mercoledì 30 settembre 2009

La nuova civiltà urbana di Massino Capuozzo

Verso una nuova civiltà: la nuova società urbana – Il secolo XI segna una svolta nella storia d’Europa: ha inizio in quell’epoca un progresso che – a differenza dei parziali e temporanei tentativi di rinascita per opera di Giustiniano e di Carlo Magno, tentativi ai quali seguirono nuovi periodi di declino – durò quasi ininterrottamente sino ai tempi moderni.
In particolare l’età compresa tra l’XI e il XV secolo rappresenta per l’Italia uno dei momenti di maggior splendore.
Nell’Alto Medioevo si potevano distinguere nell’Europa cinque province culturali:
bizantina,
musulmana,
scandinava,
slava
europea.
Mentre il centro dell’iniziativa poli­tica e di propulsione della cultura europea dall’VIII all’XI secolo risiedeva nel regno dei Franchi e nella Germania occidentale, dopo l’XI secolo, la nuova cultura si espresse attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, abbastanza omogenea, si differenziò notevolmente.
Nel basso medioevo l’area culturale latina, la cosiddetta Cristianità, si ampliò ulteriormente e sottrasse al dominio musulmano la Sicilia, gran parte della penisola iberica e, per qualche tempo, anche Gerusalemme e la Terrasanta ed il centro di gravità di questo mon­do culturale è costituito dalla Francia, dalla Germania renana e dall’Inghilterra meridiona­le. Ivi si trovano i centri di cul­tura più famosi, come Chartres, Parigi, Orléans, Oxford, Colonia. Qui, per oltre due secoli, si affer­mano i pensatori prima che altrove e la nuova poesia in volgare.
Successivamente la nuova cultura si espresse attraverso più centri e, diversamente da quella feudale, ancora abbastanza omogenea, andò notevolmente differenziandosi soprattutto nel XIII e nel XIV secolo si manifestarono tanti segni di cambiamento radicale nella società, nell’economia, nella cultura, nel modo di vivere e di pensare, che molti studiosi hanno adottato l’espressione ‘autunno del Medioevo’ per indicare il lungo periodo che, partendo proprio dal Duecento, si presenta come il lento tramonto dell’età medievale che si concluderà molto dopo con la nascita della società moderna in Europa. ‘Autunno del Medioevo’ è il titolo di una opera, uscita nel 1919, dello storico olandese Johan Huizinga e si riferisce al periodo del Trecento e del Quattrocento, visti come un grandioso riepilogo e come tramonto della civiltà medioevale e dell'arte tardogotica. In questo modo, si sottolinea la continuità della civiltà medioevale durante il Trecento e il Quattrocento, ma anche il senso della sua fine, costituito da numerose lotte politiche e religiose e dal diffondersi della peste nera.
L’immagine dell’’autunno’ evidenzia come per tanti aspetti il Medioevo non finisca:
il sistema feudale, per quanto in crisi ed in trasformazione, rimane alla base dell’organizzazione sociale, militare ed agricola;
la cultura delle masse rimane ancorata alla visione cristiana del mondo;
molti dei valori ideali, morali, artistici che si erano affermati nei travagliati secoli dopo la caduta dell’impero romano restavano immutati.
Tuttavia, altri fattori storici segnalano l’inizio di un’epoca più dinamica, con mutamenti più rapidi. Occorre segnalare infatti la crisi definitiva delle concezioni universalistiche, cioè di quelle idee secondo le quali il Papato e l’Impero potevano e dovevano costituire le due entità politiche e spirituali al cui interno avevano la loro posizione naturale tutti i cristiani. Nel corso del Trecento il Papato dovette rinunciare definitivamente ad esercitare un controllo sul potere politico che, contemporaneamente, assumeva un carattere nuovo e moderno negli ‘Stati nazionali’, retti da monarchie, che si formarono in Francia e Inghilterra. Il nome di impero sopravvisse, ma senza nessun carattere universale, solo per indicare l’insieme di regni, principati e città dell’area tedesca e austriaca che riconoscevano il titolo di imperatore ad un principe che era eletto.
L’altro fattore innovativo fu l’enorme ‘sviluppo delle attività produttive di carattere manifatturiero’, dei ‘commerci’, e dalla conseguente ‘nascita dell’attività bancaria’, segno che l’economia medievale non era più un’economia ‘chiusa’, caratterizzata da uno scarso bisogno di moneta e dalla sua limitata circolazione. Le città diventarono i motori della crescita, anche demografica, dell’Europa.
A metà del Trecento (1347-1348) l’intera Europa fu sconvolta da un’epidemia di peste che falcidiò la popolazione, fino a dimezzarla in alcune regioni; questo avvenimento spezzò in due il secolo XIV, determinando una crisi, oltre che economica, anche morale, politica, religiosa, ecc.
La seconda parte del Trecento è un periodo in cui l’Europa, dopo un momento di regresso, come stordita dal grave colpo subito, faticosamente cominciò a risollevarsi, ma le condizioni erano talmente cambiate che la ripresa dello sviluppo determinò la rottura degli equilibri precedenti e il baricentro economico e finanziario, fino allora localizzato nell’Italia centro-settentrionale, comincia a spostarsi lentamente verso i paesi del centro-nord dell’Europa.
Nel corso del XIII e XIV secolo l’Italia fu una delle sedi privilegiate, dove si manifestarono con mag­gior vigore i mutamenti economici e sociali, che portarono all’emergere di nuove istitu­zioni politiche, di nuove forme di attività commerciale, di vita religiosa, di arte e letteratura: in questo periodo la letteratura italiana nacque e fondò salda­mente la propria tradizione; questo processo ebbe un punto di svolta decisivo e del tutto eccezionale con la comparsa di tre grandi autori, Dante, Petrarca e Boccaccio che, con le loro opere, superarono molto le esperienze che li precedeva­no e crearono modelli tanto forti che è possibile affermare che con loro nacque la tradizione letteraria italiana con i caratteri, che la distinsero dalle altre.

La crisi del sistema feudale e la riorganizzazione politica dell’Europa – Gli Stati attuali derivano dal grande processo di riorganizzazione dell’Europa che seguì al disfacimento del regime feudale. Si trattava di un’organizzazione molto instabile, con guerre ricorrenti al suo interno e incapace di esprime­re un’autorità unica ed un ordine generale.
La massima autorità era l’imperatore. Il territorio era suddiviso in feudi, ciascuno dei quali era assegnato ad un feudatario, scelto dall’imperatore. Feudatario ed imperatore erano legati soltanto da un vincolo personale di fedeltà e di lealtà, ma un simile legame non bastava a garantire l’unità di potere politico su un territorio tanto vasto e questo spiega le frequenti guerre dell’imperatore contro i feudatari ribelli, per sottometterli alla sua autorità, dei feudatari contro l’impera­tore, per acquistare indipendenza, e dei feudatari fra loro stessi, per sopraffarsi a vicenda.
l’autorità imperiale era inoltre, contestata dal papa, che cercava di affermare la propria supremazia, in quella secolare vicenda che va sotto il nome di «lotta per le investiture»: la posta in gioco era il potere di scegliere i feudatari e quindi la loro dipendenza dall’imperatore o dal papa.
l’Europa si sgretolava così in tanti poteri locali più o meno indipendenti che, nel corso di più secoli e procedendo dal basso, diedero un nuovo ordine all’Europa. L’assenza di un’autorità politica capace di garantire l’ordine permetteva le scor­rerie di bande violente, che rendevano insicura la vita nelle campagne e nei cen­tri urbani. Allora, un capobanda imponeva con la forza il proprio dominio su un territorio, garantendo la sicurezza e l’amministrazione della giustizia. In cambio, però, esigeva obbedienza ed il pagamento di tributi. In questo modo, si affermava un piccolo centro di potere, capace di garantire quell’ordine, che il regime feudale non era più in grado di assicurare. Tante signorie nel corso dei secoli XIII - XV nacquero così, da un capobanda, che si imponeva in una città o in un contado: affermata la propria autorità, il nuovo signore contrattava la sua fedeltà con l’imperatore, strappandogli l’investitura feudale, insieme a poteri e privilegi. L’autorità imperiale era così degradata, dovendo l’imperatore subire il fatto compiuto. La stessa cosa avvenne con altri poteri, che si affermarono localmente. Talora erano le città che si davano un proprio governo libero, spesso dominato dalle ‘corporazioni delle arti e dei mestieri o dei mercanti’, oppure erano ‘i grandi monasteri’, che si arrogavano compiti da feudatari.
L’Europa così presentava una miriade di situazioni diverse, di signorie, di città, di monasteri, di corporazioni, che, formalmente, rispettavano l’imperatore, ma che, sostanzialmente, ne erano indipendenti.
Nel sistema feudale, appena descritto, mancavano i tre caratteri propri dell’organizzazione statale (sovranità, impersonalità, giuridicità), infatti:
nessun potere sovrano era in grado di imporsi ai numerosi poteri particolari;
i rapporti di potere erano di tipo personale;
sebbene esistesse un complicatissimo sistema di regole giuridiche che determinavano la posizione dei feudatari rispetto all’imperatore e agli abitanti dei feudi, contavano molto di più i puri e semplici rapporti di forza.
Eppure, proprio da questa situazione, prese avvio la lunga storia, che ha portato alla formazione dello ‘Stato moderno’. L’ordinamento feudale fu formalmente abolito solo nel 1648 con la ‘pace di Westfalia’, che stabilì la fine dell’impero e del Papato come autorità politiche europee e riconobbe l’autorità suprema dei diversi sovrani nelle loro terre. Questa data segna solo la presa d’atto di un processo in corso già da molto tempo.

La ripresa dell’agricoltura – La cosiddetta rinascita dopo il Mille, anno del terrore per la temuta fine del mondo, cominciò da una decisa ripresa dell’agricoltura caratterizzata dalla:
ricerca di nuove terre da coltivare, strappandole alle selve e alle paludi;
mag­gior razionalità nelle colture, grazie anche ad una maggior organicità ed efficienza dei grandi complessi fondiari, soprattutto quelli dei monasteri e delle Chiese, ma anche quelli regi e quelli dei grandi feudatari.
La grande contesa per la terra, scatenatasi tra i signori secolari e tra questi ed i vescovi e gli abati, non contrastò questo risveglio, anzi sembrò fa­vorirlo infatti la perdita di alcune proprietà spesso spingeva a cercare compensa­zione nell’acquisizione di nuove terre alle colture.
Dall'XI secolo alla prima metà del XII secolo l'Europa visse un periodo di grande modernizzazione: con l'affinamento delle tecniche agricole (l'invenzione del giogo, dell'aratro con parti metalliche, della rotazione triennale, l'uso dei mulini ad acqua ed a vento, ed altro) permise di aumentare la produzione di generi alimentari, sollevando la popolazione dalla caratteristica scarsità di cibo e permettendo un incremento demografico.
La crescita demografica, che ne fu a sua volta favorita, contribuì inoltre ad accelerare il fenomeno: l’au­mento assoluto di popolazione che creò sia insediamenti nuovi in terre già incolte, sia spostamenti o concentrazioni.
L’aumento della popolazione e il migliore tenore di vita nelle ‘curtes signorili’ e nei ‘mo­nasteri’ favorirono lo sviluppo della produzione di manufatti e la formazione di schiere più numerose e diversificate di artigiani, cui spettava il compito di fornire prodotti più raffinati e più funzionali alla vita dei castelli, delle abbazie e dei vescovadi, artigiani al­la cui opera era tra l’altro affidata la costruzione, l’arredamento e l’abbellimento delle nuove dimore e delle chiese.

I mercanti – Ripresero i commerci e si svilupparono i villaggi e le città quali sedi di mercati; crebbero le zone urbane e gradualmente fu possibile l'affermazione di un nuovo ceto sociale, quello ‘borghese’, dedito alle attività manifatturiere e commerciali, intermedio tra la massa dei contadini e gli aristocratici o gli ecclesiastici.
Uno dei segni del cambiamento economico-sociale che si era avviato fu l’emergere, a metà dell’XI secolo, di una nuova classe, i ‘mercanti’ che cominciarono ad occupare nella società un posto sempre più rilevante. Inizialmente erano soprattutto negozianti girovaghi, che andavano a rifornirsi della merce dov’era abbondante, per portarla dove sapevano di trovarne l’acquirente; successivamente, i mercanti preferirono appog­giarsi alle fiere, che si tenevano periodicamente, quasi sempre in concomitanza con ri­correnze religiose presso monasteri e città.
L’attività del mercante era molto remunerativa, ma gravosa e rischiosa, per questo essi si univano in gruppi, viaggiavano in carovane, mettevano in comune dei ‘capitali’. Si trattò dapprima di associazioni tem­poranee, che successivamente dettero luogo a istituzioni stabili: nel Nord le ‘gilde’ e le ‘anse’, da noi le ‘corporazioni’.

La ripresa della città - Sotto lo stimolo della generale ripresa economica manifestatasi nella società rurale alla fine del millennio e di quella degli scambi commerciali ‘rinasce la città’ grazie:
ad una maggior disponibilità di beni;
ad una maggior sicurezza e facilità di trasporti e comunicazioni;
ad una maggior circolazione monetaria.
Il processo di fuga che aveva portato al disperdersi della scarsa popolazione in isolati centri nelle campagne, nei pressi delle abbazie e dei castelli, si invertì: le città che avevano ricostruito le mura per far fronte alle ‘razzie degli Ungari’, diventarono un ricercato luogo di rifugio. Ma i contadini che vi accorrono vi trovano anche la possibilità di un’elevazione sociale ed economica: l’esercizio di un mestiere, oltre a liberarli dalla servitù della gleba, permette loro di acquistare benessere e ricchezze. Anche i nobili feudali, principalmente i minori, i ‘valvassori’, lasciano i castelli per cercare nella città una forma di vita più confortevole, una partecipazione più diretta alla vita politica, e, nell’associazione con i propri ‘consorti’, una più forte capacità di resistenza alle richieste dei vassalli maggiori.
La chiusa ‘economia curtense’, fondata quasi esclusivamente sul baratto, cede il posto ad un’economia più varia e ricca, caratterizzata dallo ‘scambio mercantile’, si produceva non più solo per consumare, ma anche per vendere, e dalla ‘presenza del denaro’. Tutto ciò si ripercosse favorevolmente sulle città, che diventarono ogni giorno più popolose e più ric­che.
Diversamente dalla ‘città romana occidentale’, la città medioevale, era un attivo centro di produzione e di commercio ed il suo governo era funzionale alle esigenze che ne derivavano ed alle quali erano subordinate quelle della campagna. La ripresa economica riportò la città nuovamente al centro dell’iniziativa politica.

La società urbana – La rivoluzione economica conseguente ad una più consistente produzione di beni e ad un commercio sempre più esteso e articolato mise in crisi l’or­dinamento sociale preesistente, lo sconvolse, per creare una nuova composizione sociale.
La società cittadina era molto più articolata di quella feudale:
i ‘nobili’, riuniti in ‘consorterie’;
al di sotto dei no­bili, raccolti attorno al vescovo come suo consiglio, sta il ‘popolo grasso’, la ricca borghesia, costituito in ‘arti maggiori’, che ben presto, sommergendo la vecchia classe feudale, prenderà nelle sue mani il governo della città per realizzare una politica espansionistica che garantisca la sicurezza delle vie commerciali: nobili e popolo grasso sono designati, nel loro insieme, come i ‘magnati’;
al di sotto sta il ‘popolo minuto’ degli artigiani e dei bottegai, riunito nelle ‘arti minori’ che raramente partecipa alla vita politica della città;
infine, i ‘nullatenenti’, i salariati che restano sempre esclusi da ogni attività politica.

Una nuova istituzione politica: il Comune - I cittadini, divenuti più numerosi, più ric­chi, più istruiti, non accettavano più dì essere soggetti al ‘vescovo-conte’ o al ‘feudatario’ nel cui territorio la città sorgeva: volevano prendere il governo nelle loro mani. Per difen­dere gli interessi comuni contro le pretese del vescovo o del feudatario, si riunirono in una società giurata, il ‘Comune’.
I modi in cui nacque e si sviluppò questa istituzione politica, questa nuova forma di governo repubblicano della città, sono molto vari.
Generalmente il Comune nacque come organizzazione privata, come società giurata, ad opera di nobili minori, i valvassori, che si raccoglievano attorno al vescovo-conte, dapprima per coadiu­varlo poi per sostituirlo nel governo della città. L’associazione si proponeva la difesa degli interessi comuni contro le pretese del signore feudale, ricorren­do, se necessario, anche alle armi. Più tardi entrarono a far parte della società anche i borghesi, a cominciare dai più influenti (commercianti, mercanti, banchieri, notai, me­dici e speziali) e l’istituzione si ampliò, assumendosi gradualmente la responsabi­lità degli interessi di tutta la città, in nome anche di coloro che di fatto non partecipavano al governo.
Come uno Stato, il Comune si arrogava ed esercitava i diritti so­vrani:
fare guerra e pace;
battere moneta;
amministrare la giustizia;
arruolare uomini;
riscuotere imposte.
Questi diritti spettavano all’Imperatore che però era troppo lontano e troppo debole, per impedirne l’usurpazione.
Le istituzioni comunali si presentarono dapprima nelle ‘città marinare’, dove la vita econo­mica rifiorì prima che altrove: Venezia, Genova, Pisa, Amalfi; poi, dalla pri­ma metà dell’XI secolo, nelle città della Lombardia, del Veneto e della Toscana.
In Italia il Comune restò sempre un’istituzione propria del settentrione e del centro, nel Meridione, tranne rare eccezioni, la forza del feudalesimo normanno prima e angioino poi non le lasciò spazio per svilupparsi.

Le Corporazioni medioevali - Col nome di ‘Arti’ si indicarono nel Medioevo le ‘corporazioni’ degli artigiani, dei mercanti e generalmente dei lavoratori raggruppati per categorie. Esse furono dapprima l’espressione economica e giuridica di coloro che esercitavano le arti e i mestieri, successivamente diventarono lo strumento politico per esprimere e tutelare i loro interessi nel governo della città: i cittadini, infatti, partecipavano alla vita del Comune e alla sua direzione politica non individualmente, ma tramite l’arte di cui essi erano membri.
Le Arti si diedero ‘costituzioni’ o ‘statuti’, che regolavano l’esercizio di un’arte o mestiere e l’ascesa, all’interno della stessa arte, dai livelli più bassi (apprendi­sta, garzone) al più elevato (maestro), dettavano norme sulle caratteristiche del prodot­to e ne fissavano il prezzo, avevano propri magistrati, che facevano da arbitri nelle controversie fra i soci e talvolta rappresentavano l’arte nel governo cittadino.
Le norme delle costituzioni avevano quasi sempre finalità di difesa degli interessi costituiti a danno di quelli emergenti e miravano ad ostacolare la concorrenza, creando situazioni di ‘monopolio’.
Le arti si distinguevano solitamente in
‘arti maggiori’, che raccoglievano la cosiddetta borghesia grassa: industriali, ricchi mercanti, banchieri, giudici, notai, medici;
‘arti minori’ costituite da semplici artigiani.
In alcune città le arti maggiori eb­bero presto parte e privilegi nel governo del Comune, ma in seguito acquisirono influenza anche le arti minori, che in alcuni casi, come a Milano alla fine del secolo XII e a Firenze negli ultimi decenni del XIII, abbatterono dal potere le arti maggiori.
Le corporazioni medioevali non furono un fenomeno esclusivamente italiano: esse si trovano, con nomi diversi (gilde, anse) in tutti i Paesi europei, che avevano rag­giunto un elevato sviluppo economico.

Le magistrature comunali - Il Comune originò una sua struttura politica che, pur diversificandosi nei particolari da città a città, può essere così schematizzata:
il ‘potere esecutivo’ è nelle mani dei ‘consoli’ (che variano di numero a seconda della città), cui compete il fare pace o guerra e lo stipulare alleanze e trattati;
il ‘potere legislativo’ tocca ai ‘consigli’, costituiti dai cittadini più autorevoli, e, di solito sono due, il ‘consiglio mag­giore’ o ‘consiglio generale’ per gli affari generali e il ‘consiglio minore’ o ‘consiglio di credenza’ per gli affari riservati;
il ‘parlamento’ o ‘arengo’, l’assemblea generale di tutti i cittadini, ha il compito di eleggere i magistrati, tra cui i consoli e i consiglieri, e di ratificare le decisioni dei consoli.
Questa struttura originaria si trasformò nel senso di ridurre l’importanza dell’assemblea dei cittadini che sparì lasciando le sue competenze al consiglio maggio­re e di aumentare il numero dei consigli e, in ogni consiglio, dei consiglieri.
La vita dei Comuni è travagliata da perenni lotte interne tra ‘nobili’, ‘popolo grasso’ e ‘popolo minuto’, e anche da lotte tra le famiglie più potenti strette in consorterie tra lo­ro nemiche, che si appoggiano all’una o all’altra classe. Per mettere fine a queste lotte, ai consoli si sostituì un ‘podestà’, un cittadino chiamato da altra città perché sia al di sopra delle fazioni. Più tardi gli si affiancherà un ‘capitano del popolo’, col compito di tener testa ai nobili e di tutelare gli interessi dei popolani, o, per essere più precisi, del­le ‘arti maggiori’ che ne riunivano la parte più ricca, il popolo grasso. In alcuni casi, come a Firenze, esautorati tanto il podestà che il capitano del popolo, il governo fu assunto direttamente dalle arti attraverso un collegio di rappresentanti delle organizzazioni artigiane, i ‘priori delle arti’.

