lunedì 30 novembre 2009

L'eta de Totalitarismi di Massimo Capuozzo

9 Tra le due guerre: l’età dei totalitarismi
Nel campo dell’analisi storiografica e politica il ter­mine totalitarismo cominciò a essere applicato al­la fine degli anni venti del Novecento, in Inghilterra, tanto al regime fascista quanto a quello comuni­sta che si era imposto in Russia con la rivoluzione del 1917. Ma questo accostamento incontrò forti resistenze fra gli storici di sinistra che vedevano il modello totalitario compiuta­mente attuato soltanto nei sistemi politici guidati da Mussolini e da Hitler.
Nel 1934 lo storico delle dottrine politiche George H. Sabine ripropose la definizione di regimi totalitari per tutti quelli in cui vi fosse l’assoluto predominio di un partito unico.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale la categoria del totalitarismo entrò completamente nel linguaggio della storiografia politica per descrivere le dittature monopartitiche fasciste e comuniste, o alcune di esse.
Hannah Arendt (1906-75), filosofa tedesca, costretta ad abban­donare la Germania dopo la salita al potere del Nazi­smo, a cui dedicò un ampio saggio pubblicato nel 1951 (Origins of Totalitarianism;. In quest’opera, che si compone di tre parti (l’Antisemitismo, l’Imperia­lismo, il Totalitarismo), l’autrice spiega che i movimenti totalitari trovano le condizioni del loro sviluppo nella moderna società di massa e basano la propria forza su settori di essa solitamente refrattari all’attività politica ed estranei ai partiti e alle organizzazioni tradizionali. Per questa ragione quei movimenti non si trovano nella necessità di spostare consensi verso le proprie posizioni sottraendoli ad altre mediante le forme consuete del confronto politico, della confutazione e della per­suasione: alle masse a cui si rivolgono, digiune di conoscenze politiche ed estranee ad ogni impegno in questioni di interesse pubblico, esse offrono un’i­deologia, ovvero un sistema articolato di credenze, con cui identificarsi fanaticamente. Il partito uni­co, strumento indispensabile per l’esercizio del potere totalitario, controlla ogni aspetto della vita so­ciale mediante una polizia segreta onnipresente che si impone attraverso il terrore.
Terrore e ideo­logia sono dunque, secondo Arendt, i requisiti fon­damentali del totalitarismo e questo trova espres­sione in un capo carismatico che incarna il potere stesso e al quale tutti gli apparati dello Stato fanno riferimento. Egli è il depositario dell’ideologia che da lui soltanto può essere interpretata e corretta ed è lui infine che individua chi debba essere additato come nemico potenziale o oggettivo contro cui at­tivare la macchina del terrore e la polizia segreta.
L’altra teoria classica del totalitarismo fu for­mulata da Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski, due studiosi statunitensi in un’opera pubblicata nel 1956 (Totalitarian Dictatorship and Autocracy) nella quale sono indicati sei ele­menti caratteristici di questo tipo di regime:
1. un’ideologia che abbraccia tutti gli aspetti della vita degli individui e che è proiettata verso uno stadio finale e perfetto della società;
2. un partito unico di massa, guidato da un solo capo, che riunisca una minoranza (10% circa della popolazione) strutturata in forma rigida­mente gerarchica e raccolta intorno a un forte nucleo di militanti determinati e fanatici e cie­camente consacrati all’ideologia e pronti a con­tribuire in ogni modo al suo trionfo;
3. un sistema di terrore realizzato attraverso il controllo del partito e della polizia segreta ed esercitato sia verso i provati nemici del regi­me, sia verso intere classi della popolazione;
4. il monopolio del partito e del governo, di tutti i mezzi di comunicazione di massa;
5. il monopolio dell’uso effettivo di tutti gli stru­menti di lotta armata;
6. il controllo centralizzato e la guida dell’intera economia attraverso il coordinamento burocra­tico di entità corporative.
Vi sono molte analogie fra il modello descritto dalla Arendt e quello formulato da Friedrich e Brzezin­ski, ed entrambi concordano nel definire il totalita­rismo una forma di dominio politico del tutto nuo­va e senza precedenti nel passato e nell’identificare in esso, come aspetti centrali, l’ideologia, il terrore poliziesco, il partito unico di massa. Ma compaiono anche evidenti differenze, prima di tutto perché, a differenza di Friedrich e Brzezinski che si limitano a descrivere il fenomeno e non lo collegano a un progetto politico con cui esso sia intimamente e necessariamente intrecciato, secondo la Arendt il to­talitarismo si propone sempre un fine strategico che consiste nella trasformazione della natura umana; inoltre, la filosofa tedesca trapiantata negli Usa giudicava che fossero espressioni compiute del totalitarismo soltanto la Germania di Hitler e la Russia di Stalin, mentre gli altri due studiosi inseri­vano fra quelli totalitari anche gli altri regimi comu­nisti e il fascismo italiano.
È stata la ricerca sociologica, più che quella storiografica, a confrontarsi con la modernità dei regimi autoritari e totalitari europei tra le due guerre: da H. Arendt, a R. Bendix, a G.L. Mosse, a Barrington Moore Jr., a Germani. Ciò che accomuna questi studiosi è l'elaborazione della categoria della modernizzazione. Il fascismo rappresenta, secondo questi studiosi, un esempio emblematico di modernizzazione autoritaria, nella quale si realizza una mobilitazione dall'alto delle masse ed una crescita che non danneggia la stabilità dei rapporti di potere. Considerare il fascismo come regime in grado di promuovere un autonomo processo di modernizzazione comporta il taglio di uno dei principi fondamentali delle interpretazioni storiografiche correnti, ovvero l'incompatibilità tra sviluppo e dittatura, tra la modernità, intesa come sviluppo delle forze produttive e come crescita sociale, e l'affermazione di un regime totalitario, come quello imposto da Mussolini.
Due grandi psicologi come E. Fromm e W. Reich, in due opere fondamentali, come Fuga dalla libertà e Psicologia di massa e fascismo, hanno messo in evidenza come nelle società industrializzate si possano creare ampie disponibilità da parte di interi gruppi sociali ad accettare sistemi politici autoritari ed a sottostare al potere assoluto di un capo carismatico.
Il fascismo affonda, quindi, le sue radici in questi atteggiamenti sostanzialmente distruttivi, propri della piccola borghesia: nella paura della libertà e nelle insicurezze delle masse. È in questo intreccio drammatico di stimoli collettivi e di conflitti irrisolti che trova spiegazione il consenso che indubbiamente il regime di Mussolini acquisì negli anni Trenta.
Le tradizionali teorie interpretative della scuola liberale o della scuola marxista sono dunque state messe notevolmente in discussione dalle scienze sociali.
Se il totalitarismo rappre­senta uno sviluppo possibile della società moderna in senso speculare, e quindi opposto, alla democra­zia liberale, è lecito domandarsi che cosa stia all’o­rigine di queste differenti alternative. Una risposta che ha suscitato consensi, ma anche radicali divergenze, è quella formulata da Jacob Talmon nel suo saggio sulle Origini della democrazia totalitaria.
Talmon indivi­dua le cause della separazione fra democrazia libe­rale e democrazia totalitaria nella comparsa di una concezione messianica della politica, in base al­la quale si ritiene possibile la costruzione di una so­cietà perfetta. Un orientamento di questo genere compare nell’opera del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau (1712-78) e ha trovato applica­zione nel corso della Rivoluzione francese da parte di dirigenti giacobini come Maximilien Robespierre (1758-94) di cui Talmon analizza a lungo il pensiero. La conclusione che lo studioso ricava è che, mentre «l’orientamento liberale so­stiene che la politica procede per tentativi ed erro­ri, e considera i sistemi politici espedienti pragma­tici escogitati dall’ingegno e dalla libertà dell’uo­mo», il pensiero democratico totalitario si basa in­vece «sull’asserzione di una sola e assoluta verità politica. Esso può essere definito messianismo po­litico in quanto postula un insieme di cose preordi­nato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomi­ni sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di esistenza, la politica».

