Il carattere specifico dei diversi momenti, si può
ritrovare essenzialmente nel loro rispettivo radicarsi in diverse situazioni
socio-storiche nel corso dei vari decenni del secolo e di conseguenza nel rispondere a
sollecitazioni diverse ed in particolare, su un piano di rapporti fra le idee,
di storia delle idee, nel tener conto di
contributi nuovi, spesso di assoluta importanza – si pensi a
Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Hume ecc.
Intorno alla metà del secolo e poi in seguito, proprio da
quest'ultima circostanza deriva soprattutto una letteratura – sicuramente meno ricca di
opere memorabili come la Scienza nuova o il Triregno – aperta piuttosto all'assimilazione critica, al dibattito, alla divulgazione, secondo un'ampiezza di interessi assai più rilevante che non in passato – economia, economia politica, pedagogia ecc. –, e
legata strettamente alle esigenze ed alle richieste di una società in attiva
espansione, specialmente in alcuni
importanti nuclei urbani – Venezia,
Bologna, Milano, Torino, Genova, Firenze, Roma, Napoli, Palermo e altri minori – dove, nel corso del secolo cominciò a svilupparsi un ceto intermedio,
variamente impegnato in attività
funzionariali, imprenditoriali, commerciali, finanziarie. Questa classe in formazione – matrice della
grande borghesia ottocentesca – si componeva in parte di plebei, di roturiers, in parte
di nobili, e un suo tratto comune era
appunto la richiesta di cultura non
astratta, ma strettamente funzionale ai propri bisogni, di strumenti conoscitivi sia in relazione al suo
ruolo sia sul sempre più rapido sviluppo delle scienze e delle tecniche. Si trattava
di una «domanda» di cultura sostanzialmente nuova, rispetto ai primi decenni del secolo, e da essa derivarono
alcune conseguenze di ampia portata nella letteratura del tempo:
·
In primo luogo
il minore credito e spazio,
riservati ad esperienze di pura
invenzione, di assoluta creatività, esperienze che intorno alla metà del secolo
si riducono, di fatto, vistosamente.
·
In secondo
luogo, il nascere di nuovi generi, come il saggio di breve respiro, alla maniera di Algarotti, o il romanzo-saggio, alla maniera di Chiari, o il modificarsi di generi tradizionali,
come la lirica o il poemetto, su cui per esempio Parini (si pensi al Giorno
e alle prime Odi) compie, intorno al 1760, arditi interventi
trasformativi.
·
Infine,
il configurarsi di un uomo di lettere accentuatamente professional, sempre
più libero da dipendenze cortigiane (altra cosa è ora il buon rapporto, spesso
disinvolto, con i sovrani illuminati), molto attento all'andamento e alle
richieste del mercato librario e giornalistico.
Se
questi sono alcuni tratti strutturali della letteratura illuminata medio e tardosettecentesca, si può
ancora notare come essa presenti un quadro ideologico fondamentalmente unitario, al di là delle complesse
differenze di ambienti, di anni, di
personalità variamente formate, di prospettive spesso divergenti quando non
antitetiche. Si tratta di considerare
la tensione alla raison come linea di forza dell'intera cultura dei Lumi e del
tradursi di tale tensione in proposte e impegni di riforma, che non vale
solo per i primi decenni, ma anche per la cultura illuminata del medio e del tardo
Settecento, purché però subito si avverta come in quest'ultima si verifichi una
«rettifica di tiro», certamente legata ai fenomeni strutturali appena
richiamati: si passa in altre parole dall'esigenza di massima, spesso
astrattamente speculativa, di investire della luce viva della «ragione» alcuni
dati di fondo della realtà dell'uomo (l'esperienza storica, l'arte ecc.), alla
cura di esplorare nei dettagli, con quella stessa luce, l'accidentato terreno
dell'esistenza, sia individuale sia collettiva. Un impegno esplorativo che
mira ora a tradursi in proposte ed in tentativi di «riforma» delle realtà
investigate, nella prospettiva di una dinamica del mondo sociale e storico in
atto, nell'idea che la varia realtà dell'esistenza – cose gruppi istituzioni –
possa e debba modificarsi in meglio, procedere, «progredire».