La risposta dell’Occidente all’Islam: le Crociate - Lo sviluppo economico ed in particolare commerciale delle città e, con esso, lo sviluppo delle nuove istituzioni comunali, furono favoriti da un’importante impresa, che segnò anche un’estrema occasione per il mondo feudale cavalleresco di conquistare gloria, ricchezza e potere: le Crociate.
Le Crociate furono una manifestazione tra le più vistose della ripresa del mondo cristiano, che era stato ingabbiato in un ristretto territorio dall’avanzata araba e che ora, dopo averla bloccata in Francia a Poitiers nel 732 ed in Oriente a Costantinopoli nel 718, passò al contrattacco contro l’Islam, rappresentato ora dai Turchi, che si erano sostituiti agli Arabi. Nel contempo, le stesse Crociate favorirono questa ripresa, dando incremento ai commerci.
Ne trassero profitto, in particolare, le città marinare italiane: Venezia, Genova, e, sia pure in misu­ra minore, Amalfi e Pisa: quando i crociati vittoriosi dei Turchi costituirono in Terra Santa (che oggi chiamiamo il Medio Oriente) degli stati feudali, le città ma­rinare ebbero infatti, l’opportunità di stabilirvi eccellenti basi commerciali.
Le Crociate furono anche espressione di un vi­vo sentimento religioso che fanatizzò intere folle, spingendole ad affrontare fatiche im­mani e rischi. Col procedere del tempo la componente religiosa andò scemando e prevalsero gli interessi commerciali e politici.
La più importante delle Crociate fu indubbiamente la prima (1096-1099). Essa fu ban­dita da papa ‘Urbano II’, per liberare il ‘Santo Sepolcro’, l’accesso al quale era divenuto difficile per i pellegrini a causa dell’intolleranza dei Turchi che, nel 1076, si erano sosti­tuiti agli Arabi in Gerusalemme. Alla Crociata parteciparono, sotto la guida di ‘Goffredo di Buglione’, duca della Bassa Lorena, alcuni grandi feudatari ed uno stuolo di feudatari minori. Sconfitti i Turchi in un seguito di battaglie in Asia Minore, i crociati, nel 1099, liberarono Gerusalemme, e fondarono nei territori conquistati una serie di stati feudali. La ripresa dei Turchi, che riuscirono a riconquista progressivamente i territori conquistati dai Cristiani, giungendo a rioccupare Gerusalemme nel 1187, diede luogo alle successive Crociate.

I Normanni del Meridione - L’unificazione del Meridione, che era politicamente divi­so tra Bizantini (Calabria, Basilicata e Puglia), Longobardi (ducato di Benevento, poi frazionato nei due principati di Benevento e Salerno e nella contea di Capua), e Arabi (Sicilia occupata dall’827 al 902, e stanziamenti temporanei in Puglia), fu opera dei Normanni, che, chiamati come truppe mercenarie nelle contese fra i vari stati, nel giro di cento anni (1030-1130), dopo essersi costituito un proprio feudo, riuscirono a unificare l’Italia meridionale e la Sicilia, prima in due regni distinti, e infine, con Ruggero II, in un unico regno detto Regno di Sicilia nel 1130.
Alla dinastia normanna subentrò quella sveva, quando l’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa e padre di Federico II, sposò l’erede dei Normanni, Costanza d’Altavilla.

I Comuni e l’Impero - Il risveglio delle città e il costituirsi dei liberi Comuni era stato favorito dalla debolezza dell’impero di nazionalità germanica, dopo la morte di Ottone III nel 1002.
Quando, nel 1152, fu eletto re di Germania Federico I della casa di Svevia, detto il Barbarossa, il suo programma di restaurazione dell’autorità imperiale trovò un ostacolo proprio nei Comuni italiani, gelosi delle autonomie conquistate. Di qui il con­trasto fra l’imperatore e i Comuni che ebbe la sua drammatica espressione nella lotta con Milano. Era naturale che i Comuni trovassero appoggio nel Papato, che vedeva nell’impero l’antagonista di cui doveva contenere la potenza per mantenere la propria supremazia. La distruzione di Milano dopo un duro assedio (1162), la formazione di una lega tra Comuni lombardi a Pontida nel 1167, la ricostruzione di Milano ad opera dei Comuni alleati, e, infine, la vittoria sull’imperatore a Legnano nel 1176 e la pace di Costanza nel 1183 tra l’imperatore, da una parte ed il papa e i Comuni della lega lombarda dall’altra, sono i momenti cruciali di questa vicenda.
La lotta tra Papato e Comuni da una parte, e impero dall’altra, si ripresentò con Federico II, nipote del Barbarossa. Fu l’ultimo tentativo di restaurazione imperiale che, do­po alcuni successi iniziali, come la ‘battaglia di Cortenuova del 1237, andò incontro al fallimento definitivo.
I tempi erano mutati: quando, 60 anni dopo la morte di Federico II, Dante auspicò la restaurazione dell’impero ad opera di Enrico VII «il grande Arrigo», esso in realtà era finito per sempre: l’unità politica europea, su cui si fondava la pretesa di universalità dell’impero cedeva il posto a una pluralità di forti stati nazionali, che andavano costituendosi sotto la guida di monarchie assolute come la Francia, la Spagna e l’Inghilterra. Il fallimento dell’impresa di Enrico VII, sceso in Italia nel 1308 per porre pace e restaurarvi l’autorità imperiale e la sua morte nel 1313, sono l’espressione concreta del definitivo declino di questa istituzione medioevale, che tuttavia durò, almeno formalmente, fino al 1806.

Guelfi e ghibellini - Alle lotte tra i Comuni e l’Impero si intrecciano, a creare uno stato quasi permanente di guerra, le lotte per assicurarsi le vie di traffico ed il monopolio dei mer­cati. A queste lotte esterne si accompagnarono, per rendere più inquieta e turbolenta la vita cittadina, le contese interne tra opposte fazioni, rappresentanti di interessi diversi: nobili e cives (= mercanti, borghesi), magnati e arti minori, ceti privilegiati e popolani esclusi dal governo.
La lotta tra Papato ed Impero fornì alle parti avverse la possibilità di scegliersi un alleato tra i due grandi contendenti per prevalere sugli avversari. Questo è l’effettivo signi­ficato della contrapposizione tra guelfi (sostenitori del papa) e ghibellini (sostenitori dell’impero) che caratterizzò le lotte del XIII e XIV secolo.

Le eresie medioevali e i nuovi ordini religiosi - Nella lotta con l’Impero, il Papato ave­va rafforzato la sua posizione politica: lo ‘Stato della Chiesa’, che aveva avuto le sue modeste origini dalla ‘donazione di Liutprando’, era divenuto un vasto territorio, che tagliava a metà la penisola, estendendosi dall’Adriatico al Tirreno.
Al rafforzamento politico del Papato si accompagnò un’azione decisa contro le eresie, che potevano minare l’unità del mondo cattolico.
Di particolare importanza la lotta contro gli ‘Albigesi’, diffusi in Provenza che, al tempo di ‘Innocenzo III’, furono oggetto di una vera e propria Crociata, che portò distruzione e morte in quel fiorente paese (1209-1229). Lo stesso Innocenzo III si avvalse, per combattere gli eretici, dell’’Inquisizio­ne’, un tribunale ecclesiastico che, per la crudeltà dei mezzi adottati, è rimasto tristemente famoso.
I fondatori di due ordini religiosi, san Francesco d’Assisi (1182-1226) e San Domenico di Guzmàn in Spagna (1170-1222), che, con la predicazione e l’esempio dì una vita cristiana improntata all’amore per il prossimo, cercarono di fronteggiare la violenza, che insanguinava le città, travagliate da continue guerre e da lotte intestine e, con altri mezzi, più consoni allo spirito religioso, cercarono di reagire alle eresie e con­tribuirono al rafforzamento della fede.

Declino del Papato - Dopo la morte di Federico II nel 1250, il Papa, favorendo il fratello del re di Francia, Carlo d’Angiò, nella conquista del regno di Sicilia nel 1266: questo regno che comprendeva anche l’Italia meridionale, sventò il rinnovarsi del pericolo, che aveva rap­presentato per lo Stato pontificio l’unione della corona imperiale e di quella di Sicilia nella persona di Federico II.
Nonostante questo successo politico, anche il Papato, come già l’Impero, vide declinare la supremazia che sembrava aver conseguito ai tempi di ‘Gregorio VII’ (1073-1085) ed Innocenzo III (1198-1216). Inutilmente ‘Bonifacio VIII’ Castani (1294-1303) riaffermò la supremazia del pontefice nella Bolla Unam Sanctam.
La stessa ragione che aveva portato al declino dell’Impero segnò quello del Papato: costituzione di nuove forze politiche, le monarchie nazionali, alle quali le due istituzioni, che avevano dominato la scena nel Medioevo, non erano più in grado di tener testa.
La subordinazione del pontefice al re di Francia ed il trasporto della sede pontificia da Roma ad Avignone con ‘Clemente V de Gouth’ (1264–1314) nel 1305, per sottrarla ai disordini, che travagliavano la città, sono l’espressione più appariscente di questo declino.

La decadenza dell’Italia meridionale – L’instaurazione della dinastia angioina nel Sud segnò l’inizio del declino di questa parte d’Italia, che, sotto gli Arabi, i Normanni e gli Svevi, aveva conosciuto momenti di grande floridezza e splendore.
‘Palermo’, che Federico II aveva scelto come sede della sua corte, era, come già sotto la dominazione ara­ba, una delle città più ricche e colte d’Europa.
La decadenza si accentuò quando, dopo l’insurrezione dei Siciliani contro il malgoverno angioino in seguito alla rivolta dei ‘Vespri siciliani’ del 1282 e la guerra ventennale che ne seguì, la Sicilia passò alla casa d’Aragona, restando l’Italia meridionale agli Angioini con la ‘pace di Caltabellotta’ del 1302.

Il sorgere delle Signorie – Le lotte intestine tra fazioni opposte (nobili-popolani e guelfi-ghibellini), che dilaniavano quasi ininterrottamente le città, portarono alla morte delle istituzioni comunali e della libertà.
Il desiderio di ordine e di pace favorì l’ascesa di uno dei nobili appartenenti alle famiglie con maggior seguito, al quale si affidò il governo, la ‘Signoria’, della città, dapprima per un tempo determinato, di solito per un anno, a volte anche per cinque, poi a vita.
Si sostituiva così, ad una repubblica corporativa, una ‘dittatura personale’, anche se in più casi continuavano a sopravvivere formalmente intatte le magistrature comunali, che il signore affidava ai suoi fedeli ed il cui compito si riduceva alla ratifica di quanto egli aveva già deciso.

La Signoria e lo Stato moderno – La Signoria, se può essere considerata un’involuzio­ne perché segnò la scomparsa della partecipazione dei cittadini al governo, rappresentò senz’altro un progresso per più versi. La concentrazione dei poteri in mano di un solo pose fine alle lotte intestine con vantaggio della prosperità economica. Fu favorita, per la stessa ragione, la capacità espansionistica degli stati cittadini più forti, che riuscirono così a costituire degli stati regionali in grado di fronteggiare, almeno inizialmente, le monarchie nazionali, che si stavano formando fuori d’Italia. Infine, mentre nel Comune i cittadini godevano di una diversa capacità politica secondo la classe o la corporazione di appartenenza, di fronte al signore essi erano tutti eguali, benché tutti sudditi sprovvisti di potere politico. Il signore è, in ultima analisi, un sovrano assoluto, che concentrava nelle sue mani tutto il potere e la cui volontà è la fonte di tutte le leggi.
In questo senso esso è la prima appa­rizione in Europa dello ‘stato moderno’, cioè dello stato che non riconosce al di sopra di sé nessun’altra volontà o condizionamento, a differenza dello stato feudale, in cui il sovrano era limitato dal potere superiore della Chiesa e dalle immunità dei feudatari.

Le compagnie di ventura – L’ascesa del signore, che di norma si appoggiava alle forze popolari per contrastare e spazzare l’opposizione dei nobili suoi avversari, gelosi delle proprie prerogative, fu favorita dall’uso invalso di ricorrere a soldati mercenari, le cosiddette ‘compagnie di ventura’, per combattere le continue guerre, alle quali i cittadini cercavano di sottrarsi. Per svolgere indisturbati le proprie attività produttive, per non correre i rischi del combattimento e per sottrarsi alle fatiche e ai disagi della vita militare, essi preferivano pagare un tributo, con il quale il Comune prima e il signore poi assoldavano ‘milizie mercenarie’.
Queste, in mano al signore, costituirono un potente strumento per realizzare una politica indipendente dal consenso dei cittadini e, per fronteggiare la loro eventuale opposizione e tenere a freno i malcontenti.
Nei confronti delle compagnie di ventura, considerate una delle piaghe del tempo, si levarono voci di politici e anche di poeti, come Petrarca.

La polverizzazione politica della penisola - Le Signorie fecero la loro comparsa dap­prima nell’Italia settentrionale, e precisamente nel Veneto e nella Lombardia, dove la fioritura dei Comuni era stata più precoce e ricca.
Vi primeggiarono:
a Milano quella dei Visconti, dopo che essi erano riusciti a prevalere sugli avversari Torriani (1277), ed ebbe i suoi massimi esponenti in Matteo (1250-1322), nell’arcivescovo Giovanni (1290-1354) e in Gian Galeazzo (1347-1402);
a Verona quella degli Scaligeri che raggiunsero il loro apice con Cangrande della Scala (1291-1329);
a Ferrara quella degli Estensi.
In Piemonte non sorsero Signorie di rilievo: fu il campo di espansione dei Visconti, mentre si protraevano forme feudali di governo grazie alla potenza dei Savoia, che avevano inco­minciato ad estendere i loro domini in Italia e dei marchesi di Saluzzo e del Monferrato.
Nelle città marinare le forme di governo comunale si mantennero più a lungo:
Pisa finì col passare da una Signoria straniera a un’altra nella ricerca di un protettore, contro l’espansione di Firenze;
Amalfi fu assorbita dal regno normanno;
Venezia vide subentrare governo comunale una repubblica di tipo oligarchico in cui il potere era concentrato nelle mani di un numero ristretto e ben definito di grandi famiglie;
Genova ebbe una vita stentata, sempre minacciata dai Visconti che riuscirono anche ad impadronirsene, sia pure per breve tempo.
Nell’Italia centrale, mentre Firenze si manteneva a Comune sino a quando, nel 1434, Cosimo de’ Medici ne divenne di fatto il signore, pur senza modificare l’ordinamento preesistente, si costituirono numerose piccole Signorie (i ‘Malatesta’ a Rimini, i ‘Da Polenta’ a Ravenna, gli ‘Ordelaffi’ a Forlì, i ‘Montefeltro’ ad Urbino, i ‘Pepoli’ a Bologna), quando la lontananza del Papa, rifugiatosi ad Avignone, favorì la disgregazione dello Stato pontificio.
Era una situazione di vera e propria ‘polverizzazione politica’ cui si sot­traeva soltanto il Meridione, che manteneva ancora una certa unità, anche dopo il distacco della Sicilia dal regno di Napoli. Tale condizione di frazionamento era aggravata dal fatto che anche le Signorie o le Repubbliche maggiori, come Milano e Firenze, non presentavano un’unità territoriale, e spesso le città soggette passavano da un signore all’altro nella ricerca di una migliore difesa dei loro interessi o in connessione con il prevalere di una fazione politica al loro interno. Ne conseguiva uno stato permanente di guerra, in cui i fronti e le alleanze mutavano continuamente.

Le monarchie nazionali - Mentre in Italia si sviluppavano gli ‘Stati cittadini comunali’ che, evolvendosi in principati, originavano ‘Stati regionali’ con la conseguente divi­sione politica della penisola, in ‘Francia’, ‘Spagna’ ed ‘Inghilterra’ si costruivano forti mo­narchie che crearono ‘Stati nazionali unitari’
[1]. Ciò costituì un elemento di forza, che con­sentì loro dì assumere quella posizione di preminenza politica sino ad allora tenuta da­gli Stati italiani.
In ‘Francia’ l’unificazione nazionale fu opera della ‘monarchia capetingia’, iniziata nel 987, e fu il risultato di un lungo processo di smantellamento della grande feudalità francese. La lotta tra monarchia e feudatari fu resa più difficile dal fatto che il mag­giore dei grandi feudatari era lo stesso re d’Inghilterra, vassallo del re di Francia in quanto duca di Normandia. I sovrani che maggiormente portarono avanti il processo di unificazione furono ‘Filippo II’, che a ‘Bouvines’ nel 1214 sconfisse il re d’Inghilterra ‘Giovanni Senza Terra’, e ‘Luigi IX il Santo’. Il pericolo maggiore la Francia lo corse quando, all’estinzione del ramo primogenito dei Capetingi (1328), il re d’Inghilterra ‘Edoardo VIII’ vantò diritti sul trono francese. Ne seguì la ‘guerra dei Cento anni’ (1337-1453) che, dopo alterne vicende, in cui la monarchia francese si vide sull’orlo della sconfitta nella ‘battaglia di Azincourt’, del 1415, si concluse con l’integrale riscatto del ter­ritorio nazionale, ad eccezione di Calais rimasta in mano agli Inglesi. Nel momento più grave della lotta fu risolutivo a risollevare gli animi dei francesi e le sorti della nazione l’intervento di ‘Giovanna d’Arco’, una pastorella che, cinte le armi e dicendosi chiamata da Dio, riuscì a battere gli Inglesi. Fatta da loro prigioniera, fu condannata e arsa co­me eretica.
Il processo di unificazione fu portato avanti poi da ‘Luigi XI’ (1461-1483) e da ‘Carlo VIII’ (1470-1498). Sotto quest’ultimo re, la Francia era lo Stato più forte dell’Europa del tempo.
Lo ‘Stato unitario spagnolo’ fu il risultato della lotta dei regni cristiani di Spagna contro i Morì, la cosiddetta ‘Reconquista’. L’atto finale dell’unificazione fu il matrimonio di ‘Isabella’, regina di Castiglia, con ‘Ferdinando II il Cattolico’, re d’Aragona, che, uniti, ebbero ragione dell’ultima resistenza musulmana a ‘Granada’ nel 1492.
Dall’unificazione della penisola iberica restava escluso il ‘regno del Portogallo’.
Lo ‘Stato unitario inglese’ ebbe le sue origini nella conquista dell’Inghilterra ad opera di ‘Guglielmo il Conquistatore’, duca di Normandia (1066). Si è già detto delle lotte dei re d’Inghilterra contro i re di Francia di cui erano vassalli. La sconfitta subita da Giovanni Senza Terra a ‘Bouvines’ diede forza alla nobiltà feudale inglese che riuscì a strappare al re un insieme di limitazioni del potere regio, fissate nel documento noto co­me ‘Magna charta libertatum’ (1215).
Sarà questa concessione il punto di partenza per la conquista di quelle libertà, che portarono successivamente alla costituzione di un Parlamento diviso in ‘Camera dei Lord’, i rappresentanti della nobiltà feudale, e ‘Camera dei Comuni’, i rappresentanti delle città.
È la prima apparizione, sia pure in forme limita­te, di una ‘monarchia costituzionale’, cioè dì una monarchia, in cui il potere del sovrano è condizionato da quello dei rappresentanti dei sudditi.
La ‘guerra delle Due Rose’ che contrappose per ragioni di successione la ‘casa di York’ alla ‘casa dei Lancaster’ con i rispettivi sostenitori, dissanguò la nobiltà feudale e re­se possibile una svolta assolutistica con la dinastia dei Tudor. Il processo di liberalizzazione riprenderà soltanto nel secolo XVII.
L’’Austria’, sorta sulle rovine del Sacro Romano Impero di nazionalità germanica fu un altro Stato che, sul finire del Medioevo, acquistò un ruolo di primaria importanza a fianco dei tre citati. La sua comparsa nel numero delle grandi potenze si ebbe con ‘Massimiliano d’Asburgo’, arciduca d’Austria e imperatore del ‘Sacro Romano Impero’ (1493-1519).