Il Fascismo – A differenza del Comunismo, applicazione politica dell’idea filosofica di Marx, il Sascismo non è stato preceduto da alcuna filosofia ispiratrice, ma si configura essenzialmente come opera catalizzatrice di un uomo d'azione, Benito Mussolini. Ci fu un filosofo che abbracciò le idee fasciste, Giovanni Gentile, la cui filosofia è stata definita come quella del fascismo, ma ciò che viene prima di tutto è l'opera, l'azione di Mussolini, quella di Gentile fu una teorizzazione successiva.

1 La crisi della democrazia in Europa - Il dopoguerra fu caratterizzato dalla crisi della democrazia, crisi che venne manifestandosi e accentuandosi col procedere degli anni. La conclusione fu il costituirsi di stati autoritari, prima in Italia (fascismo), poi in Germania (nazismo), infine in Spagna (franchismo). Anche in U.R.S.S. il regime dei Soviet, che aveva caratterizzato i primi anni della rivoluzione, trapassa nella gestione totalitaria e dittatoriale di Stalin.
Di questi movimenti ci limiteremo qui ad illustrare i due che più da vicino toccarono la vita del nostro Paese: il fascismo e il nazismo.

2 Crisi sociale dell’Italia dopo la prima guerra mondiale - Nonostante l’esito vittorioso, la prima guerra mondiale lasciò l’Italia in una situazione di gravi disordini connessi con gli avvenimenti sociali e politici verificatisi durante il conflitto.
Da paese prevalentemente agricolo, l’Italia si avviava a diventare, almeno nel Nord un paese altamente industrializzato. Le masse rurali e il proletariato urbano, esclusi dall’effettiva partecipazione alla gestione dello Stato, premevano per modificare tale situazione e migliorare le loro condizioni economiche, sociali e politiche. Esse trovavano coordinamento e guida nel partito socialista, mentre il successo della rivoluzione bolscevica, che in Russia aveva portato il proletariato al potere, serviva da stimolo alla loro azione.
L’avanzata delle classi proletarie era avversata, oltre che dal grande capitale, dalla media e piccola borghesia, che si vedeva minacciata nel suo prestigio sociale. Per gran parte delle masse cattoliche, inoltre, data la componente antireligiosa implicita nell’ideologia marxista, l’avanzata del socialismo costituiva una minaccia per la cristianità.
A queste ragioni di turbamento si aggiungeva l’insoddisfazione di molti giovani reduci, appartenenti agli strati piccolo e medio borghesi, che, durante il conflitto, si erano trovati in posti di comando e di prestigio e ora mal si adattavano a rientrare nella vita normale.

3 I Fasci di combattimento e l’ascesa di Mussolini - Questa complessa situazione, aggravata dall’incerto atteggiamento del partito socialista che intimoriva gli avversari col suo massimalismo, facendo balenare lo spauracchio di una rivoluzione, che non aveva né la capacità né la reale volontà di attuare, favorì lo svilupparsi di movimenti di destra, fra i quali primeggiò quello dei «Fasci di combattimento», fondato da Benito Mussolini il 23 marzo 1919. Esso si affermò grazie all’uso della violenza da parte delle sue squadre armate, che ben presto furono sostenute dagli agrari e, successivamente, dagli industriali e dalla tacita connivenza delle autorità.
Il fallimento della occupazione operaia delle fabbriche rafforzò ulteriormente le destre che riscossero un successo elettorale nel ‘21. Fu questo l’inizio dell’ascesa ufficiale del fascismo, che si affermò poi con la Marcia su Roma (28-10-1922) e la designazione di Mussolini a capo del governo.
Dopo un breve periodo di collaborazione con esponenti di altri partiti, Mussolini, abolite le libertà costituzionali (3-1-1925), instaurò un regime totalitario.
Repubblicano e anticlericale alle sue origini, il fascismo si alleò poi con la monarchia e cercò l’appoggio della Chiesa, presentandosi come il suo salvatore contro il «comunismo ateo»
Per dare un contenuto sociale alla sua «rivoluzione», elaborò la teoria dello Stato corporativo che, sotto l’etichetta di conciliare gli interessi antitetici del capitale e del lavoro, nell’interesse supremo dello Stato, di fatto trasformò lo Stato nel tutore dell’interesse del capitale. L’unico carattere che il fascismo costantemente conservò fu l’esasperato nazionalismo, che ben presto si manifestò come presuntuoso imperialismo.

4 La crisi del fascismo e il suo crollo - La conquista dell’Etiopia (1936) e la proclamazione dell’Impero segnano il culmine del successo fascista e del consenso che il fascismo era riuscito ad ottenere fra il popolo. L’inizio della sua parabola discendente e della frattura con la società italiana si può individuare nel momento in cui Mussolini decise di avvicinarsi alla Germania (1937), per ovviare a quell’isolamento in cui l’Italia si era trovata a seguito della guerra etiopica condannata dagli altri Paesi membri della Società delle Nazioni.
In particolare, gli nocquero le conseguenze di tale avvicinamento: la partecipazione, con reparti di volontari, alla guerra civile di Spagna in appoggio a Franco e a fianco dei «camerati» tedeschi; la promulgazione, ad imitazione di quanto Hitler aveva fatto in Germania di una legislazione antisemita (leggi razziali).
La partecipazione alla seconda guerra mondiale, in qualità di alleato della Germania, e i gravi insuccessi militari determinarono la caduta di Mussolini e il crollo del fascismo (25 luglio 1943).

5 La repubblica sociale di Salò - La liberazione di Mussolini (che era stato relegato sul Gran Sasso) ad opera dei tedeschi portò a una effimera rinascita del regime fascista, che, per l’occasione, richiamandosi alle sue origini repubblicane, proclamò la Repubblica Sociale Italiana, detta Repubblica di Salò dal paese sul lago di Garda dove il governo aveva sede. La sconfitta tedesca in Italia e il successo delle azioni partigiane ne segnarono la fine.

6 Come giudicare il fenomeno fascista - Il fascismo, secondo alcuni, fu soltanto una malattia passeggera nello sviluppo liberale dell’Italia contemporanea. E’ questa la tesi sostenuta, ad esempio, dal filosofo Benedetto Croce. Per altri, rappresentò invece la manifestazione estrema e caratteristica di una permanente tendenza antidemocratica della nostra storia nazionale, che ha tenuto costantemente le masse al di fuori della vita politica.
Spetterà alla Resistenza colmare, almeno in parte, questo divorzio fra Stato e popolo, e di creare così le premesse per una costituzione che prevede la partecipazione attiva delle masse democratiche alla cosa pubblica.

Il Nazismo – Il termine nazismo o nazionalsocialismo definisce l'ideologia e il movimento politico tedesco collegati all'avvento al potere in Germania nel 1933 da parte di Adolf Hitler, conclusosi alla fine della seconda Guerra Mondiale con la conquista di Berlino da parte delle truppe sovietiche nel giugno 1945.
Il nazismo è comunemente associato al Fascismo; benché i nazisti affermassero di sposare una forma nazionalista e totalitaria di socialismo, opposta al socialismo internazionale marxista.
Il nazismo trae origine dal partito politico fondato da Adolf Hitler, l'NSDAP, (Nationalsozialistische deutsche Arbeiterpartei, partito operaio nazionalsocialista tedesco) ed è basato sul programma politico indicato da questo nel libro ‘Mein Kampf’. Una volta raggiunto il potere tramite una regolare elezione si trasformò in dittatura, con un programma di eliminazione anche fisica sia degli avversari politici che di persone appartenenti a categorie ritenute inferiori, quali gli ebrei, i testimoni di Geova, gli zingari, gli omosessuali, i portatori di handicap e i ritardati mentali.
La Germania di questo periodo è generalmente indicata come Germania Nazista. Il Nazismo era anche chiamato Nazionalsocialismo ed i suoi aderenti erano detti Nazisti.

1 Crisi politica ed economica della Repubblica di Weimar - La Repubblica di Weimar, sorta dopo la sconfitta tedesca nella prima guerra mondiale, ebbe vita difficile, per i tentativi comunisti di instaurare una repubblica dei Soviet e le tendenze nazionalistiche e militariste delle destre. Aggravò la situazione una abnorme e clamorosa svalutazione della moneta. Delle difficoltà economiche e del malcontento per le dure condizioni della pace approfittò Hitler che, nel 1920, fondò il Partito nazionalista dei lavoratori tedeschi, più noto come partito nazista. In politica estera, esso puntava alla revisione del sistema instaurato dal trattato di pace e alla creazione di un grande Reich (= impero) pantedesco e, in politica interna, mirava ad instaurare un governo autoritario.

2 Le cause del successo di Hitler - Fallito il suo primo colpo di stato nel 1923 (putsch di Monaco; Hitler incarcerato scrisse il Mein Kampf = La mia battaglia, in cui espose le sue teorie), Hitler incontrò un successo nelle elezioni del ‘30, grazie alle attività terroristiche delle squadre armate del partito (SA e SS) e all’aumentato malcontento popolare per i crescenti disagi seguiti alla grave crisi mondiale del ‘30 che ebbe anche in Germania dure ripercussioni, soprattutto nel campo della occupazione. Non furono estranei al suo successo gli strumenti della propaganda elettorale, gli slogan, i simboli, i riti fortemente suggestivi che accompagnavano le manifestazioni naziste. Tutto ciò, peraltro, non sarebbe stato sufficiente all’affermazione hitleriana, se militaristi, agrari, industriali e piccoli borghesi non avessero visto, nel movimento nazista, la risposta più soddisfacente ai loro sentimenti nazionalistici e al diffuso timore verso i comunisti.
Il nazismo trovò entusiastici finanziatori nei magnati dell’industria tedesca; e le azioni delle squadre armate del partito conobbero la tolleranza delle autorità, che erano invece pronte a colpire le violazioni della legge compiute dai comunisti.

3 Caratteristiche del fenomeno nazista - Il nazismo si distinse dal fascismo italiano, cui si ispirava, non solo per l’inclusione del mito della razza pura ariana, al quale si accompagnava un violento antisemitismo, ma anche per una concezione complessivamente più fanatica e disumana. L’insediamento del nazismo nel cuore dell’Europa e le mire espansionistiche della politica hitleriana dovevano travolgere nella guerra il nostro continente e il mondo intero.

4 Il crollo del nazismo - L’insuccesso finale cui Hitler andò incontro nella guerra da lui scatenata portò alla fine del nazismo e alla morte tragica e scenografica del suo capo.