Certo oggi sappiamo che la realtà
delle cose è ben più complessa e contraddittoria e non ci è difficile renderci
conto di come l'articolazione esasperata delle idee di ragione e di progresso
rappresenti
l'ideologia, mitica copertura concettuale di questo mondo europeo impegnato
nella vicenda espansiva, e per esempio «di che lacrime grondi e di che sangue»,
di bianchi e di negri e di «selvaggi», l'affermazione del progresso in termini
non solo teorici o verbali. E sappiamo anche riconoscere in che misura quella
stessa articolazione abbia finito per produrre quel caratteristico
atteggiamento mentale non certo venuto meno con l'età dei Lumi, e che oggi si è
soliti appunto definire illuministico.
Tuttavia quelle prospettive medio
e tardosettecentesche costituiscono non solo un'acquisizione di assoluto
rilievo nell'intelligenza occidentale, ma anche un elemento decisamente centrale
nella «dinamica di sviluppo» del secolo, a
mezzo fra antico e nuovo, e fino all'età
rivoluzionaria e poi napoleonica ancora ampiamente e profondamente
coinvolto nelle proprie radici feudali.
Dalla seconda metà Settecento, l’intensificarsi delle
iniziative riformiste da parte dei sovrani illuminati portò ad una più marcata
dislocazione degli intellettuali italiani dai ranghi della Chiesa a quelli
degli Stati.
Animati dal rinnovato sentimento di missione sociale
e civile cui adempiere, i letterati diventarono, ad imitazione di quelli
francesi, philosophes, cioè
cultori enciclopedici di discipline concrete — diritto, economia, amministrazione
—, pronti a servire la causa delle riforme, al seguito dei principi illuminati.
Non si trattò ovviamente di un passaggio in massa,
perché una parte dei letterati restò attardata su posizioni superficialmente
arcadiche e accademiche. L’eccezione anzi riguardò «la grande maggioranza degli
intellettuali – scrive Giuseppe Galasso in Potere
e istituzioni in Italia del 1974 – legati alla cultura arcadica, alla vita
di corte, alle antiche accademie e inaccessibili alla situazione
politico-culturale determinata dalla rottura rivoluzionaria». Certamente però
la parte migliore dell’intellettualità italiana passò all’Illuminismo.
Fra loro fu diffusa la convinzione della propria
indispensabilità, alimentata dalla grande considerazione e dal grande favore
accordati loro dai responsabili del potere politico. Come ai tempi dell’Umanesimo,
infatti, gli uomini di cultura erano ricercati, contesi, adulati: Kaunitz,
ministro di Maria Teresa, ad esempio, non nascose al conte Firmian la sua
preoccupazione per l’invito rivolto da Caterina di Russia a Cesare Beccaria,
lamentando la «penuria in cui siamo in provincia di uomini pensatori e
filosofi». Ma più che al tempo dell’Umanesimo, i letterati ebbero la
convinzione di contare di fronte ai principi, dando «consigli – scrive ancora
Galasso nel citato volume – dei quali un governo avveduto, per il bene dei suddetti
e del paese, non può fare a meno, perché sono i consigli della ragione
illuminata».
Rispetto agli umanisti, i nuovi intellettuali avevano
anche un’idea diversa della cultura, che non si fondava più sul primato
petrarchesco della parola fine a se stessa, ma sulla capacità di divenire
strumento per trasformare il mondo e quindi non per essere più tanto testo
letterario quanto piuttosto saggio, inchiesta, ricerca sulle questioni dell’economia,
della legislazione, dell’amministrazione, scritti con intento di conoscenza, di
educazione, di propaganda. Questo atteggiamento, del resto, era maturato già
nei decenni precedenti e si trova lucidamente affermato da Muratori nel Trattato
della pubblica felicità, scritto
nel 1749, «un libro – come scrive Cesare De Michelis in Il mercato della letteratura in Con
felice esattezza del 1998 – che insegna ad un mercante, ad un marinaio, a
un giardiniere o agricoltore, ad uno speziale, ecc. il suo mestiere col meglio
di quell’arte che cento libri di secca filosofia, di smilza erudizione e di
poesie poc’altro contenenti che infilzate parole».