L’invenzione della polvere da sparo e della stampa – La vivacità della vita intellettuale e l’ampliarsi degli orizzonti dell’uomo europeo in questo periodo sono testimoniati anche da alcune invenzioni destinate ad avere una straordinaria importanza nel futuro: l’invenzione della polvere da sparo e quella della stampa.
L’’invenzione della polvere da sparo’ è dovuta a un monaco tedesco, ‘Bertoldo Schwartz’, e risale ai primi anni del XIV secolo. In realtà la polvere, una miscela detonante di zol­fo, carbone e salnitro, era già nota ai Cinesi e agli Arabi, che l’usavano, i primi per i fuochi d’artificio, i secondi per spaccare le rocce. L’invenzione consistette nella costru­zione di armi appositamente progettate per lanciare, grazie alla forza dirompente di ta­le miscela, dei grossi proiettili a grande distanza. L’efficacia di queste armi tardò a farsi sentire; ma quando, nel secolo XVI, esse diventarono più precise e sicure, portarono alla scomparsa della cavalleria feudale pesantemente armata per lasciare posto a fante­rie armate d’archibugio e alla cavalleria leggera. Le innovazioni introdotte dalle armi da fuoco favorirono le monarchie assolute nelle loro lotte contro la nobiltà feudale, perché potevano disporre dei maggiori mezzi finanziari richiesti dalla costruzione delle artiglierie e dal mantenimento dei reparti che dovevano usarle. Pertanto la scoperta delle armi da fuoco contribuì, alla lunga, ad accelerare la decadenza politica del mondo feudale.
L’’invenzione della stampa’ risale al tedesco ‘Giovanni Gutenberg’ che, verso il 1454, pubblicò a Magonza dei volumi stampati per la prima volta con ‘caratteri mobili’. Questo procedimento facilitava e rendeva più economica la stampa e permetteva di sfruttare meglio, per la riproduzione in molteplici esemplari, la carta, che già dal secolo XII aveva cominciato a fabbricarsi anche in Europa, portatavi dagli Arabi, che ne avevano ap­presa la tecnica dai Cinesi. La combinazione di queste due invenzioni, la carta e la stampa a caratteri mobili, facilitò la diffusione della cultura: i libri non furono più il privilegio dei conventi, degli ecclesiastici e dei principi, ma poterono essere acquistati anche dalla borghesia, rafforzando il processo già in atto della laicizzazione della cultu­ra e contribuendo alla circolazione delle idee.

Le scoperte geografiche - In questo periodo la conoscenza che l’uomo europeo ha del­la Terra si amplia con eccezionale rapidità. Fino alla fine del secolo XIII si può dire che per l’uomo europeo la terra abitata andava dal lontano, nebuloso e quasi mitico ‘Catai’, la Cina, o dal ‘Cipango’, il Giappone, di cui aveva avuto notizia da alcuni missionari o mercanti (Giovanni dal Pian del Carpine tra i primi, Marco Polo tra i secondi), allo stretto di Gibilterra.
La stessa Africa, al di là delle coste settentrionali, era scono­sciuta. La spinta per ampliare la conoscenza del mondo non venne, come si potrebbe pensare e come l’episodio dell’Ulisse dantesco suggerirebbe, da un desiderio di pura conoscenza, ma dall’esigenza dei mercanti europei di trovare una via per l’Oriente, indi­cato genericamente col nome di ‘Indie’, che non soggiacesse al monopolio degli Arabi, che controllavano le grandi strade carovaniere attraverso l’Asia Minore.
I primi progetti in questo senso consistettero nella ricerca di una via che circumnavigas­se l’Africa: su questa strada si erano messi i genovesi ‘fratelli Vivaldi’, che avevano oltrepassato lo stretto di Gibilterra nel 1291 ed altri navigatori genovesi che, nel secolo successivo, erano giunti fino alle Canarie e alle Azzorre. Però le iniziative più organi­che furono opera di Portoghesi, sotto lo stimolo del loro re ‘Enrico il Navigatore’ (1426-1460). Sullo slancio delle prime spedizioni in questa direzione, ‘Bartolomeo Diaz’ doppiò il ‘Capo di Buona Speranza’ nel 1486, e ‘Vasco de Gama’ arrivò a Calcutta nel 1498.
Quest’ultimo successo sembrò allora sminuito dal fatto che sei anni prima, il 12 ottobre 1492, ‘Cristoforo Colombo’, al servizio dei re di Spagna, ritenne di essere per­venuto alle Indie per una via totalmente diversa: la via d’Occidente. Convinto della sfe­ricità della Terra grazie agli studi del geografo italiano, ‘Paolo Toscanelli’, egli aveva pensato che, veleggiando verso occidente attraverso l’Atlantico, sarebbe giunto al ‘Catai’. E quando, dopo un viaggio di circa dieci settimane arrivò all’’isola di Guanahànì’, nei Caraibi, egli ritenne di essere giunto nell’arcipelago del Giappone; in realtà aveva scoperto un nuovo continente, come dimostrarono i viaggi successivi di ‘Giovanni Caboto’, di ‘Vasco Nunez de Balboa’ e di ‘Amerigo Vespucci’, dal quale il nuovo continente prese il nome di America.
Già con questi ultimi viaggi, alla spinta originaria (ricerca della via per le Indie) ne era subentrata un’altra: quella di esplorare le nuove terre e di fondarvi colonie, cioè scali commerciali e punti di raccolta delle materie prime. Presto seguirà il disegno di conquistare vasti territori per assoggettarli alla madrepatria europea: nacquero così i grandi imperi coloniali.
Il desiderio di esplorazione guidò alcuni anni più tardi (1519-22) ‘Ferdinando Magellano’ in un viaggio di circumnavigazione del globo. In poco più di 120 anni, l’uomo europeo aveva superato le vietate ‘colonne d’Ercole’, ed aveva acquisito la conoscenza di quasi tutta la Terra.
La scoperta dei nuovi continenti da parte delle potenze europee – dapprima la Spagna ed il Portogallo, poi l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia – doveva avere conseguenze di eccezio­nale portata nella storia successiva.
L’’europeizzazione del mondo’, con la compressione o addirittura la scomparsa delle altre civiltà, ne fu una delle più appariscenti. Le ricchezze che le potenze europee trassero dalle colonie consentirono loro di rafforzare il dominio sulle popolazioni extraeuropee riducendole a quelle condizioni di sudditanza e di subalternità che ancora ai nostri giorni non sono state del tutto rimosse. Il processo di decolonizzazione è stato il primo momento di tale rimozione.
Per l’Italia la scoperta di nuovi continenti segnò la fine della posizione di centralità di cui aveva goduto fino ad allora.

La rottura dell’unità del mondo cristiano: la Riforma - Frutto dello spirito critico caratterizzante questo periodo fu anche la ‘Riforma protestante’, il vasto e profondo movimento religioso che staccò dalla Chiesa di Roma le popolazioni germaniche e anglosas­soni. Con ciò venne meno un altro dei fondamentali caratteri del Medioevo: l’unità del mondo cristiano.
Il movimento di ribellione partì da un monaco agostiniano tedesco, ‘Martin Lutero’ (1483-1545), il quale rivendicò al credente il diritto di interpretare le Sacre Scritture se­condo coscienza e non secondo i dettami della gerarchia ecclesiastica.
La predicazione di Lutero potè avere successo e portare al ‘distacco di mezza Europa’ dalla Chiesa di Roma, perché ebbe l’appoggio dei principi tedeschi. Essi vi trovarono l’occasione politica, per contrapporsi all’Imperatore, nei cui confronti volevano affermare la propria autonomia, e, nel contempo, un pretesto per incamerare i grandi beni degli ordini religiosi, che furono soppressi; e infine un modo per interrompere il flusso di denaro che lasciava i loro Stati diretto a Roma, sotto forma di decime e di acquisto di indulgenze.
Il popolo seguì i principi e i riformatori, perché vide nella riforma l’affermazione della nazionalità germanica contro quella latina e perché sperava che il rinnovamento religioso comportasse un rinnovamento sociale, con la costituzione di una società più giusta.
Fu questa la base della rivolta dei cavalieri, lo strato più basso della classe nobiliare, e di quel­la dei contadini, rivolte entrambe duramente represse dai principi, con l’approvazione di Lutero.
Al distacco della Germania da Roma per opera di Lutero seguirono il distacco della Danimarca, quello della Svezia, della Norvegia e dei Paesi Bassi, e, ad opera di ‘Zwingli’ e di ‘Calvino’, di buona parte della Svizzera, e infine dell’Inghilterra ad opera del suo re Enrico VIII.
Si staccarono dal cattolicesimo proprio alcune nazioni, come l’Inghilterra e i Paesi Bassi, che, per un concorrere di circostanze favorevoli, svolsero un ruolo di primo piano nella storia moderna e in quella contemporanea, mentre alcune tra le nazioni rimaste cattoliche, come ad esempio la Spagna e l’Italia, erano destinate a conoscere nel futuro un periodo di declino.
Di particolare importanza sarà il fatto che la colonizzazione inglese, che diede origine agli Stati Uniti d’America, avvenne ad opera di riformati.

Società e cultura: l’età della Scolastica – I fatti più importanti di questo periodo che abbraccia due secoli, di cui uno è preparazione dell’altro, sono i seguenti:
La lotta delle investiture, fra Chiesa e Impero, terminata nel 1122 col concordato di Worms;
Il sorgere e lo svilupparsi dei Comuni (dalla seconda metà del secolo XI);
Le Crociate, che hanno come conseguenza diretta nuovi rapporti fra l’Occidente e l’Oriente anche nel campo culturale;
La graduale insorgenza dei nuovi bi­sogni culturali legati alla corte feudale
[2] in ceti sociali, come i cavalieri e la piccola nobiltà, che si espandevano per il frazionamento dei feudi maggiori;
Le Università o Studi Generali
[3] che diventano, accanto ai conventi, depositarie della cultura e, particolarmente, della cultura specializzata; laica, anche se non in opposizione, bensì sotto gli auspici della Chiesa;
Le nuove correnti filosofiche come la Scolastica
[4], i contatti con la cultura araba ed il contrastato trionfo dell’aristotelismo.
Dominatore della cultura, sebbene l’elemento laico diventi più vivo e presente, è sempre il clero, quello soprattutto dei conventi e delle scuole episcopali e monacali, dove il programma di studio si va man mano allargando, né solo nella teologia o nelle ‘arti del trivio’, ma anche nelle arti del quadrivio, nella filosofia e nel rinato amore dei classici antichi, di cui, particolarmente nel XII secolo, le copie si moltiplicarono, arricchite di glosse e di commenti talora d’importanza notevole.
Come centri di attività culturale, accanto ai conventi famosi, sorgono le ‘Università’: in Italia la medicina si continuò a coltivare nel famosissimo centro di Salerno, già noto nel IX secolo, che fu certamente il primo a sorgere in Europa ed è in questo periodo illustrato da Costantino Africano (m. 1087) maestro di grande fama e traduttore di molte opere mediche dal greco e dall’arabo; a Bologna fioriscono gli studi giuridici fino dall’XI secolo, ed ‘Irnerio’ (1100-1130) ne aumentò la fama nel secolo seguente. Fiorenti scuole di diritto civile furono, prima della fine del secolo XII, a Reggio Emilia, a Modena ed a Ravenna.
Fuori d’Italia, a Parigi predomina lo studio della logica e particolarmente della dialettica; a Montpellier nel XII secolo quello della medicina e del diritto; ad Orléans si studiano gli ‘auctores’, cioè i classici latini, il cui culto sempre più si diffonde, suscitando innumerevoli imitatori; mentre in Inghil­terra Oxford si modella su Parigi e può contare alla fine del secolo XII ben tremila studenti.
Siamo quindi di fronte ad una grandiosa esplosione culturale e letteraria che culmina nel secolo XII ed è più vasta e più universale della stessa cosiddetta rinascenza carolingia. Veramente, com’è stato detto, il XII secolo è stato una iuventus Mundi, o meglio la giovinezza della civiltà umana dell’Europa occidentale. La produzione è abbondantissima. Inutile ricordare che in questi secoli, specialmente nel XII, la letteratura latina coesiste con le varie letterature nazionali, soprattutto in Francia. Però per il momento è ancora la cultura latina quella predominante.

La civiltà comunale all’origine del risveglio culturale - La civiltà comunale costituisce il momento più originale, e uno tra i più vivi, di tutta la storia d’Italia. Esso fu un periodo di grande slancio economico: l’aumento della produzione artigianale, dei commerci e, con i com­merci marinari, delle costruzioni navali, determinò un aumento di ricchezza dei ceti cittadini, ne innalza il tenore di vita e favorì il lusso. Effetto, e quasi simbolo, di questo sviluppo nel campo economico, fu la nascita dell’attività bancaria. A questo rigoglio economico si accompagnò un’eccezionale ripresa nel campo intellettua­le.
È il momento in cui, tanto nell’architettura che nella scultura e nella pittura, si assisté al nascere di forme originali, libere dall’imitazione dell’arte bizantina. Sorsero nuove città e le antiche rinnovarono completamente il loro volto, arricchendosi non solo di cattedrali, ma anche di edifici civili quali i palazzi comunali, sedi dei consigli, dei consoli e delle altre magistrature; di palazzi residenze delle più potenti famiglie, dominati da torri difensive, mentre nelle cinte murarie si aprivano porte in pietra decorate di sculture, le strade si lastricavano e si costruivano canali per portare le acque nei fossati delle mura.
Lo stile che caratterizzò il periodo più splendido dell’età comunale (XII - XIII secolo) fu quello romanico
[5], cui si sostituì quello gotico dalla seconda metà del secolo XIII.
In letteratura, a questo fermento di creazione originale, corrispose l’affermazione del volgare, che ben pre­sto si esprime nelle più grandi figure della nostra cultura: San Francesco, Jacopone, Cavalcanti, Dante, Petrarca, Boccaccio.
Sul piano intellettuale espressione delle nuove strutture politiche e sociali furono le Università che liquidarono il prestigio delle scuole monastiche, rimaste isolate dalla nuova evoluzione sociale e legate alle vecchie strutture feudali.

L’unità culturale nel Medio Evo - La cultura del Medioevo, fin verso i secoli X e XI, non aveva avuto carattere nazionale, ma si era manife­stata unitaria in tutti quei Paesi d’Europa che avevano fatto parte dell’Impero romano ed erano stati segnati dalla sua civiltà; su di loro aveva esercitato la sua influenza, orientandone gli interessi e gli ideali, l’altra grande struttura universale: la Chiesa cattolica.
Espressione di tale unità culturale era la lingua in essi usata, il latino, che, diffuso dai Romani conquistatori, aveva avuto ulteriore incremento ed avallo dal fatto di essere stato assunto dalla Chiesa come lingua ufficiale propria.
Il latino medioevale non più quello più di Cicerone o di Livio: nel­la sintassi, nel lessico, si era progressivamente allontanato dai modelli classici e si era anche adeguato all’esigenza di esprimere modi nuovi di pensare e di sentire, mantenen­dosi in tal modo strumento di comunicazione attuale e vitale.
Ma anche quando le varie comunità etniche cominciarono a definirsi e a differenziarsi, oltre che politicamente anche linguisticamente, e, accanto al persistente latino, si affermarono in ambito letterario le varie lingue romanze, nei paesi dell’ex impero romano non venne tuttavia meno il senso dell’appartenenza ad una cultura comune. Perciò nelle università che erano sorte dal XII secolo nei vari Paesi d’Europa affluivano maestri e discepoli a raggio europeo. L’università costituivano veri e propri punti d’incontro culturali dell’Europa romanza come nei monasteri importanti centri culturali, spesso forniti di ricchissime biblioteche, convenivano, sotto la stessa «regola», monaci di differente origine etnica.
Proprio in conseguenza dell’unità culturale che lega fra loro i Paesi romanzi che, ad esempio, le imprese di Carlo Magno, celebrate in ‘lingua d’oìl’ nelle ‘Canzoni del Ciclo carolingio’ dell’XI secolo, trovarono ascolto in Italia e nella sua letteratura furono riprese in componimenti epici, i ‘poemi franco-veneti’, scritti in un dialetto Veneto ricco di elementi francesi. Allo stesso modo i poemi d’amore e d’armi del ‘Ciclo bretone’ intorno alle gesta di re Artù, anch’essi composti in lingua d’oil, furono da noi tradotti e rielaborati, e costituiscono la raffinata lettura delle nostre corti feudali. Così pure i componimenti amorosi composti in lingua d’oc dai trovatori provenzali offrirono temi e tecniche alla prima poesia d’arte italiana, quella della «scuola siciliana».
Il rapporto culturale unitario che legava l’Europa romanza era così stretto che la barriera delle Alpi non sempre costituiva un confine linguistico. Alcuni trovatori italiani poetarono in lingua provenzale, che non sentivano per nulla straniera ed il fiorentino Brunetto Latini «maestro – a detta di Villani – in digrossare i fiorentini e farli scorti in bene parlare», compose in lingua d’oìl il ‘Trésor’, enciclopedia del sapere del tempo, e ‘Marco Polo’ (1254-1324) in lingua d’oil dettò il suo ‘Milione’.

La visione teocentrica del mondo - L’influenza esercitata sui Paesi europei dalla Chiesa, che vi diffuse una comune interpretazione cristiana del mondo e del destino umano fu unificante quanto la tradizione romana. Secondo la concezione di cui la Chiesa era portatrice, l’universo è retto da Dio, che, immobile nella sua perfezione, governava provvidenzialmente la realtà inanimata e animata dotandola di una tensione che l’attira a sé, e alla quale solo l’uomo può sottrarsi perché dotato di ragione e di libero arbitrio, dannandosi, giacché in Dio sta l’unica salvezza.
Di conseguenza la vita terrena, i beni della terra, perdono il valore assoluto che aveva loro attribuito la civiltà pagana e l’esistenza in questo mondo diventa un momento di passaggio, un banco di prova nel quale, con le sue azioni, l’uomo conquista o perde la vita vera, cioè la vita eterna.
L’eroe di quest’epoca non è più, come nel mondo classico, colui che sa affermarsi nella conquista del potere, della gloria, ecc., ma il ‘santo’, cioè l’uomo che, con totale e coerente rinuncia, subordina la vita terrena a quella ultraterrena.
Certo, si tratta di posizioni teoriche che non hanno impedito che, nella vita concreta, si verificassero atteggiamenti con esse discordanti o addirittura ad esse antitetici: il Medioevo, infatti, se fu età di grandi ascetismi, fu anche età «di sangue e di crucci», in cui si scatenarono violenti appetiti terreni e passioni feroci, ma gli uni e le altre furono giudicati, nella riflessione morale del tempo come forme devianti dalla retta strada, tracciata all’uomo da Dio.
Se la concezione del mondo è teocentrica, quella della storia è ‘cristocentrica’: la storia ve­ra, cioè, comincia con l’avvento del Cristo e le vicende che l’hanno preceduto sono state ad esso funzionali. L’impero romano, per esempio, è stato voluto da Dio perché così, unificando territori e popoli, avrebbe spianato la via alla diffusione del Cristianesimo.
Su tali premesse poggia anche una diffusa ‘concezione teocratica della politica’, secondo la quale il Papa, perché esponente di Dio sulla terra, è anche il legittimo detentore di ogni autorità, ivi compresa quella politica, che può esercitare direttamente o delegandola all’autorità politica vera e propria, cioè all’Imperatore, che quindi rimane a lui subordinato. Teoria questa che non fu però accettata da tutti pacificamente, e a cui se ne contrappose una antitetica che subordinava il potere religioso a quello politico, e un’altra che sosteneva la reciproca autonomia dei due poteri.

Teocentrismo e cultura - La concezione teocentrica del mondo ebbe per tutto il Medioe­vo coerenti applicazioni in campo culturale.
La ‘teologia’, la scienza delle cose divine che poggia sulla «rivelazione» contenuta nei testi sacri e che alla luce di essi interpreta la realtà, è considerata la scienza per eccellenza, la scienza regina ed ad essa sono subordinate le altre scienze quasi sue ancelle: ancillae theologiae.
Di conseguenza la speculazione filosofica cede il passo alla teologia, là dove l’indagine razionale si scontra con le verità rivelate, che devono essere accettate per fede; le scienze naturali, anziché indagare autonomamente i fenomeni del reale, partono dalle affermazioni contenute nei ‘Libri sacri’ come da premesse indiscutibili; funzione della politica è di guidare gli uomini verso la giustizia terrena, che è premessa al raggiungimento dell’eterna beatitudine.

La funzione pedagogica dell’arte - Quanto all’arte, essa si giustifica solo se indirizzata alla glorificazione di Dio o all’educazione morale e religiosa degli uomini. Perciò le arti figurative si mossero per tutto il Medioevo per gran parte nell’ambito del sacro: dall’XI secolo fiorì in Europa la severa armonia delle cattedrali romaniche o la tensione verticale di quelle gotiche; la pittura ritraeva vicende ed immagini religiose e la scultura ornava con figurazioni sacre le facciate, i portali, i capitelli, le nicchie delle chiese.
La letteratura e la poesia erano considerate strumenti inutili, quando non fuorvianti e di perdizione, se non guidino gli uomini verso il bene e la verità, cioè verso la verità religiosa. Nasce da questa esigenza pedagogica della letteratura l’uso della allegoria, una specie di simbolico sovrasenso attribuito alle cose ed alle vicende concrete rappresentate, e che, proponendo nascosti significati etico-religiosi, si sovrappone al significato letterale del testo e lo trascende. Così il viaggio nell’Oltremondo, descritto da Dante nella Divina Commedia, rappresenta allegoricamente l’itinerario dell’anima che, smarritasi nel peccato, cerca e raggiunge la salvezza in Dio nel Paradiso, riflettendo sulle conseguenze eterne nell’Inferno e temporanee nel Purgatorio del peccato stesso.