La seconda guerra mondiale e la Resistenza
La seconda guerra mondiale (1939-1945)
1 La politica espansionistica di Hitler
- La seconda guerra mondiale fu lo sbocco fatale della politica espansionistica di Hitler, nei cui confronti le potenze occidentali, in particolare Inghilterra e Francia, tennero, per più anni, un comportamento incerto, caratterizzato da un sostanziale cedimento.
Esse non potevano condividere la dottrina nazista e temevano fortemente il riarmo materiale e morale della Germania. Tuttavia, in Hitler, come pure in Mussolini, esse vedevano un fanatico e deciso «alleato» contro il comunismo sovietico e un forte di fensore dei «valori dell’Occidente».
Da tale situazione contraddittoria derivarono i cedimenti di fronte agli atti della politica aggressiva di Hitler: la rimilitarizzazione della Renania (1936), l’intervento nella guerra spagnola a favore di Franco (1936-39), l’occupazione e l’annessione dell’Austria (marzo 1938), l’annessione dei Sudeti (settembre 1938), l’occupazione della Cecoslovacchia (1939).

2 Stalin si accorda con Hitler - Tale atteggiamento della Francia e dell’Inghilterra e il timore di più precisi accordi con la Germania a suo danno, spinsero poi Stalin a stringere un patto di non aggressione con Hitler, che, ormai sicuro sul fronte orientale, decise di attaccare la Polonia (1° settembre 1939).
Le potenze occidentali non potevano accettare questo ulteriore atto dell’imperialismo hitleriano senza esporsi al rischio di dover soccombere.
Scoppiò così la guerra, che insanguinò l’Europa per quasi sei anni (settembre 1939 maggio 1945), distruggendo milioni di vite umane, annientando l’economia europea e lasciando dietro di sé intere città e regioni distrutte.

3 La guerra totale - Il primo conflitto mondiale era già stato una guerra totale, in quanto aveva implicato lo sforzo e l’impegno non solo degli eserciti, ma di tutte le energie materiali e spirituali delle nazioni in guerra.
Tuttavia, anche se le popolazioni avevano dovuto sopportare condizioni di vita a volte durissime, quasi solo le truppe furono esposte ai rischi dei combattimenti.
La seconda guerra, invece, è stata totale in un senso ancora più vasto. I bombardamenti su vasta scala colpirono città inermi, centri produttivi, linee di comunicazione, colonne di profughi; e la caratteristica di guerra di movimento che il conflitto assunse, coinvolgendo nelle operazioni militari quasi tutto il continente, espose i civili a rischi diretti non dissimili da quelli dei combattenti.
Aggravò la spietatezza di questa guerra la politica razziale nazista, che sfociò nella deportazione e nello sterminio in massa degli ebrei nei campi di concentramento. Un numero enorme di prigionieri dei paesi invasi furono trasferiti in Germania. E infine le iniziative di resistenza, che si organizzarono nei paesi occupati, gravarono sulla popolazione civile che subì le conseguenze di imboscate, rastrellamenti e rappresaglie.

4 L’Italia dalla neutralità all’intervento - Quando l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche diede inizio al conflitto, l’Italia proclamò la sua neutralità, anche se aveva stretto, solo pochi mesi prima, un’alleanza militare con la Germania, il cosiddetto «patto d’acciaio», che impegnava le due potenze a prestarsi reciproco aiuto in caso di guerra.
La neutralità italiana era dovuta all’impreparazione dell’esercito e alle insufficienti risorse industriali. La sua giustificazione, nei confronti dell’alleato tedesco, stava invece nel fatto che le due potenze si erano accordate segretamente nel non provocare guerre prima di tre anni, patto che Hitler non aveva rispettato.
Quando però Mussolini vide Hitler spazzar via, apparentemente senza difficoltà, la Polonia, occupare la Norvegia, invadere la Danimarca, l’Olanda e il Belgio, e quindi superare la modernissima linea difensiva francese, la Maginot, e invadere la Francia convinto che l’Inghilterra si sarebbe piegata e il conflitto si sarebbe concluso rapidamente, per non restare escluso dalle trattative di pace, dichiarò guerra alla Francia e all’ Inghilterra.

5 Il disastro finale - Ma le previsioni di Mussolini si rivelarono ben presto sbagliate. L’Inghilterra resitette, prima sola, poi sostenuta dagli Stati Uniti d’America intervenuti direttamente nel conflitto. Le strepitose vittorie di Hitler, che lo portarono ad occupare quasi tutta l’Europa penetrando fin nel cuore della Russia, non lo salvarono dal disastro finale.

La Resistenza – La resistenza non comprende solo il movimento dei partigiani, ma anche tutta l’opposizione antifascista anteriore all’8 settembre 1943, e l’azione antitedesca svolta dall’esercito regolare italiano, affiancato alle truppe alleate, dopo l’armistizio, essendo tutti e tre i movimenti accomunati dalla volontà di resistere alla dittatura fascista e di restituire all’Italia la libertà e l’indipendenza dalla Germania.
La resistenza quindi comincia con il delitto Matteotti del 10 giugno 1924, quando i partiti antifascisti col ritiro sull’Aventino denunziano alla nazione l’impossibilità di riconoscere un governo che si serviva di delitti per soffocare la voce accusatrice dell’opposizione; e finisce nel 1945 con l’annientamento del nazifascismo. Fu la resistenza morale e culturale operata da scrittori e uomini di cultura coraggiosi, che tennero viva la libertà di pensiero. Fu resistenza anche quella dei fuoriusciti i quali con conferenze, giornali e libri all’estero tennero aperto il problema italiano e all’interno agirono come fermento di ribellioni alla dittatura. Particolare carattere di vera resistenza armata ebbe l’intervento dei fuoriusciti italiani nella guerra civile di Spagna contro la dittatura di Franco, nella quale si voleva cogliere una grande occasione per organizzare un grande fronte europeo antifascista. Resistenza è pure l’opera svolta da coloro che tentarono di impedire che l’Italia entrasse in guerra accanto ad Hitler, e gli appelli rivolti ai governanti per scongiurare il flagello mondiale.
Allo scoppio della guerra, il conflitto assunse un carattere di lotta non tanto tra due gruppi di stati, ma fra due moralità, e gli uomini della resistenza aumentarono vertiginosamente, si inserirono nella parte di chi combatteva contro la tirannide con la coscienza di contribuire alla salvezza ed alla ricostruzione della patria.