Ora quest’atteggiamento si accentuò fino a portare ad
un autentico disdegno per la cultura fine a se stessa. Bisognava abbandonare
«la vanagloria dell’astratta speculazione» scriveva Genovesi, e dedicarsi a
fare gli uomini «meno contemplativi e più attivi». «Altra cosa è un uomo altra
cosa un letterato», sentenziava senza appello Pietro Verri.
Tutto questo serve a spiegare in parte la relativa
modestia, qualitativa e quantitativa della produzione letteraria vera e propria
di questo periodo e perché essa sia così spesso intinta di finalità
pedagogiche e civili, come in Parini, o quanto meno di un bonario spirito di
satira sociale, come in Goldoni, fa eccezione Alfieri, ma egli non era e non
voleva essere un illuminista.
Fra i temi concreti agitati dagli intellettuali
illuministi si fa largo quello della nazione italiana. Già nel primo
Settecento, la parola «nazione» tendeva ad applicarsi prevalentemente
all'Italia intera. Per gli intellettuali del primo Settecento si trattava, tuttavia,
di una nozione priva di qualsiasi contenuto politico: nazione italiana era per loro
l'insieme delle persone colte che intendono e parlano la lingua letteraria nata
nel Trecento e codificata nel Cinquecento. In tal modo, comunque, si allargava
il concetto di società italiana da quello ristretto di comunità dei letterati,
che scrivono nella lingua di Dante, e del ristrettissimo pubblico delle corti a
quello, più ampio, di «nuova classe colta nobiliare e borghese».
Ciò avvenne anche sotto lo
stimolo del contatto e del confronto con la cultura francese che si dimostrava più
compatta di quella italiana, grazie al supporto dell'unità statale.
Con l'Illuminismo l'idea di
nazione italiana si evolse ulteriormente. Ora si tendeva a considerare italiani
tutti gli abitanti della penisola, anche se non parlavano italiano – sebbene
stravagante come concetto, perché non si sa bene in che senso essi fossero
italiani – e la parola patria che, ancora all'inizio del secolo, era riferita
al luogo d'origine, cominciava ad estendersi all'intera penisola ed acquistava
progressivamente una valenza politica. Non siamo d'altra parte, ancora, alla
rivendicazione di uno Stato indipendente per la nazione italiana così di
recente scoperta. È opportuno, infatti, ricordare che gli illuministi erano strettamente
legati ai principi e in generale tutti professavano assoluta lealtà allo Stato
particolare cui essi appartenevano e che servivano. Ma quando la collaborazione
coi principi venne meno ed i soldati di Napoleone esibirono, armi alla mano,
l'esempio trascinatore della «grande nation», l'idea nazionale in senso moderno
(patria = nazione = Stato) nacque nella pubblicistica giacobina per poi
consegnarla alle generazioni risorgimentali.
Per almeno due o tre decenni la
collaborazione fra intellettuali e governi sembrava rafforzare nei secondi il
senso della loro importanza ed indispensabilità. Per tutto questo periodo, come
funzionari, consulenti, pubblicisti ascoltati, gli intellettuali collaborano
attivamente coi governi più dinamicamente impegnati sul terreno delle riforme –
cioè quelli di Milano, Parma e Piacenza, Firenze, Napoli – contribuendo agli
sforzi intesi a superare le sopravvivenze dello Stato «cittadino» e feudale, a
favorire lo sviluppo agricolo e le finanze pubbliche e ad affermare
definitivamente il principio della laicità dello Stato contro le pretese della
Chiesa. Questa partecipazione diretta degli intellettuali alla politica delle
riforme spiega il relativo moderatismo degli illuministi italiani rispetto ai philosophes francesi, i quali, impossibilitati a partecipare in
prima persona alla vita pubblica, erano più facilmente tentati di assumere atteggiamenti
estremistici.