La persistenza nel Medioevo della tradizione classica - Se nel Medioevo la concezione cristiana della vita si contrappone antiteticamente a quella pagana dell’età classica, tuttavia la cultura classica non scompare del tutto.
Respinta in un primo tempo dalla Chiesa, che la considerava fonte di errore, fu poi progressivamente dalla Chiesa stessa recuperata ed assimilata almeno nella misura e nelle forme in cui non contrastava e poteva conciliarsi con lo spirito del Cristianesimo. Così la «retorica» medioevale, le norme cioè del bello scrivere, ricalca quella classica; nelle scuole medioevali è mantenuto il corso di studi che era stato in vigore nelle scuole ellenistico-romane, e che consisteva nelle discipline del Trivio (grammatica, dialettica, retorica) e del Quadrivio (aritmetica, musica, geometria, astronomia); il diritto romano continuava a far testo nelle controversie private e pubbliche; San Tommaso si proponeva nelle sue opere di integrare il pensiero di Aristotele con quello cristiano.

La lirica bassomedioevale - Il panorama della lirica in Italia si presenta assai diversificato e ricco di esperienze:
1. La poesia religiosa - Entro confini più ristretti e con un’influenza decisamen­te minore sui futuri sviluppi della lirica, rimane la poesia religiosa, anche se il sentimento religioso nel Medioevo è all’origine di una vasta produzione letteraria, che ebbe i suoi centri nell’Italia settentrionale, specie in Lombardia, e ancor più nell’Italia centrale, in Umbria. Dal XII secolo, col risveglio di un’aspettativa di rifondazione della Chiesa, si sentì l’esigenza di accompagnare il culto non più col canto in la­tino, ma in volgare, a testimonianza di una fede che si contrapponeva a quella espressa dalla liturgia ufficiale. All’area umbra appartengono numerose «laudi» o lodi, cioè componimenti in onore di Dio, della Vergine e dei Santi; e sempre umbri sono i maggiori esponenti del­la poesia religiosa medioevale, come San Francesco d’Assisi e Jacopone da Todi. Una prova del tutto eccezionale di poesia religiosa scritta per la preghiera è il ‘Cantico delle creature’ che ‘San Francesco d’Assisi’
[6] (1181-1226) compose in volgare umbro. Il canto religioso progressivamente perse la forma della lauda, un termine legato alle laudes (lodi) che si cantavano du­rante le funzioni religiose. Questi componimenti erano eseguiti da confraternite di laici (laudantes) che accompagnarono la nascita di movimenti religiosi che, dal seco­lo XIII, furono espressione di una grande ondata di fervore religioso soprattutto nell’Italia centrale. Solo verso la fine del Duecento le laudi cominciarono ad essere rac­colte e trascritte a cura delle varie ‘confraternite’, dando così inizio ad una tradizione che continuò e s’ingrandì nei secoli XIV e XV, assumendo sempre più i caratteri della rappresentazione teatrale (laudi teatrali, sacre rappresentazioni). Comune a tutti i laudari è l’anonimato degli autori; unica eccezione il laudario di ‘Jacopone da Todi’[7], una personalità poetica di no­tevole rilievo per il quale la lauda è anche uno strumento di intervento nel dibattito ideologico e religioso.
2. La poesia provenzale - In primo piano c’è una lirica di argomento amoroso. Nelle corti feudali della Provenza, nel Sud della Francia, tra l’XI e il XII secolo, nacque una produzione poetica molto omogenea, sia per i caratteri formali (tipi di versi e di strofe, uso della ri­ma, ecc.) sia per i temi. È poesia scritta in lingua d’oc e profondamente legata all’ambiente della corte, dove trova il pubblico, gli argomenti e le ragioni della sua origine. Questa poesia cortese, appunto da corte, è espressione di una nuova domanda di letteratura, che deve intrattenere ed insieme dare prestigio ai membri e allo stile di vita della corte. L’abbandono della lingua latina e la scelta di temi laici, in particolare di quello amoroso, sono no­vità che segnalano l’affiorare dell’idea che la letteratura può avere un va­lore in sé, slegato dalle finalità religiose e morali e che l’attività poetica può semplicemente ricercare la bellezza e il piacere di chi l’ascolta. La figura del ‘trovatore’, il poeta (da trobàr, che in provenzale significa poetare), è parte integrante della corte: molti sono aristocratici e feudatari come Guglielmo IX d’Aquitania, altri sono di umili origini, ma la loro attività poeti­ca li elevava socialmente e spesso procurava rico­noscimenti o incarichi, che davano loro dignità e ricchezza. La maggior parte dei testi dei trovatori esprime un’originale concezione dell’amore che va sotto il nome di amor cortese
[8]. La poesia dei trovatori nata nelle corti della Francia meridionale fu largamente conosciuta in Italia dove, nelle corti del Nord, continuarono a poetare in lingua d’oc una quarantina di trovatori che erano sfuggiti alla crociata contro gli Albigesi del 1208.
3. La Scuola siciliana - La poesia provenzale trovò imitatori soprattutto in Sicilia, a Palermo, sede della corte di Federico II di Svevia, dove nacque la prima scuola poetica della letteratura italiana. Quella di Federico era una corte raffinata, intellettualmente assai evoluta ed aperta alle più diverse esperienze culturali. Qui fiorì, sulla scia della poesia provenzale e riflettendone i temi e le tecniche, la «Scuola siciliana», cui appartennero poeti non solo siciliani, ma anche di altre parti d’Italia. La poesia siciliana si sviluppò in un arco di tempo piuttosto breve: nacque tra il 1220 e il 1230 con i componimenti di Jacopo da Lentini (cui è attribuita l’invenzione del sonetto) ed ebbe fine col crollo della potenza sveva in Italia (1266, battaglia di Benevento). I protagonisti della Scuola erano prima di tutto funzionari che svolgevano incarichi importanti: intellettuali che avevano dignità e prestigio sociale, per i quali il poetare fu un modo di partecipare alla rinascita culturale promossa da Federico. Fra loro, oltre allo stesso imperatore Federico II ed ai figli Manfredi e Enzo, si ricordano Pier delle Vigne, Jacopo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Odo del­le Colonne, Giacomino Pugliese. La poesia della Scuola siciliana in linea di massima ripete temi, situazioni, immagini della poesia provenzale cui guarda come modello; e, come la poesia provenzale, è impe­gnata in difficili ricerche tecniche, soprattutto metriche secon­do un repertorio fisso di situazioni e di immagini. Canta soprattutto l’amore e, in particolare, l’amore cortese. La lingua usata dai poeti della Scuola siciliana è il dialetto siciliano affinato e depurato delle sue forme più gergali e più locali, e arricchito di elementi latini e provenzali: Dante lo definì «volgare illustre», per dire che questi poeti adottarono una base costituita dal volgare siciliano parlato che poi nelle loro mani divenne uno strumento al­to, elaborato, arricchito dall’uso della conversazione dotta e regolarizzato nelle forme grammaticali. Attraverso la mediazione dei poeti siciliani, ma anche per diretta conoscenza dei testi francesi, la lirica cortese fece da modello alle esperienze che maturarono in Toscana (poesia toscana) la cui novità, rispetto alla tra­dizione siciliana, è costituita dalla presenza delle tematiche politiche, in relazione con le lotte dei comuni. La poesia toscana fu un pun­to di riferimento per le decisive innovazioni dei poeti che, in­sieme con Dante, rappresentano il cosiddetto stil novo.
La scuola toscana - La per­sonalità di maggior rilievo fu Guittone d’Arezzo (1230 ca.-1294) che s’impose come poeta, ma fu anche intellettuale e uo­mo pubblico di parte guelfa. Accanto a Guittone vanno ri­cordati Chiaro Davanzati e Bonagiunta Orbicciani.
Lo stilnovo – La più importante corren­te poetica della seconda metà del Duecento fu la scuola del «dolce stil novo». Di tale scuola viene considerato iniziatore il bolognese Guido Guinizelli
[9], ma essa si svi­luppa soprattutto in Firenze ad opera di un gruppo di giovani poeti, come Guido Caval­canti[10], lo stesso Dante, Lapo Gianni, Gianni Alfani, cui va aggiunto Cino da Pistoia, che erano fra loro legati da analogie di gusto e da comuni esperienze culturali. Nella loro poesia ricorrono alcuni temi:
1) la donna è celebrata come una specie di creatura angelica che perfeziona colui che l’ama e lo guida a Dio e riflette la viva religiosità dell’ambiente comunale;
2) l’amore è considera­to retaggio dei soli spiriti nobili, dove però nobiltà è intesa non come nobiltà di nasci­ta, ma come nobiltà interiore, conquista della moralità e dell’intelligenza dei singoli; la nuova concezione di nobiltà è da mettere in relazione con la vita politico-sociale del Comune, che era sorto sulle rovine della nobiltà feudale;
3) la capacità che essi dimostrano nel cogliere ed analizzare le emozioni, anche le più sottili, dell’animo umano;
4) un linguaggio raffinato, duttile, capace di esprimere tali sottili sfumature dello spirito.
4. La poesia popolaresca – Ai margini restano le esperienze, pur interessanti, della poesia comico-realistica e della poesia giullaresca. La ‘poesia realistica’ è un tipo di poesia diffusa in Toscana fra Due e Trecento e caratteriz­zata soprattutto per le scelte tematiche: l’aspirazione alla ricchezza, il desiderio sessuale, l’imprecazione contro la povertà e la mala sorte, la maledizione contro le donne brutte o contro gli avversari politici, il vituperio. Gli strumenti espressivi di questa poesia appartengono al re­gistro, che la cultura medievale definiva comico e contrapponeva a quello tragico e sublime un registro, che si associa al linguaggio mediocre e basso. Questi caratteri non devono tuttavia far pensare ad una poesia rozza; al contrario, il procedimento della parodia, del rovesciamento di modelli alti, l’iperbole e la caricatura dimostrano una notevole perizia tecnica. Anche poeti come Dante, Cavalcanti e Guinizzelli scrissero poesie di questo tipo. Tra gli autori che si dedicarono soprattutto alla poesia comico-realistica ricor­diamo ‘Cecco Angiolieri’, ‘Rustico di Filippo’ e ‘Folgore da San Gimignano. La ‘poesia giullaresca fu una produzione di livello modesto, rivolta ad un pubblico popolare, spesso anonima, che ebbe una trasmissione in parte orale e in parte scrit­ta. Solitamente sono testi legati a situazioni di festa, d’intrattenimento, di spettacolo, che comportano una fruizione facile, rapida e piacevole. Essa fiorì in quasi tutte le regioni d’Italia a opera di giullari che potevano essere artisti di piazza, cantastorie, ma anche uomini in contatto con l’ambiente di corte e detentori di una buona preparazione culturale.

Dante Alighieri
La vita - Dante nacque a Firenze nel 1265 dalla famiglia degli Alighieri, una famiglia di parte guelfa di modeste condizioni economiche, ma di antica nobiltà: fra i suoi antenati egli ricorda nel Paradiso il trisavolo ‘Cacciaguida’ che, fatto cavaliere dall’imperatore Corrado III, morì in Terrasanta, combattendo contro gli infedeli nella seconda Crociata (1147-1149).
Dante ebbe l’educazione tipica, in quegli anni, dei giovani delle buone famiglie fiorentine: studiò le discipline del Trivio e del Quadrivio, ma ebbe anche, se pur saltuariamente, la guida ed il consiglio di Brunetto Latini. Frequentò anche pittori e musicisti, come il miniatore Oderisi da Gubbio ed il cantore Casella, presenti nel poema.
Dante cominciò presto a scri­vere versi e fece parte del colto e raffinato gruppo di giovani poeti, che diedero vi­ta alla scuola del «dolce stil novo». compose le liriche della ‘Vita nova’, ispirate al suo amore per una giovane donna fiorentina, Beatrice, ed alcune delle ‘Rime’, secondo le tecniche e gli ideali di questa scuola, ma contemporaneamente e successivamente tentò anche sperimentazioni poetiche diverse per temi e per toni, aprendosi così la via alla complessa orchestrazione della ‘Commedia’.
Dante, dopo la morte di Beatrice nel 1290, che aveva determinato in lui bisogno di meditazione e di chiarificazione interiore, si dedicò allo studio della filoso­fia nel frattempo egli dava stabilità alla sua vita, costruendosi una famiglia: sposò, non si sa bene quando, Gemma Donati, dalla quale ebbe tre figli, Jacopo, Pietro e An­tonia, che, fattasi poi monaca col nome di Beatrice, visse in un convento di Ravenna e fu così vicina al padre negli ultimi suoi anni.
Dante, impegnato non solo culturalmente, ma anche politicamente, partecipò presto alla vita pubblica del suo Comune in cui, cacciati fin dal 1266 i Ghibellini, dominava incontrastata la fazione dei Guelfi: nel 1289 Dante combatté nella battaglia di Campaldino, in cui Firenze e la lega guelfa sconfissero i ghibellini di Tosca­na, e nello stesso anno fu presente alla resa del Castello di Caprona, strappato dai Fiorentini ai Pisani. Ma la sua attività politica iniziò nel 1295, do­po che potè iscriversi a una delle Arti, o corporazioni dei lavoratori, condizione necessa­ria, dopo gli ‘ordinamenti democratici di Giano della Bella’ del 1293, perché un nobile potesse fare politica militante. Poiché allora la medicina era considerata assai vicina alla filosofia, Dante, come cultore dì studi filosofici, si iscrisse all’Arte dei medici e degli speziali. La vita politica fiorentina era in quegli anni tumultuosa e lacerata da odi interni. I Guel­fi erano divisi in due fazioni, quella dei Neri, alla quale appartenevano la maggior par­te dei nobili e la parte più numerosa della borghesia mercantile, e quella dei Bianchi, cui appartenevano invece poche famiglie aristocratiche, alcuni esponenti meno influenti della borghesia ed il popolo minuto. La parte Nera era capeggiata dalla famiglia dei Do­nati, la parte Bianca da quella dei Cerchi. Diverse per composizione sociale e per interessi, le due fazioni erano in contrasto anche per la politica estera: mentre i Neri si appoggiavano al Papa e agli Angioini, signori dell’Italia meridionale e legati alla monarchia francese, i Bianchi erano gelosi difensori dell’autonomia del Comune sia nei confronti della Francia sia del Papa, il quale vantava e voleva far valere su Firenze antichi diritti feudali.
Dante aderì alla parte Bianca, che allora prevaleva, ed ebbe nel Comune molte cariche pubbliche fino alla più alta, il ‘Priorato’: nel trimestre giugno-agosto del 1300.
Nell’esercizio del governo, Dante si comportò con moderazione e con imparzialità, ed esercitò una funzione equilibratrice fra le fazioni, di cui tentò di frena­re le contese spesso cruente. In politica estera difese con intransigenza l’autonomia del Comune contro il papa d’allora, Bonifacio VIII Caetani, che gli divenne perciò acerri­mo nemico e che il Poeta bollò nella Commedia come traditore del messaggio di Cristo.
L’appoggio del Papa e della Francia consentì a Firenze il colpo di Sta­to che trasferì il potere dalle mani dei Bianchi a quelle dei Neri nel 1301. Il rovesciamento politico si attuò con violenze, uccisioni, saccheggi, cui seguiro­no, contro i Bianchi vinti, processi illegali e sommari, accuse e condanne infamanti e spesso ingiustificate. Dante in quei giorni non era a Firenze: era stato mandato a Roma come ambasciatore dal governo Bianco per cercar di dissuadere Bonifacio VIII Caetani dall’intervenire nelle faccende fiorentine. Accusato di ‘baratteria’, cioè di uso privato di denaro pubblico, fu condannato in contumacia a pagare un’ammenda, a due anni d’esilio, e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e gli fu intimato di presentarsi ai giudici per giustificare il suo operato nel gennaio 1302. Dante, sdegnosamente, non pagò l’ammenda e non si presentò; seguì allora una seconda sentenza il 10 marzo, che lo condan­nava al rogo se fosse stato preso nel territorio del Comune.
La sentenza apriva per Dante il periodo dell’esilio, un’esperienza da cui fu segnata la sua vita e la sua opera. Nel Convivio, parlando della sua esistenza di esule, egli si rappresenta come una nave allo sbando, senza vela e senza governo, spinta dal vento freddo della povertà, e nel Paradiso dichiara di aver provato
«come sa di sale
lo pane altrui, e com’è duro calle lo scendere e il salir per l’altrui scale.»
Benché la sua cultura e la sua fama gli aprissero le porte di molte corti italiane, egli sentiva come umiliazione il fatto stesso di dover chiedere e accettare ospita­lità: a questo si aggiungeva la nostalgia per la patria e le persone care perdute, ed il risentimento per l’ingiustizia sofferta. Unici conforti erano per lui la consapevolezza della propria innocenza, il senso della propria superiorità nei confronti di coloro che lo avevano bandito, e la passione culturale e letteraria, da cui nacquero le sue opere che, ad eccezione della Vita nova e di alcune Rime, furono tutte composte durante l’esilio.
le sue peregrinazioni per l’Italia furono numerose. Fra le tappe più importanti si ricorda il soggiorno a Verona presso gli Scaligeri, in Lunigiana presso i Malaspina, e quello finale a Ravenna presso i Polentani.
Le sue ricorrenti speranze di ritorno in patria andarono sempre frustrate. Subito dopo l’esilio aveva creduto, con gli altri Bianchi esuli, di poter tornare in Firenze con le armi, ma la inettitudine dei suoi compagni e le loro interne discordie trasformarono il tentativo in una sconfitta sanguinosa. Di nuovo le sue speranze si riaccesero alla venuta in Italia dell’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo nel 1311, che Dante sperava avrebbe messo fine alle interne lotte dei Comuni e quindi anche di Firenze, aprendogli la strada del ritorno: ma la speranza svanì con la morte improvvisa di Arrigo nel 1313 e non volle accettare dai Fiorentini amnistie e condoni che implicassero ammissioni di colpevolezza e quindi fossero lesive della sua dignità.
Fino all’ultimo, Dante si illuse invece con ostinata speranza che i Fiorentini potessero richiamarlo onorevolmente in città in virtù della sua grandezza di studioso e di poeta. Era una speranza che, verso la fine della composizione del Paradiso, quando ormai la mor­te non era lontana, affidava alla sua Commedia, il «poema sacro», rivivendo il dram­ma della sua innocenza calunniata dagli avversari, quasi di agnello perseguitato dai lu­pi:

Se mai continga che ‘1 poema sacro
al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per più anni macro

vinca la crudeltà che fuor mi serra
del bello ovile ov’io dormì agnello,
nemico ai lupi che li danno guerra.
(Paradiso XXV).
Morì in esilio, a Ravenna, nel 1321.