1 Dall’armistizio alla Resistenza - L’8 settembre del 1943, l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati segnò lo sfacelo dell’esercito italiano abbandonato dal re, da Badoglio, in quel momento capo del governo, e dal Comando supremo. Costoro, fuggendo da Roma, si rifugiarono a Brindisi senza lasciare precisi ordini che coordinassero le operazioni militari contro le forze tedesche in Italia.
Tuttavia, mentre i Tedeschi acceleravano l’occupazione della penisola, iniziata dopo il 25 luglio, e deportavano in Germania, in vagoni piombati, i soldati italiani fatti prigionieri nelle caserme, si manifestavano i primi atti di resistenza armata da parte di militari che intendevano manifestare concretamente i loro sentimenti contrari al fascismo e alla guerra da esso voluta.
Ai militari resistenti si affiancarono, a volte, i borghesi, come ad esempio negli scontri di Porta San Paolo a Roma. Rilievo particolare ebbe, per il suo carattere di rivolta di popolo, l’insurrezione antitedesca di Napoli (le «quattro giornate di Napoli»).
Furono questi i primi atti della Resistenza, il vasto movimento di insurrezione popolare che costituì un fenomeno di eccezionale portata nella storia d’Italia, pari al Risorgimento, anche se ben diverso nelle sue modalità e finalità.

2 I protagonisti della Resistenza - E’ difficile stendere la storia di un movimento che si frantumò in molteplici azioni e vicende spesso fra loro indipendenti. Nel prospetto che segue ne sono indicate le fasi e gli episodi salienti. Qui è più interessante ricordare che l’azione politica della Resistenza trovò i suoi organi direttivi nei Comitati di liberazione nazionale (CLN) costituitisi in tutta la penisola dopo l’8 settembre, nei quali erano rappresentati i partiti comunista, socialista, democristiano, liberale, il partito d’azione e il partito democratico del lavoro; e, sul piano militare, nel Corpo Volontari della Libertà, formazione militare, il cui comando - dopo l’accordo intercorso tra gli Alleati, il governo italiano insediatosi a Roma liberata e il CLN Alta Italia - fu assunto dal generale Raffaele Cadorna, mentre vicecomandanti furono Ferruccio Parri del Partito d’azione e il comunista Luigi Longo.
L’attività militare della Resistenza era compito di formazioni partigiane (bande) riunite in brigate, le quali o si ispiravano ai programmi dei ricostituiti partiti politici, come le brigate Garibaldi (partito comunista), le brigate Giustizia e Libertà (partito d’azione), le brigate Matteotti (partito socialista); oppure erano autonome, cioè non si richiamavano ad alcuna precisa ideologia politica e si ponevano come unico compito la liberazione del paese da tedeschi e fascisti.
Le bande partigiane agivano in montagna e nelle zone rurali, mentre, nelle città, si organizzarono i Gruppi di azione patriottica (GAP), impegnati in azioni di guerriglia urbana. Si affiancavano a volte le Squadre di azione patriottica (SAP) che controllavano politicamente le fabbriche e inoltre compivano sabotaggi nelle campagne.
Al costituirsi di queste forze di resistenza e di lotta fu di spinta, nell’Italia centrale e settentrionale, la rinascita del Partito fascista, e, dopo la liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, la costituzione della Repubblica Sociale Italiana o Repubblica di Salò. Le formazioni resistenti ebbero allora per nemici non solo gli occupanti tedeschi, ma anche i fascisti loro alleati. Il conflitto, di conseguenza, si allargò e si esasperò.
Le azioni della Resistenza furono influenzate dalle operazioni condotte, sul fronte italiano, dagli Alleati che risalivano la penisola. Con essi la Resistenza stabilì rapporti di cooperazione, che spesso risultarono difficili a causa della diffidenza degli Alleati stessi nei confronti di un movimento che, rifiutandosi di essere puramente militare, manifestava apertamente i suoi scopi e le sue simpatie politiche.
Elemento fondamentale e caratterizzante della Resistenza fu il comportamento della popolazione civile, soprattutto della popolazione rurale e montana, che solidarizzò coi partigiani e li sostenne nonostante i sacrifici e i rischi che tale solidarietà comportava.
Altro elemento che entra a far parte del quadro resistenziale è la solidarietà attiva della popolazione nei confronti dei perseguitati razziali, con l’accettazione dei rischi che tale solidarietà comportava: un atteggiamento determinato in egual misura da naturale pietà e da una più riflessa volontà di ribellione contro la spietata ingiustizia nazifascista.

3 La Resistenza europea - La resistenza antinazista non fu un fenomeno esclusivamente italiano. In tutti gli stati europei occupati sorse un movimento di opposizione ai nazisti, movimento che andò via via ampliandosi col crescere dell’oppressione, delle mortificazioni e dei sacrifici, dell’odio verso lo straniero occupante e i connazionali che con lui collaboravano, e col rafforzarsi della speranza della loro sconfitta finale.
In Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Grecia, in Norvegia uomini e donne crearono sui loro territori una rete per sostenere l’azione dei reparti armati, che impegnavano i tedeschi all’interno costringendoli a distogliere truppe dai fronti di guerra, che interrompevano con attentati ai convogli i rifornimenti, che disturbavano e inceppavano le comunicazioni.
Sosteneva i partigiani e la popolazione che li aiutava oltre al tradizionale patriottismo, l’opposizione cosciente ad una ideologia che negava tutta la tradizione culturale europea ed i valori che essa era venuta precisando, primi tra tutti la libertà ed il rifiuto della violenza come strumento di governo e quale base dei rapporti internazionali.
La Resistenza trasformò per i tedeschi l’Europa conquistata in un vasto e infido territorio da presidiare, tenne viva, anche nei momenti più bui della guerra, quando le armate naziste sembravano inarrestabili, la fiducia nella vittoria finale, creò legami di solidarietà che aiutarono gli uomini a vincere l’isolamento in cui l’occupazione li relegava, portò a dibattere sugli errori passati che avevano generato la triste situazione presente e a delineare i tratti della nuova società futura.

4 La Resistenza nella letteratura e nell’arte - La misura dell’intensità con cui l’esperienza resistenziale fu vissuta dal popolo italiano è testimoniata dalla fioritura letteraria e artistica che ad essa si collegò.
Negli anni successivi alla Resistenza, romanzi, liriche, film, opere di pittura e di scultura, trassero da essa ispirazione e ne rievocarono e ne testimoniarono, di volta in volta, i momenti drammatici, dolorosi ed eroici.
Di ispirazione resistenziale è uno dei più importanti filoni della corrente artistica che va sotto il nome di “neorealismo”.

Storia socioculturale di un ventennio - Semplificando molto si può dire che il Fascismo dal punto di vista sociale, più che il braccio armato del grande capitale (inizialmente cauto verso di essi), fu l’espressione dei ceti medi frustrati, ostili sia alle classi popolari, con cui non volevano confondersi, sia alla grande borghesia che li spingeva verso il basso. Dopo aver sperato nella guerra per un rimescolamento delle carte a proprio vantaggio, «ora si vedevano governati da quegli stessi uomini contro cui si erano battuti nelle radiose giornate dell’intervento e pressati e scavalcati al tempo stesso dall’ascesa di quelle forze popolari che della neutralità avevano fatto un punto fondamentale del proprio programma» (A. Asor Rosa). Incapace di comprendere la nozione di lotta di classe, dato il suo viscerale individualismo e il fatto che per lui lo sfrutta­mento «rimane anonimo, inavvertito, celato dietro la cortina delle libere contrattazioni», il piccolo borghese è convinto che «la collabo­razione fra le classi sia possibile e che esista un interesse generale che coincide col suo, intermedio tra quello della borghesia e quello del proletariato». Così i ceti medi «sognano uno stato al di sopra delle classi che non sia controllato né dalla borghesia né dal proletariato, e che di conseguenza sia al loro servizio» (D. Guérin).
Perciò l’obiettivo strategico di Mussolini e del Fascismo sarà la conquista dello Stato, da cui i ceti medi si ripromettono il controllo del potere politico e il godimento della rendita burocratica (impieghi, sovvenzioni ecc.) per reprimere da un lato l’ascesa delle classi subal­terne e negoziare dall’altro un accordo con la grande borghesia detentrice del potere economico. La conquista dello Stato richiederà un’intesa con la corona e gli alti gradi dell’esercito e della burocrazia ad essa collegati, coi quali di fatto il Fascismo dovrà spartire il potere politico durante il ventennio (tale intesa sarà resa possibile dalla ostilità alle istanze popolari e dalla ideologia nazionalista che accomu­nava le due parti).
Fra le truppe dei ceti medi all’assalto dello Stato troviamo larga­mente rappresentati la pletora dei mezzi intellettuali che affollano le scuole e fanno anticamera alle redazioni dei giornali e delle case editrici. Molti di essi si pongono al servizio della macchina propagan­distica del regime ricavando anch’essi dallo Stato etico la loro parcella di rendita. Gli intellettuali di regime furono di due specie: i «puri» e gli opportunisti. I primi «erano per la maggior parte intel­lettuali di mezza tacca... Nessuno li prendeva sul serio, neppure coloro cui fornivano i prodotti delle loro dotte elucubrazioni». Le maggiori figure della cultura del regime e fra loro in particolare il filosofo Giovanni Gentile, il giurista Alfredo Rocco e lo storico Gioacchino Volpe «si erano formati prima del Fascismo... Le loro maggiori opere le avevano ormai alle spalle». Fatto è che il Fascismo non produsse una sua cultura e quanto alla dottrina fascista «non aggiunse nulla a quello che aveva ereditato dal recente passato: mise insieme lo Stato etico dell’idealismo hegeliano con la nazione proleta­ria dei nazionalisti, il dinamismo dei futuristi con l’esaltazione del superuomo. Più propriamente sua fu l’idea, storicamente del tutto inconsistente, adatta soltanto alla retorica celebrativa, della latinità, delle quadrate legioni, dell’Italia del Littorio» (N. Bobbio). La maggior parte degli intellettuali di regime fu comunque costituita da semplici opportunisti, con la fede a comando, come molti dei primi membri dell’Accademia d’Italia (creata nel 1926), quasi tutti i profes­sori di università (dei quali solo 11, su 1200, non giurarono nel 1931 fedeltà al regime), la maggior parte degli insegnanti della scuola primaria e secondaria, gli scrittori e i pubblicisti a disposizione della stampa e della radio di regime che prestarono mano all’attività dell’I­stituto per gli studi del Fascismo universale, fondato nel 1936, all’or­ganizzazione dei Littoriali della cultura, infeconde gare intellettuali bandite annualmente dal 1934 dalle università, o alle imprese propagandistiche e censorie del ministero della cultura popolare, il fa­moso Minculpop.
Oltreché la scuola, fascistizzata già dal 1923 dalla riforma Gentile e poi nel 1930 da una disposizione che stabiliva che rettori e presidi di facoltà universitarie e scuole medie dovessero essere scelti tra professori con almeno cinque anni di tessera fascista, particolar­mente utile al regime fu la collaborazione data dall’intellettualità opportunista allo sviluppo di cinema e radio fascisti, con cui negli anni ‘30 si inaugurò anche in Italia l’era dei mass media e della manipolazione di massa.
Attraverso la radio (entrata nelle case italiane a partire dall’ottobre del 1924) l’Italia fu frastornata dalle «radio cronache delle cerimonie ufficiali e patriottiche, cortei, sfilate, inaugurazioni, saggi ginnici, ecc., dove si venne coniando uno stile che fu detto littorio il quale toccava il suo culmine nelle radiotrasmissioni dei discorsi di Mussolini» (G. Manacorda).
Per quanto riguarda specificatamente la letteratura l’influenza del Fascismo si fece sentire sensibilmente nella marcata tendenza al disim­pegno politico e al rifugio nella torre d’avorio letteraria, manifestata da riviste come la Ronda e Solaria (soppressa quando cominciò a sembrare un punto di riferimento culturale troppo indipendente dal regime), nella prosa d’arte e nella poesia ermetica, che appaiono ambiguamente «una difesa dei valori poetici che certamente si opponeva alle intrusioni della politica fascista, ma nello stesso tempo un’evasione dalla realtà che non consentiva la denunzia della tragica situazione di quegli anni» (G. Petronio). Più direttamente espressione della contraddittoria ideologia fascista furono da un lato Strapaese di Maccari, dall’altro Novecento e il gruppo di Stracittà di Bontempelli. La prima rivista espresse il ruralismo del regime cioè l’esaltazione dei valori e dei modi di vita e di pensiero tradizionali delle campagne italiane, fatta per consolarle del prezzo che esse dovevano pagare ai maldestri sforzi di industrializzazione e di modernizzazione tentati dal Fascismo; mentre la seconda esaltava il preteso rapporto tra Fascismo e modernità, quel rapporto per cui esso si era riconosciuto nel futurismo e questo nel Fascismo e che, nella misura in cui esisté, da ragione a quelle interpretazioni che vedono nel Fascismo il tentativo di risposta di una società arretrata come l’Italia alla crisi dell’industrializzazione in atto: «un’ideologia di emergenza con un programma non d’immobilizzazione e d’ibernazione della società malata (come fanno invece i sistemi di tipo militare) ma di fuga in avanti» (L. Incisa).
Una cultura o, più particolarmente, una letteratura di opposizione non fu tollerata dal regime fascista. L’iniziativa di Gramsci e di Gobetti, espressione l’una di una rilettura originale del marxismo, l’altra di una revisione autocritica dei presupposti dell’ideologia libe­rale, fu presto interrotta o isolata con la violenza, la morte e il carcere. Sopravvisse in solitudine Benedetto Croce che poté continuare a pubblicare la sua rivista La critica, la quale, pur evitando ogni incursione nel terreno specificatamente politico, costituì un punto di riferimento, l’unico non clandestino, per quel poco di opposizione che si manifestò anche nelle file della borghesia italiana nazionale. Sul terreno letterario c’è da ricordare però che è proprio negli anni più fortunati del Fascismo, quelli del consenso, che vedono la luce alcune opere, come Gli indifferenti di Moravia, Il garofano rosso e Conversazione in Sicilia di Vittorini, Paesi tuoi di Pavese, implicita­mente antifasciste, che costituiscono le radici della letteratura impe­gnata del dopoguerra.

Eugenio Montale - È il più importante poeta del nostro Novecento. Con la sua lunga residenza fiorentina e con la sua raccolta del 1939, Le occasioni, Montale, ha rappresentato uno dei punti di riferimento più sicuri per i poeti delle giovani generazioni.
La sua poesia costituisce il polo opposto rispetto alla fede ottimistica e mistica di Ungaretti, disegnando così l’altro confine entro cui si muove l’esperienza ermetica. Anche per Montale i fenomeni sono falsificazione, alienazione mo­rale, anche per Montale occorre il contatto con l’Assoluto attraverso la poesia: ma in Montale la mistica comunione non si realizza mai, appare per un attimo e subito scompare. Le occasioni, allora, sono una lunga lista di occasioni perdute, un colloquio con l’oltre, sempre interrotto dal silenzio, dal vuoto, dall’atroce dimensione della storia (la guerra, il nazismo).

1 La vita - Nato a Genova nel 1896 da una famiglia borghese, Montale trascorse l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza fra Geno­va e la casa delle vacanze estive di Monterosso nelle Cinque Terre, dove imparò ad amare quel paesaggio marino e assolato, ma anche arido e sco­sceso, che sarebbe divenuto una delle presenze costanti della sua poesia. Per ragioni di salu­te, fu avviato agli studi di ragioneria, ma egli si appassionava soprattutto ai libri di poesia e di narrativa suggeritigli dalla sorella Marianna.
La formazione di Montale avvenne al di fuori degli schemi consueti, data l’irregolarità dei suoi studi: alla conoscenza dei poeti italiani accompagnò quella di poeti stranieri, francesi e soprattutto anglosassoni. Cominciò cosi a porre le basi di una vastissima cultu­ra che avrebbe man mano arricchito in modo del tutto autonomo dalle istituzioni scolastiche.
Montale prese anche lezioni di canto (era sua intenzione di diventare baritono), ben presto interrotte per la morte del maestro che lo seguiva. La musica però rimase sempre una delle sue passioni predilette, tanto che, negli anni della maturità, collaborò come critico musicale al Corriere della Sera.
Nel 1917, Montale fu richiamato sotto le armi; congedato nel 1919 ritornò a Genova, dove conobbe alcuni importanti intellettuali del tempo tra i quali il poeta Camillo Sbarbaro e Piero Gobetti, uomo di cultura e prestigioso esponente dell’antifascismo, che nel 1925 curò l’edi­zione della sua prima raccolta di versi, Ossi di seppia.
Nel 1927, Montale si trasferì a Firenze, dove sì impiegò presso la casa editrice Bemporad; l’anno dopo ottenne il posto di direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, prestigioso centro culturale della città.
Nel 1938, Montale fu costretto a dimettersi dall’incarico perché si era rifiutato di prendere la tessera del Partito fascista. Intanto, sempre a Firenze, frequentava poeti e scrittori come Sal­vatore Quasimodo, Carlo Emilio Gadda, Elio Vittorini, con i quali si incontrava spesso al caffè Giub­be Rosse. In quegli anni conobbe Drusilla Tanzi, che sarebbe diventata sua moglie e pubblicò il se­condo libro di poesie, Le occasioni nel 1939.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, Montale si trasferì a Milano do­ve si dedicò stabilmente all’attività di giornalista presso il Corriere della Sera. Appartiene a questo periodo la terza raccolta, La bufera e altro, pubblicata nel 1956, alla quale seguì un lungo periodo di silenzio poetico: erano gli anni del miracolo economico che favori un processo di massifi­cazione della società, accompagnato dall’estendersi del potere dei mass media e da una certa degra­dazione della cultura. Montale guardava con amarezza e distacco questa realtà nella quale la poesia sembrava aver perso definitivamente il suo ruolo e per un lungo periodo preferì non comporre versi.
Proprio tale degradazione fu il centro dell’ultima maniera del poeta. Nel 1971, Montale ricominciò a scrivere, dando avvio alla sua seconda e ricca stagione poetica che inizia con Satura e prosegue con Diario del ‘71 e del 72, Quaderni dei quattro anni e Altri versi, opere nelle quali la poesia adotta un linguaggio basso e stereotipato, offrendo un’immagine fortemente negativa della società contemporanea; in questo, Montale parla nello stesso tempo con un’incredibile voce postuma e scettica, aldilà di tutte le certezze, come se il poeta avesse quasi rinunciato ad invocare la verità, chiudendosi in una splendida ironia sapienziale.
Divenuto un importante punto di ri­ferimento per la poesia italiana ed europea, nel 1967, Montale fu nominato senatore a vita per i suoi meri­ti letterari e nel 1975 fu insignito del Premio Nobel per la letteratura.
Montale morì a Milano nel 1981.

2 Le opere - La sua ricca produzione poetica, che accompagnò tutto il corso della sua vita, è costituita dalle raccolte
· Ossi di seppia (1925)
· Le occasioni (1939)
· La bufera e altro (1956)
· Satura (1966)
· Diario dei ‘71 e 72 (1972)
Accanto alla produzione poetica ricordiamo le sue opere in prosa: La farfalla di Dinard (1956), Auto da fé (1966); e le sue traduzioni (dalla Dickinson, da Yeats, da T.S. Eliot, da Kavafis).

3 I temi della poesia montaliana - Fra le tre maggiori raccolte poetiche montaliane, Ossi di seppia, Le occasioni, La bufera, non vi è distinzione di temi così netta come, ad esempio, tra le raccolte di Ungaretti. Ritorna in esse, infatti, sia pure con approfondi­menti e con diversificate angolazioni, la medesima visione della vita. Si indicano perciò complessivamente i temi di tali raccolte, aggiungendo che i componimenti della seconda e della terza raccolta sono di tecnica più ardua ed ermetica, e perciò di più difficile comprensione e interpretazione.
a) «II male di vivere» - Questa espressione, che costituisce il titolo di una lirica degli Ossi di seppia, vuol significare che, per Montale, l’essenza della vita è il male, cui non sfuggono né le cose animate, né quelle che consideriamo inanimate: l’uomo, il cavallo stramazzato, il ruscello senza sbocco, la foglia bruciata dall’arsura.
Il male di vivere peraltro non sempre coincide con la forza distruttrice che si abbatte sulle esistenze. A volte, esso si identifica con l’oppressione che grava sull’uomo, il quale si sente chiuso nella sua vita da una specie di invalicabile muraglia e non riesce a capire il senso della forza che l’imprigiona.
b) «La divina indifferenza» - L’unica salvezza di fronte al male di vivere sta nel resistere all’angoscia, nel guardare al proprio destino con lucido coraggio. Questo stato d’animo, sempre nella lirica, Il male di vivere, è definito da Montale la divina indifferenza, cioè il dignitoso distacco, considerato divino perché con­sente all’uomo, che pure conosce la negatività della vita, la forza quasi sovrumana di accettarla.
c) «Il fantasma che ti salva» - Il pessimismo montaliano è percorso comunque da una ricorrente speranza positiva: che possa esserci qualcosa, che possa avvenire un miracolo che consenta all’uomo di capire il senso della sua esistenza. Tale speranza sì concreta in alcune immagini: il fantasma che ti salva e che forse è possibile incontrare al di là dell’erto muro della vita, solo che riusciamo a valicarlo; la «maglia rotta nella rete / che ti stringe». È tuttavia una salvezza che il poeta, in genere, non spera più per sé, ma la invoca per altri più fortunati.
d) La Liguria montaliana - Nato a Genova, Montale è il cantore di una Liguria assolutamente anticonvenzionale, non fastosa né vistosa: un paese asciutto ed aspro, fatto di stradette che si spingono nell’entroterra, di muri a secco, di terreni bruciati dal salino. Pur suggestivamente evocato e descritto, tale paesaggio non è per lo più fine a se stesso, ma è la proiezione dello stato d’animo del poeta, ne esprime la sensibilità scontrosa e desolata, solo eccezionalmente protesa verso la fiducia e la speranza.

4 Il linguaggio di Montale - La poesia montaliana rifiuta il canto spiegato, l’abbandono sentimentale o, se lo consente così avaramente, che in questi casi esso assume un significato intenso e particolare. Essa è tutta percorsa da sotterranee e complesse suggestioni melodiche, ottenute sapientemente attraverso assonanze, rime interne, pause. Anche il linguaggio è volutamente scabro («qualche storta sillaba e secca come un ramo»), a volte oscuro per collegamenti, allusioni, analogie che non è facile individuare e sciogliere: adeguato anch’esso alla intensa e amara materia poetica.

5 L’ultimo Montale - L’ultima copiosa produzione montaliana, costituita dalle raccolte Satura e Diario del ‘71 e ‘72, è caratterizzata da tono e linguaggio prosastici, del tutto lontani da quelli delle raccolte precedenti: tono e linguaggio di poesia parlata.
I componimenti più ricchi di emozioni poetiche, pur nella pacatezza del discorso, sono quelli che vanno sotto il titolo di Xenia: le liriche fanno parte di una sezione della raccolta Satura, costituita da liriche dai toni semplici e colloquiali dedicate alla moglie Mosca. Xenia erano i brevi componimenti che accompagnavano i doni fatti a un ospite nel momento in cui lasciava la casa che lo aveva accolto.
Questo piccolo canzoniere, che nella sua semplicità costituisce uno degli esiti più alti della poesia montaliana, è appunto il dono che il poeta fa alla moglie nel momento della sua partenza senza ritorno, una testimonianza d’affetto per una donna appartata, apparentemente insignificante, ma in effetti l’unica con la quale egli sia riuscito a realizzare, al di là dell’amore che lo legava a lei, un completo affiatamento. Mosca è fissata in mille semplici episodi della vita quotidiana, nelle piccole avventure di un’esistenza normale e senza pretese che lei ha sa­puto vivere con dignità e con ironica saggezza.

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