Ciò è provato dal fatto che dove
quella partecipazione e collaborazione coi governi non era possibile, lì si
manifestavano le posizioni illuminate più radicali. È il caso del Piemonte dove «le punte più avanzate di quella cultura, Radicati, Giambattista e Dalmazzo
Vasco, a differenza dei Verri e dei
Beccaria – scrive Vitilio Masiello in
Intellettuali e società nella tradizione culturale
nazionale: modelli tipologici e codici assiologici del 1991 – si vedono relegati ai margini della vita associata [...]. E forse è
proprio in questa loro posizione di intellettuali "sradicati"
ed isolati la condizione dialettica così dell'estremismo e del radicalismo delle loro ideologie come di
quella carica di amarezza e di ribellione che li caratterizza»; fin dopo gli
anni '20 del secolo, Radicati aveva
sottoposto a Vittorio Amedeo II un progetto
che prevedeva «l'abolizione di ogni proprietà, le comunità dei beni, l'abbattimento di ogni autorità»;
Dalmazzo Vasco, dal canto suo, cercava di realizzare una repubblica
semisocialista nella Corsica insorta
di Pasquale Paoli; suo fratello Giambattista scriveva un saggio in cui sosteneva calorosamente la necessità di distribuire
la terra ai contadini.
Allo
stesso terreno culturale appartiene anche l'astigiano Vittorio Alfieri, la cui
appassionata ostilità al dispotismo regio però, più che eco dei nuovi tempi, è da considerare un fatto di attardato orgoglio nobiliare: «orgoglio e coscienza
aristocratica – continua ancora Masiello –, senso della superiorità sua e della sua classe, classistico
dispregio dei valori borghesi del
vivere (associato all'indifferenza per i problemi concreti, sociali, economici
e giuridici), spasmodica volontà di grandezza sono la base del titanismo alfieriano».
Diversa è la
situazione degli illuministi della vicina Lombardia che, dopo «la fase astrattamente polemica e
programmatica del Caffè», parteciparono
in prima persona alla politica riformatrice dei funzionari asburgici. Se ne trovano i nomi più famosi fra quelli degli alti funzionari dello Stato: Pietro Verri e Cesare
Beccaria facevano parte del Supremo
consiglio di economia, Gianrinaldo Carli ne era presidente ed, in tale veste, possono mettere in atto e
seguire le riforme da loro ideate e propugnate. «Chi lo avrebbe detto mai — commenta
con compiacimento sorpreso Verri — che
Pietro Verri, capo dell'Accademia dei
Pugni [...] doveva essere successore di quei Magnifici togati!».
Anche chi come
Parini si muoveva su un terreno strettamente letterario non si sottrasse agli impegni pubblici, come fece appunto l'autore del Giorno che, nel 1791, accettò
di reggere la sopraintendenza delle
scuole pubbliche. Ma anche Parini diede
un tono decisamente moderato alla sua
battaglia antinobiliare, poiché «il Giorno – dichiara Lanfranco Caretti in Parini e la critica: storia e antologia della critica del 1953 – non volle essere un atto di rottura col mondo
aristocratico, con la società nobiliare,
a cui in effetti era indirizzato e a cui offriva una terapia di riscatto e di salvazione».