Le opere – L’attività di studioso e di poeta di dante si concretò nella vastissima produzione che ebbe il momento culminante e conclusivo nella grandiosa costruzione della Commedia, alla quale fecero da preparazione e da supporto le meditazioni e le sperimentazioni precedenti, documentate dalle cosiddette opere minori. Nella giovinezza e all’incirca fra il 1283 e il 1292 compose numerose liriche di tipo stilnovista in onore di una donna amata, una Beatrice, forse figlia di Folco Portinari, che sposò Simone dei Bardi e morì nel 1290 in giovanissima età.
1. Raccolte insie­me e intervallate da prose che ne illustravano l’origine e il significato, queste liriche costituirono il libretto La vita nova, storia di un amore adolescenziale, coi suoi turbamenti e tremori, ma anche analisi attenta e sottile dei moti suscitati nell’animo dall’amore. Nell’operetta, secondo i moduli dello Stilnovo, la figura di Beatrice si traduce in quella ideale della donna-angelo che guida l’uomo verso il bene, e la cui perdi­ta è fonte di ottenebramento e offuscamento morale. Dante racconta il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni. Il secondo incontro avvenne nove anni dopo e Dante se ne innamorò perdutamente. Dante, per non far intendere il suo amore nei confronti di Beatrice, finge di essere innamorato di altre due donne e per questo motivo Beatrice gli toglie il saluto. Dante soffre per questi mancati saluti di Beatrice. In seguito Dante prende coraggio e esterna il suo sentimento verso Beatrice, ma fu deriso da Beatrice e da altre donne. Il passaggio importante dell’opera è la morte del padre di Beatrice. Nella stessa notte gli apparve in sogno una visione, che si avvererà con la morte di Beatrice. L’opera finisce che Dante spiega che egli non scriverà più su Beatrice, finché non le dirà tutti i suoi sentimenti che ha provato per lei.
2. le Rime, parte scritte a Firenze e parte in esilio, coprono quasi l’intero arco della vita di Dante. Esse testimoniano le successive e varie sperimentazioni tecni­che del poeta che, tentando argomenti diversi, andava via via costruendosi un linguag­gio articolato e polimorfo, dal delicato e tenue, al violentemente passionale, al plebeo, al rigorosamente logico, preparandosi alla polifonia tematica e tonale della Commedia. Nelle Rime, a delicati componimenti di tipo stilnovistico, si affiancano, infatti, le canzoni di selvaggia e terrena passionalità per una certa Petra (Ri­me petrose), una ‘tenzone’ o scambio di componimenti a botta e risposta con l’amico Forese Donati, liriche di argomento etico e filosofico, come la famosa canzone Tre donne intorno al cor.
3. Fra il 1304 e il 1307, già in esilio, Dante componeva il ‘Convivio’, specie di enciclopedia del sapere contemporaneo, costituita da canzoni e da trattati in prosa illustrativi, e ri­masto incompiuto. L’opera è scritta in volgare perché al ‘convito’, o banchetto di cultu­ra, potessero partecipare anche coloro che non conoscevano il latino. L’opera è composta da un prologo e da tre trattati. Il prologo racconta il piano dell’opera e la motivazione della sua formazione. Il ‘primo trattato’ parla del volgare e dell’importanza che potrà avere nel futuro della letteratura. Il ‘secondo trattato’ espone i quattro sensi della scrittura: quello ‘letterale’, che comprendere il testo in senso letterale, quello ‘allegorico’ ossia una verità superiore a quella letterale, quello ‘morale’ è la conseguenza di quello allegorico, quello ‘anagogico’ il sovrasenso spirituale. Il ‘terzo trattato’ è una lode alla filosofia e alla natura dell’uomo. Il ‘quarto trattato’ racconta della vera nobiltà come virtù morale.
4. Sempre degli anni fra il 1304 e il 1307 è il ‘De vulgari eloquentia’, anch’esso rimasto incompiuto, in cui Dante affronta il problema della lingua italiana e cerca di delineare le caratteristiche di un volgare che superi le differenze dei dialetti regionali e possa diventare la lingua colta comune a tutti gli scrittori e poeti della penisola. Legata alla venuta di Arrigo VII in Italia e alle speranze suscitate in Dante da tale avvenimento è la ‘Monarchia’, un trattato politico in latino in cui il poeta delinea i caratteri e le funzioni dell’Impero, e, con modernità di vedute, il rapporto che deve intercorrere fra potere spirituale e temporale. L’opera è divisa in tre libri: il ‘primo libro’ racconta che soltanto attraverso una monarchia universale l’uomo potrà arrivare alla sua massima capacità intellettuale; il ‘secondo libro’ racconta che i romani sono arrivati alla massima estensione non attraverso le armi, ma attraverso la provvidenza; il ‘terzo libro’ racconta che Dante divide in due poteri l’Impero e il Papato, dicendo che entrambi i poteri sono stati donati da Dio e quindi non devono essere la stessa persona. Ma l’Impero deve stare sempre al di sotto del Papato, cioè di Dio.
5. Altre opere del periodo dell’esilio sono le Epìstole, in latino, fra le quali si ricordano quelle composte in occasione della discesa in Italia di Arrigo VII, per affiancare con l’esortazione e col consiglio la missione dell’imperatore; e quella all’amico fiorentino a proposito dell’umiliante decreto di amnistia.
6. Nelle ‘Egloghe’, in latino, Dante difende l’uso del volgare nella ‘Commedia’. Un’egloga importante è quella in cui ‘Giovanni del Virgilio’ diceva a Dante di abbandonare la trascrizione dell’Inferno e del Purgatorio e doveva scrivere un’opera in latino per arrivare alla corona di alloro a Bologna. Dante rispose che egli avrebbe terminato l’Inferno, il Purgatorio e avrebbe scritto anche il Paradiso e solo in fine sarebbe andato alla conquista della corona di alloro.
7. Il trattatello scientifico ‘Quaestio de aqua et terra’.
8. Nel 1307, Dante aveva iniziato la composizione della Commedia che era appena stata portata a termine nel 1321, anno della sua morte. La ‘Divina Commedia’ consta, di tre cantiche, 1’’Inferno’, il ‘Purgatorio’, il ‘Paradiso’. Ognuna di esse è costituita da 33 canti, più un canto iniziale che fa da introduzione generale al poema, così che esso raggiunge il numero complessivo di 100 canti. Il metro è la terzina di endecasillabi (rima ABA - BCB ecc). Vi ricorrono visibilmente alcuni numeri che per i medioevali avevano un particolare significato: il 3 simbolo della Trinità, il 10 simbolo della perfezione, e i loro multipli. Il titolo di ‘Commedia’ sta ad indicare che la vicenda in essa rappresentata si conclude con un lieto finale; ma deriva anche dal fatto che Dante la volle scritta nello stile che egli definiva ‘comico’, cioè uno stile mediano che consentiva una ricca varietà di toni, dall’umile e dal venatamente rozzo, al nobile e all’elevato, attraverso tutte le gamme intermedie. L’epiteto di divina fu attribuito all’opera dantesca dal Boccaccio, e divenne poi parte integrante del titolo.

La struttura dell’universo e la collocazione dell’Oltremondo dantesco. - La struttura del mondo secondo Dante, che si adegua in ciò alle diffuse convinzioni medioevali, è la seguente. Al centro dell’universo, sospesa nell’aria, sta la terra, una sfera immobile che l’equatore divide in due emisferi, quello boreale abitato dagli uomini, quello australe interamente coperto dalle acque. La terra è contornata dalla sfera dell’aria e dalla sfera del fuoco, e poi da nove cieli concentrici e trasparenti che le ruotano attorno. In questa struttura cosmologica Dante ha collocato concretamente il suo Aldilà: Infer­no, Purgatorio, Paradiso.
L’Inferno è una grande voragine che si apre a forma di imbuto proprio accanto a Gerusalemme, e si estende, restringendosi progressivamente, fino al centro della terra. Essa si è spalancata quando Lucifero è stato cacciato dal Paradiso, e la terra su cui è precipitato si è aperta per orrore del suo contatto. In fondo all’Inferno, nel centro della terra, Luci­fero è rimasto conficcato. L’Inferno è diviso in cerchi dove sono collocati i dannati, tanto più in basso quanto maggiore è la gravita della loro colpa. Preceduti dagli ‘ignavi’, cioè da coloro che nel mondo non hanno fatto né bene né male e che occupano l’’Antinferno’, essi sono distin­ti in tre categorie, e cioè, dall’alto al basso, gli incontinenti, cioè coloro che non hanno saputo controllare i propri istinti con la ragione, i violenti, i fraudolenti. A queste tre categorie, presenti in San Tommaso, che a sua volta le aveva derivate da Aristotele, si aggiungono coloro che, non per loro colpa, non hanno conosciuto Dio, e che stanno nel ‘Limbo’, e gli ‘eretici’, che coscientemente hanno rifiutato Dio. Il limbo costituisce il primo cerchio, gli ‘eretici’ sono collocati nel sesto cerchio, che precede la sede infernale dei ‘violenti’ e dei ‘fraudolenti’. Il ‘Purgatorio’ è una montagna che, altissima in mezzo alla sterminata distesa delle acque, si erge al centro dell’emisfero australe, agli antipodi dell’apertura dell’Inferno. La montagna del Purgatorio è a sua volta divisa in tre parti: le sue pendici più basse costituiscono l’’Antipurgatorio’, dove aspettano di iniziare l’espiazione le anime di coloro che si pentirono solo in punto di morte; segue il Purgatorio vero e proprio diviso in sette balze corrispondenti ai sette peccati capitali; sulla cima del monte è collocato il ‘Paradi­so terrestre’.
Il ‘Paradiso’ ha la sua sede nell’’Empireo’, che sta al di là dei nove cieli rotanti. In esso stanno Dio, la Vergine, gli angeli e i beati. Ma Dante immagina che, durante il suo viaggio, le anime dei beati prendano temporaneamente dimora nei nove cieli perché egli, dalla loro maggiore o minore vicinanza all’Empireo, possa rendersi conto del loro maggiore o minore grado di beatitudine.
· Il viaggio dantesco: significato letterale e significato allegorico - Il poeta immagina di essersi smarrito, nella notte tra il giovedì e il venerdì Santo del 1300, anno del Giubileo indetto da papa Bonifacio VIII Caetani, in una selva oscura. Preso da terrore, cerca di uscirne, e crede di potersi salvare salendo su di un monte che ad un tratto gli appare, e che è illuminato dalla luce del sole. Ma tre fiere, una lonza, un leone ed una lupa, gli impediscono il cammino, ed egli riprecipita a valle, nell’oscurità della selva. Quando ormai si crede perduto, è soccorso dal poeta latino Virgilio, a lui mandato da Beatrice, che dal Paradiso, dove ormai si trova, vuole soccorrerlo. Virgilio lo ammonisce che, per uscire dalla selva, dovrà compiere un cammino ben più lungo ed arduo che non l’ascesa al monte: dovrà cioè discendere nell’Inferno, salire le balze del Purgatorio; e solo allora potrà giungere alla salvezza, cioè a Dio.
Come si vede, il significato letterale si intreccia strettamente fin dall’inizio col significa­to allegorico. La selva oscura rappresenta la dispersione spirituale, cui si abbandonò Dante dopo la morte di Beatrice; le tre fiere rappresentano i vizi (lussuria, superbia, avarizia) da cui non è facile all’uomo liberarsi; il viaggio per l’Inferno e per il Purgato­rio rappresenta la riflessione sulle conseguenze del peccato, riflessione che, con l’aiuto della grazia, può consentire all’uomo di salvarsi.
Il poeta Virgilio e Beatrice fanno da guida a Dante nel suo viaggio ultraterreno. Virgilio rappresenta la ragione umana, grazie alla quale l’uomo si rende conto delle conseguenze del suo cattivo operare; ma rappresenta anche, in quanto celebratore nell’Eneide dell’impero romano, il potere imperiale. Beatrice, la donna angelicata della Vita nova, qui rappresenta la grazia divina e la teologia depositarla della rivelazione, che subentra alla ragione là dove questa non può arrivare; ma rappresenta anche la Chiesa, l’istituzione cioè che, insieme all’Impero, può portare alla salvezza l’umanità, se l’una e l’altro, concordemente e autonomamente, agiranno nell’ambito che loro spetta. Il valore simbolico che le due guide assumono nella ‘Commedia’ non toglie loro ricchez­za d’umanità. Nel difficile percorso attraverso l’Inferno e il Purgatorio, Virgilio è per Dante l’amico, il padre, il maestro severo ed affettuoso; e Beatrice, che sostituisce Virgi­lio nel guidare Dante attraverso il Paradiso, è animata da caldo affetto e da trepidazione femminile.
Il viaggio dantesco nell’Oltremondo dura sette giorni, dalla notte fra il 7 e l’8 aprile al pomeriggio del 14 aprile del 1300. Guidato da Virgilio, il poeta scende, percorrendo i cerchi infernali, fino al centro della Terra. Di qui, per un passaggio interno all’emisfe­ro australe, giunge alla montagna del Purgatorio, sulla cui cima, nel Paradiso terre­stre, lo aspetta Beatrice. Guardando negli occhi di lei, in virtù della bellezza e della forza morale e conoscitiva che da essi derivano, il poeta, salendo di cielo in cielo, giunge infine all’Empireo, sede di Dio.
· Caratteri delle tre Cantiche - Pur caratterizzata da salda compattezza unitaria, da organicità strutturale, la ‘Commedia’ presenta caratteri diversi nelle tre cantiche.
L’Inferno è il regno dove dominano le individualità potenti, che si ergono con eccezionale rilievo davanti al poeta che le interroga. Esse sono ancora psicologicamente legate alla terra, che è il luogo della loro felicità perduta, e sono ancora dominate dalle passioni che sulla terra le segnarono in modo particolare: Francesca da Rimini dall’amore, Farinata dall’ardore politico, Brunetto Latini dalla solidarietà col discepolo e dalla sollecitudine per la propria opera di studioso, Pier delle Vigne dalla sua lealtà verso l’imperatore, Ugolino dall’odio contro il nemico che ha sterminato la sua famiglia, Ulisse dall’ansia di conoscenza, ecc.
Bloccate nelle loro passioni, esse appaiono anche isolate dalle altre anime; rari sono i loro rapporti con i compagni di pena; e, se rapporto vi è, è per lo più di disprezzo e di odio.
Questi grandi personaggi, che sembrano a volte persino insensibili alla pena cui sono condannati, sono più numerosi nella parte più alta dell’Inferno; nel fondo del baratro infernale, pur con alcune eccezioni, prevale invece una brulicante moltitudine di esseri che, come nulla ebbero di magnanimo in vita, così nulla hanno dopo morte che dia lo­ro qualche grandezza anche nel male.
Nel ‘Purgatorio’ le personalità sono più sfumate; nelle anime i sentimenti e gli affetti terreni non levano più alta la loro voce, e si traducono piuttosto in ricordo nostalgico, quasi mai doloroso, poiché esse sono consolate dal pensiero della beatitudine eterna che le attende. Legate fra loro dalla comune confortante aspettativa e permeate di co­mune ‘caritas’ cristiana, si muovono coralmente, a gruppi. E corali sono i canti di preghiera che esse levano a Dio e nei quali amorevolmente in­cludono anche il ricordo dei viventi, ancora soggetti all’errore.
Nel ‘Paradiso’, infine, le anime sono tutte accomunate nella beatitudine del possesso di Dio. Scompare anche fisicamente la loro fisionomia terrena: se si eccettuano le anime del primo Cielo in cui, se pur sfuocati, sono visibili i lineamenti dei loro volti, negli al­tri Cieli esse si presentano come luci; e la diversa intensità del fulgore che le avvolge e le nasconde è indice del loro diverso grado di beatitudine.
Tuttavia la terra, che Dante sente così lontana colle sue laceranti passioni, «l’aiola che ne fa tanto feroci», penetra anche in questo regno: come valutazione che orienti moralmente la vita terrena, come giudizio che ristabilisca la giustizia violata sulla terra. Sono particolarmente significativi in questo senso la invettiva di San Pietro contro la corruzione degli ecclesiastici, e i tre canti centrali del Paradiso, ‘XV, XVI, XVII’, in cui Dante rivive con intensità emotiva e grande espressività poetica l’amara vicenda del suo esilio.
· Il «paesaggio» nei tre regni - Come diversa è, nei tre regni, la natura delle anime, così è diverso lo sfondo su cui sono collocate.
Oscura e cupa è l’atmosfera infernale, dove non penetra mai la luce del sole, «lo dolce lome»; nei vari gironi, di volta in volta, cade spietatamente una pioggia sudicia e geli­da, o sibila una violenta bufera, o il ghiaccio chiude i dannati nella sua morsa, o l’oscurità è sinistramente illuminata dai bagliori del fuoco punitore. Gli aspetti della natura vi si manifestano in forma abnorme: un fiume di sangue, un bosco in cui le piante sono anime, e quando è reciso un ramoscello ne esce non linfa vitale, ma sangue. Le voci che percorrono questo regno sono lamenti o invettive. Custodi dell’Inferno sono, accanto ai diavoli della tradizione cristiana, i demoni della tradizione classica (Caronte e Cerbero); o figure della mitologia classica qui assunte in funzione demoniaca, come Minosse, i Centauri, i Giganti.
Nel ‘Purgatorio’ trionfa invece la natura in tutto il suo fascino. È un paesaggio di acque ‘il tremolar della marina’ e di montagna, illuminato dalla luce solare, e dove le notti sono confortate dallo splendore delle costellazioni. Sulla cima del monte, nel Paradiso terrestre, il paesaggio si fa poi verde e irriguo; vi si stende una fìtta foresta, «la divina foresta spessa e viva», costellata di fiori e percorsa da due fiumi. Custodi di questo regno, che risuona dei canti dei penitenti, sono gli angeli, vestiti ora di verde ora di bianco.
Il ‘Paradiso’ poi è tutto musica e fulgore di luce. Luminosi sono i nove cieli della concezione tolemaica, sui quali le anime, luce esse stesse, appaiono come gemme incastonate in preziosi monili; musicale è il movimento dei cieli rotanti. E tutto splendore di luce è l’Empireo, sede di Dio e della Corte beata.
· La legge del «contrappasso» - Nell’Inferno e nel Purgatorio le pene delle anime sono stabilite secondo la legge del ‘contrappasso’, per cui il tipo della pena corrisponde a quello della colpa. Il contrappasso può realizzarsi ‘per somiglianza’ o ‘per contrasto’. Il primo caso, ad esempio, si verifica per la pena dei lussuriosi che, travolti in vita dalla bufera della passione, sono qui sbattuti dalla «bufera infernal che mai non resta». Esempio del secondo caso è la pena dei golosi che, amanti in vita dei cibi raffinati, so­no qui costretti ad ingozzare una sudicia broda di acqua e di fango.
· Dante, vero protagonista della «Commedia» - Numerosissimi sono i personaggi che Dante incontra nel suo viaggio, che interroga e dai quali ottiene risposte. È una galleria di figure che popolano i tre regni ed ognuna di esse ha una vita e una fisionomia sua ed autonoma. Ma, anche, attraverso tali personaggi, Dante esprime molti aspetti della propria personalità; anzi egli, nella sua opera, è sempre presente con i suoi sentimenti, con i suoi dubbi, con le sue speranze, le sue delusioni e i suoi ideali. Per questo è stato giustamente detto che il vero protagonista della ‘Commedia’ è Dante nella sua complessa e mossa personalità.

Significato e valore della cultura dantesca - Risulta evidente dalla biografia di Dante la vastità della sua cultura, che spazia nelle più svariate discipline e trova alimento nel­le diverse epoche storiche, da quella classica e pagana, almeno nei modi e nella misura in cui questa poteva essere recepita e accolta nel Medio Evo, a quella cristiana e ro­manza: da Aristotele a San Tommaso, da Virgilio, Orazio, Lucano ai trovatori proven­zali e ai poeti italiani più vicini.
Ma l’importanza della cultura dantesca non sta tanto nel suo carattere vastamente enciclopedico, carattere del resto comune al mondo medioevale, ma nel fatto che essa non è mai passivo apprendimento, ma è diretta alla soluzione di problemi, siano essi religiosi, morali, politici o letterari.
Diventa in tal modo attiva passione culturale; e proprio per questa ragione può fare da supporto, specie nella ‘Commedia’, alla poesia dantesca, che dalla cultura riceve stimoli e di essa si arricchisce come di nutrimento vitale.

Il pensiero politico di Dante - Dante era convinto che l’Impero fosse la sola struttu­ra politica capace di portare e mantenere la pace nel mondo. Essendo esso, come già l’Impero romano, un potere universale, e come tale in grado di controllare le varie strutture politiche particolari (Stati e Comuni) affermatesi al suo interno, l’Impero, nel pensiero dantesco, aveva la possibilità di porre fine alle contese e alle guerre che laceravano le sue province.
Era questa, in realtà, una visione generosa, ma utopistica, e anche anacronistica, perché ormai l’autorità imperiale era al declino, ed era accettata solo formalmente da coloro che in teoria avrebbero dovuto considerarsi suoi sudditi: ne è un esempio il fallimento dell’impresa di Arrigo VII, che si vede coalizzati contro di sé i Comuni italiani. L’Impero vagheggiato da Dante, qualunque fosse il Paese di origine dell’imperatore, doveva considerarsi romano in quanto erede dell’Impero romano, e avere in Roma il suo centro e la sua vera capitale.
Se il sogno di un forte impero universale era il frutto dell’anelito dantesco all’instaurazione di un pacifico ordine nel mondo, il Comune, Firenze, era stato per Dante il cam­po del suo concreto operare e delle sue impetuose passioni politiche, rimaste ben vive anche dopo l’esilio e tradotte poeticamente nella Commedia in figure ed episodi: nella predizione di Ciacco sul futuro destino di Firenze, nella generosa figura di Farinata degli Uberti, nella condanna che Brunetto Latini pronuncia contro i molti fiorentini rozzi e corrotti che opprimono una minoranza onesta e scelta, nelle invettive contro le nuove classi arricchite che hanno alterato l’antico equilibrio sociale. E, in contrasto con la Firenze dei suoi tempi, Dante rievoca, nel nostalgico canto XV del Paradiso, la Firenze di tre generazioni precedenti, la Firenze «dentro della cerchia antica», in cui la vita comunale si svolgeva misurata e serena, senza ambizioni smodate e senza lotte di fazioni; e non vi erano proscrizioni né esili, così che ognuno sapeva dove sarebbe stato sepol­to.
Quanto all’Italia, Dante la riconosce ripetutamente come entità unitaria territoriale e linguistica (il «bel paese là dove il sì suona»), ma non le attribuisce autonoma consistenza politica. L’Italia è per lui una provincia dell’Impero, certo la più bella delle sue province, «il giardin dell’imperio», e anche la più nobile, in quanto in essa si trova Roma.
Dante attribuisce la corruzione del mondo all’incapacità dell’imperatore a reggerlo con autorità ed equità. Ma a sua volta, causa della debolezza dell’Impero è l’arbitraria ingerenza della Chiesa nell’ambito politico. Assumen­do funzioni che sono di spettanza del potere imperiale, i papi «politici», che dimenti­cano l’insegnamento evangelico «Date a Cesare quel che è di Cesare», accumulano in sé i due poteri, quello temporale simboleggiato dalla ‘spada’, e quello spirituale simboleggiato dal ‘pastorale’; di conseguenza i due poteri, così uniti, non possono più esercita­re l’uno sull’altro un reciproco salutare controllo. Da tale situazione deriva evidente danno all’Impero, che rimane esautorato di ogni potere; ma danno non meno grave ne viene alla Chiesa, che si mondanizza e, perseguendo ambizioni terrene di potere, dimentica la funzione spirituale che Dio le ha assegnato.
La salvezza delle due grandi istituzioni universali, Impero e Chiesa, e soprattutto la salvezza del mondo, poggia, nel pensiero dantesco, sulla autonomia reciproca del potere spirituale e del potere temporale: spetta all’Imperatore guidare gli uomini alla instaurazione della giustizia e della pace terrena; spetta al Papa guidarli alla salvezza spirituale. Queste conclusioni, esposte sistematicamente nella ‘Monarchia’, sono proposte con calda passione, e si traducono in poesia, in molti passi della ‘Commedia’. Ad esse si collega­no, nel poema, le violente invettive contro Bonifacio VIII Caetani, il papa politico per eccellen­za, invettive che culminano nel Paradiso con la condanna scagliata da San Pietro con­tro i prelati avidi di potere, lontani dal vero insegnamento di Cristo.

