lunedì 29 agosto 2011

Il primo soggiorno di Caravaggio a Napoli di Massimo Capuozzo

Agli inizi del secolo, mentre vigeva ancora il gusto per forme intellettualistiche e idealizzanti care allo spirito della Controriforma, caratteristiche dell'ultimo Manierismo più ritardatario e provinciale ed espresse in una stanca koinè e quasi del tutto priva di voci dominanti – da Francesco Curia a Girolamo Imparato, da Fabrizio Santafede a Belisario Corenzio e Luigi Rodriguez – quasi per incanto, apparve improvvisamente Caravaggio compare e scompare due volte dalla scena napoletana.
Caravaggio, con una modernissima intuizione, aveva cominciato a diffondere nell’arte un nuovo verbo, basato sull'impatto drammatico di una pittura tratta dal naturale, ossia dalla visione in presa diretta della realtà, attraverso il guizzo ora descrittivo, ora violento della luce nell'attimo in cui essa si rivela. Ma il senso della rivoluzione caravaggesco non stava solo nell’aspetto tecnico della camera oscura quanto nel suo particolarissimo ed inusitato modo di narrare: nelle sue opere i popolani, infatti, non sono, come era accaduto in tanta pittura italiana della Controriforma, spettatori che pregano, infelici appestati, accattoni e poveracci, plebe verso la quale la pittura aveva rivolto uno sguardo pietoso, ma diventano i protagonisti. Uomini e donne del popolo sono travolti dall’infinita oscurità dell’universo e della Storia. Caravaggio nella pittura opera una rivoluzione, al pari di quanto fa Galilei nella scienza, attribuendo dignità di cultura al sapere per esperienza sensibile, alla verità affermata in base ai fatti e non in base all'autorità e rapportando i sacri misteri alla realtà dolorosa degli eventi comuni di ogni giorno.
Caravaggio soggiornò solo pochi mesi a Napoli, ma tanti bastarono per lasciare un impatto sconvolgente sulla pittura napoletana, per certi versi stagnante, che, dal tranquillo corso tardo-manierista, fu deviata alle durezze del suo straordinario naturalismo. La sua presenza catalizzò le energie locali impegnate già con gran fervore nell’ammodernamento di tutta la Napoli sacra, costituita da innumerevoli chiese e conventi, che si allargavano e che si innovavano senza sosta alla ricerca di sempre maggiori fasti e onori.
L’arrivo di Caravaggio a Napoli non fu tuttavia fortuito: Caravaggio fuggiva, una fuga che lo accompagnò fino alla morte. Alla fine di maggio del 1606, durante una rissa scoppiata per futili motivi, il maestro era stato ferito, ma aveva ucciso a sua volta uno dei contendenti, Ranuccio Tomassoni. Era passato solo meno di un anno da quando Caravaggio era fuggito a Genova, ma adesso si trovava in una situazione disperata non era la solita zuffa, questa volta l’aveva fatta grossa. Non si trattava di una comune rissa, ma di un omicidio e nemmeno di un omicidio qualunque: Ranuccio, infatti, era il figlio dell'ex colonnello Luca Antonio Tomassoni, una figura di spicco di cui l'aristocrazia filospagnola si ricordava bene per i servizi militari prestati ai Farnese e la morte di un Tomassoni era particolarmente sgradita per il nuovo papa, schierato con gli spagnoli, ed i Tomassoni avevano un'influenza politica. La modalità della morte – «Caduto a terra Ranuccio», racconta Baglione, «Michelagnolo gli tirò una punta, e nel pesce della coscia feritolo, il diede a morte» – contribuì ad indurire il cuore di Paolo V Borghese, un papa moralizzante nei confronti di Caravaggio, ed a rendere implacabile la famiglia Tomassoni nel volere la morte dell'assassino. Giustizia pontificia e vendetta familiare rendevano Caravaggio una presenza compromettente perfino nella casa della persona più potente. Ricercato dalla giustizia pontificia, scappò precipitosamente, trovando protezione presso i principi Colonna, da sempre suoi protettori, nello specifico presso il principe Martino Colonna, che lo aveva accolto dopo essere fuggito da Roma e per il quale dipinse la Cena di Emmaus. Già in questa tela le figure umane, emergendo dall'ombra, mostrano tutto il sofferto carico interiore di passioni e di emozioni, caratteristico del periodo trascorso al Sud, passato sempre in fuga nell'ansia e nella speranza di poter un giorno tornare a Roma.
Caravaggio giunse a Napoli nel settembre 1606, dove rimase per circa un anno, preceduto dal clamore e dallo scandalo sociale e morale delle opere prodotte a Roma. A Napoli la sua fama era già ben nota a tutti: i Colonna lo avevano affidato ad un ramo collaterale della famiglia, i Carafa-Colonna, importanti membri dell'aristocrazia napoletana. Napoli, per un artista famoso, significava committenze, quindi lavoro assicurato. Era la capitale di un regno parte del grande impero spagnolo, in cui si concentrava la ricchezza attraverso i tributi e i redditi dell’aristocrazia feudale ed era la sede privilegiata dei grandi affari.
La Napoli che lo accolse fuggiasco, era una città enorme e babelica. Era la Napoli spagnola e, in quel periodo, governava, con la consueta politica di sfruttamento, il viceré spagnolo Pimentel de Herrera, conte di Benavente: la città contava circa 350.000 abitanti e, dopo Parigi, era la più popolosa d’Europa, una città in evoluzione veloce e violenta, una città militarizzata nei cui Quartieri spagnoli o nel cui porto allignavano la prostituzione e gli altri tipici mondi paralleli a quello delle armate – luoghi in cui il disagio sociale e la povertà si tingono di un colore nuovo, quello della violenza urbana, percepita coscientemente da parte delle istituzioni, che tentavano di dare risposte al malessere della plebe. Nella città dilagavano delinquenza, contrabbando, prostituzione, estorsioni: dai quartieri spagnoli col loro carico di lenoni e di gente di vita, con le risse fra Nazione spagnola e Nazione napoletana, con stranieri che arrivano al porto da tutto il Mediterraneo, provengono i personaggi ed il clima narrativo delle Sette opere di Misericordia e lì possono essere stati visti gli aguzzini della Flagellazione. In questa Napoli il conte di Benavente tirava avanti con tasse e con quella taciturna quanto sorda tolleranza nei confronti dei soprusi dei baroni e dei feudatari, in un clima di religiosità ossessiva, cui però la povera gente le affidava le proprie speranze, proprio così come questa povera gente appare nella Madonna del rosario.
In questa Napoli, caotica e proteiforme, Caravaggio visse un periodo felice e prolifico per quanto riguarda le commissioni, lavorando instancabilmente: i Colonna lo aiutarono, facendogli ottenere contatti e referenze, ma il suo nome e la sua fama erano ben noti anche a Napoli. Presto Caravaggio ricevette commissioni dagli imprenditori lombardi operanti in città, tra cui Fenaroli che gli richiese tre tele destinate alla cappella Fenaroli nella chiesa di S. Anna dei Lombardi, raffiguranti la Resurrezione di Cristo, San Francesco che riceve le stimmate ed un San Giovanni Battista: le opere purtroppo sono andate perdute durante il terremoto del 1805, che distrusse la chiesa e la cappella che le custodiva.
Eseguì la Madonna del rosario, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Controversa è la committenza dell’opera, infatti, secondo alcuni, il committente sarebbe stato Nicola Radulovic, un ricco mercante di Ragusa in Dalmazia, ed all'inizio la composizione avrebbe dovuto comprendere la Madonna in trono con i Santi Nicola e Vito, ma rifiutato dal committente, il quadro sarebbe stato poi modificato nella struttura per espressa volontà dei Domenicani. Secondo altri invece, ed è questa l’ipotesi più percorribile, il quadro fu probabilmente eseguito per decorare la cappella di famiglia nella chiesa napoletana di San Domenico Maggiore, su committenza di Luigi Carafa-Colonna, parente di Martino Colonna. A suffragare questa ipotesi, il rimando alla famiglia Colonna starebbe, appunto, nella grande colonna a sinistra alla quale è legato il grande drappo rosso che sovrasta la scena quasi come un sipario. Il tema trattato nella tela è prettamente domenicano. San Domenico ed i suoi frati avevano diffuso la devozione del rosario e la Madonna, iconograficamente rappresentata come Regina Coeli, indica il santo alla sua destra che tiene fra le dita dei rosari; alla sua sinistra San Pietro Martire domenicano ed accanto a San Pietro Martire, San Tommaso d'Aquino, il più famoso di teologi Domenicani. Madonna, Bambino e santi formano un triangolo sacro celato classicamente dai supplicanti disposti frontalmente inginocchiati in preghiera con le braccia stese verso San Domenico, mentre un gentiluomo, probabilmente il committente, guarda verso l'osservatore.
Sempre in questo periodo realizzò una delle sue opere più importanti, che si rivelò un cardine per la pittura nel sud Italia e per la pittura italiana in genere, la cui composizione, rispetto alle pitture romane, è più drammatica e concitata, non esistendo più un fulcro centrale dell'azione. Proprio quest’opera sarà di grande stimolo per la successiva pittura barocca partenopea: Caravaggio il 9 gennaio 1607 consegnò al Pio Monte le Sette opere di Misericordia, oggi esposto accanto a dipinti di Battistello Caracciolo, Fabrizio Santafede, Luca Giordano.
La Congregazione del Pio Monte della Misericordia comprendeva tra i suoi aderenti anche Luigi Carafa-Colonna ed aveva commissionato al maestro la tela delle Sette opere di Misericordia per l’altare maggiore della Chiesa dell’istituzione caritatevole napoletana. In relazione a quanto richiesto dalla committenza, Caravaggio fece riferimento alle opere di misericordia corporali, interpretando il tema evangelico in maniera personale e realizzando una tela di grandi dimensioni (390×260 cm). Ancora una volta Caravaggio realizza un’opera rivoluzionaria in cui le azioni di misericordia e di solidarietà si attuano simultaneamente nel vicolo: la luce dell’imbrunire mette in movimento e ferma come in un fotogramma una folla gesticolante che rappresenta un'umanità costituita dalle diverse classi sociali in atto in un quadrivio napoletano. La stessa inclusione della Madonna della Misericordia col bambino e gli angeli per volere della committenza non diminuì la capacità del pittore di esprimersi in maniera personalissima e Caravaggio, allontanandosi dall’iconografia tradizionale che voleva la Vergine raffigurata col mantello sotto il quale doveva accogliere l’intera comunità di fedeli, attribuisce alla Madonna le sembianze di una dolcissima popolana, forse ripresa dalla verità nuda di Forcella, come popolani sono quegli angeli lazzari che fanno la voltatella all'altezza dei primi piani e che sorreggono il bambino.
La composizione è scandita in due gruppi, ancora una volta sacro e profano, come nell’immediatamente precedente Madonna del rosario. Nella parte in alto la Vergine col Bambino, che con volto sereno e tranquillo, guarda verso il basso quasi per mostrare materno consenso ed umana simpatia alle figure sottostanti. E poi, anch’essi rivolti alle scene sottostanti, i due angeli, quasi abbracciati, ma è solo uno dei due che sostiene l’altro, circondandolo con le braccia.
Sotto sono rappresentate le sette opere, in una sintesi possente e quasi senza soluzione di continuità. Visitare i carcerati e dar da mangiare agli affamati sono sintetizzate in un’unica immagine, che rappresenta una figlia che, di nascosto, nutre con il suo latte il padre – in riferimento a quanto scrive Valerio Massimo nel De pietate, che il vecchio Cimone era rinchiuso in carcere e che non gli davano da mangiare e sua figlia Pero ottenne di visitarlo e di nascosto dai carcerieri lo nutriva col latte del suo seno. In seppellire i defunti si vedono appena i piedi lividi e le gambe di un cadavere portato a sepoltura: la figura dietro la donna che nutre il padre col suo latte, è un sacerdote che regge una torcia accesa che illumina il viso e la veste bianca della donna, un particolare rilevante perché unico esempio di una sorgente luminosa in un quadro del pittore mentre in tutte le altre opere il fascio di luce viene da una sorgente posta all’esterno della scena. Sulla destra il gruppo gemina dalla figura di San Martino, rappresentato come un giovane gentiluomo che, in vestire gli ignudi, dopo aver diviso in due il suo mantello, ne dà una metà ad un uomo seduto per terra ripreso di spalle in una struttura fisica michelangiolesca; proprio immediatamente dietro il giovane con il mantello, Caravaggio raffigura un signore benvestito indica la sua casa ad un pellegrino che simboleggia ospitare i pellegrini, e sempre a San Martino è collegata la figura in basso dello storpio che rappresenta curare gli infermi. A culmine del gruppo di sinistra dare da bere gli assetati, che parte della critica ravvisa la figura di Sansone nell’uomo che beve dalla mascella di un asino, perché nel deserto bevve l’acqua fatta sgorgare miracolosamente dal Signore: l’eroico Sansone non sta compiendo un atto di misericordia, invece è lui che è salvato dalla grazia di Dio.
Con quest’opera dalla composizione serrata, che concentra in una visione d'insieme diversi personaggi, Caravaggio abbandona ogni schema tradizionale ed attua una vera e propria rivoluzione, rappresentando con estremo realismo e con perfetto sincretismo talune scene bibliche, storiche ed altre di tipo quotidiano con alcuni rinvii mitologici. Il naturalismo caravaggesco trova qui il suo compimento: sebbene stilisticamente il dipinto si avvicini alle ultime pitture di Caravaggio a Roma, in particolare al Martirio di San Matteo per la soluzione compositiva di un gruppo di figure variamente atteggiate che si dispongono lungo delle direttrici a raggiera, esso se ne differenzia per l'utilizzazione di una luce che scolpisce le forme attraverso un chiaroscuro più netto e frantumato in cui la scelta di soggetti reali e l'alto livello di simbolismo sono condensati in un'unica scena. Il significato morale di fondo è il rapporto tra le opere misericordiose che uomini compiono come avvicinamento a Dio e la misericordia della Grazia che Dio rende agli uomini, un tema inevitabile in una pala destinata ad una congregazione dedita a questo tipo di attività caritativa.
L'artista lavorò poi alla Flagellazione di Cristo per la cappella de Franchis in San Domenico Maggiore: la lavorazione, realizzata fra il 1606 ed il 1607, fu abbastanza travagliata infatti nella parte inferiore, soprattutto all'altezza del perizoma del torturatore di destra sono evidenti segni di pentimenti e rimaneggiamenti, rivelati dagli esami radiografici che hanno rivelato una testa d'uomo, probabilmente il committente, successivamente cancellata, in obbedienza alle precise ragioni della committenza che volevano evidenziare la crudeltà degli aguzzini, profondamente diversi da quelli raffigurati come uomini semplici costretti ad un lavoro faticoso nella Crocifissione di San Pietro della chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.
Il quadro (286 x 213) mostra il luminoso torso di Cristo, legato alla colonna, con intorno tre aguzzini, che sembrano scaricatori del porto, che affiorano e, immergendosi a turno nell'ombra, organizzano una girandola di tormenti che sembra non poter avere fine. Al centro della composizione campeggia la figura di Gesù, legato a una colonna: è un corpo bellissimo, tornito classicamente dalla luce, anatomicamente perfetto, in torsione, un corpo muscoloso che contrasta col volto rassegnato, dolente, malinconico sembra fluttuare in un movimento danzante di memoria manierista.
Tuttavia la violenza espressa dai carnefici, è sapientemente inquadrata in un contesto pittorico caratterizzato dalla consueta razionalità dello spazio e della luce. Staccati dalla colonna centrale i personaggi si distribuiscono in maniera sintetica ad eccezione del più lontano, chino e quasi completamente immerso nell’ombra. Lo sfondo è nero o scurissimo e le espressioni di malvagità sono appena visibili, ma eloquenti sui volti degli aguzzini nerboruti, intenti a procurare martirio sulla carne di Cristo, così debole eppure sensuale nella rappresentazione di un corpo magnifico ed illuminato.
La bellezza di Cristo appare esaltata, anziché impoverita, dalle violenze patite, secondo una descrizione non nuova per Caravaggio: abituato a proporre il paradosso a lui molto caro, accentua i movimenti rozzi e brutali dei modelli tratti dal popolo per dare maggiore risalto al candore protagonista, a sua volta sconcertante per la capacità di comunicare un impulso di carnalità profana.
Qui Caravaggio continua il suo percorso di approfondimento nella rappresentazione del pathos: il dolore non esplode violentemente, non è gridato, è dominato, è contenuto, e perciò è tanto più intenso, sentito e comunicato allo spettatore. L’immagine coglie l’attimo che precede il culmine del dramma, quando il corpo di Cristo cede spossato alla forza bruta dei due carnefici che lo stanno legando. Gli aguzzini si accaniscono violentemente nei confronti del corpo inerme di Cristo. La luce investe e modella il corpo di Gesù, svelandone la perfezione e l’eroica purezza, in contrasto con la sudicia e scarna anatomia dei torturatori. Il pittore propone in Cristo una fisicità atletica che però è mortificata dall’atteggiamento di umiltà del capo reclino e delle gambe leggermente piegate, ad indicare l’atteggiamento psicologico e spirituale di volontaria sottomissione alla Passione. Gesù è immerso nell’atmosfera buia, interrotta solo dall’intenso bagliore della luce riverberata sulla sua figura. L’immagine torturata sembra così emergere dalla cortina di buio, suggestiva come un’apparizione, favorendo la concentrazione e la commozione del fedele inginocchiato e in preghiera. Il modellato delle anatomie è robusto e corposo come in tutte le opere meridionali del maestro.
Tuttavia sembra che Caravaggio non riesca a trovar pace neppure a Napoli. Bellori narra che sia stato il desiderio «di ricevere la Croce di Malta solita darsi per gratia ad huomini riguardevoli per merito e per virtù» a spingere Caravaggio ad imbarcarsi per Malta ed è probabile che l’artista, entrando a far parte del Sacro Ordine Gerosolimitano, sperasse di potersi mettere al sicuro dal “bando capitale” emesso dal tribunale pontificio. Sempre per intercessione dei Colonna, si trasferì a Malta: a condurlo sull’isola potrebbe essere stato un altro esponente della famiglia che lo protegge, quel Fabrizio Sforza Colonna – figlio della marchesa di Caravaggio e generale della flotta maltese – che proprio nell’estate del 1607 fece scalo a Napoli proveniente da Marsiglia.
Massimo Capuozzo

1 commento:

  1. Interessantissimo articolo su uno dei migliori pittori che l'Italia abbia mai avuto; Caravaggio è stato un pittore di fama mondiale, i suoi dipinti sembrano così reali, le figure che si trovano nelle opere vengono evidenziate usando una particolare tecnica di illuminazione che pone una figura particolare al centro dell'attenzione, giocando anche sull'oscurità delle altre figure e dello sfondo.Probabilmente non avremo altri artisti bravi come lui... Molto interessanti gli anni che ha passato a Napoli, a quell'epoca sotto gli spagnoli, e nella biografia vengono riportati avvenimenti e ambientazioni di quel periodo. Davvero un ottimo articolo!
    Un saluto da Gallo Antonio

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