Non meno direttamente
impegnato — se non di più — il gruppo degli
illuministi della Toscana dove Pietro Leopoldo I (1765-1790) sembrava intenzionato a spingersi fino alle soglie
di un vero e proprio governo
costituzionale. L'eccezionale buona disposizione del principe fece sì che quello toscano fosse un
«illuminismo riformatore – scrive Franco Venturi in Da Muratori a Beccaria. 1730-1764 del 1969, primo volume della sua poderosa opera Settecento riformatore completata nel
1990 – pervaso dalla coscienza e dalla convinzione di avere nelle mani gli
strumenti adatti all'opera» e che in Toscana la schiera degli illuministi sia eccezionalmente nutrita. «La Toscana –
scrive Guido
Quazza in “La decadenza italiana nella
storia europea. Saggi sul Sei-Settecento” del 1971 – è indubbiamente il vivaio più ricco fin dall'età precedente le Riforme, di "tecnici" intellettuali-amministratori, capaci di applicare la
propria preparazione culturale
all'attività quotidiana di governo» rispetto ai quali i letterati veri e propri rappresentano una categoria pressoché inesistente. È l'Illuminismo di Pompeo Neri che,
dopo aver attuato a Milano il famoso catasto di Maria Teresa nel 1760,
come consigliere di reggenza per le finanze
giunge ad attuare la liberalizzazione del commercio dei grani, il censimento
generale della popolazione, la legge
sulle amministrazioni locali, la soppressione degli asili ecclesiastici e delle manomorte; di Francesco Gianni, il
più influente fra i consiglieri di
Pietro Leopoldo che prosegue l'opera di Neri, di altri minori — Fabbroni, Rucellai, Tavanti, Paoletti —
tutti più o meno ufficialmente
inseriti nelle file dell'amministrazione leopoldina. Mancano invece nella terra madre della poesia italiana
dei letterati stricto sensu, il che denuncia una situazione ormai cronica
di «scarsa fertilità della letteratura toscana – come scrive Walter Binni in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del
Settecento
del 1963 –, che rimane ancorata
ad una felicità di buona lingua e buona scrittura ... e resta chiusa a movimenti più forti del nuovo gusto fra
Settecento-Ottocento, mentre invece,
con un singolare squilibrio fra cultura e letteratura, la Toscana appare fortemente impegnata nella prassi
riformatrice di origine razionalistica e illuministica».
A
Napoli la figura centrale della nuova cultura fu Antonio Genovesi che, dalla cattedra universitaria di
economia, impartiva agli intellettuali
meridionali una lezione di concretezza (il «vero fine della filosofia e delle lettere ... è di giovare
alle bisogne della vita umana»). Attorno a Genovesi si formò un ampio gruppo di discepoli, il «partito genovesiano», che presentava al suo interno due
orientamenti diversi, uno più
moderato e direttamente impegnato nell'opera di riforma promosso dai Borbone e dal ministro Tanucci (G. Palmieri,
G.M. Galanti, M. Dèlfico), l'altro
detto degli utopisti, che nelle sue file ebbe come figure di maggiore spicco Gaetano Filangieri, il più vigoroso e
deciso nella polemica antifeudale, convinto assertore della libertà e
dell'eguaglianza. Da questo secondo orientamento uscì il generoso manipolo di intellettuali che diede vita alla
repubblica partenopea spenta tragicamente nel sangue.
La
collaborazione fra principi illuminati e intellettuali durò felicemente
una ventina d'anni, poi entrò in crisi. Verso il 1775 i sovrani illuminati
mostrarono una maggiore tendenza a fare da sé ed a trascurare la collaborazione degli intellettuali. Ora questi
ultimi si accorsero che il loro
potere contrattuale era, malgrado le illusioni, assai modesto e che, come sempre, essi sono dei profeti disarmati. Già
quando Dalmazzo Vasco era stato arrestato a Roma, nel 1768, Pietro Verri
aveva commentato amaramente: «La filosofia
se non è armata di autorità deve celarsi e, se non lo fa, la persecuzione è
sempre pronta». Ora la sensazione
della propria impotenza si generalizzava.
In
effetti, dietro gli illuministi non c'era il sostegno di una qualunque forza
sociale. Essi non erano espressione di una classe – definita da W. Maturi in Interpretazioni del Risorgimento del 1962 «varia
la composizione sociale e la maggior parte
veniva dal medio ceto, ma vi erano
anche nobili, preti, popolani: ciò che li univa era la cultura» – né volevano esserlo, nutrendo piuttosto l'ambizione
di porsi come gli interpreti dei più
veri interessi di tutte le classi e di tutti gli uomini: «Spogliatevi di ogni idea di ceto — aveva ammonito Verri — ; il ceto d'uomo dabbene è il genere
umano». Le classi medie, peraltro le reali beneficiarie delle riforme, erano
ancora troppo deboli e troppo poco
consapevoli di loro stesse per contare
qualcosa come forze sociali unitarie e per difendere l'iniziativa dei «filosofi». La nobiltà era ovviamente
ostile e la massa anche, per motivi
meno ovvi. In definitiva la forza di questi ultimi stava unicamente nel bon plaisir dei principi e
quando questo venne a mancare lo spazio
dell'Illuminismo riformista si chiuse.
Del
resto anche il successivo abbandono da parte dei principi delle velleità
riformiste fu più un effetto della loro sostanziale debolezza sul piano
degli equilibri sociali che non di sovrana volubilità. Certamente i sintomi e i presagi della bufera rivoluzionaria,
che si preannunciava e si avvicinava
dalla Francia, dovettero aver raffreddato più d'un entusiasmo, ma è anche vero che in taluni Stati, come a
Napoli, la spinta riformista durò
oltre 1’89. La verità è che i principi riformisti avevano preteso di rifondare i loro Stati senza assicurarsi il
consenso di alcune forze sociali: avevano
dato addosso al privilegio aristocratico, perché gelosi del loro assolutismo,
senza stimolare una presa di coscienza e un sostegno consapevole da parte delle classi medie ed avevano finito per
avere contro tutti, anche le masse popolari danneggiate dalla spinta capitalistica nelle campagne, dall'abolizione
degli usi civici nelle terre ecclesiastiche e comunali e sobillate dalla
propaganda reazionaria del clero.
Rimasti privi dell'appoggio dei
principi, gli intellettuali si dimostrarono
incapaci sia con le loro associazioni, clandestine e no – le accademie,
la massoneria – sia con le loro asfittiche riviste a dar vita a un movimento politico in grado di proseguire il
programma di riforme anche contro la volontà dei principi. Non mancò da parte
loro l'appello all'«opinione» attraverso i giornali, e che questa
«opinione» ci fosse davvero, che «il
pubblico cioè rappresentasse ormai una realtà che era impossibile trascurare o ignorare», è provato dal fatto che i governi
si videro costretti a rispondere con le stesse armi. Così «dal 1792 in poi, – come scrive Cesare De
Michelis in Il mercato della letteratura
in Con felice esattezza del 1998
– superata la sorpresa della rivoluzione,
soppresse le voci scopertamente
filofrancesi, si diffonde in Italia una vasta pubblicistica controrivoluzionaria, alla quale non manca, in più
di qualche occasione, l'appoggio di settori più moderati
dell'intelligenza illuministica e
riformatrice». Così a questo punto l'illuminismo italiano svela la sua duplice anima, quella moderata—riformata e quella
utopistica—rivoluzionaria. La prima nei travagliati anni che seguirono assunse una gamma di posizioni che andarono
dalle posizioni francamente
reazionarie di un Gianrinaldo Carli ad altre cautamente innovatrici, come quelle di Parini e di Verri che sedettero
fra i moderati nella futura municipalità milanese. La seconda anima nutrì di sé i numerosi esperimenti giacobini
del triennio 1796-99.
La
stagione giacobina in Italia fu il frutto di un'illusione disperata: i rivoluzionari italiani pretendevano di vincere la
loro rivoluzione «proprio quando la
svolta del Direttorio stracciava definitivamente il giacobinismo francese». Ma
non era comunque una battaglia assurda. Contrariamente a quanto suggeriva
l'accusa autocritica di astrattismo
che Vincenzo Cuoco lanciò in seguito, la parte più intelligente degli
intellettuali rivoluzionari comprese la necessità di associare le masse al loro sforzo rivoluzionario. Sul «Termometro
politico della Lombardia» un «buon
patriotta» ripeterà, con accenti che precorrono quelli di Pisacane «finché avrà fiato: se volete far dei buoni patriotti
nella gente ignorante e povera, adoperate lo specifico dell'interesse,
non vi è altro mezzo al presente. Il metodo dell'educazione è eccellente, ma è troppo lungo»; mentre a Napoli
Eleonora Fonseca Pimentel afferma la
necessità di stabilire un collegamento con le plebi cittadine nella cui incomprensione vedeva «la
ragione di nostri ultimi mali»: «la plebe diffida de' patrioti perché non gli
intende». Della volontà di «andare verso il popolo» è testimonianza la
fioritura del cosiddetto teatro giacobino, promossa da numerosi letterati
rivoluzionari fra cui in primo luogo Matteo Galdi e Francesco Saverio
Salfi in base alla convinzione, come afferma
lo stesso Salfi, che i teatri andavano «considerati come gli organi più
efficaci della pubblica istruzione».
È
legittimo in definitiva parlare di
un giacobinismo italiano che cercò l'alleanza con le classi subalterne e
in particolare coi contadini e che «se non
fosse stato conculcato dalla Francia direttoriale e napoleonica – scrive Armando Saitta in Ricerche storiografiche su Buonarroti e
Babeuf del 1986 – avrebbe potuto realizzare la sua rivoluzione agraria».
Ma
i francesi preferirono, appunto, mettersi d'accordo coi moderati; poi la fulminea riconquista austro-russa,
sebbene effimera, giunse a fare strage
del fior fiore del giacobinismo della penisola, quello napoletano.
Il
quindicennio successivo, quello della dominazione napoleonica, fu per i letterati italiani un periodo di incertezza
e di dubbio. Privi di autonomia, divisi sul giudizio da dare sul nuovo ordine
politico e sull'uomo che lo personifica, sull'opportunità di opporsi o
di collaborare, essi persero per alcuni anni
la propria capacità di iniziativa. Fra i letterati la figura dominante fu quella di Foscolo che riassunse in sé
le incertezze e le contraddizioni di
tutti loro. La vita a Milano, centro focale dell'Italia napoleonica, non chi
certo facile per chi, come lui, sapeva solo maneggiare la penna e la spada.
Sebbene la capitale lombarda fosse una città culturalmente molto vivace
l'ingegno letterario non diede da vivere a
Foscolo. Perciò egli fu costretto a vivere del mestiere di soldato che lo
coinvolse in vari fatti d'arme e lo obbligò a spostarsi in Italia e fuori d'Italia, sempre a corto di soldi perché la paga era scarsa, lo stile di vita
megalomane e sregolato e, per di più,
gravato dalle spese per l'edizione di opere che non si vendevano. Anche
in questo la figura di Foscolo è esemplare della condizione del letterato, che
comincia ora a liberarsi, ma ci riesce solo in parte, della sua secolare condizione di dipendenza economica.
Foscolo potrebbe ingraziarsi il potere dispotico di Napoleone e dei suoi
rappresentanti in loco. Il «regime»
mostrava un atteggiamento benevolo verso gli intellettuali malleabili.
La costituzione della repubblica italiana (poi regno d'Italia) prevedeva
perfino che «l'organo primitivo della sovranità nazionale sia l'insieme di tre
collegi elettorali, uno di "possidenti", uno di
"commercianti" e uno di "dotti"». Ma Foscolo non era
malleabile e nei Sepolcri c'è una trasparente satira contro i tre
collegi:
«Già il dotto e il ricco ed il patrizio vulgo,
decoro e mente al bello italo regno
nelle adulate regge ha sepoltura
già vivo...»
e, già in sospetto per le sue idee radicali, continuò a rendersi
sgradito per il suo spirito indipendente e per i suoi atteggiamenti di dissenso
più o meno palese. In realtà le sue vedute politiche erano venute cambiando con
gli anni e se in gioventù aveva nutrito idee democratiche ed ugualitarie, ora
esse erano dileguate e, sebbene egli restasse convinto che le società siano
sempre divise fra «gli oppressori e gli oppressi», fra «un aggregato di pochi
che comandano per mezzo della spada e delle opinioni e di molti che servono»,
egli rinunciò a prendere le difese dei deboli ed affidò al letterato il compito
di «dire il vero» perché ciò giova a rappacificare gli interessi degli
individui (quindi, in definitiva, il letterato fa opera utile per il potere).
L'ideale politico cui Foscolo restò più tenacemente affezionato fu quello della
patria italiana, una e indipendente, sicché, a giusto titolo, la successiva
generazione risorgimentale guardò a lui e ad Alfieri come ai propri precursori
e padri spirituali.
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