Il latino «lingua regina» e il volgare «sole nuovo» - Vissuto in un periodo in cui il latino continuava ad essere la lingua della cultura e degli studi ufficiali, mentre il volgare, la lingua emergente, si andava costruendo nell’uso quotidiano e nelle sperimentazioni poetiche, Dante è uno dei primi ad affrontare il problema della lingua italiana nella sua genesi e nelle sue implicazioni.
La lingua regina, egli dice con immagine tipica del suo tempo, è il latino, in quanto è lingua stabile, fissa, codificata nella grammatica e nella sintassi. Ma, con spirito proiet­tato verso il futuro, egli si rende conto che la nuova società, lontana ormai nel tempo e nello spirito da quella latina, con nuovi interessi, nuova sensibilità, nuovi problemi, esige, per esprimere se stessa, una nuova lingua che da lei e in lei si generi e si evolva: e questa non può essere che il volgare, definito nel ‘Convivio’ «sole nuovo», destinato a prevalere sull’altro sole, il latino, che tramonterà.
Secondo Dante il volgare non deve essere solo la lingua degli affetti privati, la lingua - come dice nel Convivio - in cui suo padre e sua madre si sono conosciuti e parlati, e che perciò ha in qualche modo presieduto alla sua nascita; ma deve diventare l’aristocratico strumento espressivo, il «volgare illustre», comune a tutti i poeti italiani; e può essere anche la lingua della cultura e della scienza, quando cultura e scienza cessi­no di essere strumento elitario, di pochi, e diventino un bene diffuso ai molti. Per questa ragione, staccandosi dall’uso del suo tempo, egli scrive in volgare la sua «summa» di sapere, il Convivio.

Francesco Petrarca
La vita - Petrarca nacque ad Arezzo nel 1304 da famiglia fiorentina di parte Bian­ca, che era stata costretta all’esilio dopo il trionfo dei Neri nella città. Il padre, messer ‘Petracco’, nel 1312 lasciò l’Italia per ‘Avignone’, in Provenza, dal 1308 sede del Papato, e che di conseguenza era diventata un centro ricco di attività e di traffici, che offriva buone possibilità di lavoro: Petracco, infatti, diventò notaio presso la Corte papa­le.
Francesco, insieme con il fratello Gherardo, dopo aver appreso i primi rudimenti di grammatica e di retorica a Carpentras, vicino ad Avignone, dove la famiglia si era stabilita, fu avviato allo studio del diritto a Montpellier; passò poi, nel 1320, all’Università di Bologna, università giuridica per eccellenza, dove convenivano discepoli da tutta Europa. Ma gli studi di diritto non erano congeniali a Petrarca, che ad essi preferiva quelli di letteratura e di poesia.
Tornato ad Avignone, dopo la morte del padre nel 1326, vi trascorse alcuni anni di vita brillante e mondana. Fu in questo periodo, nel 1327, che conobbe la donna, che sarebbe stata l’amore tenace e irrealizzabile di tutta la sua vita e che avrebbe avuto tanta parte nella sua opera: una giovane signora avignonese che gli studiosi hanno creduto di poter identificare con Laura de Noves, sposata a Ugo de Sade.
Aveva intanto assunto gli ordini minori ecclesiastici, non per fervore religioso, ma, come spesso avveniva allo­ra, per ottenere una dignitosa sistemazione economica.
Intorno al 1330, entrò al servizio del cardinale Giovanni Colonna, che gli fu – come dice lo stesso Petrarca – quasi fratello e padre più che padrone, e si valse di lui per incarichi congeniali alle sue attitudini e alla sua cultura.
Fra il 1333 e il 1337 compì, per studio e per diletto, una serie dì viaggi per l’Europa: nel­la Francia settentrionale, nelle Fiandre, in Germania, e infine in Italia, dove Roma lo colpì con il fascino delle sue tradizioni pagane e cristiane.
Ritornato in Provenza nel 1337, Petrarca si ritirò a vivere in una casetta di campagna presso Avignone, in Valchiusa, una località appartata ed amena, proprio alle fonti del Sorga, il fiume dalle «chiare, fresche e dolci acque», che gli offriva un soggiorno tranquillo, dove raccogliersi nei suoi amati studi. Pensava di trascorrere in Valchiusa tutta la vita. Ma in realtà, irrequieto per temperamento, se ne allontanò più volte fra il 1341 e il 1353, anni in cui soggiornò alternativamente in Provenza e in Italia. Fra i motivi che lo spinsero a viaggiare e a soggiornare in Italia, due sono particolarmente importanti: nel 1341, l’incoronazione a poeta confe­ritagli dalla città di Roma e che ricevette in Campidoglio e, nel 1347, l’impresa di Cola di Rienzo, che sembrava riuscisse a restaurare in Roma l’antica grandezza repubblica­na. Petrarca si propose di appoggiare l’impresa con la sua autorità e il suo consiglio, ma il viaggio verso Roma fu interrotto dalla notizia del fallimento del tentativo di Cola.
Oltre a Roma, visitò numerose furono le altre città italiane o in cui visse per qualche tempo: Parma, Modena, Bologna, Ferrara, Verona, Mantova e Firenze, dove strinse amicizia con Boccaccio.
Dal 1353 il suo soggiorno in Italia divenne definitivo. Invitato dall’arcivescovo Giovanni Visconti, visse a Milano alla corte viscontea, poi a Padova presso i Da Carrara, a Venezia dove ebbe alti onori dalla Repubblica, quindi di nuovo a Padova. Trascorse gli ultimi anni ad ‘Arquà’ sui colli Euganei e qui morì nel 1374.

Le opere – Numerose sono le opere di Petrarca, scritte parte in latino e parte in volgare.
Le opere in latino si possono distinguere in opere di ispirazione classica ed opere di ispirazione cristiana.
1. Fra le opere di ispirazione classica la più importante è l’Africa, poema epico in 9 libri, in esametri, che ha per argomento la seconda guerra punica. Petrarca attinge la materia soprattutto dalle ‘Storie’ di Livio e si propone come modello poetico l’’Eneide’ di Virgilio. L’opera si incentra sulle gesta di ‘Scipione l’Africano’ nella seconda guerra punica a Zama. I primi due libri raccontano i personaggi illustri della storia romana. Il terzo libro racconta del re di Numidia, alleato dei Romani. Il quarto libro è l’elogio di Scipione. Il quinto libro racconta del suicidio della moglie del re di Numidia. Il sesto libro racconta della morte di Magone, fratello di Annibale, dovuta alle tante ferite ricevute in battaglia. Il settimo e l’ottavo libro raccontano la battaglia di Zama. Il nono libro racconta il ritorno di Scipione in patria. L’Africa è un’opera di grande ambizione, dalla quale Petrarca si aspettava successo e gloria letteraria, ma che in realtà appare modesta di risultati. Manca al poeta la capacità di oggettivazione e di strutturazione richieste dal genere epico. E di tutta l’opera sono poeticamente vivi solo pochi passi di timbro lirico in cui, attraverso gli stati d’animo di alcuni personaggi, il poeta esprime la sua dolorosa coscienza della caducità dei valori terreni
2. Fra le opere di ispirazione cristiana cioè di riflessione etico-religiosa, di gran lunga la più alta ed intensa è il ‘Secretum’, in tre libri. È un dialogo che il poeta immagina si svolga, per la durata di tre giorni e alla presenza della Verità, fra lui e Sant’Agostino, e che si risolve in un severo esame di coscienza del Poeta, in un sottile ed implacabile scandaglio che egli compie nella propria anima. Il primo libro racconta dell’incontro di Sant’Agostino con Francesco. Sant’Agostino dice che Francesco è privo di forza di volontà. Il secondo libro Sant’Agostino dice che Francesco è colpevole di tutti i peccati capitali, escludendo l’invidia e metà dell’avarizia. Il terzo libro racconta che Francesco a causa della mancanza di volontà non riesce ad abbandonare le cose terrene.
3. Parte a sé fra gli scritti latini di Petrarca occupa il suo vastissimo Epistolario, costituito dalle lettere che egli scrisse nel corso della vita, e che riela­borò, ordinò e pubblicò personalmente. Esse ci consentono di conoscere momenti e situazioni della vita del poe­ta e soprattutto di penetrare nella sua inquieta e complessa psicologia. Alcune di que­ste lettere sono scritte in versi esametri (Epistulae metricae);
4. In volgare è scritto invece il capolavoro di Petrarca, il Canzoniere, raccolta di 366 componimenti poetici composti e rielaborati in un lungo arco di anni; vi prevalgono i sonetti (317), ma vi sono anche numerose canzoni, e poi sestine, ballate, madrigali. Per la massima parte sono componimenti dedicati a Laura e costituiscono una specie di poetico romanzo amoroso, ma anche uno studio acuto dell’anima di Petrarca, vista nei turbamenti, nei dolori, nelle gioie della passione amorosa. Sono state divise dal poeta stesso in due gruppi: liriche scritte per Laura viva e liriche scritte dopo la morte di lei, che avvenne nella peste del 1348 (Rime in vita e Rime in morte di Madonna Laura). Accanto alle liriche per Laura ve ne sono poche altre di diverso argomento: le due canzoni di argomento politico Italia mia e Spirto gentil, alcune liriche religiose culminanti nella Canzone alla Vergine ed un gruppo di sonetti contro la corruzione della Curia avignonese;
5. Agli anni tardi appartiene l’altra opera in volgare, ‘I Trionfi’, poema allegorico sulla vanità e sulla caducità dei valori terreni, che raggiunge rari momenti di poesia solo dove riaffiora il ricordo della bellezza di Laura e della sua morte serena. I trionfi sono sei visioni in terzina dantesca. Il ‘trionfo dell’amore’ racconta l’amore per Laura. Il ‘trionfo della pudicizia’ racconta che Laura, libera i prigionieri e torna in patria da eroina. Il ‘trionfo della morte’ racconta che Laura, durante un viaggio, incontra la morte le toglie un capello e muore. Il ‘trionfo della fama’ racconta che Laura è seguita da tre cortei: quello dei cavalieri, dei filosofi e dei letterati. Il ‘trionfo del tempo’ racconta che il tempo cancella le glorie del tempo. Il ‘trionfo dell’eternità’ racconta che le glorie rimarranno solo a Dio.

Fra Medioevo e imminente Rinascimento: l’inquieta psicologia di Petrarca - Quando Dante moriva, Petrarca aveva diciassette anni. I due poeti vivono quindi in periodi storici cronologicamente assai vicini, eppure essi esprimono due momenti di civiltà che vanno ormai diversificandosi ed in gran parte si sono già diversificati. Dante accetta senza incertezze la gerarchia medioevale dei valori che mette Dio e la vita eterna al vertice delle aspirazioni umane. Petrarca dà voce, spesso dolente, alla crisi di passaggio fra il Medioevo ed il Rinascimento, età che pone in primo piano i valori terreni e mondani. Egli infatti è medievalmente convinto che la vita che conta è quella eterna, che Dio è la meta cui l’uomo deve ten­dere ed invidia coloro che sanno comportarsi coerentemente con questi principi. Ma egli sente in modo altrettanto intenso l’attrazione per i valori mondani, la fama, il successo e soprattutto l’amore: al loro richia­mo non sa sottrarsi, ma nello stesso tempo li giudica fuorvianti e ne prova rimorso e senso di colpa. L’oscillazione fra terra e cielo, poli dell’inquieto spirito petrarchesco, è un motivo ricorrente nella sua vita e nella sua opera.
In una delle più belle Epistole, in cui descrive la scalata sua e di suo fratello sul monte Ventoso, con acutezza egli si definisce uomo dall’anima ambivalente. Nel diverso modo con cui i due giovani affrontano la salita egli simbolicamente traduce il loro diverso modo di affrontare la vita e di muovere ver­so il suo fine, che è Dio e la virtù: Gherardo punta diritto alla cima e vi giunge rapidamente e con sicurezza, Francesco si disperde nelle vallette laterali (simbolicamente le seduzioni mondane), nella vana speranza di trovare una strada meno ripida per salire così che, quando alla fine anch’egli giunge in vetta, vi giunge ben più stanco ed in ritardo.
Analogamente, nel Secretum, egli individua come male essenziale della sua anima la indecisa perplessità fra il richiamo del mondo e quello di Dio. Dopo aver ostinatamente resistito alle accuse mossegli da Sant’Agostino, sua coscienza, sulla sua debolezza di volontà, e sull’ansia e sull’attrazione per i valori terreni, alla fine, lasciatosi faticosa­mente convincere, promette che cambierà vita. Si rende conto che dovrebbe farlo subi­to, ma troppo forte è il richiamo delle passioni mondane, delle «faccende profane», perché ciò sia possibile. Così cambierà, ma più tardi: «Accoglierò, risponde al Santo, gli sparsi frammenti dell’anima mia e diligentemente vigilerò su di me. Ma ora, mentre parliamo, mi attendono molte e grandi faccende, per quanto profane»; e ricade così, come conclude Agostino, «nell’antica contesa».

Dalla Beatrice dantesca alla Laura petrarchesca – Questa ambivalenza psicologica diventa poesia nel Canzoniere. Se Beatrice, in Dante, era figura fisicamente evanescente, angelo in terra, guida dell’uomo a Dio, tanto che senza frizione poteva nella ‘Divina Commedia’ tradursi in simbolo della teologia e della Grazia, Laura è invece una creatu­ra terrena. L’altezza del suo spirito, l’onestà, la pudicizia che regolano la sua vita e che le impediscono di corrispondere all’amore del poeta, si accompagnano in lei a una splendente bellezza fisica per la quale, oltre che per le sue virtù, il poeta la desidera e l’ama. Tutto il ‘Canzoniere’ è illuminato da questa bellezza: «i capei d’oro» la «bella mano», il «bel fianco». Una bellezza cui fa da sfondo la natura della Provenza, mediterranea, solare, fra prati ed acque.
Ma la felicità dell’amore è contrastata nell’intimo del poeta da un incancellabile e ricorrente senso di colpa, dalla coscienza che questa passione terrena lo allontana da Dio. È uno stato d’animo doloroso, da cui nascono alcuni dei componimenti più inten­si della raccolta.

Cultura cristiana e cultura classica di Petrarca – La bivalenza psicologica di Petrarca si riflette nelle sue scelte culturali. Egli è buon conoscitore dei Testi sacri, specie di quelli dei Padri della Chiesa.
Lo scrittore della sua vita, il punto di riferimento etico nelle sue incertezze e nei suoi turbamenti, non è però lo «scolastico» ‘San Tommaso’, il santo dalle grandi certezze caro a Dante e a tutto il Medioevo, ma ‘Sant’Agostino’, il Padre della Chiesa che è giunto a Dio, salvandosi dalle passioni terrene, e che ha saputo risolvere in sé, attraverso la sofferenza, quel contrasto fra Terra e Cielo, che rimane la fondamentale irrisolta contraddizione del Poeta.
Ma Petrarca ama allo stesso modo gli scrittori classici: Cicerone, Virgilio, Livio, Orazio, di cui apprezza tanto il valore artistico che la saggezza morale. Nei suoi viaggi per l’Europa cerca ostinatamente testi di autori classici andati perduti durante il Medioevo; confronta fra loro, precorrendo un lavoro che sarà tipico degli Umanisti, i vari mano­scritti di una stessa opera per rimediare alle mutilazioni e agli errori che ne hanno alte­rata la lezione.
Ma ciò che caratterizza in senso preumanistico il rapporto di Petrarca coi classici e che lo stacca dal Medioevo, è il fatto che egli non subordina il loro mes­saggio alla visione cristiana del mondo, ma vuole invece recuperarlo nella sua autenti­cità ed integrità.

Il pensiero politico di Petrarca
Dall’Impero e dal Comune all’Italia - Nonostante la breve differenza di anni che lo separa da Dante, gli ideali politici di Petrarca sono assai diversi da quelli danteschi. Egli non vede più alcuno strumento di salvezza nell’Impero, che del resto si andava sempre più esautorando; né ha interesse per il Comune, nella cui struttura non è mai vissuto; e comunque i Comuni in Italia stavano scomparendo per lasciar posto alle Signorie.
L’interesse politico di Petrarca si polarizza invece sull’Italia, che non considera più, come Dante, provincia dell’Impero, e neppure come nazione, ma come entità politica, che può raggiungere autonomia ed unità mediante l’accordo fra le varie Signo­rie, che in essa si sono costituite e che tendono a dar vita a stati regionali. È questa la speranza che anima la Canzone all’Italia in cui il poeta esorta, in nome dell’Italia madre comune, i Signori italiani a deporre gli odi e a cessare le lotte fratricide, così che possa fra loro stabilirsi un legame di solidarietà che porti la pace nella penisola.
«Virtù contro furore» - L’unità italiana ha il suo cemento, oltre che nell’interesse comune dei Signori italiani, nella comune tradizione romana. L’ammirazione di Petrarca peraltro non va più, come quella dantesca, all’antica Roma imperiale, ma alla Roma repubblicana degli Scipioni e dei Bruti, quella che Cola Di Renzo aveva tentato di far risorgere.
La tradizione romana si identifica con la civiltà, e il poeta la contrappone orgogliosamente al germanesimo, che è barbarie. Questa opposizione è uno dei temi fondamentali della ‘Canzone all’Italia’. La capacità militare romana vi è definita ‘virtù’, cioè valore disciplinato e consapevole, quella germanica è furia selvaggia, ‘furore’. Le terre germaniche sono ‘deserti strani’, quelle italiane ‘dolci campi’. Di qui l’accusa rivolta ai Signori d’Italia di avvalersi per le loro guerre di milizie mercenarie, che, arruolate prevalentemente in Germania, non solo consentono il permanere di uno stato di guerra, e della guerra fanno un mestiere, ma portano la barbarie germanica nel nostro Paese, e sono come un ‘diluvio’ che devasta le nostre terre feconde.

La novella medievale - La novella, come genere autonomo si affermò nel Medioevo dapprima con i fabliaux, novelle in versi a carattere satirico e popolaresco fiorite in Francia alla fine del XII secolo.
Successivamente si diffuse l’exemplum, brevissimo racconto usato dai predicatori a fine didascalico, per spiegare i principi morali alla gente e per guidare, attraverso il diletto della storia narrata, verso una verità religiosa e un comportamento morale: l’exemplum presenta una vicenda che deve servire da modello e da ammonimento per tutti ed è espressione di valori considerati immobili, assoluti e quindi eternamente va­lidi.
C’erano poi i racconti riguardanti le vite dei santi e i loro miracoli.
Si diffusero infine i racconti orientali, provenienti dalla Persia, dall'Egitto e dall'India, come il Libro dei sette savi, un'opera indiana tradotta durante il Medioevo prima in francese e poi in italiano. Di queste opere l’esempio più famoso è la raccolta di novelle Le mille e una notte, una raccolta di origi­ne araba risalente al IX-X secolo. In essa si ritrovano perso­naggi storici come il potente Califfo di Baghdad, Hamnal-Rashid, leggendari, come Sindbad il marinaio o come il giovane Aladino con la sua lampada magi­ca. Storie di magia e d'avventura, di furbizia e di coraggio, inserite in una storia principale, la storia-cornice della principessa Sheherazade, l'affascinante narratrice di storie esotiche e favolose.
La novella appare nella letteratura italiana intorno al XIII secolo Alle spalle di questo nuovo modello letterario c'erano la grande tradizione antica (si pensi a scrittori come Petronio o Apuleio) e le varie forme della narrativa medievale, sia occidentale sia orientale, una narrativa nata essenzialmente come tradizione orale e poi gradualmente affidata alla scrittura.
Alla fine del Duecento, fu compilato il Novellino, la prima raccolta organica di racconti della letteratura italiana. In questa raccolta il ter­mine novella, pur continuando ad indicare essenzialmente una narrazione orale, comincia ad acquisire anche un significa­to e uno spessore letterario. Come suggerisce il nome stesso, la raccolta punta al nuovo, all'insolito, al sorprendente, a ciò che è irripetibile e relativo, piuttosto che esemplare e as­soluto. Essa non si prefigge dunque scopi morali, ma vuole divertire e distrarre il lettore, celebra valori umani e terreni, colloca fatti e personaggi in una concreta dimensione spazio-temporale.
La novella raggiunge la forma più perfetta con il Decameron di Boccaccio.
Il Decameron è una raccolta di cento novelle sono racchiuse in una cornice[11] che le giustifica e le ordina, organizzandole intorno a un filo conduttore.
Il Decameron fu per molto tempo, dai Racconti di Canterbury di Chaucer, il modello della narrazione breve con caratteristiche diverse da tutte le altre forme narrative medievali.

