamente che Teodoro può essergli di grande aiuto nella Ferriera. I due debbono aspettare parecchio, prima di essere ricevuti dal vice segretario, che in questi giorni ha molto da fare. È appena finito uno sciopero, e già se ne profila un altro! Vi sono stati disordini in periferia e nel nord sono accaduti fatti piuttosto gravi da mobilitare polizia ed esercito.”
L’uso del verbo al presente, contro la classica narrazione al passato remoto, le rapide intrusioni del narratore nascosto, l’improvviso emergere dell’indiretto libero testimoniano di una precisa volontà di sperimentazione. Anche la struttura narrativa è originale: solo apparentemente si tratta di un romanzo neoverista, in realtà la scrittura è di tipo sperimentale: la terza persona molto spesso si soggettivizza e la narrazione oggettiva lascia il posto al monologo interiore. Ciò può spiegare la sorpresa che suscitò questo libro al suo apparire (nel 1934), l’opposizione del regime, l’isolamento successivo di Bernari.
Il realismo degli anni Trenta è molto vario, perciò giustamente Luperini insiste su quel nuovo realismo, un nuovo che significa reazione al frammentismo, ma non passivo ritorno al verismo, un nuovo che non esclude la poetica della memoria, il lirismo del ricordo, ma non si esaurisce in questo, se non altro per il fatto che su tale lirismo si intende costruire un’opera narrativa di ampio respiro, specchio di un’epoca, un nuovo infine che non intende dimenticare la tradizione realistica italiana, ma non disdegna affatto il surrealismo e lo sperimentalismo.
E del resto, nell’Europa di quegli anni si parla di surrealismo, ma anche di Neue Sachlichkeit, e conviene non dimenticare quest’ultimo fenomeno, giacché appunto con un calco di Neue Sachlichkeit si comincia a parlare in Italia, già negli anni Trenta e nei primi anni Quaranta di neorealismo.
Ancora a proposito degli elementi compositi, eterogenei, che caratterizzano il nuovo realismo e dei suoi rapporti con la grande letteratura europea, ricordiamo che Vittorini stesso nel 1929 scriveva che i romanzieri scoprivano una stretta parentela con Proust e Joyce, che Proust era il maestro più genuino, che Svevo, scoperto e rivalutato all’ultimo momento, aveva giovato meglio che vent’anni di pessima letteratura.
Vittorini fa pensare subito a Cesare Pavese (1908-1950): essi hanno in comune la scoperta della cultura americana. Vittorini pubblica nel 1941 l’antologia Americana, immediatamente sequestrata dalla censura; per Pavese l’interesse affonda le radici nella formazione stessa, ma nessuno, meglio di Pavese, ha saputo mettere a fuoco il ruolo culturale e di opposizione antifascista della scoperta dell’America in un appassionato articolo pubblicato il 3 agosto 1947 sull’edizione torinese de L’Unità. Pavese sottolinea bene l’impatto di massa che ebbero le traduzioni di autori americani, la funzione di contrasto nei confronti della cultura ufficiale.
Ma non fu solamente questo: soprattutto per lui, per Pavese, la narrativa americana comportò una ricerca di lingua, di stile e di contenuti, attraverso il Middle West egli scoprì il Piemonte, la provincia contadina, e recuperò la lezione naturalistica di Verga, che egli combinava con la cultura decadente. Esempio di ciò sono non solo le poesie di Lavorare stanca (1936), tentativo di impostazione di quella che l’autore chiamava poesia-racconto, cioè una poesia non lirica, non fondata su un folgorante uso dell’analogia, come la poesia ermetica, ma narrativa, una poesia che fa pensare per molti aspetti ad alcuni componimenti di Fernando Pessoa; ma anche e soprattutto il suo esordio narrativo, costituito dal romanzo breve Paesi tuoi, edito nel 1941, chiaramente influenzato da Faulkner e Cain.
In breve si tratta di questo. Berto, meccanico di Torino, e Talino, un campagnolo, escono dal carcere torinese e, dopo aver vagabondato in città, raggiungono la campagna da dove proviene Talino, la cui famiglia possiede una proprietà, e dove Berto pensa di trovare lavoro. Berto è attratto da Gisella, sorella di Talino, la quale è legata al fratello da un incesto che egli consuma con violenza. Durante la trebbiatura, a causa di un futile motivo (Gisella ha rifiutato di dargli dell’acqua), Talino colpisce la sorella con un tridente. La trebbiatura continua, mentre Gisella muore lentamente dissanguata.
Colpì in questo romanzo lo sperimentalismo stilistico e la crudezza del contenuto. Paesi tuoi fu attaccato dalla critica ufficiale fascista, ed è chiaro perché. Si ricordi la battaglia del grano: ebbene tale battaglia fu ripresa nel periodo delle sanzioni successive all’impresa coloniale in Etiopia.
Inoltre, per impedire che "la popolazione agricola eccedente continuasse a riversarsi in città, si dovette ricorrere a provvedimenti intesi a limitare il fenomeno dell’urbanesimo e la propaganda fascista si diede a esaltare la bellezza della vita rurale: la canzonetta Campagnola bella diventò uno dei motivi più in voga.".
La realtà della campagna in Paesi tuoi non era affatto idillica, come in Campagnola bella, e tanto meno in linea con le magnifiche sorti e progressive cui il regime pretendeva di aver sollevato la nazione".
Vittorini e altri critici (cfr. Tondo, ivi) elogiarono Paesi tuoi, ma rilevarono solo l’aspetto naturalistico, o neo-realistico, non quello mitico-simbolico: l’immagine della collina come mammella femminile, la terra sessuata, dotata di grembo e vagina, la morte stessa di Gisella "che ha il valore mitico di un rito iniziatico (il sacrificio per la messe) e non certo quello realistico di documento sociale".
L’opera successiva di Pavese si incaricherà di chiarire questi equivoci. Ciò che interessa qui notare è che il complesso panorama del realismo degli anni Trenta comprende anche questo: l’influenza della narrativa americana, in Pavese combinata con esperienze mitico-simboliche di derivazione decadentistica.
Recensendo su Oggi, il 19 luglio 1941, Paesi tuoi, Mario Alicata osservava che Pavese avesse iniziato la sua carriera di scrittore negli anni nei quali si cominciò a parlare in Italia, di realismo e di neo-realisti.
In effetti il vocabolo "neorealismo" (o "neo-realismo") appare verso la fine degli anni Venti quale calco del tedesco Neue Sachlichkeit e viene usato negli anni Trenta e fino al 1943 spesso con riserve, come è il caso di Alicata. Il 23 settembre del 1934 Francesco Jovine scrive che ad una letteratura vuota di contenuto e ridotta a vana esercitazione retorica si oppone una letteratura che trae dalla realtà presente le proprie ragioni di vita. E tuttavia, secondo Jovine "Per sfuggire alla retorica della pura forma i neo-realisti minacciano di crearne un’altra: quella del puro contenuto."
Nel 1942 il regista Luchino Visconti lavora al film Ossessione, tratto dal romanzo The Postman always Rings Twice di James Cain: fu questo il primo film di quella straordinaria stagione cinematografica che fu chiamata appunto stagione del neorealismo.
Il 24 aprile 1965, nel fascicolo n. 17 di Rinascita, Visconti raccontava: «Il termine neorealismo nacque con Ossessione. Fu quando da Ferrara mandai a Roma i primi pezzi del film al mio montatore, che è Mario Serandrei. Dopo alcuni giorni egli mi scrisse esprimendo la sua approvazione per quelle scene. E aggiungeva: ‘Non so come potrei definire questo tipo di cinema se non con l’appellativo di neorealistico’».
Io non so se questo Mario Serandrei fosse o no al corrente del fatto che l’appellativo di "neorealistico" era stato già usato negli anni Trenta e ancora nel 1941 nella recensione di Alicata a Paesi tuoi. Ma anche se ne fosse stato al corrente, rimarrebbe il fatto che egli usò il termine in modo autonomo, e non solo perché lo usò in maniera del tutto positiva (giacché aveva approvato le scene inviategli da Visconti) e non con le riserve con cui lo aveva usato Alicata, ma anche perché lo applicò al cinema, cosa che prima non era stata mai fatta.
Comunque nel 1951 Eugenio Montale poté dire che "L’etichetta neorealistica è, almeno in Italia, di origine cinematografica", dimenticando che proprio lui aveva usato l’etichetta neo-realismo il 30 luglio 1942, in una recensione a Via de’ Magazzini di Vasco Pratolini.
Pavese, nel 1950, in una intervista alla radio, parlò di "uno dei problemi più discussi della nostra cultura odierna" e nota che gli americani hanno imparato in Europa il neo-realismo narrativo, così come adesso stanno imparando quello cinematografico, giacché le radici e i modelli storici della narrativa americana sono europei.
Pavese fa notare che "non occorreva affatto uscire dall’Europa per diventare, come si dice, neorealisti", giacché le radici del neorealismo sono in effetti europee. Comunque Pavese ci aiuta a capire le contraddizioni nell’uso dell’etichetta di neorealismo. Egli sottolinea che oggi l’etichetta ha soprattutto un senso cinematografico, e un senso positivo. Mentre già prima l’etichetta veniva usata per gli scrittori influenzati dalla narrativa americana, e in senso piuttosto negativo. In effetti: la bellezza, la forza espressiva, l’indiscusso valore artistico di film come Ossessione e Roma città aperta hanno fatto sì che l’etichetta di neorealismo, proposta dal montatore di Visconti e divulgata da Visconti, si imponesse in modo autonomo rispetto all’uso, letterario, che ne era stato fatto in precedenza. E così furono ignorate, o rimosse, le riserve che avevano connotato il concetto di neorealismo applicato alla narrativa.
[2] Uomini e no - In una Milano occupata dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale, una città per certi versi lugubre e attonita ma, per altri, ancora vibrante di sdegno e capace di reagire, l’autore racconta le vicende di un gruppo di partigiani imbastendo una riflessione sul senso profondo della dignità dell’uomo e della vita.
Attraverso le aspirazioni e le attività quotidiane di uomini semplici e normali, quasi costretti a farsi combattenti, emerge l’atrocità della violenza.
Così, quasi per caso la Storia diventa tale, dipanandosi attraverso le storie di ognuno e, in particolare, attraverso la storia frustrata fra Berta e il capitano Enne2, un partigiano attivo e coraggioso, ma anche un uomo disperato che, disperatamente, tenta di non cedere alla mancanza di senso che sembra pervadere ogni azione. Qual è il senso se Berta vuole stare con lui e invece dieci anni prima se ne è andata con un altro lasciandogli il vestito appeso alla porta, come il fantasma della sua presenza; qual è il senso se ella continua a cercarlo e lui può non cercarla, qual è il senso se ogni volta che lui aspetta ella non arriva? Qual è il senso della lotta se ogni azione è destinata al fallimento, se la distruzione e l’orrore si affacciano ad ogni angolo di strada. Qual è il senso se il capitano Clemm può dare in pasto un uomo a suoi cani? L’uomo disperato è l’uomo, senza dubbio lo è. Ma l’uomo che conquista e uccide è uomo anch’esso: cos’altro è se non uomo? È lupo? No, è uomo anch’egli.
In Uomini e no, uscito nel 1945, c’è quindi il tentativo di dare voce a cose che per anni erano state soffocate ed anche, per la cifra stilistica con cui è scritto (l’autore che si presenta egli stesso in prima persona come autore di quella storia e dialoga con i suoi personaggi, la scrittura caratterizzata da iterazioni e da uno stile cadenzato ed evocativo) c’è anche l’occasione di scoprire una sorta di laboratorio della letteratura in cui sono esibite le sue strutture nascoste.
Alla fine il capitano Enne2 finirà con il cedere alla tentazione di perdersi, ma solo in parte. Poi, in mezzo all’orrore e causa essi stessi di orrore, gli altri uomini continueranno a battersi. Uomini contro uomini. Così come sempre e così da sempre; tuttavia quello che questo libro ci può dare in più è non solo la messa in scena della storia, ma della nostra storia.
[3] Elio Vittorini - Nacque a Siracusa nel 1908. Figlio di un ferroviere, passò l’infanzia in varie località della Sicilia seguendo gli spostamenti del padre.
Nel 1924 fuggì improvvisamente dall’isola, andando a lavorare nella Venezia-Giulia come edile. Si inserì nel mondo letterario, nel 1930 si stabilì a Firenze.
Nel 1938 è a Milano. Aderì tiepidamente al fascismo, senza esibire con posizioni ufficiali questa sua adesione.
Negli anni della guerra e della lotta interna antifascista si iscrisse al Partito comunista e partecipò alla Resistenza a Milano.
Nel dopoguerra svolse una intensissima attività culturale di riorganizzazione.
Nel 1947 la polemica con Togliatti.
Nel 1951 lasciò il PCI e si dedicò all’attività editoriale.
Morì a Milano nel 1966.
In Vittorini agisce un forte radicalismo intellettuale, costantemente impiegato a verificare i valori della cultura e dell’arte con le istanze della società. In lui agiscono due impulsi: da una parte quello razionale, che lo spinge ad un continuo ammodernamento delle forme e dei contenuti. Dall’altra l’interesse per le costruzioni narrative mitico-simboliche, più evidente nella produzione degli anni immediatamente precedenti la guerra. Il vitalismo dannunziano è incanalato nel realismo e rivisto alla luce di una particolare, mitica, lettura dei classici statunitensi. Lo svecchiamento apportato da Vittorini nel panorama culturale italiano fu importantissimo e decisivo.
[4] Corse... indietro: aspettando l’ora fissata per l’attentato. Soggetto è il capo partigiano che viene indicato nel romanzo col nome di battaglia Enne 2.
[5] Una signora: è la sua portatrice d’arma. Per gli uomini era doppiamente pericoloso girare in città armati.
[6] Enne 2: Il protagonista del romanzo è Enne 2, un giovane partigiano capo di un gruppo di antifascisti a Milano. Egli si impegna molto in ogni sua azione e conduce una vita molto intensa. Organizza numerose azioni militari alle quali prende parte personalmente. Come già si è potuto capire è innamorato di Berta ma, siccome lei ha un altro uomo e non riesce a creare un rapporto stabile con lei, il suo amore è irrealizzabile. In seguito alla partenza della ragazza e alla morte di numerosi compagni, egli, sprofonda in una crisi esistenziale, che lo porta a riflettere sull'impossibilità di aiutare gli amici persi durante il periodo della Resistenza, assegnandosi così allo stesso destino. Decide quindi di non abbandonare il suo rifugio in corso Sempione, benchè sia stato identificato, e di morire da eroe, nella sua stanza aspettando Cane Nero per ucciderlo.
[7] Tre... a tracolla: mimetizzati da operai, portano nella borsa le bombe per l’attentato.
[8] giovani... ridevano: il rischio imminente è alleggerito da una giovane fiducia nel successo, e dal­la sicurezza — libera di scrupoli e di problemi — di essere nel giusto.
[9] Resto dietro: per coprire — come farà — la loro fuga. È la parte più pericolosa dell’azione.
[10] l’uomo Enne 2: nel momento estremo del rischio l’epiteto «uomo» unito alla sigla di riconosci­mento del personaggio ribadisce la distinzione proposta dal titolo fra non-uomini, cioè colóro che esercitano il sopruso, e uomini, cioè coloro che, conculcati, affermano la loro dignità ribellandosi.
[11] S.S.: Schutz-Staffeln ( = reparti di difesa) era la milizia armata del partito nazista, che nei paesi occupati si macchiò dei peggiori crimini di guerra.
[12] fece un brusco movimento: mettendosi di scatto sull’attenti.
[13] senza mai voltarsi: con controllata indifferenza, per non suscitare sospetti; similmente i tre ra­gazzi lo incroceranno senza guardarlo.
[14] impietrito... movimento: immobile nella posizione di attenti.
[15] quello: più avanti lo si indica come un ufficiale.
[16] e ancora... si salutavano: alterando così i tempi predisposti per l’attentato.
[17] Bene... Meglio: l’idea che l’attentato vada a vuoto gli dà, nonostante tutto, un senso di sollie­vo.
[18] le loro braccia levate in aria: nel lancio dei proiettili.
[19] «Che vuoi tu... anche tu?»: nella domanda c’è la disperazione di esser costretto a colpire ed uc­cidere ancora, e per di più persone contro le quali l’attentato non era diretto.
[20] Era... ingrandito: per effetto della tensione spasmodica con cui Enne 2 lo guarda e ne controlla i movimenti.
[21] Entrò ecc.: è il terrore corale di un popolo che sente incombere su di sé la rappresaglia.
[22] corse con altri: mimetizzandosi con loro.
[23] Cane Nero: è il nome con cui viene indicato il feroce capo della milizia fascista. Neri erano la camicia e il berretto della divisa. Cane Nero e Clemm sono i due massimi esponenti delle milizie nazifasciste in città: essi vengono presentati in tutta la loro crudeltà, sono individui sadici, spietati e violenti, che sfogano il loro odio contro i partigiani con azioni di rappresaglia contro i civili. Clemm alla fine viene ucciso in un'azione dei partigiani mentre Cane Nero dovrà vedersela con Enne 2 deciso ad ammazzarlo in un'ultima impresa suicida.
[24] volevano... latte: sono tempi di razionamento e di fame.
[25] «Ma... accaduto?»: è un modo di attaccare discorso con la sua portatrice d’arma per avvici­narsi a lei senza destare sospetti.
[26] Berta è una vecchia amica di Enne 2, che si è trasferita via da Milano durante la guerra, ma torna spesso in città per incontrare Enne 2, al quale è legata da un rapporto molto particolare: egli la ama profondamente e dice di conoscerla da quando è nata, sebbene sia più giovane di lei. Berta è un personaggio enigmatico e non si capisce bene cosa pensi in reltà, dice ripetutamente di dover raccontare la loro storia al marito e se ne va ogni volta con questa promessa-scusa.
[27] Largo Augusto - Su queste considerazioni si innesta una serie di letture che illustrano come, nei mesi immediatamente successivi alla fine della guerra, le esperienze della lotta partigiana fossero trascritte in una forma letteraria che, semplificata col termine di neorealismo, comprendeva in realtà stili e scelte narratologiche molto differenti, collegate tra loro però da un comune sentire. Vittorini, in Uomini e no, tenta di unire l’oggettività storica e la sua ispirazione lirica, senza capire che quest’ultima è un limite nei confronti della prima.
Nel titolo stesso poi c’è già l’atteggiamento retorico che appare chiaro nell’episodio dei Morti di Largo Augusto: gli uomini (i partigiani) che sono dalla parte giusta capiscono tutto; gli altri, gli oppressori, sono il Lupo, il Male, che colpisce l’umanità nei suoi punti più deboli (le donne, i vecchi, i ragazzi, le bambine) non rispettando neppure la dignità della morte.
[28] Perché?: Tra la folla, a guardare esasperati tale tragedia, c'erano il Gracco ed Enne 2, i quali si chiedevano continuamente quasi in modo ossessivo le ragioni di tutta questa violenza.
L’iterazione del perchè riferito dapprima al vecchio, poi alla bambina, poi ai ragazzi, infine a quelle donne, scandisce la narrazione attribuendo alla domanda il senso dello straniamento. È una domanda piena di rabbia e di dolore, ma soprattutto, nei loro volti, affiorava il desiderio di vendetta che li richiama alla realtà e li riconduce alla concentrazione sulla situazione storica ed umana. Siamo uomini e no, sembra dire lo scrittore.
[29] Foppa, Scipione, Mambrino, Figlio di Dio, Barca Tartaro, Orazio, Metastasio, El Paso, Gracco: sono i nomi dei partigiani che combattono i nazifascisti a fianco di Enne 2 per la Liberazione.
Essi sono molto uniti e legati dall'impegno comune, che devono però far coesistere con la propria vita privata e con i loro problemi personali. Molti di loro muoiono, ma per gli altri l'unico modo per ricordarli è far sì che il loro sacrificio non sia stato vano, è quello di ricominciare a combattere.
[30] La casa in collina - Pubblicato nel 1949, Non è facile nascondere la sua tendenza all’autobiografia: Cesare/Corrado narra la guerra come idea, come impegno, la guerra civile, i bombardamenti che non risparmiano le città, la guerra che termina solo per chi muore, la guerra che continua, che è sempre presente, che non cessa con la fine del romanzo, il quale termina alle soglie del suo ultimo difficile inverno.
La trama naufraga in un mare di idee, di simboli, di descrizioni ed è difficilmente rintracciabile, è solo un pretesto, un punto di partenza per raccontare delle idee. Pavese è impegnato a scavare in sé, a vivisezionarsi spietatamente, a cercare la sua strada, a compenetrarsi con la natura fatta di luna, di vigne, di stelle e di campagna: le fughe, i rifugi, gli interrogativi, il suo rapporto con Dio, con la paternità mai realizzatasi, ma disperatamente agognata e qui vissuta nel rapporto con Dino, il figlio che potrebbe essere l’altro lui, quello che ha il coraggio di scappare dal rifugio, di buttarsi nella mischia, di viverla la guerra, anche a costo di morire.
Proprio questa forza di rappresentazione oggettiva permette al romanzo di resistere al tempo: Corrado è simbolo dell’individuo, l’uomo comune che non ha più la pretesa di poter influire sul corso della storia, che si vergogna di questa abominevole esperienza che uccide, che mette gli uni contro gli altri gli stessi italiani, che deve espiare e che solo grazie alla speranza di un rinnovamento dell’uomo può sopportare la vista di tutti quei morti che appaiono quasi la concretizzazione della colpa, dell’efferatezza, della bestialità.
Il lettore resta incantato dalla capacità di Pavese di ritrarre il paesaggio, di utilizzare un linguaggio straordinariamente accattivante che rimane antiletterario, fatto di una sintassi utilizzata in modo libero, di ampie e variegate figure retoriche che immettono dentro alle parole, specchio di immagini, a loro volta specchio di una natura che ha ancora il coraggio e la forza di incantare, con quella luna che appare e scompare, che resta sospesa sulle vigne, che disegna un percorso, un itinerario spirituale, antidoto bianco e smagliante all’orrore della devastazione, al rosso del sangue, al verde opaco del rame che resta l’unico attestato di quelle che una volta erano vigne e profumo di campagna.
[31] Cesare Pavese - Nacque a Santo Stefano Belbo nel 1908. Di famiglia piccolo-borghese di estrazione contadina, orfano di padre all’età di sei anni, ricevette una educazione austera, intrisa di sentimenti di nostalgia per la campagna.
Compì gli studi a Torino. Ebbe come professore di liceo Augusto Monti, figura di grande prestigio della Torino anti-fascista. Studiò letteratura inglese e dopo la laurea fece il traduttore. Dopo l’arresto di Leone Ginzburg, anche Pavese fu condannato al confino per aver tentato di proteggere una donna iscritta al PCI. Passò un anno a Brancaleone Calabro. Tornò poi a Torino. Dopo l’8 settembre 1943 riparò con la sorella a Serralunga.
Alla fine della guerra si iscrisse al PCI. Nel 1950 raggiunge il riconoscimento della critica, con l’assegnazione del premio Strega. Pavese entrò in depressione, il suo carattere fragile e introverso, caratterizzato da difficili rapporti umani, lo portò al suicidio. A Torino, nell’agosto 1950.
Pavese è stato tra gli scrittori più amati del dopoguerra, anche per via del mito avviato con il suicidio. Simbolo contraddittorio dell’impegno politico e del disagio esistenziale, la figura di Pavese è condizionata dall’intreccio vita- letteratura. Ciò dà suggestione ai suoi esperimenti stilistici, ma non evita i luoghi comuni di un certo vitalismo estetista.
Uno dei suoi testi più letti è stato Il mestiere di vivere che registra la professione della sua ricerca umana e letteraria. Ma notevole importanza hanno gli esiti del suo lavoro poetico, soprattutto quelli della prima raccolta, capace di forgiare una struttura ritmica e metrica tesa al racconto, a un’epica umile e quotidiana.
[32] I racconti - In questo volume confluiscono racconti pubblicati nel corso di un decennio in giornali o in raccolte parziali. Le storie sono di stampo realistico e i racconti hanno una lunghezza che va dalla misura più breve a quella del racconto lungo (o romanzo breve).
[33] Italo Calvino - Calvino nacque, il 15 ottobre 1923, a Santiago de Las Vegas, vicino all’Avana (Cuba), dove il padre dirigeva una stazione sperimentale di agricoltura e una scuola d’agraria. Nel 1925 la famiglia Calvino ritornò in Italia e si stabilì a San Remo dove Calvino vive fino a vent’anni. Compiuti gli studi liceali, Calvino fu avviato dai genitori agli studi di Agraria, che non portò a compimento. Dopo l’8 settembre 1943, Calvino si sottrasse all’arruolamento forzato nell’esercito fascista e si aggregò ai partigiani della Brigata Garibaldi. Dopo la liberazione, aderisce al PCI, collabora a giornali e riviste e si iscrive alla Facoltà di Lettere di Torino, dove nel 1947 si laurea con una tesi su Conrad. A Torino collabora al Politecnico di Vittorini ed entrò a far parte del gruppo redazionale della casa editrice Einaudi nel cui ambiente, aperto alla cultura mondiale, matura la sua vocazione a scrivere. Nel 1947 esordisce come scrittore, pubblicando, grazie a Pavese, Il sentiero dei nidi di ragno. A questo romanzo segue il volume di racconti Ultimo viene il corvo (1949). Negli anni Cinquanta e Sessanta svolge le funzioni di dirigente nella casa editrice Einaudi e intensifica sempre più la sua attività culturale e il suo impegno nel dibattito politico-intellettuale, collaborando a numerose riviste. Inoltre si impone nel panorama letterario italiano, come il più originale tra i giovani scrittori, in seguito alla pubblicazione della raccolta dei Racconti (1958), e soprattutto del volume I nostri antenati (1960), la trilogia di romanzi fantastici sull’uomo contemporaneo: Il visconte dimezzato (1952), Il barone rampante (1957) e Il cavaliere inesistente (1959). Pubblica anche il saggio Il midollo del leone (1955) e raccoglie e traduce Le fiabe Italiane che pubblica nel 1956, anno in cui i fatti di Ungheria lo distaccarono dal PCI e lo condussero progressivamente a rinunciare a un diretto impegno politico. Tra il 1959 e il 1967 dirige, insieme a Vittorini, l’importante rivista culturale letteraria Il Menabò, in cui pubblica interventi caratterizzati da un impegno di tipo etico-conoscitivo, quali Il mare dell’oggettività (1959) e La sfida del labirinto (1962). Nel 1963 pubblica, oltre a Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, il racconto costruito ancora su schemi di tipo tradizionale La giornata di uno scrutatore. Nel 1964 si apre una nuova fase della vita e della carriera di Italo Calvino: sposa l’argentina Judith Esther Singer e si trasferisce a Parigi dove viene a contatto con gli ambienti letterari e culturali più all’avanguardia. Nel 1965 nasce la figlia Abigail ed esce il volume Le Cosmicomiche, a cui segue nel 1967 Ti con zero, in cui si rivela la sua passione giovanile per le teorie astronomiche e cosmologiche. Il nuovo interesse per le problematiche della semiotica e per i processi combinatori della narrativa trova espressione anche ne Le città invisibili (1972), e ne Il castello dei destini incrociati (1973). Intanto cresce il suo successo e il suo prestigio in tutto il mondo. Nel 1979 esce il romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, che diviene subito un best seller. Nel 1980 si trasferisce a Roma, e pubblica una raccolta dei suoi saggi più importanti, Una pietra sopra. Nel 1983 escono i racconti di Palomar, ricchi di disillusa amarezza. Nel 1984 pubblica il volume Collezione di sabbia. Nel 1985 tiene una serie di conferenze negli Stati Uniti a Cambridge, alla Harvard University, prepara le Lezioni Americane. All’inizio di settembre Italo Calvino muore all’ospedale di Siena, colpito da un’emorragia celebrale. Nel maggio 1986 presso Garzanti esce Sotto il sole giaguaro, il primo libro postumo di Calvino.
[34] L’Agnese va a morire - Storia di una donna raccontata da una donna. Diverse in tutto, giovane intellettuale l'una, vecchia contadina l'altra, ma accomunate dalla guerra, dal fatto di combattere dalla stessa parte della barricata.
La narrazione è divisa in tre parti e ciascuna di queste in numerosi capitoli, tanto che anche questo lavoro sembra piuttosto un susseguirsi di racconti. Tutto ruota attorno alla figura di Agnese, una vecchia lavandaia che è fin dall'inizio dalla parte dei partigiani, non per convinzione politica ma perché istintivamente le sembra la cosa più giusta. La decisione di impegnarsi totalmente nelle file dei partigiani viene presa, dall'Agnese, in seguito a due fatti dolorosi, uno subito, l'altro agito in prima persona. Prima la cattura e la conseguente morte del marito di Agnese, Palita, poi l'uccisione del soldato tedesco Kurt al quale Agnese spacca la testa con il manico del mitra per vendicare la morte della sua gatta nera, unica compagnia rimastale. È per l'Agnese l'inizio di una nuova vita, più breve, ma sicuramente più intensa della precedente.
L'Agnese dovrà fare molti viaggi con la sua bicicletta e camminare tanto in quelle sue ciabatte sempre piene di fango prima di avere chiaro il senso del lavoro che sta compiendo con tanto impegno.
L'ambiente descritto nel testo è quello cupo, freddo e nebbioso delle valli del Comacchio, durante l'inverno; i personaggi sono caratterizzati molto semplicemente attraverso le loro azioni; la narrazione si sviluppa attraverso moltissime descrizioni e pochi dialoghi elementari che rendono bene i problemi naturali, ma vitali che i partigiani devono quotidianamente affrontare. Renata Viganò riesce a ricreare un quadro vivo della Resistenza, con un rovesciamento della verità storica, utilizzato per denunciare le sconfitte subite e i sacrifici sopportati, ma giustificandoli e trasformandoli in vittorie, vittorie della collettività, della Resistenza nella sua essenza più profonda.
Un'ultima notazione sulle figure dei comandanti dove Asor Rosa vede una trasposizione degli intellettuali che si arrogano il diritto di comandare mentre Falaschi definisce la presa di posizione della Viganò come intermedia tra quella degli intellettuali e quella del popolo, nel quale sta la vera forza della Resistenza. Non si tratta di supremazia di un elemento sull'altro, ma del cammino, percorso insieme per raggiungere un obiettivo comune: la libertà.
[35] Renata Viganò - Nata a Bologna il 17 giugno 1900, Renata Viganò aveva la passione della medicina e sognava di fare il medico, ma per le difficoltà economiche che la sua famiglia aveva incontrato, aveva dovuto interrompere il liceo.
Fu così che Renata prese un posto nella classe operaia, facendo prima l’inserviente e poi l’infermiera negli ospedali bolognesi. Ma questo suo lavoro al servizio di chi aveva bisogno, non le impediva di scrivere, l’altra sua passione, che già si era manifestata quando, a 13 anni, era riuscita a pubblicare Ginestra in fiore, una raccolta di poesie.
Sino all’8 settembre del 1943 la Viganò aveva continuato lavorare in ospedale e a scrivere, per quotidiani e periodici, elzeviri, poesie, racconti.
Con l’armistizio, un’altra svolta esistenziale: con il marito, Antonio Meluschi, e il figlio, l’infermiera-scrittrice partecipa alla lotta partigiana ("la cosa più importante nelle azioni della mia vita", com’ebbe a dire), nelle valli di Comacchio e in Romagna, facendo, sino alla Liberazione, di volta in volta l’infermiera, la staffetta garibaldina, la collaboratrice della stampa clandestina.
Di questa esperienza è pervasa la produzione letteraria di Renata Viganò. La sua opera più famosa, L’Agnese va a morire, edita nel 1949 da Einaudi e vincitrice del Premio Viareggio, tradotta in quattordici lingue, e ristampata nel 1993 sempre da Einaudi.
Tra la copiosa opera della scrittrice, almeno altri due libri sul tema della Guerra di liberazione: Donne della Resistenza, ventotto affettuosi ritratti di antifasciste bolognesi cadute (Mursia, 1955) e Matrimonio in brigata, una raccolta di significativi racconti partigiani (Vangelista, 1976), uscito proprio l’anno in cui la scrittrice è scomparsa.
Due mesi prima della morte, a Bologna il 23 aprile 1976, a Renata Viganò è stato assegnato il premio giornalistico Bolognese del mese, per il suo stretto rapporto con la realtà popolare della città.

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