Giovanni Boccaccio
La vita
- Boccaccio nacque a Certaldo, vicino a Firenze, nel 1313. Suo padre, un mercante, prima agente e poi socio della compagnia bancaria dei Bardi, subito dopo i primi studi lo avviò alla mercatura e lo mandò a far pratica a Napoli, presso una Casa di commercio. Ma l’attività mercantile non era congeniale a Boccaccio, co­me non lo furono gli studi di diritto canonico, cui il padre, deciso a trovargli comunque una professione lucrosa, lo avviò in un secondo tempo e che egli seguì di malavoglia e non portò a termine.
Nel fastoso e colto ambiente napoletano, che aveva il suo centro nella ricca e raffinata corte di re Roberto d’Angiò, Boccaccio visse l’esistenza brillante e mondana della società aristocratica e altoborghese, che aveva preso a frequentare, fra feste e ritrovi, che si svolgevano in città e negli ameni dintorni. Nel contempo, però, chiariva a se stesso la sua autentica vocazione letteraria e poetica, che si rivelò presto prepotente ed esclusiva.
Si formò in questi anni, con iniziativa di autodidatta, una vasta cultura che spaziava dalla letteratura classica a quelle romanze, italiana e francese e di esse andava alimentando, già da questi anni, la sua opera in versi e in prosa.
Napoli fu anche il luogo di una sua importante esperienza amorosa: qui conobbe e amò Fiammetta, nome sotto il quale si celava probabilmente quello di una dama della corte, identificata con Maria dei conti d’Aquino. Fu un amore infelice per l’incostanza e l’infedeltà della donna, ma che lasciò traccia nella vita e nell’opera di Boccaccio: dal nome di lei prende il titolo uno dei suoi scritti romanze­schi in prosa, la ‘Fiammetta’, e Fiammetta sarà una delle giovani narratrici del Decameron.
I dodici anni napoletani furono per Boccaccio il periodo più fertile e vivo della sua esistenza e ad esso andò costantemente il suo ricordo e la sua nostalgia.
Nel 1340 dovette lasciare Napoli col fallimento della banca dei Bardi, che diede un grave colpo agli interessi del padre. Tornò così a Firenze. Dopo gli splendori napoletani, la casa paterna e la vita chiusa della città apparvero al giovane intollerabilmente squallide e tristi. Nell’Ameto, un poema scritto dopo il suo ritorno, egli contrappone la vita di Napoli, caratterizzata da «beltà, gentilezza, valore, leggiadri motti», allietata da «delizie mondane», all’uggiosa serietà della sua casa fiorentina:
Lì non si ride mai, se non di rado;
la casa oscura e muta e molto trista
me ritiene e riceve, mal mio grado.
Per alcuni anni cercò in ogni modo di evadere dalla città: trascorse un periodo a Ra­venna presso i Polentani, un altro a Forlì presso gli Ordelaffi.
Era a Firenze nel 1348, quando vi scoppiò la terribile peste che devastò buona parte dell’Europa e che offrì lo spunto alla sua opera maggiore, il Decameron. Negli anni successivi, stimato per la fama e l’ingegno dai suoi concittadini, ebbe dal Comune incarichi pubblici che lo portarono come ambasciatore presso diverse corti italiane ed europee.
Nel 1350 con Petrarca si era legato da un’amicizia fatta di affet­to e di devozione, oltre che alimentata da comunanza di interessi culturali; amicizia che durò fino alla morte di Petrarca.
Questo rapporto di amicizia, oltre ad arricchirlo spiritualmente proponendogli nuovi interessi etici e culturali, lo aiutò a superare la grave crisi religiosa che lo colse nel 1362, a seguito della visita di un frate che gli preannunciava la morte e gli minacciava la dannazione eterna se non avesse abbandonato gli studi profani. L’intervento equilibrato ed equilibratore di Petrarca lo dissuase dal bruciare le sue opere «mondane», ivi compreso il Decameron, la più libera e spregiudicata, e perciò moralmente la più condannata dalla sensibilità del tempo.
Peraltro, già prima della crisi del 1362, Boccaccio si era dato a studi eruditi, che costituirono l’occupazione degli ultimi vent’anni della sua esistenza.
Morì a Certaldo, dove si era ritirato, nel 1375.

Le opere – La vasta produzione di Boccaccio si può dividere in tre periodi: le opere giovanili o della sua formazione; il capolavoro della maturità, il Decameron; le opere erudite dell’ultimo ventennio, cui abbiamo già accennato.
· Delle opere del primo gruppo, alcune furono composte nel periodo napoletano, altre dopo il ritorno di Boccaccio a Firenze; esse sono di ispirazione più o meno direttamente autobiografica, e comprendono poemetti in versi e romanzi in prosa, per i cui temi lo scrittore attinge ora al mondo classico, ora alla narrativa romanza, ora alle tradizioni popolari. Tema comune a tutte, e in tutte emergente, è l’amore. La prima opera fu La caccia di Diana: l’opera racconta che le ninfe andarono a caccia con Diana e al loro ritorno tradirono la dea, donando tutta la selvaggina a Venere. La prima opera in prosa di Boccaccio fu il ‘Filocolo’: l’opera racconta che Florio, un principe di origine pagana incontra Biancofiore, una fanciulla di origine cristiana e se ne innamora; il padre di Florio scopre questo amore tra i due e vende la ragazza. Florio raggiunge Biancofiore, ma i due sono scoperti e condannati al rogo. Il romanzo termina con il matrimonio dei due amanti e con la conversione di Florio al Cristianesimo. Un’altra opera è il ‘Filostrato’, in cui racconta l’amore di Troilo, figlio di Priamo, per Criseide; Criseide, una volta riscattata, lascia Troilo, che, disperato, cerca la morte in guerra, affrontando Achille. Il ‘Teseida’ racconta di due amici Arcita e Palemone che si innamorano di Emilia; i due decidono di sfidarsi a duello ed il vincitore sposerà Emilia. Arcita vince il duello ma, caduto da cavallo, muore; prima di morire, però, dice ad Emilia di sposare il suo amico. Un’opera di cinque capitoli in terza rima è l’’Amorosa Visione’, che racconta che il poeta immagina Cupido, che gli invia una donna per intraprendere una vita di virtù. Fra queste opere, due si staccano dalla piattezza. Il romanzo la ‘Elegia di madonna Fiammetta’, significativo per l’analisi degli effetti prodotti sull’anima dalla passione amorosa, opera molto importante della produzione letteraria di Boccaccio perché il personaggio principale è donna. L’opera racconta di Fiammetta che si innamora di un ragazzo fiorentino che è richiamato dal padre a Firenze. Boccaccio spiega tutta la sua delusione nei confronti di questo ragazzo a causa del suo fidanzamento con un’altra ragazza. L’altra opera di rilievo è il Ninfale fiesolano, poemetto in ottave, nel quale una leggenda mitologica sull’origine di Firenze si trasforma in una storia d’amore. L’opera racconta che il pastore Africo s’innamora della ninfa Mensola; i due amanti sono scoperti da Diana ed Africo è trasformato in un fiume. In seguito alla trasformazione di Africo, Mensola partorisce un bimbo e ciò per Diana è un oltraggio; anche Mensola è trasformata in un fiume. Questi due fiumi si trovano a Firenze. Il Ninfale d’Ameto racconta di un pastore, Ameto che si innamora della ninfa Lia. Il pastore, per incontrare Venere, è purificato dalle ninfe, questa purificazione porta l’uomo dall’animalità bruta all’affetto e all’amore. Tutte le opere di questo periodo sono interessanti poiché consentono di seguire la formazione e la maturazione di Boccaccio che, attraverso di esse, saggia argomenti e tecniche letterarie diverse, preparandosi alla ricchezza tematica e tonale del Decameron.
· Al Decameron, Boccaccio lavora a Firenze soprattutto negli anni 1349-1351. Il Decameron è una raccolta di 100 novelle narrate nell’arco di dieci giornate (il titolo significa appunto, dal greco, [il libro] «dei dieci giorni»). Esse non si susseguono l’una all’altra senza collegamento, ma sono collocate, secondo il gusto medievale, in una struttura che fa loro da cornice. L’opera prende l’avvio dalla descrizione della terribile peste scoppiata in Firenze, come in gran parte d’Europa, nel 1348. La rappresentazione della città devastata dal morbo occupa le prime pagine dell’opera. Con animo commosso, Boccaccio descrive la gravità della malattia, i pericoli del conta­gio, le morti. E, passando dall’analisi esterna a quella delle condizioni psicologiche in quel terribile frangente, si sofferma sulle conseguenze devastanti di ordine affettivo e morale. Per timore del contagio vengono meno i tradizionali legami di amicizia e di affetto: gli amici sfuggono gli amici ammalati e li abbandonano al loro destino; persino padri, madri, figli, sposi, nella malattia, rifiutano di aiutarsi fra loro. Boccaccio immagina che un mat­tino, durante il contagio, in S. Maria Novella si incontri una brigata di sette giovani donne «savia ciascuna e di sangue nobile e bella di forme e di leggiadra onestà» e di tre giovani uomini, «assai piacevole e costumato ciascuno», innamorati di tre di loro e parenti delle altre, i quali, per sfuggire a tanta dissoluzione e disperazione, decidono di abbandonare insieme la città appestata e di recarsi nel vicino contado. Lontano da Firenze e dalla desolazione della pestilenza, i gio­vani trascorrono le giornate in una bella villa, sulle colline intorno a Firenze; nella serenità della quiete campestre, la gentile brigata ricostruisce quel vivere nobile e cortese, quell'ordine civile e pieno di decoro, che la peste ha distrutto nella vicina città, vivendo all’insegna della gioia, della serenità e della cortesia. Nel pomeriggio, mentre la nobile compagnia sta seduta in un bellissimo prato, a turno ciascuno narra una novella; all'imbrunire i giovani danzano e cantano una ballata. Nei quindici giorni vengono narra­te cento novelle, dieci al giorno, poiché il venerdì e il sabato, giornate dedicate alla preghiera e alle pratiche religiose, viene sospesa la narrazione. Ogni giorno è eletto fra i giovani un «re» o una «regina» che (ad eccezione del primo e del decimo giorno) stabilisca il tema generale della giornata: la fortuna, l’amore, l’ingegno, ecc.; tema al quale, con libera inventiva, dovranno adeguarsi i narratori. Uno dei giovani, Dioneo, il più divertente e spregiudicato, cui è concesso il «privilegio» di raccontare sempre per ultimo e di scegliere a suo piacimento il tema della novella. In tal modo Boccaccio evita il rischio di un meccanismo trop­po rigido e fa sì che anche le giornate nelle quali è stato fissato un tema triste si concludano con una novella a lie­to fine. La cornice come legame fra le varie parti di un'opera è una strategia stilistica già in uso nelle opere del passato: Boccaccio conosceva Le Mille e una notte. Nel Decameron la cornice non è semplice accostamento delle novelle, è una struttura architettonica che conferisce unità all'opera. Alle Mille e una notte il Decameron si ricollega anche per la circostanza della narrazio­ne in una situazione di pericolo: in entrambi i casi, infatti, il racconto è usato, sia pure in modo diverso, per esorcizzare la morte. A differenza delle precedenti raccolte in cui l'elemento unificatore era completamente fantastico, la cornice del Decameron fa riferimento a un avvenimento tragi­co e reale della storia contemporanea, la peste, che coinvolge sia i narratori, e quindi il piano della finzione letteraria, sia i lettori. Essa inoltre non ha so­lo la funzione di giustificare la narrazione e di con­ferire ordine alle novelle, ma si arricchisce di un suo significato autonomo. Racchiude e sintetizza, infatti, due poli, quello della morte, simboleggiata dalla peste e dalle sue conseguenze morali e socia­li, e quello della vita, rappresentata dai giovani del­la lieta brigata e dalla loro esistenza vissuta all'insegna dell'equilibrio, della cortesia, della misura, del benessere fisico e psicologico. La cornice è l'immagine del disegno coerente ed equilibrato della vita, in cui ogni evento fuggevole e momentaneo si inserisce e trova un senso e una valida giustificazione. In questa struttura narrativa messa a punto da Boccaccio è possibile all’autore conciliare varietà e unità: la varietà delle novelle e il loro costituirsi in gruppi unitari. Quell’unità formale, esterna, che si affianca a quella interna, più profonda, costituita dalla comune visione della vita e del mondo che governa tutta l’opera, si raggiunge attraverso una struttura complessa che prevede infatti un narratore di primo grado, Boccaccio stesso, che racconta la storia-cornice, entro la quale dieci narratori di secondo gra­do raccontano le cento novelle del Decameron. Sul piano tematico sono presenti nell'opera due nuclei essenziali di ispirazione: da una parte un mondo cavalleresco ormai al tramonto, dall'altra una società borghese e cittadina. Boccaccio guar­da con un atteggiamento di nostalgia e di rimpian­to al mondo aristocratico e cavalleresco del passa­to, tanto che le novelle che ne celebrano gli ideali sono poste a conclusione della raccolta e sembrano costituire una sorta di Paradiso laico, che si contrappone all'Inferno della prima giornata nella quale sono raffigurati i vizi della società del tempo: l'avarizia e la viltà dei grandi signori, la corruzione del clero, la spregiudicatezza morale dei borghesi.
La «Commedia umana» di Boccaccio — Il Decameron è stato definito «commedia umana» in contrapposizione a quella «divina» dantesca, perché in esso si muove, incontrastato protagonista, l’uomo terreno. Non solo è ormai venuta meno la tensione verso Dio, propria del mondo di Dante, ma neppure vi è più traccia di quel doloroso dualismo fra aspirazioni religiose e passioni umane che proprio di Petrarca. Nelle novelle del Decameron pullula la vita di questo mondo, libera da limitazioni e condizionamenti morali e religiosi; di qui il gioioso vitalismo che la percor­re. Tutta la realtà è per Boccaccio degna di interesse e dell’attenzio­ne dell’artista. Se esiste una scala di valori, essa vede ai primi posti non i valori che portano a una salvezza eterna, estranea all’interesse dei personaggi, ma quel­li che consentono all’uomo di affermarsi su questa terra.
I temi fondamentali del Decameron: la fortuna, l’amore e l’intelligenza — Fra i molti aspetti della vita rappresentati nel Decameron quelli fondamentali sono la fortuna, l’amore e l’intelligenza. La Fortuna – intesa come intervento casuale della sorte – si manifesta sia come forza della natura, sia come azione umana, sia come intervento della collettività. Si tratta, comunque, di intrusioni che ora ostacolano, ora favoriscono le azioni dei protagonisti. L’uomo rivela la sua intelligenza quanto più sa pie­gare la Fortuna ai suoi scopi, in qualunque modo essa si presenti, ostile o amica. L’amore, che Boccaccio considera una delle maggiori forze che muovono l’esistenza, è rappresentato nella vasta gamma delle sue manifestazioni: l’amore sensuale, a volte grossolano, ma mai morboso, l’amore disinteressato e cavalleresco, l’amore fedele e virtuoso, l’amore come fonte di eroismo materiale e spirituale, o come forza esclusiva e sconvolgente che può anche portare alla follia. L’intelligenza è lo strumento per cui l’uomo si afferma sulla terra, e comporta accortezza, abilità, scaltrezza, spregiudicatezza. Dante collocava nell’Inferno coloro che avevano usato l’intelligenza, dono divino, a scopi moralmente iniqui. Boccaccio guarda con interesse divertito e con sostanziale ammirazione chi riesce, con l’uso anche spregiudicato e cinico dell’intelligenza, a risolvere situazioni difficili, a togliersi d’impaccio. Caso tipico in questo senso è Ser Ciappelletto della novella omonima, che, in punto di morte, non esita a fare una abilissima e blasfema confessione, quasi a sfida giocosa al Cielo, per salvare una situazione pratica. E ricordiamo il giudeo che con la sua acuta risposta si sottrae alle insidie del Saladino (Novella delle tre anella); e Chichibio cuoco che con un’inaspettata e indovinata battuta smonta l’ira del padrone. Spesso l’intelligenza prende luce dalla stoltezza: e intelligenza e stoltezza sono messe a confronto in molte felicissime novelle di beffa, co­me quella di Calandrino e l’elitropia.
Molteplicità di situazioni e di personaggi — La rappresentazione boccacciana della vita si concreta in numerosissime situazioni ed in una ricca serie di personaggi. Sono introdotti nelle novelle uomini di paesi diversi, dall’Oriente all’Occidente e di tutte le classi so­ciali: aristocratici e plebei, uomini di cultura e uomini di Chiesa. Ma soprattutto vi campeggiano i rappresentanti di quella borghesia mercantile italiana, operosa e avventurosa, ricca di esperienze e di denaro, che era la classe ascendente e il nerbo della so­cietà al tempo del Boccaccio e che Boccaccio, figlio di mercanti e per qualche tempo mercante egli stesso, conosceva e ammirava. La psicologia dei personaggi rappresentati è sempre ricca e articolata, libera da unilateralità e da schematismo; la loro caratteristica preminente non soffoca gli altri aspetti del loro carattere. Perfino le figure dalla natura più elementare, gli stolti, sono articolatamente ritratti: la stoltezza, che è limite intellettuale, coinvolge carenze morali e psicologiche e se ne alimenta. Nella stoltezza di Calandrino, ad esempio, concorrono l’avarizia, l’egoismo, la ghiottoneria, la prepotenza manesca con chi è più debole; e non gli manca neppure una certa dose di disonestà.
Il concreto realismo degli ambienti — I personaggi del Decameron si muovono sullo sfondo di ambienti che non hanno mai nulla di vago e di gratuito, ma sono realisticamente definiti e concreti. Particolarmente ricchi di evidenza sono quelli personalmente noti a Boccaccio: le vie, le chiese, le piazze, la periferia e il contado di Firenze; e le inquadrature napoletane, che spaziano dal ricco mercato della città, frequentato da mercanti provenienti da tutta Italia, ma anche da imbroglioni, manigoldi, prostitute, alle vie strette e pericolose della Napoli malfamata, alla splendida ricchezza della sua catte­drale. Accanto agli ambienti esterni sono numerosi anche gli spaccati di interni: la casa patri­zia, fastosamente apparecchiata per il banchetto di Currado Gianfigliazzi, e la cucina fragrante di odore di arrosto; l’appartamento dal fasto equivoco della «bella Ciciliana»; la povera casa dì Calandrino con dentro la moglie battuta e in pianto, e il gran mucchio di pietre.
La borghesia vera protagonista del Decameron – La vera protagonista dell'opera è la borghe­sia rappresentata nei suoi diversi livelli e nei suoi aspetti positivi e negativi. La realtà umana e naturale descritta nel Decameron appare come il campo di tensione e di scontro di due forze antagonistiche: la fortuna e l'ingegno. La prima si identifi­ca con il caso capriccioso e imprevedibile, che predispone circostanze favorevoli e sfavorevoli con le quali l'uomo deve misurarsi armato solo della sua intelligenza, saggezza calcolatrice, capacità di pre­visione. L'ingegno si manifesta non solo nell'azione avveduta e sagace, ma anche nella battuta pron­ta, nel motto arguto e raffinato che mortifica gli sciocchi e i tracotanti, ed è apprezzato dall'antagonista intelligente, capace di gustare l'invenzio­ne verbale ben congegnata. È proprio in virtù del­la parola che talora possono essere annullate le distanze sociali. Il fornaio Cisti può permettersi il lusso di un motto mordace con il banchiere Geri Spina e Chichibìo può rivolgere una pronta e divertente risposta ad un gran signore come Currado Gianfigliazzi, perché lo scatto dell'ingegno, per un attimo, rende complici un artigiano ed un banchiere, un cuoco ed un signore. Dopo però ciascuno tornerà al suo posto, consapevole del proprio ruolo e della propria posizione sociale.
Le forme narrative – Sul piano delle forme narrative Boccaccio ha sperimentato un ampio ventaglio di possibilità, utilizzando e trasformando generi preesistenti. Sarebbe assurdo voler ricondurre le cento novelle a schemi precisi e rigorosi; si possono però individuare alcune tipologie ricorrenti che naturalmen­te vanno applicate con una certa elasticità: la novella-azione, costituita da una pura successione di fatti in cui non contano tanto i personaggi quanto gli avvenimenti nei quali essi sono coinvolti ed il loro susseguirsi secondo un ritmo che è insieme di sorpresa e di casualità; la novella-romanzo, fondata non più sull'azio­ne, ma sulla realtà interna dell'uomo, sulle passioni, i sentimenti, gli impulsi che ne provocano le avventure; la novella-motto, che ha la misura del racconto breve in cui la semplicità della trama serve a mettere in luce una risposta pronta e arguta; la novella-beffa, incentrata su inganni, beffe coniugali, situazioni e spunti burleschi in cui ciò che conta è il tranello teso con abilità e studiato esatta­mente per dare scacco all'antagonista; la novella esemplare nella quale il personaggio, trovandosi ad affrontare una prova difficile, manifesta capacità e virtù che ne fanno un esempio, un modello di valori laici senza alcun riferimento alla realtà ultraterrena.
Lo stile - Con il Decameron Boccaccio ha con­dotto a perfezione il genere novellistico ed ha elaborato una lingua letteraria ricca e mobile, nella quale si intrecciano differenti registri, da quello alto e solenne a quello più basso e popolare, sempre adeguati alla varietà delle situazioni e dei personaggi. Nelle parti narrative prevale un periodare ampio, nel quale si incastonano numerose subordinate esplicite ed implicite; nelle parti dialogate la lingua diventa più agile, intessuta di frasi brevi, che riproducono il parlato quotidiano. La prosa di Boccaccio presenta una grande varietà di modi, di toni e di registri, sempre correlati alla materia narrata. Versatile e mutevole, la scrittura boccacciana sa essere aristocratica, umile e popolaresca, commossa. Assume tonalità ora poetiche, ora grottesche, ora tragiche, ora comiche; altre volte mantiene un tono medio, in cui si neutralizzano i contrasti della vita. Grazie alle sue variegate articolazioni, alla perfezione della struttura sintattica, che ricorda il periodare classico, alla molteplicità dei ritmi e del fraseggio, la prosa boccaccesca sarà per secoli il modello ammirato dai narratori d'Italia e d'Europa dei secoli successivi.
· Il Decameron segna il culmine e la conclusione della stagione artistica di Boccaccio, giacché il successivo Corbaccio, violenta satira antifemminista, che trae spunto da un’esperienza personale dello scrittore, non aggiungerà nulla ad essa. L’opera racconta che l’autore si trova in un labirinto d’amore ed incontra una vedova dalla quale è respinto. In sogno gli viene il marito e gli dice come conquistare sua moglie, ma in cambio gli chiede di scrivere un’opera su sua moglie. Quanto alle opere erudite dell’ultimo periodo, se testimoniano la passione culturale dello scrittore, sono però di tipo convenzionale e tradizionale. Fanno eccezione, per il ca­lore che li pervade e per gli elementi che hanno offerto ai futuri interpreti e commenta­tori della Commedia, gli scritti che egli dedicò a Dante: il Trattatello in laude di Dante e il Commento ai primi diciassette canti dell’Inferno, frutto delle letture sul testo dantesco da lui tenute pubblicamente, per incarico del Comune, nella chiesa fiorentina di Santo Stefano in Badia.

Note
[1] APPROFONDIMENTO: DIRITTO: La formazione storica della sovranità statale e l’accentramento del potere politico – Il re (in origine, il feudatario più potente) operò in due direzioni:
· per ridurre sotto il proprio controllo la miriade di poteri feudali indipendenti (della nobiltà, della Chiesa, delle città, delle corporazioni pro­fessionali);
· per estendere il territorio sotto il proprio controllo.
Molte ragioni spingevano verso l’unificazione di ampi territori sotto un unico potere: si trattava di difendersi dalle mire aggressive degli altri feudatari, renden­doli incapaci di nuocere, di arricchire il proprio Stato, annettendo nuovi territori, di procurarsi nuovi mezzi per assoldare eserciti più forti, di assicurare la tran­quillità delle attività commerciali su territori sempre più vasti.
Dove questa politica ebbe successo, si formarono nel corso dei secoli le grandi monarchie nazionali sovrane (come quella inglese, spa­gnola e francese).
Esse accentrarono il potere politico che durante il feudalesimo era sparso tra i vari signori. La sovranità fu il prodotto di questo accentramento.
I poteri amministrativi, giudiziali e legislativi del re - Dal 1100 iniziarono a svilupparsi stabili organizzazioni di servi­tori del re. Dapprima essi avevano funzioni in materia finanziaria (il prelievo delle imposte) e giudiziaria (la risoluzione delle liti e il manteni­mento della pace nel regno). Col tempo, i servitori del re si moltiplicarono, a causa dell’aumento delle necessità dello Stato (gli ambasciatori, gli eserciti, gli intendenti che controllavano le attività economiche, ecc.). Per il disbrigo delle pratiche e per la decisione delle liti, il re dava pre­cise istruzioni. Si trattava di raccolte di consuetudini locali, di preceden­ti istruzioni, di regole di buon governo, ecc. in cui però, quando occor­reva, si inserivano norme nuove. Qui sta l’origine del potere legislativo.
Le strutture politiche centrali - Il re non poteva seguire tutti gli affari del regno e perciò si avvaleva di coadiutori, ministri o cancellieri. All’inizio, erano altri signori feudali, che aiutavano il re e insieme lo controllavano. In seguito, si trattava di persone qualsiasi di cui il re aveva fiducia, totalmente subordinate alla sua volontà. Questa è l’origine della amministrazione moderna. Un’altra vicenda che si può osservare ovunque è la formazione, pres­so il re, di assemblee che rappresentavano le diverse componenti del regno (i signori feudali, le città, le corporazioni, ecc.). Il re sottopone­va ad esse le questioni più importanti, per ottenerne il consiglio e il consenso. Queste assemblee assumevano nomi diversi: Stati generali in Francia, Cortes in Spagna, Camere dei Comuni e dei Lords in Inghilterra, Parlamenti o Diete altrove. Da loro deriveranno, dopo la Rivoluzione francese, i Parlamenti moderni, eletti dai cittadini.
Anche i Parlamenti furono fattori di accentramento politico. Essi limita­vano il potere del re, ma facevano anche sì che ogni attività politica si svolgesse in un luogo solo, la capitale, e in un ambiente politico ristret­to, fatto di persone che si conoscevano personalmente.
La spersonalizzazione degli uffici statali - Coloro che all’inizio esercitavano poteri per conto del re, come suoi coadiutori di fiducia, divennero col tempo funzionari dello Stato al quale prestavano la loro attività, in cambio di una remunerazione. Ciò diede origine a quell’apparato che noi denominiamo burocrazia, cioè l’insieme di persone stipendiate dallo Stato per svolgere i compiti pubblici. La causa di questa trasformazione del vincolo di dipendenza personale dal re in dipendenza impersonale dallo Stato fu l’incremento progressi­vo dei compiti pubblici di cui si è detto.
Per il re, controllare personalmente tutta l’azione dei suoi agenti divenne tanto più difficile quanto maggiore era l’estensione dello Stato e quanto più numerose le sue attività. Egli non poteva conoscere ogni questione e raggiunge­re tempestivamente con i propri ordini tutte le contrade del regno. Non potendo esserci istruzioni del re per ogni affare, caso per caso, divenne necessario inquadrare gli agenti pubblici in strutture burocratiche stabili - gli uffici -, dotate di competenze prestabilite, legate tra di loro da rapporti rigidi di dipendenza, capaci di agire normalmente per proprio conto. Il re stava al vertice e le guidava con regole generali e astratte, cioè con leggi. Alla fedeltà al re dei funzionari veniva così a sostituirsi il rispetto della legge.
[2] La corte feudale - La corte, residenza del signore, comin­ciò ad essere anche un centro culturale, do­ve si crearono le condizioni per la nascita di una cultura laica capace di differen­ziarsi e anche di contrapporsi a quella ec­clesiastica. Le corti dei grandi feudatari, che conquistarono una vasta autonomia dall’autorità reale o imperiale nel XI seco­lo, necessitavano di funzionari e intellet­tuali alle dipendenze del signore, il quale chiedeva loro anche opere letterarie per esaltare e celebrare i valori feudali, gli ideali della cavalleria, i costumi e il gusto, che nobilitavano il mondo del signore, dei cavalieri e delle dame della corte.
Na­sce così una nuova figura, quella del letterato di corte, che abbandona il latino della cultura ecclesiastica per il volgare e che trasferisce e trasfigura in prosa e in poesia i valori della ‘cortesia’, cioè l’insieme dei comportamenti, delle regole, degli ideali che contraddistinguevano la cerchia privilegiata delle grandi corti, prima proven­zali poi anche di quelle tedesche e dell’Italia settentrionale.
[3] Le Università o Studi Generali - Il risveglio delle città dopo il Mille portò al potenziamento delle scuole collegate ai vescovadi alle quali si af­fiancarono scuole laiche. In tutte si im­partiva l’insegnamento elementare della ‘grammatica latina’, svolto su testi per lo più di carattere religioso.
Studi di livello su­periore erano possibili nelle città, in cui si trovavano abbazie di antica tradizione, in particolare Parigi (abbazia di S. Vittore) e Bologna (abbazia di S. Felice).
Le discipli­ne che s’insegnavano erano quelle eredi­tate dalle scuole di Roma antica: ‘gramma­tica’, ‘retorica’ e ‘dialettica’ (chiamate il trivio, «incrocio delle tre strade»), ‘aritmetica’, ‘geo­metria’, ‘astronomia’, ‘musica’ (quadrivio); al­tri insegnamenti come la ‘medicina’ e il ‘dirit­to’ cominciarono poi ad essere oggetto di studio, mentre la ‘teologia’ continuava ad essere la disciplina considerata al di sopra di tutte le altre.
Quando queste scuole per il numero degli studenti, in genere legato alla fama degli insegnanti, divenivano centri di studio famosi, ricevevano dall’autorità ecclesiastica o politica il riconoscimento di ‘studium generale’ (come av­venne per Bologna e Parigi, e per Salerno, centro degli studi di medicina).
La deno­minazione di ‘universitas’ indicò inizialmente la ‘corporazione’ degli studenti (a Bologna) o degli insegnanti (a Parigi), vale a dire l’organizzazione, che pagava i mae­stri, gestiva la copiatura dei testi e tutto quanto era legato ai bisogni dell’univer­sità.
La Chiesa, dopo un’iniziale diffiden­za verso fonti d’insegnamento, che pote­vano contrapporsi alle scuole ecclesiastiche, cercò di assumerne il controllo e a po­co a poco impose la sua giurisdizione sul­le università, facendo accettare il principio, che solo la Chiesa poteva dare alla fine de­gli studi la ‘licentia docendi’ (abilitazione all’insegnamento) valida per tutti i paesi della cristianità.
[4] La Scolastica – Con la rinascita urbana dell’XI secolo, la cultura cessò di essere monopolio quasi esclusivo dei monasteri e delle abbazie e l’insegnamento cominciò ad organizzarsi principalmente intorno alle grandi scuole cattedrali delle città, fino ad arrivare, alla fine del XII secolo, alla costituzione delle prime università; l’XI secolo fu caratterizzato da una forte rinascita nello studio della logica e della dialettica aristoteliche, che cominciarono ad essere applicate anche alle questioni teologiche. Si sviluppò così una forte polemica fra ‘dialettici’ ed ‘antidialettici’:
I ‘dialettici volevano affidarsi alla ragione, per intendere le verità di fede;
gli antidialettici, si opposero a tali innovazioni, negando qualsiasi valore al ragionamento per quanto riguarda le verità rivelate.
Una posizione di compromesso fra le due posizioni fu sostenuta da ‘S. Anselmo di Aosta’ (1033-1109); egli, infatti, riconobbe alla ragione la funzione di chiarificazione della fede. Tuttavia, nel pensiero di Anselmo, la fede conserva il suo primato, in quanto essa indica alla ragione il contenuto della sua indagine (credo ut intelligam = credo per intendere).
Abelardo (1079-1142), per quanto riguarda la teologia, sostenne che si può credere soltanto ciò che si può intendere (intelligo ut credam = intendo per credere), rovesciando così la formula di S. Anselmo; le posizioni teologiche di Abelardo furono osteggiate con forza da S. Bernardo (1091-1153), fondatore della mistica medioevale, al quale l’indagine razionale dei filosofi scolastici apparve inutile e fuorviante: la vera conoscenza di Dio è ottenibile soltanto attraverso la via mistica, che si attua attraverso una serie di gradi culminanti nell’estasi, in cui l’anima umana si perde in Dio, e l’uomo trascende così la sua corporeità.
Il culmine della scolastica, che comprende il XIII secolo è caratterizzato dalla graduale penetrazione e assimilazione, da parte della scolastica cristiana, della filosofia aristotelica. Dal XII secolo, le opere filosofiche e fisiche di Aristotele, del quale prima si conosceva soltanto la logica, furono tradotte in latino, insieme a quelle dei suoi commentatori arabi ‘Avicenna’ (980-1037) e ‘Averroè’ (1126-1198); in un primo momento, la diffusione dei testi aristotelici, letti e commentati nelle scuole e poi nelle università, provocò la reazione degli ambienti più tradizionalisti che si irrigidirono sulle consuete posizioni platonico-agostiniane.
Il ritorno all’agostinismo culminò con il pensiero di ‘S. Bonaventura’ (1221-1274), anch’egli francescano, maestro a Parigi e amico di S. Tommaso, del quale tuttavia non condivise le teorie filosofiche.
In un secondo momento si arrivò invece ad una compiuta conciliazione fra aristotelismo e cristianesimo, specialmente ad opera dei due grandi maestri dell’ordine domenicano: ‘S. Alberto Magno’ (1206-1280) e, soprattutto, il suo allievo ‘S. Tommaso’ (1225-1274) con cui il pensiero scolastico raggiunse il suo culmine, producendo una nuova grande sintesi, che sostituì il fondamento aristotelico a quello tradizionale agostiniano-neoplatonico.
La crisi della scolastica va dalla fine del XIII secolo a tutto il XIV secolo ed è caratterizzata dalla progressiva messa in discussione della grande sintesi fra ragione aristotelica e fede cristiana compiuta nel periodo precedente.
La prima grande figura che mise in discussione la funzione dell’aristotelismo per la fede cristiana fu ‘Duns Scoto’ (1266-1308), francescano, maestro a Oxford ed a Parigi: egli affermò che la ragione non può servire a spiegare la fede, in quanto essa è limitata al dominio teoretico, mentre la fede appartiene a quello pratico.
La crisi della scolastica raggiunse il suo culmine con ‘Guglielmo di Ockham’ (1290-1348), francescano, studiò e insegnò a Oxford e, dal 1328, fu costretto a rifugiarsi a Monaco di Baviera sotto la protezione dell’imperatore Ludovico il Bavaro perché accusato di eresia: egli dichiarò impossibile l’accordo fra verità rivelata e indagine filosofica sulla base di un empirismo radicale, infatti, secondo Ockham, ciò che oltrepassa i limiti dell’esperienza non può essere né conosciuto né dimostrato dall’uomo.
[5] Il Romanico
[6] San Francesco d’Assisi - Nacque ad Assisi nel 1182 e morì alla Porziuncola, presso Assisi, nel 1226. Figlio di un ricco mercante, dopo una giovinezza mondana e dissipata, rinunciò a tutte le ricchezze, e fece voto di povertà, raccogliendo intorno a sé numerosi compagni. Fondò l’ordine dei Frati minori, cui segui l’ordine femminile delle Clarisse, fondato da Santa Chiara dietro ispirazione di Francesco, e infine l’ordine dei Terziari per i secolari d’ambo i sessi. Vissuto in un’età di lotte feroci, San Francesco predicò l’amore fra gli uomini, e, in tempo di spietate ambizioni che si risolvevano in sopraffazioni dei pochi sui molti, esaltò l’umiltà e la povertà. Volle richiamare alla povertà evangelica anche la Chiesa, invischiata in interessi mondani, proponendo l’esempio dell’ordine da lui fondato.
[7] Jacopone da Todi - Jacopo de’ Benedetti, chiamato da Todi dal nome della sua città natale, visse dal 1230 al 1306. Studiò legge a Bologna, poi tornò a Todi dove fece con successo l’avvocato e il notaio. Condusse vita mondana e brillante finché, dopo la morte della moglie avve­nuta in tragiche circostanze, si diede a vita ascetica. Entrò nell’ordine francescano, e fu tra coloro (gli Spirituali) che chiesero un irrigidimento della regola francescana. Avver­so al papa Bonifacio VIII, che aveva condannato gli Spirituali, partecipò a una congiu­ra contro di lui; e fu per questo imprigionato e scomunicato (1298). Dalla prigionia e dalla scomunica lo liberò il successore di Bonifacio Vili, Benedetto XI. Fu autore di numerose laudi che rivelano una profonda tensione religiosa, e, pur nel tono spesso vo-lutamente popolare, una cultura aristocratica. Diversa da quella francescana è la religiosità che si esprime nelle liriche di Jacopone da Todi.
Mentre San Francesco è proteso verso gli aspetti del creato, nei quali vede Dio manifestarsi, Jacopone invece tende a stabilire un rapporto diretto con Dio e a perdersi misticamente in lui. E perché questo rapporto sia più intenso ed esclusivo egli si estra­nea con l’animo dal mondo terreno e dai suoi valori, o, se vi rivolge l’attenzione, ne mette a fuoco gli aspetti più negativi.
Non mancano tuttavia alcune eccezioni a questa tendenza prevalente; fra esse la più fe­lice artisticamente è la lauda Il pianto della Madonna.
[8] L’amor cortese – Il termine ‘amor cortese’ riassume un ideale di vi­ta esclusivo dell’ambiente della corte. I protagonisti di questo particolare rapporto amoroso possono essere soltan­to la dama di corte (madonna) e il poeta (amante) che è tenuto ad un atteggiamento di cortesia rivolto alla dama che è di totale ubbidienza, vassallaggio, desiderio ed omaggio. L’amor cortese fu teorizzato ed esaminato in un trattato assai famoso a quel tempo, il ‘De amore’ (Sull’amore) di Andrea Cappellano, che dettò le regole di comportamento e definì anche le situazioni sentimentali degne di un vero cavaliere:
la gioia per il favore accordato da madonna;
l’affinamento dei valori della cortesia per rendersi degni dell’amore;
la tensione del de­siderio amoroso.
Tutto questo costituiva un vero e proprio codice di comportamento (probabilmente poco rispettato nelle concrete esperienze di vita) che valeva per la poesia. La lirica cortese compì una mediazione tra il sentimento d’amore e la sua trasfigurazione intellettuale at­traverso un linguaggio letterario assai raffinato e seleziona­to, basato su alcune parole-chiave e sull’esclusione dei termini non eleganti; la lingua dei trovatori si presenta come un codice lirico, una lingua con regole assai rigide e distante da quella parlata.
In Italia fra XIII e XIV secolo giunge a un altissimo grado di elaborazione, dando vita al nucleo iniziale della tradizione letteraria europea e italiana.
[9] Guido Guinizelli - Nacque a Bologna fra il 1230 e il 1240; fu giurista. Im­pegnato politicamente, militò nella fazione ghibellina. Fu perciò mandato in esilio con gli altri ghibellini bolognesi nel 1274 e in esilio morì nel 1276 a Monselice. La sua poesia lo rivela uomo di ricca cultura, oltre che di gusto raffinato e di vivace fantasia. Dante lo chiama «padre», e lo considera iniziatore della lirica stilnovistica. E in realtà la sua canzone Al cor gentil è una specie di manifesto poetico dello «Stil no­vo». In essa sono proposti i due temi che diventeranno tipici dello Stil novo: il tema della donna-angelo e quello della nobiltà (o gentilezza) da identificarsi con la nobiltà dell’animo.
[10] Guido Cavalcanti - Nacque a Firenze da famiglia nobile fra il 1255 e il 1259. Come il suo amico Dante, fu guelfo di parte bianca, e fu appassionato uomo di fazione, tanto che, per la sua violen­ta partecipazione a scontri con esponenti della fazione avversa, nel 1300 fu mandato in esilio a Sarzana, dove si ammalò di febbri malariche. Morì a Firenze nello stesso anno, 1300, subito dopo essere stato richiamato in patria.
«Primo amico» di Dante, secondo la definizione data da Dante stesso, Guido Cavalcanti fu uomo solitario, di gusti aristocratici e di aristocratica cultura. Le sue riflessioni filosofi-che pare approdassero alla negazione dell’esistenza di Dio. Poeticamente fu la voce più in­tensa e originale del gruppo dello Stil novo.
La sua concezione dell’amore non coincide sempre con quella comune alla maggior parte degli stilnovisti: se a volte l’amore è anche da lui rappresentato come mezzo di elevazione, più frequentemente - e nelle liriche migliori - il Cavalcanti lo sente come una forza distruttiva che sconvolge e devasta la vita dell’uomo.
[11] La cornice - Una caratteristica significativa presente nelle raccolte orientali entrò a far parte anche del nuovo genere narrativo elaborato da Boccaccio: l’in­serimento delle novelle in una cornice, all’interno, cioè, di una struttura por­tante, di una narrazione principale, che includesse i vari racconti proprio come una cornice racchiude un quadro, a garanzia dell’unitarietà dell’opera. Nelle Mille e una notte, ad esempio, la narrazione-cornice era rappresentata dalla vicenda della principessa Sherazade che, per ritardare la propria condanna a morte, teneva desta ogni sera la curiosità del sultano con un nuovo racconto; nel Decameron di Boccaccio, invece, sette fanciulle e tre giovani fiorentini si ritirano in una villa, fuori città, per sfuggire al contagio della terribile peste del 1348 e deci­dono di raccontarsi a turno, per dieci giorni, una novella ciascuno.

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog