1 L'età del
realismo - Il
periodo 1861-1900, visto nel suo insieme, presenta caratteri nettamente
differenti da quelli del periodo risorgimentale. Mentre durante il Risorgimento
la preminenza di congiure, moti e guerre creava un clima eroico, offrendo possibilità
di spicco ad alcuni protagonisti, nei quali si incarnavano i grandi ideali che
erano sottesi al movimento stesso, nell'epoca di cui ora ci occupiamo
predominano i problemi della realtà quotidiana: dell'amministrazione,
dell'economia, delle tensioni sociali che sommuovono le masse che stanno per
venire in primo piano.
Un simile clima di
abbandono dei grandi disegni assoluti ed astratti e di aderenza alla realtà
concreta si riscontra anche nel campo culturale. Alla filosofia spiritualistica
dell'età precedente si sostituisce il positivismo, un movimento filosofico
sorto in Francia ad opera di Augusto
Comte (1798-1857). Esso, caratterizzato da una sconfinata fiducia nelle
scienze, voleva essere soprattutto un metodo e, più precisamente,
l'applicazione del metodo delle scienze sperimentali al mondo umano. Ne favorì
il sorgere l'incremento preso dalle scienze della natura (fisica, chimica,
biologia) tanto sul piano teorico, quanto in quello delle applicazioni tecniche
che avevano rivoluzionato il mondo della produzione e della vita quotidiana. In
Italia, già Cattaneo aveva condiviso
la mentalità positivistica. Essa però si diffuse da noi solo nell'ultimo
ventennio del secolo, ad opera soprattutto del filosofo Ardigò.
Questa mentalità realistica, tesa ai fatti, ebbe la sua
espressione in letteratura soprattutto nella corrente del verismo; ma
partecipano in qualche modo dello spirito del realismo anche altri autori e
correnti.
2 La rivoluzione
industriale e la questione sociale in Europa - Con il decollo dell'industria
nell'ultimo ventennio del secolo si verificò, anche in Italia, quella
rivoluzione industriale che già aveva trasformato la vita dell'Inghilterra e
della Francia e che ora vogliamo presentare nei suoi aspetti più clamorosi. La
rivoluzione industriale ebbe nei vari paesi dove prese piede, profonde e gravi
ripercussioni sociali. La manodopera necessaria all'industria fu reclutata
soprattutto nelle campagne dove a causa dell'incremento demografico e dei
progressi dell'agricoltura c'era sovrabbondanza di braccia. Si verificò così
un'imponente migrazione di contadini immiseriti verso i nuovi centri
industriali e verso le città, che furono circondate da una cintura di squallidi
e sterminati quartieri periferici. A mano a mano che prendevano coscienza della
loro mutata condizione e abbandonavano il vecchio modo di vita e le
consuetudini patriarcali, questi lavoratori si trasformarono in una nuova
classe sociale, cui fu dato il nome di proletariato.
Ciò che induceva
migliaia di uomini a lasciare le campagne e a entrare nelle fabbriche era
soprattutto la prospettiva di un guadagno regolarmente distribuito nel corso
dell'anno e la speranza quindi di maggiore tranquillità economica. Ma queste
enormi masse non potevano tutte essere assorbite dall'industria, soprattutto
nei periodi di crisi. L'eccesso di manodopera, che faceva incombere sui
lavoratori la continua minaccia della disoccupazione, permetteva ai padroni
delle fabbriche di costringere i propri operai a lavorare per salari da fame e
con orari lunghissimi (fino a 14-16 ore giornaliere). Lo sfruttamento non
risparmiava neppure le donne e i fanciulli, che erano anzi ricercati perché i
loro compensi, fissati dall'uso, erano molto inferiori a quelli degli adulti ed
era consueto lo spettacolo di bambini di sette otto anni impiegati in lavori
estenuanti e pericolosi nelle officine e nelle miniere. Le condizioni del
proletariato erano aggravate ancora dalla mancanza di norme assistenziali e
dalla durezza delle leggi che proibivano le associazioni tra i lavoratori e
toglievano così loro la possibilità di unirsi e lottare in difesa dei propri
interessi.
Fin dai primi decenni
dell'Ottocento, tuttavia, fremiti di ribellione cominciarono a scuotere queste
masse sottoposte a condizioni disumane di vita e di lavoro, e la questione
sociale si impose in tutta la sua gravità all'attenzione degli uomini di Stato,
degli economisti e di tutti coloro cui stavano a cuore le sorti dell'umanità.
a) La rivoluzione industriale - Si tratta di un fenomeno di
importanza eccezionale, che ebbe il suo avvio in Inghilterra verso la metà del
secolo XVIII, quando il progresso scientifico permise l'applicazione di nuovi
ritrovati tecnici al mondo del lavoro e della produzione. Nasceva l'industria
nel senso moderno della parola. Tutto ciò avvenne in concomitanza con un altro
importante fenomeno: l'aumento della popolazione, favorito dagli sviluppi della
medicina. «La rivoluzione industriale si è realizzata nell'Europa occidentale -
scrive Pierre George - con carbone, ferro, uomini». Ferro per la costruzione
delle nuove macchine in sostituzione di quelle di legno; carbone quale fonte
principale di energia, in sostituzione delle precedenti (forza animale, acqua,
vento) e che venne applicata nella macchina a vapore; uomini richiesti in gran
numero per la produzione industriale su larga scala. Circa mezzo secolo più
tardi, la rivoluzione industriale si estese agli altri Paesi d'Europa e le
nuove scoperte scientifiche, con le conseguenti innovazioni tecnologiche,
diedero al processo un ritmo sempre più veloce, portando, in tempi a noi più
vicini, a trasformazioni quali l'uomo non aveva vedute nei precedenti seimila
anni di storia.
b) Nuove forme di comunicazione e
trasporti - Si
devono alla rivoluzione industrale le nuove forme di comunicazione (telegrafo,
1836; telefono, 1871) e di trasporto (ferrovie e navi a vapore) che non solo
accorciarono le distanze, ma portarono alla costituzione, al di là dei mercati
nazionali, di un unico mercato mondiale.
c) Nasce la fabbrica - Le conseguenze della rivoluzione
industriale non riguardarono soltanto la creazione di nuove macchine e di nuovi
processi produttivi, ma si fecero sentire anche all'interno della società,
trasformandola. Sparivano le antiche forme di produzione (la bottega, il
laboratorio artigiano) e ne nascevano altre (la fabbrica). All'artigiano si
sostituiva l'operaio, anzi, masse di operai: uomini che avevano lasciato la
campagna, ove una agricoltura più razionale richiedeva meno braccia, e si erano
addensati attorno alle vecchie città o ai nuovi centri sorti in vicinanza delle
miniere.
d) Nasce il proletariato industriale - Si formava così il proletariato
industriale moderno, contemporaneamente al costituirsi e all'affermarsi - con
l'accentramento di imponenti mezzi di produzione nelle mani di poche famiglie -
del grande capitale.
e) Conflitto tra capitale e lavoro - Nella storia dello sviluppo
economico, al processo della rivoluzione industriale si accompagna il sorgere,
l'affermarsi e il precisarsi della questione sociale, cioè del conflitto fra
capitale e lavoro. Nascono le varie forme di socialismo, cioè i tentativi di
dare una risposta, non solo teorica, alle necessità del proletariato. Infatti,
mentre la borghesia, grazie agli sviluppi dell'industria e del commercio, si
rafforzava al punto di diventare la classe dominante, detentrice del potere
politico, le condizioni delle classi lavoratrici continuavano ad essere
miserevoli, peggiori, in molti casi, di quelle del proletariato agrario. Di qui
le violente reazioni, i moti di rivolta, e l'invenzione di nuovi mezzi di
lotta, quale lo sciopero.
f) Il socialismo scientifico di Marx - L'interpretazione di questi
fenomeni, e le proposte di soluzione, diedero luogo alle varie dottrine
socialiste, che vanno dalle forme di socialismo utopistico (Saint-Simon,
Proudhon, Babeuf, Owen, Blanqui) al socialismo scientifico di Marx ed Engels,
il socialismo degli strumenti di produzione. Il primo si limita a proporre
forme di società in cui i beni vengono equamente distribuiti, senza
preoccuparsi del processo che consente il passaggio dalla società attuale a
quella vagheggiata; il socialismo scientifico, invece, ricerca nella storia la
legge di trasformazione della società che porterà alla fine della società
capitalistica e al trionfo del proletariato e instaurerà una società basata sulla
comunione degli strumenti di produzione. Con l'abolizione della proprietà
privata dei mezzi di produzione, si sarà abolita anche la possibilità dello
sfruttamento dell'uomo da parte di un altro uomo. La dottrina marxista,
chiarendo le leggi che reggono il processo storico inteso come lotta di classe,
favorì la presa di coscienza del proletariato e gli diede fiducia nel successo
della sua lotta. Il testo in cui Marx ed Engels esposero i capisaldi del loro
pensiero fu il Manifesto dei comunisti, pubblicato nel 1848.
g) Il progresso tecnico e l'industria
cambiano il mondo
- Negli ultimi cinquant'anni dell'Ottocento la tecnica fece progressi che
sembrarono miracolosi; le tappe di tale sviluppo tecnico coincisero con una
serie di fondamentali invenzioni, tra le quali il telegrafo, il telefono
(Meucci e Bell), la dinamo (Pacinotti), il fonografo e la lampadina elettrica
(Edison). Negli ultimi anni del secolo Marconi fece i primi esperimenti di
telegrafia senza fili e i fratelli Lumière inventarono il cinematografo. Apparvero
per la prima volta in questo periodo mezzi di trasporto che ci sono oggi
familiari, come la bicicletta e l'automobile. Tra le nuove materie prime si
affermò l'alluminio, mentre nell'edilizia cominciò ad imporsi l'uso del cemento
armato. Tutte queste innovazioni rivoluzionarono le abitudini quotidiane
dell'uomo e l'ambiente in cui si svolgeva la sua vita. Alle meraviglie della
tecnica si accompagnò un gigantesco sviluppo industriale, ancor più imponente
di quello, già apparso notevolissimo, del periodo precedente. Si calcola che
negli ultimi trent'anni dcll'Ottocento la produzione industriale nel mondo si
sia quadruplicata. Ai paesi che già avevano una tradizione industriale, Gran
Bretagna, Belgio, Francia, Germania, si affiancarono, fuori dell'Europa, gli
Stati Uniti che in questi anni iniziarono il loro travolgente progresso
economico, e il Giappone che, uscito dal sistema feudale che l'aveva tenuto nel
più totale isolamento, cominciò a seguire l'esempio dei paesi europei. Allo
sviluppo tecnico e alla nascita di nuovi bisogni, corrispose il sorgere di
nuove industrie. A fianco di quella tessile, siderurgica, meccanica, nacquero
la grande industria chimica e l'industria elettrica, di fondamentale importanza
quest'ultima per lo svolgimento di ogni altra attività. Anche la produzione
agricola aumentò sensibilmente grazie all'introduzione di macchine per la
lavorazione della terra e ai concimi chimici, mentre la navigazione a vapore e
l'invenzione del frigorifero che permettevano trasporti più rapidi e la
conservazione delle carni, favorirono l'importazione in Europa delle derrate
alimentari anche dall'Argentina e dal Canada. Sul mare i bastimenti a vapore,
sulla terra i treni aumentarono la loro velocità e collegarono ormai
stabilmente tutte le città europee. Mentre i nuovi sistemi di produzione
industriale della carta ne diminuivano enormemente il costo, la stampa fece
grandi progressi permettendo una larghissima diffusione dei giornali, delle
riviste, dei libri. Intanto, le idee e le notizie trasmesse per telegrafo
passavano da un paese all'altro con estrema rapidità, dando l'impressione che
il mondo fosse divenuto improvvisamente più piccolo. Il volto dei grandi paesi
cambiò rapidamente: in vari Stati europei e nell'America settentrionale
l'attività industriale cominciò a prevalere ormai su quella agricola e mentre
il reddito per abitante nel mondo raddoppiava, anche la popolazione continuava
ad aumentare.
h) Capitalismo ed economia mondiale - La nuova tecnica favorì la
formazione di grossi complessi, in grado di impiegare ingenti e costosi
macchinari, mentre le piccole industrie con pochi operai e a carattere quasi
artigianale che erano state le protagoniste del precedente sviluppo
industriale, persero via via d'importanza. Insieme alle grandi industrie sorsero
le grandi banche per finanziare le nuove imprese: nasceva allora quello che fu
detto « il grande capitale ». I banchieri e i capi delle industrie sembravano
essersi sostituiti all'aristocrazia di un tempo e, oltre che nella vita
economica, essi acquistarono peso e importanza anche in quella politica,
esercitando la propria influenza sui capi militari perché venissero potenziati
gli eserciti promuovendo lo sviluppo dell'industria delle armi. E' il momento
dei magnati dell'industria: la grande industria, basata sulle macchine, divenne
la forza di propulsione di tutta la civiltà occidentale in quanto la sua
produzione, in continuo aumento, richiedeva un'espansione continua, cioè
spingeva a ricercare sempre nuovi mercati dove acquistare a basso costo le materie
prime, e vendere macchine e manufatti.Da questa vorticosa ricerca, alimentata
dalla produzione industriale, nasce una visione ormai mondiale dell'economia e
dei rapporti commerciali.
i)
Colonialismo
e imperialismo -
Ebbe così origine una vera e propria gara tra le potenze europee per
assicurarsi il controllo dei territori extraeuropei o con l'occupazione
militare o con forme di protettorato. Fu così che, nel corso dell'Ottocento,
anche grazie ai nuovi mezzi tecnici e alle nuove armi (l'invenzione della mitragliatrice
è di questi anni) si arrivò a conquistare, con relativamente pochi uomini,
enormi territori popolati da genti primitive. L'immenso continente africano,
fino allora praticamente sconosciuto, fu totalmente spartito tra le nazioni
europee, anche in Asia e in Australia la penetrazione e la colonizzazione dei
bianchi assunse grandi proporzioni, toccando anche l'impero cinese e le isole
del Pacifico. Il nuovo colonialismo si differenziava dal vecchio, non solo per
le sue finalità più spiccatamente economiche (ricerca di mercati e di materie
prime, investimento di capitali), ma anche perché ad esso andava congiunto
l'imperialismo, cioè la volontà di affermare la propria supremazia sulle altre
nazioni, se necessario anche con le armi. Non tutte le nazioni europee
seguirono una uguale politica coloniale: tra i dominatori più duri furono i
Portoghesi in Angola, e gli Olandesi in Indonesia. Fra i più saggi
amministratori e portatori di civiltà furono gli Inglesi che ai loro
governatori affiancarono spesso alcuni degli esponenti più preparati delle
popolazioni locali. Vi fu chi cercò in questo periodo di dare al colonialismo
una giustificazione morale, considerando compito dell'uomo bianco civilizzare i
popoli barbari e convertirli al cristianesimo. Ma queste giustificazioni
nascondevano soprattutto il disprezzo dell'uomo bianco per le altre razze. La
realtà del colonialismo fu l'assoggettamento del più debole ad opera del più
forte, lo sfruttamento sistematico delle risorse materiali e umane, la
distruzione di tradizioni e forme di vita diverse dalle europee. Tuttavia,
proprio in questi aspetti negativi si può cercare la funzione storica del
colonialismo che, risvegliando brutalmente popolazioni primitive o immerse in
un sonno secolare, le mise a contatto con le scoperte della scienza e della
tecnica occidentale e suscitò in loro un desiderio di progresso e di
indipendenza, destinato a sfociare nei movimenti di liberazione della nostra
epoca.
j)
Conseguenze
sociali del capitalismo industriale - Il rapido progresso economico, dovuto alla meccanizzazione
dell'industria, finì per modificare le stesse strutture della società e creò
nuove e più complesse gerarchie richieste da una vita economica più ricca e
articolata. Tutta la società fu presa nel nuovo ingranaggio produttivo. Quella
borghesia che aveva portato alle rivoluzioni americana e francese e che aveva
guidato i moti liberali della prima metà dell'Ottocento lasciò il posto a una
nuova potente borghesia proprietaria e amministratrice del capitale e dei mezzi
di produzione che tendeva a seguire princìpi conservatori. Il distacco tra la
borghesia più potente e la classe operaia più povera si approfondì e tra di
esse si formarono categorie privilegiate, funzionari, impiegati (media e
piccola borghesia) e aristocrazie operaie. La concentrazione di masse operaie
nelle grandi fabbriche e nelle città industriali favorì in ogni paese la
nascita di movimenti operai. Fin dall'inizio il problema dell'organizzazione si
pose ai lavoratori come esigenza fondamentale; non vi furono più rivolte
improvvise e sanguinose, promosse da pochi idealisti agitatori. Quando le forze
sociali presero definitivamente coscienza di sé, cominciarono a formarsi le
organizzazioni sindacali, le quali, prima o dopo, vennero in tutti i paesi
riconosciute dai governi, anche se il loro potere effettivo era ancora scarso.
Il problema sociale divenne così un elemento determinante della politica dei
governanti. Sempre più frequenti furono gli interventi statali in ogni settore
della vita pubblica, soprattutto nella costruzione di ospedali e nei
provvedimenti per l'igiene pubblica.
k) L'atteggiamento della Chiesa di
fronte alla questione sociale - Mentre il movimento socialista prendeva consistenza, anche
la Chiesa esprimeva il suo giudizio sui problemi sociali. Il nuovo papa Leone XIII, succeduto nel 1878 a Pio IX, in una famosa enciclica Rerum Novarum, indicò i principi cui
avrebbe dovuto ispirarsi il movimento sociale cattolico. Il pontefice, mentre
condannava socialismo e anarchismo, affermava tuttavia l'esigenza di riparare
ai «mali sociali» eliminando la miseria e garantendo a tutti gli uomini
l'indispensabile per vivere. Il papa si rendeva conto che la tradizionale
concezione cristiana della carità era insufficiente a superare le difficoltà
dei tempi nuovi e insisteva sul principio della «giusta mercede»: il datore di
lavoro doveva impegnarsi a dare ai suoi dipendenti un compenso corrispondente
alla quantità e qualità del lavoro eseguito. Fu dato così impulso alla
fondazione delle prime organizzazioni sindacali cattoliche che cercarono di
contrastare il passo all'avanzata del socialismo. Contro le dottrine che
volevano l'abolizione della proprietà, il pontefice riconfermava la
«indiscutibilità» di tale diritto, ma precisava che esso non poteva essere
esercitato dall'uomo in contrasto con gli interessi di altri uomini. Leone XIII
ribadiva la condanna della lotta di classe da parte della Chiesa e, giudicando
impossibile l'eliminazione delle classi, proclamava l'esigenza dell'armonia tra
gli appartenenti ai vari strati sociali perché tutti potessero concorrere
insieme al conseguimento del bene comune.
3 La politica
delle grandi potenze -
Mentre sulla scena europea il prepotente ingresso della nazione tedesca,
unificata ad opera della Prussia in un Reich d'impronta militaristica avviato
verso una rapida industrializzazione, costringe al ridimensionamento le mire
egemoniche degli imperi francese e austro-ungarico, sul continente americano
gli Stati Uniti, dopo aver portato a compimento il processo di unificazione territoriale
e aver superato la difficile crisi della guerra di Secessione, sull'onda di un
impetuoso sviluppo economico si affermano sulla scena internazionale come
potenza di primo piano. Il disgregarsi dell'impero ottomano e il conseguente
risvegliarsi dell'espansionismo russo segnano l'inizio della questione balcanica, mentre le grandi
nazioni europee, in un contesto di crescente militarismo, giungono alla
spartizione dell'Africa e dell'Asia, punti nodali in cui si scontrano gli
opposti imperialismi coloniali.
a) Stati Uniti da
potenza continentale a potenza mondiale - Fu chiaro, fin dal secolo XIX,
che gli Stati Uniti non si presentavano come un'area arretrata e bisognosa di
passare attraverso varie fasi evolutive prima di arrivare al capolinea della
complessa civiltà europea, ma costituivano una via originale e autoctona allo
sviluppo economico e sociale. La vertiginosa rapidità di tale sviluppo e la
particolare situazione politica, contrassegnata da un marcato individualismo e,
nel contempo, da una democrazia di massa e da una notevolissima stabilità
istituzionale (paragonabile solo a quella della Gran Bretagna), fecero anzi
supporre agli osservatori più attenti che gli Stati Uniti si ponevano, rispetto
all'Europa, non come il passato, ma come l'avvenire. L'esistenza di una
frontiera mobile a Ovest e di un immenso territorio vergine da conquistare,
aperto allo spirito d'avventura di pionieri e di coloni, ha costituito uno
straordinario fattore della storia del XIX secolo. Verso la metà del secolo,
infatti, gli stati aderenti all'Unione erano ormai più di trenta e occupavano
un territorio sconfinato che andava dall'oceano Atlantico alla zona dei Grandi
Laghi e scendeva lungo la valle del Mississippi sino a raggiungere da una parte
il golfo del Messico, dall'altra l'oceano Pacifico. L'indipendenza del Texas e
la guerra con il Messico poi (1846-48) avevano infatti trasformato in
territorio statunitense anche il Sud-ovest. Conseguenza principale di questo
fenomeno fu che lo sviluppo dell'agricoltura dell'Ovest e del Sud poté
procedere di pari passo, senza eccessivi squilibri, con l’impetuoso sviluppo
dell'industria del Nord-est. La produzione rurale riusciva infatti a sopperire
con la quantità delle terre disponibili all'arretratezza delle tecniche
impiegate dai coloni.
Sul piano economico e
sociale, tuttavia, gli Stati Uniti erano divisi in tre zone nettamente
distinte:
-
il
Nord del dinamismo imprenditoriale e del lavoro operaio,
-
il
Sud delle grandi piantagioni e del lavoro schiavo,
-
l'Ovest
degli agricoltori e degli allevatori.
Il conflitto non si
fece attendere, anche se fu provvisoriamente arginato con il compromesso del
Missouri del 1820 che stabilì al parallelo 36°30' la linea di demarcazione tra
stati non schiavisti e stati schiavisti. Le due economie non erano
incompatibili, ma certo non armonizzabili in quanto il Sud tendeva a favorire
una più larga autonomia degli stati, una mentalità aristocratica ed ereditaria,
un rigido fissismo sociale e razziale, mentre il Nord esigeva un più marcato
unionismo, una mentalità liberale e tendenzialmente egalitaria, un'ampia
mobilità sociale. In un primo tempo, a causa della comune propensione per il
liberoscambismo, l'Ovest fu più vicino al Sud, che allora assicurava il 75%
della produzione mondiale del cotone, merce destinata a essere convogliata in
quantità imponenti sulle piazze della Gran Bretagna e dell'Europa.
Quando però gli Stati
Uniti guadagnarono la California e le coste del Pacifico, l'Ovest, che
rappresentava lo spirito della frontiera mobile e lo slancio dell'imprenditorialità
rurale diffusa, scoprì che la propria economia era fisiologicamente legata a
quella del Nord, cui poteva offrire, in uno scambio gigantesco, derrate
alimentari contro prodotti industriali, esempio, questo, di un'integrazione
assai rara nella storia dei rapporti tra agricoltura e industria. Con l'arrivo
del nordista Lincoln alla presidenza, nel 1860, il conflitto prima latente
precipitò e si verificò la secessione degli stati confederati del Sud. Quel che
seguì, a partire dal 1861, fu una guerra civile assai sanguinosa che vide, per
la prima volta, il pieno impiego a scopi bellici dei mezzi della grande
industria e in particolar modo delle ferrovie, abidite al trasporto delle
truppe e delle armi pesanti. Dopo una prima fase favorevole agli eserciti
confederati il Nord, forte di un potenziale economico superiore, prese il
sopravvento e nel 1865 uscì vittorioso: il paese, con l'abolizione della
schiavitù e con l'emancipazione dei neri, poté essere strutturalmente
unificato. Si era in un certo senso conclusa la seconda tappa della rivoluzione
americana.
La ricostruzione,
condotta nel Sud in un clima sociale certo difficile, stimolò nondimeno un
grande slancio industriale e produttivo. Alla fine del secolo, gli Stati Uniti
potevano vantarsi, a buon diritto, di essere entrati nel novero delle grandi
potenze. Si rivelarono, tra l'altro, un colossale crogiolo di fusione, meeting
pot etnico e razziale, in grado di assorbire una massiccia immigrazione di
forza-lavoro dall'Europa (e successivamente dall'Asia), dando ai nuovi arrivati
sbocchi lavorativi e opportunità di vita. Dopo l'arrivo di Inglesi, Irlandesi e
Tedeschi, nella seconda metà dell'Ottocento e all'inizio del secolo successivo
fu la volta delle popolazioni dell'impero asburgico, degli Scandinavi, degli
Italiani, degli Ebrei, dei Polacchi, dei Russi e, sulle coste del Pacifico,
degli Asiatici. Si può del resto calcolare che una ventina di milioni di
persone raggiunsero gli Stati Uniti tra il 1870 e il 1920. Le stesse crisi
cicliche del capitalismo industriale europeo trovarono negli Stati Uniti, che
pure da tali crisi non furono indenni, una straordinaria valvola di sfogo per
l'espulsione dei lavoratori dal processo produttivo e uno strumento di
compensazione per il disagio sociale che ne derivava.
b) L'America latina
tra nazionalismo e subalternità - Nell'America centro-meridionale, una
volta conseguita l'indipendenza, non fu invece possibile marciare verso
l'unificazione. Ci fu anzi un'ulteriore disgregazione. Fallito il Congresso
panamericano di Panama (1826), la Grande Colombia, fondata da Bolivar, si
scisse addirittura in tre stati, le repubbliche del Venezuela, della Nuova
Grenada (poi Colombia) e dell'Ecuador. La stessa Federazione centro-americana
si frantumò quasi subito in una serie di piccole repubbliche: Guatemala,
Salvador, Honduras, Nicaragua, Costarica. Nei decenni successivi, e in
particolar modo nella seconda metà del secolo, vi furono guerre che coinvolsero
Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay da una parte (la popolazione del
Paraguay si ridusse del 70 per cento) e Cile, Perù e Bolivia dall'altra.
L'ideale del
panamericanismo, da tutti proclamato, non trovava rispondenza nei fatti. Sul
piano economico pesarono molto l'arretratezza dei rapporti sociali e le
difficoltà di superare le arcaiche relazioni semifeudali che legavano i
contadini ai proprietari terrieri. A causa delle insufficienze delle classi
dirigenti latino-americane, al diretto dominio coloniale spagnolo subentrarono
la pressione finanziario-commerciale della Gran Bretagna e poi il rapporto di
subalternità nei confronti degli Stati Uniti.
Le stesse difficoltà
riscontrate nell'efficiente controllo del territorio nazionale (talora ancora
inesplorato e spesso poco popolato) provocarono spinte centrifughe, rivolte interne
e vari conflitti che finirono con il consacrare i militari come oligarchia
politica e con il legittimarne il potere. I militari giustificavano del resto
la loro egemonia con un nazionalismo elementare e privo, per ovvie ragioni, di
autentiche radici nazionali.
Nonostante
l'introduzione di costituzioni moderne una lunga serie di colpi di stato e una
permanente fragilità dei non frequenti governi civili caratterizzarono la
storia dell'America latina. Venne tuttavia abolita ovunque la schiavitù e si
attenuarono, almeno in parte, le discriminazioni razziali. Alla fine del
secolo, con la guerra ispano-americana del 1898, la Spagna dovette abbandonare
anche Cuba e Puerto Rico, ultimi lembi di dominio coloniale che ancora
possedeva al di là dell'Atlantico.
L'influenza degli Stati
Uniti aumentò vieppiù, soprattutto nell'America centrale e caraibica.
L'avventura messicana di Napoleone III, che aveva cercato di inserirsi con
Spagnoli e Inglesi nelle lotte interne messicane tra liberali e clericali, era
del resto terminata nel 1867 con la fucilazione di Massimiliano d'Austria, cui
i Francesi avevano offerto la corona di imperatore nel Messico. E gli Stati
Uniti, che pure avevano guadagnato una enorme quantità di terre combattendo
contro i Messicani, ora ne avevano protetto non disinteressatamente
l'indipendenza di fronte alle ingerenze europee. La dottrina di Monroe era
diventata operante. La guerra ispano-americana ne fu la definitiva
affermazione.
c) Persistenze e
contraddizioni degli Antichi Regimi in Europa - La seconda Restaurazione
impostasi in Europa dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 aveva
dimostrato che, malgrado gli inevitabili compromessi con quanto di
ineludibilmente liberale vi era nelle istituzioni del mondo moderno, gli
Antichi Regimi, vale a dire gli Stati che avevano stretto la Santa Alleanza e i
loro satelliti, godevano ancora di una discreta salute.
Solo la Gran Bretagna sembrava avere
risolutamente e irreversibilmente consolidato il sistema parlamentare, pur non
avendo ancora introdotto il suffragio universale, tanto che nel periodo 1848-
1866, grazie alla presenza dei liberali alla direzione del governo, essa
godette di una lunga stagione di stabilità politica e di una prosperità
economica turbata solo dalle cesure ormai ricorrenti nel ciclo economico e
dagli effetti negativi sull'industria del cotone della guerra civile americana.
La Francia neobonapartista, a sua volta, aveva istituzioni che si
discostavano dal principio di legittimità (seppellito nel 1830), ma la natura
illiberale del Secondo Impero avvicinava quest'ultimo al clima pesantemente
conservatore delle monarchie dell'Europa centrale e orientale. Napoleone III, tuttavia, per legittimare
il ruolo storico della dinastia che aveva restaurato, promosse una politica
estera attivistica che mirava a mettere in crisi gli equilibri del Congresso di
Vienna.
L'occasione venne
fornita ancora una volta dalla questione d'Oriente. La Russia, ritenendo giunto
il momento di riprendere la marcia verso i mari caldi, prese a pretesto una
disputa sulla tutela dei luoghi santi e nel 1853 entrò in guerra con l'impero
ottomano L'anno successivo a sostegno dei Turchi intervennero Francesi e
Inglesi mentre gli Austriaci si mantennero in posizione di prudente attesa. La guerra di Crimea, cui partecipò anche
l'esercito sardo, si concluse nel 1856 con la pace di Parigi e con una moderata sconfitta della Russia.
Quest'ultima, garante arcigna dell'ordine europeo e al tempo stesso demolitrice
di questo stesso ordine sul fianco sud-orientale del continente, fu però
bloccata nelle sue aspirazioni e iniziative. La Francia fu invece incoraggiata
nelle sue ambizioni.
La guerra franco-sabauda contro l'Austria, fu
vista da Parigi, come il secondo atto (dopo la Crimea) di questa vicenda che,
una volta sbaragliata la pressione delle opposizioni democratiche e popolari,
mirava a scardinare, per l'azione stessa dei governi, il sempre più precario
equilibrio del 1815.
Se il 1856 aveva dunque
arrestato provvisoriamente la Russia, il 1860 sabaudo e italiano fece arretrare
l'Austria. Ma non fu la Francia, nonostante le intenzioni del nuovo Bonaparte,
ad approfittarne.
d) L'unità tedesca
- L'Unione doganale tra gli stati
della Confederazione tedesca (Zollverein),
promossa nel 1834 dalla Prussia, aveva favorito lo sviluppo economico di tutta
l'area della Confederazione. I risultati più spettacolari si ebbero però a
partire dagli anni 50 del secolo, quando l'effetto trainante dei settori
siderurgico e meccanico cominciò a ridurre in modo vistoso il divario che
divideva l'economia tedesca da quella della Francia e anche da quella della
Gran Bretagna. L'industria siderurgica, in particolare crebbe ad un tasso medio
del 10% annuo lungo tutto il ventennio 1850-70.
Una crescita così
imponente necessitava di notevoli risorse da destinare agli investimenti, di
imprese di grandi dimensioni e di una stretta simbiosi con il sistema
finanziario, oltre che di una committenza pubblica attenta all'impiego dei
prodotti dell'industria pesante. D'altra parte, per colmare il divario con la
Gran Bretagna, non si poteva certo partire, come era avvenuto agli albori della
rivoluzione industriale, dal settore tessile, a basso tenore di investimenti
iniziali: occorreva iniziare subito dai settori più avanzati e più moderni
dell'industria.
Mancava ancora lo stato
unitario e qui entrò nuovamente in gioco il grande scenario della politica
internazionale. Nel 1861, quando Guglielmo
I salì sul trono di Prussia, la Russia era parzialmente paralizzata dalla
pace di Parigi e l'Austria era indebolita dall'unità italiana. Nel 1862 Bismarck fu nominato cancelliere di uno
stato in cui, grazie anche al sistema elettorale, l'aristocrazia terriera degli
junker aveva il sopravvento.
Il modello cesaristico,
suggerito da Napoleone III, in questo caso poté funzionare e il processo fu
estremamente rapido. Era cioè chiaro che si poteva erodere quel che restava
dell'ordine del 1815 molto meglio da posizioni conservatrici che da posizioni
rivoluzionarie. E così proprio Bismarck fece ciò che il 1848 non aveva fatto,
ma lo fece realizzando solo il programma unitario e nazionale del '48, e non
quello democratico e repubblicano. Sul piano sociale, riuscì anche a ottenere
la complicità del movimento operaio di Ferdinand
Lassalle, arrivando a concedere addirittura il suffragio universale,
peraltro difficilmente utilizzabile dalle forze popolari con un sistema
elettorale come quello tedesco.
La guerra dei Ducati contro la Danimarca (1864), pur condotta insieme
all'Austria, acuì in realtà il contrasto con l'impero asburgico, al cui indebolimento
erano interessate anche la Francia e la Russia, rivale dell'Austria nella
questione d'Oriente. Posta del conflitto di interessi tra impero asburgico e
Prussia era l'egemonia sui Tedeschi.
Nel 1866 la guerra austro-prussiana con la battaglia di Sadowa sancì il trionfo
della Prussia. L'Austria, sul piano territoriale, perse solo il Veneto a
vantaggio dell'Italia, alleata dei Prussiani e in realtà sconfitta sul campo
dagli asburgici, ma sul piano politico-diplomatico perse per sempre ogni
influenza nell'Europa centro-settentrionale. Le restava l'Europa
centro-meridionale e quindi si profilava nel suo avvenire l'accentuarsi della
rivalità con la Russia.
Il sistema del 1815 si
avviava ormai al suo definitivo sfacelo. Nel 1867, mentre sorgeva la Confederazione
tedesca nel Nord, avveniva la metamorfosi dell'impero d'Austria in impero
austro-ungarico, entità politica plurinazionale e non tedesca. L'ultimo
ostacolo sulla strada di Bismarck era ora la Francia, che aveva sottovalutato
la Prussia, pensando anzi di utilizzarla in funzione antiaustriaca. La guerra franco-prussiana del 1870 portò
alla vittoria della Prussia, alla proclamazione dell'impero tedesco
(Kaiserreich) e all'umiliazione della Francia, che perse con Napoleone III,
oltre al sogno dell'egemonia sul continente, anche l'Alsazia e la Lorena che il
Congresso di Vienna non aveva osato sottrarre alla Francia sconfitta di
Napoleone. La Francia era nuovamente diventata repubblica, ma non nascondeva
peraltro i propositi di rivincita contro il Reich tedesco: nonostante l'abilità
diplomatica di Bismarck, erano poste le premesse per altri conflitti in Europa.
e) Imperi dell'Est e
questione balcanica - La Russia, che con le riforme di Alessandro II aveva
proceduto nel 1861 all'emancipazione dei servi e nel 1863 aveva represso
un'altra insurrezione polacca, nel 1871, crollato in Francia il Secondo Impero,
poté rientrare nel grande gioco internazionale pur restando estremamente
arretrata rispetto alle altre potenze europee. La lezione della Crimea le era servita.
La liberazione dei servi, infatti, era indispensabile per avviare un pur
difficile processo di industrializzazione e, come stavano dimostrando il Nord
degli Stati Uniti e la Prussia, senza un potenziale industriale era impensabile
attuare una politica di guerra o comunque di espansione.
La questione d'Oriente
si trasformò negli anni 70 in questione balcanica e rinfocolò gli appetiti
delle grandi e meno grandi potenze. Tutto si veniva complicava. Dalla Croazia
austro-ungarica alla Grecia, impegnata a liberare i suoi territori ancora
rimasti sotto la sovranità ottomana, le tensioni si moltiplicavano.
L'insurrezione antiturca in Bosnia ed Erzegovina fu infine all'origine della
guerra russo-turca del 1877-78. Gli Inglesi, come già in occasione dell'indipendenza
greca, si proclamarono solennemente vicini ai cristiani oppressi dei Balcani,
salvo poi ritrarsi quando si accorsero che l'arretramento turco favoriva
l'avanzata russa. Con la pace di Santo Stefano, nel 1878, la Russia sembrò
quasi poter espellere i Turchi dall'Europa. L'Austria e la stessa Inghilterra
si incaricarono di ridimensionare la portata della vittoria russa: Bismarck, al
Congresso di Berlino, si offrì come mediatore e regalò altri quarant'anni di
esistenza all'impero ottomano.
Ora la Serbia, il
Montenegro e la Romania erano in tutto e per tutto indipendenti dalla Sublime
Porta. Si costituì altresì la Bulgaria. L'Austria, infine, si vide
attribuire l'amministrazione della Bosnia. Nessuno, evidentemente, era
soddisfatto. Si capì, soprattutto, che la successione dell'impero ottomano non
spettava solo alla Russia e all'Austria, ma anche al turbolento calderone delle
nazionalità balcaniche, mosse da reciproche diffidenze e manovrate dalla
diverse potenze, fatto, questo, dimostrato dalla presenza di dinastie straniere
nella maggior parte dei nuovi stati.
Il Risorgimento balcanico fu quindi
ingarbugliato dalle interferenze del dissidio austro-russo, della rivalità
economica.
La situazione precipitò nel 1908,
quando l’Austria decise l’annessione della Bosnia, suscitando risentimenti in
Serbia e in Montenegro, deteriorando definitivamente i rapporti con la Russia
ed incrinando i legami interni alla Triplice
Alleanza italo-austro-tedesca.
L’impero ottomano, nonostante il
tentativo di modernizzazione attuato con la rivoluzione
dei Giovani Turchi, ne fece subito le spese. Si susseguirono, infatti, tra
il 1912 e il 1913, ben due guerre balcaniche. Si costituì l’Albania e la
Turchia vide sparire quasi tutti i suoi possedimenti europei, ma i belligeranti
balcanici si dilaniarono tra loro per spartirsi le spoglie dell’impero turco in
territorio europeo. La Serbia ingrandendosi verso sud, coltivava l’ambizione di
trasformarsi nel Piemonte dei Balcani. Si mosse contro la Bulgaria, ma favorì
Greci e Romeni. Si aggravò allora il contrasto con l’Austria in merito alle
terre irredente e popolate dagli Slavi del sud. Questo contrasto era alimentato
dalla diplomazia russa.
La prima guerra mondiale era alle porte.
4 I problemi del
nuovo Regno d’Italia: Difficoltà e questioni aperte - La rapidità con cui si era
costituito il Regno d'Italia non poteva non essere accompagnata da alcuni gravi
problemi:
-
l'unificazione
di regioni che per secoli avevano avuto storie diverse ed erano tra loro molto
lontane per livelli di sviluppo economico e sociale, per legislazione, forme di
amministrazione, sistemi monetari e di misure, per costumi e mentalità;
-
la
scomparsa delle corti locali e di barriere doganali, che inizialmente danneggiò
artigiani e commercianti, che avevano trovato, nelle prime, una fonte di
commesse e, nelle seconde, una protezione contro la concorrenza di economie più
sviluppate;
-
le
spese della guerra e l'assunzione da parte dell'erario del Regno dei debiti
pubblici degli Stati soppressi, avevano portato ad un eccezionale disavanzo di
bilancio;
-
l'incompiutezza
dell'unità politica (il Veneto era ancora sotto la dominazione austriaca e il
Lazio con Roma costituiva quanto era sopravvissuto dello Stato Pontificio) era
causa di tensioni internazionali: con l'Austria per il Veneto; con Napoleone
III, che si era fatto difensore del Pontefice, per Roma;
-
il
problema di Roma, in particolare, acuiva la tensione con la Chiesa cattolica,
che aveva condannato il processo con cui si era costituito il nuovo Stato
nazionale, sia per le idee liberali che l'avevano ispirato, sia per il grave
danno che ne era derivato agli interessi mondani della Chiesa stessa;
-
vi
era uno stato di generale arretratezza del Paese nel confronto delle più
avanzate nazioni europee, ad eccezione di alcune regioni che, negli ultimi
cento anni, avevano goduto di governi amministrativamente più illuminati
(Piemonte, Lombardia e Toscana). Tale arretratezza si manifestava in carenze
igieniche, alta mortalità infantile, malattie endemiche (malaria e pellagra),
frequenti epidemie (colera), assenza di infrastrutture adeguate (strade,
ferrovie, opere pubbliche, scuole) e in un'altissima percentuale di
analfabetismo (il 75% sul piano nazionale, con punte del 95% nei Sud).
a) La
scelta dell'amministrazione centralizzata - Per superare le differenze
regionali e conseguire, dopo quella politica, l'unità effettiva del Paese, si
scelse la strada di un'amministrazione centralizzata (sul modello francese). Lo
Stato fu suddiviso in province affidate al governo di prefetti di nomina regia,
direttamente dipendenti dall'esecutivo (dal ministro degli Interni), così come
di nomina regia furono i sindaci, mentre elettivi furono i consigli comunali.
Si temette che una soluzione decentrata, sul modello inglese (sostenuta in
linea di massima da uomini di provenienza mazziniana e radicale), favorendo le
autonomie locali, avrebbe ostacolato il superamento delle diversità regionali.
In armonia con la scelta centralizzata, fu estesa a tutto lo Stato la
legislazione civile e penale del Regno di Sardegna (che non sempre era la più
avanzata; ad esempio, non lo era nei confronti di quella toscana).
Si accentuò così la «piemontizzazione» del nuovo Regno. Vi contribuì anche la istituzione di una burocrazia statale, in cui prevalsero, per parecchio tempo, elementi piemontesi.
Si accentuò così la «piemontizzazione» del nuovo Regno. Vi contribuì anche la istituzione di una burocrazia statale, in cui prevalsero, per parecchio tempo, elementi piemontesi.
b) L'inasprimento
del prelievo fiscale - Per fronteggiare le difficoltà finanziarie, oltre al
ricorso al debito pubblico, che con i tassi passivi aggravò il disavanzo dei
bilanci futuri, si accentuò la pressione fiscale con tasse che colpirono
soprattutto i meno abbienti.
Questa
politica destò tanto più malcontento perché, in molti casi, i governi degli
Stati scomparsi non imponevano quasi tasse: era l'aspetto positivo di un
malgoverno che ignorava qualsiasi impegno sociale.
L'introduzione
della coscrizione obbligatoria, là dove prima non esisteva, concorse, con
l'incremento della pressione fiscale, ad accrescere il malcontento.
c) Il
problema del Sud - Se non è corretto ridurre le difficoltà
dell'unificazione del Paese a quelle che derivarono dal dislivello tra Nord e
Sud, è certo però che le condizioni del Meridione, che erano tra le più misere,
la resero più difficile. Si trattava di uno squilibrio gravissimo, prima ancora
civile che economico. La scelta a favore dell'accentramento operata dalla
classe dirigente finì col subordinare il Sud al Nord, stabilendo obiettivamente
(al di là delle intenzioni dei responsabili) un rapporto paese sviluppato -
paese sottosviluppato che impedì il decollo del Sud, dando vita alla questione
meridionale che, mai risolta, ancor oggi in forme diverse condiziona la vita
politica ed economica nazionale. Il fenomeno fu aggravato dall'indifferenza dei
protagonisti del Risorgimento (tranne poche eccezioni) per la questione
sociale, che per le masse contadine si riassumeva nella richiesta: «La terra a
chi la lavora». La spedizione garibaldina prima, l'unificazione politica poi,
non avevano risposto alle speranze che in questo senso esse avevano fatte
sorgere: da qui la delusione, la mancanza di attaccamento al nuovo Stato e
talora perfino l'avversione e la ribellione.
d) Il
brigantaggio nel Sud - Nel Sud questo stato d'animo favorì, in presenza di
altre componenti, il sorgere, il diffondersi e il consolidarsi in forma
endemica del brigantaggio. Sostenuto dai Borbone, che non avevano abbandonato
la speranza di un ritorno, il fenomeno del brigantaggio fu fomentato dalla
presenza di sbandati dell'ex esercito napoletano e di renitenti alla leva, ma
trovò il suo terreno propizio nel consenso delle masse contadine. Nel brigante
esse vedevano chi vendicava i soprusi dello Stato, che imponeva le tasse e la
coscrizione obbligatoria e che, liquidando i grandi beni demaniali dei Borbone
e degli enti ecclesiastici, le aveva private del beneficio dei diritti di
pascolo e di legnatico. Nel brigante, inoltre, il popolo ammirava chi vendicava
gli altri soprusi che esse, le masse contadine, subivano da parte della
borghesia paesana, che quei beni demaniali aveva acquistato, accrescendo il
proprio domino economico e politico. La lealtà verso il sovrano spodestato e
verso la Chiesa, che il nuovo Stato aveva umiliata e offesa, forniva la
giustificazione ideale alla resistenza, che per anni (1861-1865) costituì una
vera e propria guerra interna. Per debellarla il governo ricorse all'impiego
dell'esercito, oltre che della polizia e della guardia nazionale. Le perdite
furono gravi da entrambe le parti: superarono quelle delle due guerre di
indipendenza.
e) L'esclusione
delle masse dallo Stato - Il brigantaggio nel Sud fu l'espressione drammatica
ed esasperata di un atteggiamento più vasto, che riguardò tutto il paese. E non
tanto perché anche in altre regioni scoppiarono delle sommosse contadine contro
i gravami fiscali e per una maggior giustizia sociale, ma perché esso espresse
l'avversione delle masse contadine verso il nuovo Stato, che sentivano non solo
estraneo, ma ostile. Il processo di unificazione e di indipendenza era stato
portato avanti da élites cittadine che, preoccupate della questione politica e
istituzionale, non avevano dato peso alla questione sociale. Per le masse
contadine il problema della giustizia era più pressante di quello della
libertà; e questa, senza quella, era un bene insignificante, quando addirittura
non appariva un modo nuovo per perpetuare vecchi soprusi. L'esclusione delle
masse dallo Stato, nei primi anni del Regno trovava la sua sanzione in un
sistema elettorale che limitava il diritto di voto ai soli possidenti, che
rappresentavano il 2% dei venticinque milioni di Italiani. Il diffuso
analfabetismo, l'ignoranza della lingua italiana (la quasi totalità della
popolazione parlava e intendeva solo il proprio dialetto) acuivano il distacco
fra Stato e società, accentuando il carattere di estraneità delle istituzioni.
Furono, questi, limiti e difetti di partenza che peseranno a lungo sulla storia
nazionale, ritardando la realizzazione di una effettiva democrazia.
5 La Destra storica – Gli
uomini che dovettero affrontare i problemi del nuovo Stato furono quelli che
costituirono la cosiddetta Destra storica. Erano i moderati, gli eredi di
Cavour. Di fronte a loro, all'opposizione, stavano i democratici, che
costituivano la Sinistra.
Questa distinzione fra Destra e Sinistra non corrisponde a
quella che intercorre tra i due generici schieramenti che oggi indichiamo con
questi termini. La ristrettezza del corpo elettorale faceva sì che tanto la
Destra quanto la Sinistra fossero espressione dei ceti dominanti. Deputati
rappresentativi delle classi popolari si avranno soltanto dopo la costituzione
del partito socialista e l'allargamento del suffragio.
La classe politica che diresse
l’Italia negli anni dopo l’unità fu quella formatasi negli anni del
Risogimento.
La Destra era formata dagli eredi
del liberalismo moderato di Cavour, e fu detta storica per l’importanza della sua
azione. Tra i suoi esponenti vi furono: Bettino
Ricasoli, Marco Minghetti, Urbano Rattazzi, Alfonso La Marmora, Quintino Sella.
Era legata al mondo dei proprietari terrieri settentrionali e aperta agli
interessi del mondo finanziario, con connotati culturali di tipo
aristocratico-borghese.
La Sinistra era invece formata da
uomini legati alle cospirazioni mazziniane ed al volontariato garibaldino. Tra
i suoi esponenti vi furono: Agostino
Depretis, Francesco Crispi, Giovanni Nicotera. Erano legati ai ceti
commerciali e industriali; richiedevano azioni più energiche per risolvere i
problemi di Roma e Venezia e appoggiavano le iniziative di Garibaldi.
Tra Destra e Sinistra c’erano molte
affinità, tra cui la prossimità delle rispettive basi elettorali e l’assenza di
profonde divisioni ideali.
Tuttavia i due gruppi politici si
distinguevano: tra gli uomini della Destra prevaleva una rigida concezione
dello Stato, accompagnata da scarsa sensibilità per i problemi della società;
più aperti alle istanze della società e al rinnovamento erano, invece, quelli
della Sinistra.
Della Destra si disse che
costituiva una «consorteria»; e ciò è esatto, se si intende sottolineare che
essa rappresentava interessi limitati, in particolare quelli della grande
proprietà fondiaria.
Fu però la Destra ad avere la
maggioranza in parlamento e al governo fino al 1876.
a)
La
politica interna – A partire dal 1861 per la classe
dirigente l’obiettivo principale era la salvaguardia dell’unità conseguita.
Le
basi dello stato unitario furono poste tra il 1861 e il 1865 dalla Destra.
Intanto la legge elettorale. Il
sistema elettorale durante la formazione del Regno era stato quello dei
plebisciti a suffragio universale, che divenne un suffragio a base censitaria;
queste restrizioni elettorali furono mantenute perché si riteneva che la
partecipazione politica poteva allargarsi solo dopo la diffusione
dell’istruzione e del benessere. I candidati alle elezioni non erano esponenti
di partiti organizzati, ma notabili locali.
La classe dirigente liberale scelse
un ordinamento dello stato di tipo accentrato, soprattutto per evitare che
autonomie troppo ampie e non controllate dall’alto potessero favorire le forze
dominanti nelle singole località, certamente non disponibili a promuovere il
progresso.
Nel marzo 1865 furono proclamate
delle leggi che estesero a tutto il Regno l’ordinamento amministrativo
piemontese e che lasciarono un’autonomia molto ridotta agli enti locali. Il
sindaco era nominato dal re, mentre fu posto un prefetto per
controllare gli atti delle amministrazioni comunali per l’unificazione
amministrativa. Ci fu anche l’unificazione dei codici e l’unificazione
delle tariffe doganali e della
moneta. Questa unificazione fu detta piemontesizzazione, cioè adozione delle norme piemontesi. Contro
ciò operavano i gruppi clericali e reazionari, d’intesa con Pio IX e con i
Borbone.
b) La politica economica - L'altra
preoccupazione degli uomini della Destra fu il risanamento delle finanze, che
essi identificarono con il ripianamento del disavanzo del bilancio.
Per
quanto riguarda la politica finanziaria lo
Stato italiano nacque con un bilancio in deficit; la politica della Destra si
orientò quindi verso il contenimento della spesa pubblica
e l’aumento
delle entrate con l’aggravio delle imposte; fu anche reintrodotta la
tassa
sul macinato (introdotta nel 1868: una forma di imposta progressiva
a rovescio, perché colpiva tanto più quanto più misere erano le condizioni di
vita e le conseguenti abitudini alimentari) avversata dai ceti popolari.
La
spesa pubblica (costruzioni ferroviarie ed armamenti) privilegiò le regioni del
centro nord mentre il Meridione ebbe pochi benefici. Queste popolazioni, non
abituate a una forte pressione fiscale si ribellarono; inoltre l’eliminazione
delle dogane interne privò molte imprese meridionali della protezione in
passato offerta dal regime doganale borbonico. A tutto ciò si aggiunsero
l’obbligo di leva e le incomprensioni tra le popolazioni meridionali e il nuovo
apparato di funzionari statali piemontesi. Di questo malcontento approfittarono
gli agenti pontifici e borbonici; nacque il fenomeno del brigantaggio,
formato da bande che si opponevano alle forze governative. Lo Stato italiano,
per eliminare il fenomeno, emanò nel 1863 la Legge Pica e inviò nel sud reparti
militari.
Il ricorso all'accentramento
amministrativo, all'opera dei prefetti e agli interventi repressivi della
polizia per il mantenimento dell'ordine interno diede all'azione politica della
Destra un carattere autoritario.
c)
La politica estera - In
politica estera, la Destra fu attenta a sfruttare gli appigli offerti dalla
situazione internazionale, adeguando le aspirazioni alle reali possibilità, e
riuscì così a risolvere i problemi del Veneto e di Roma, evitando i gravi
rischi che tali questioni ancora aperte implicavano.
d)
La terza guerra di indipendenza – L'annessione del Veneto fu ottenuta con la terza guerra di indipendenza nel 1866. Nel
1866 l’Italia entrò in guerra con la Prussia contro l’Austria. Dal punto di
vista militare la guerra però non andò bene, tuttavia gli austriaci furono
sconfitti dai prussiani a Sadowa. La folgorante vittoria della Prussia (alleata dell'Italia)
sull'Austria compensò la deludente prova delle nostre forze armate (Custoza e
Lissa).
Il 3 ottobre 1866 con la pace di
Vienna tra Italia ed Austria Mantova e il Veneto furono ceduti a Napoleone III
e poi all’Italia. Grazie alla III Guerra d’Indipendenza all’unificazione
mancavano ora solo le terre del Trentino e della Venezia Giulia, ed inoltre lo
stato italiano era ufficialmente riconosciuto dall’Austria e dalla diplomazia
europea.
e)
La presa di Roma - L’annessione
di Roma al Regno d’Italia era necessaria per spostare la capitale a Roma, per
limitare le iniziative insurrezionali di Garibaldi e perché si riteneva che
Torino non potesse rimanere a lungo la capitale del Regno, anche per far tacere
le accuse di piemontesizzazione.
Occupare
Roma però non era semplice perché Napoleone III difendeva Pio IX.
Un
altro problema era quello che riguardava la futura configurazione dei rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa, la
quale aveva ostacolato l’unificazione italiana. I rapporti tra la Chiesa e lo
Stato peggiorarono ancora quando i governi italiani, per esigenze finanziarie,
vararono nel 1866-1867 un pacchetto di leggi che espropriarono e misero in vendita
i beni appartenenti agli ordini ed alle corporazioni religiose.
Per
risolvere la questione romana il presidente del consiglio Ricasoli nel 1861 si
rivolse al pontefice chiedendo alla Chiesa di rinunciare al potere temporale.
Con
il governo seguente di Rattazzi Garibaldi diede il via ad un’azione, che però fu
bloccata dall’esercito regio sull’Aspromonte nel 1863.
Nel
1864 il governo di Minghetti stipulò con Napoleone III la Convenzione di settembre,
in base alla quale la Francia si impegnava a ritirare il suo presidio militare
da Roma, mentre l’Italia si impegnava a non attaccare lo Stato pontificio.
Il
pontefice, deluso per questo accordo, emana l’enciclica Quanta cura, contro il liberalismo.
Nel
1865 la capitale italiana fu trasferita da Torino a Firenze.
Nel
1867 Garibaldi riprese l’iniziativa, ma anche questa volta, a Mentana, fu
fermato dai soldati francesi in difesa del papa.
Nel
1870 le truppe francesi furono allontanate da Roma a causa della guerra con la
Prussia, nella quale Napoleone III fu sconfitto a Sedan. Le truppe piemontesi
comandate da Cadorna ne approfittano e penetrano nello Stato pontificio. Il 20
settembre ci fu la breccia di Porta Pia: i soldati
occupano Roma tranne il Vaticano. I plebisciti seguenti sancirono l’annessione
del Lazio.
Per
risolvere il rapporto con il papa il parlamento italiano votò nel 1871 la
legge delle guarentigie. Pio IX non accettò però la legge e
riconfermò l’opposizione all’avvenuta unificazione italiana, come era emerso
dal Concilio Ecumenico Vaticano I.
L'annessione
di Roma poneva fine al millenario potere temporale del Papa. Era la fatale
conclusione del processo di unificazione.
Fu
esecrata dai cattolici (e in primo luogo dal Pontefice, che aveva scomunicato i
membri del governo e quanti avevano preso parte attiva a quel sacrilegio, e che
si chiuse in Vaticano, appellandosi all'opinione pubblica internazionale e
proclamandosi prigioniero). Da altri fu considerata un evento non solo
necessariamente connesso alla costituzione dello Stato nazionale, ma anche un bene
per la Chiesa stessa e per il Pontefice, che erano così liberati dal peso di
preoccupazioni e interessi mondani, che li distraevano dalla loro missione
spirituale.
Ne derivò un grave dissidio fra gli
Italiani, rafforzando tra le masse l'atteggiamento di distacco e di ostilità
nei confronti dello Stato. La quasi totalità dei cattolici, anche di ceti
elevati, si astenne dalla vita pubblica, obbedendo alla proibizione del
Pontefice (il «non expedit») di parteciparvi sia come eletti, che come elettori
tenne la borghesia cattolica lontana dal processo di costruzione dello Stato,
alimentò nelle classi popolari l’estraneità alle istituzioni.
Soltanto più tardi il timore per
l'avanzata delle forze socialiste indurrà il Pontefice a mutare atteggiamento.
L'ostilità della Chiesa allo Stato laico e liberale favorì per reazione vivaci
manifestazioni di acuto anticlericalismo, soprattutto fra i radicali.
Per
risolvere il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa il Parlamento approvò la legge delle guarentigie, che prevedeva -
prendendo come base il principio cavouriano di «libera Chiesa in libero Stato»
- un insieme di «garanzie», che consentirono di fatto al Pontefice il libero
esercizio del suo potere spirituale. Nonostante ciò lo Stato italiano continuò
nel suo progetto, dimostrando la propria adesione al liberalismo per quanto
riguarda la separazione tra Stato e Chiesa.
f) La caduta della Destra
– La ristrettezza della base del suo potere, l'impopolarità che le veniva dalla
sua severità amministrativa e, infine, contrasti interni portarono alla sua
caduta nel 1876. Le successe la Sinistra. Prima di cedere il potere, la Destra
era riuscita comunque a portare a soluzione i problemi politici che
angustiavano il nuovo Stato e che si riassumevano in quello del compimento dell'unità
territoriale.
6 La Sinistra al
governo – A
differenza della Destra, che si presentava come un gruppo omogeneo, la Sinistra
era più variegata. La componevano ex mazziniani, combattenti garibaldini, ma
anche uomini nuovi: professionisti (in prevalenza avvocati), piccoli borghesi,
uomini legati non alla proprietà fondiaria, ma alle attività commerciali e
industriali, che venivano sviluppandosi. E ciò li faceva più aperti alle nuove
istanze della società, anche se non a quelle delle classi popolari.
a) Il
trasformismo - In assenza di una maggioranza coerente, si instaurò, già con
il primo ministero Depretis, una pratica di compromesso tra i vari gruppi di
tendenze politiche diverse, anche opposte, che fu detta trasformismo. Essa ebbe
nefaste conseguenze: ritardò il programma di riforme con cui la Sinistra si era
presentata agli elettori; deteriorò l'istituto parlamentare per la mancanza di
una chiara dialettica tra maggioranza e opposizione; favorì il clientelismo
parlamentare e abbassò il livello morale della vita politica.
Praticamente
scomparsi i confini tra Destra e Sinistra, al di là di quest'ultima si venne
costituendo, tra il 1878 e il 1882, un nuovo gruppo, che si ispirava a princìpi
decisamente più democratici: l'estrema sinistra o semplicemente l'estrema, di
cui facevano parte i rappresentanti del partito radicale di nuova formazione, i
repubblicani e, successivamente, i socialisti.
b) Agostino Depretis - Era un esponente
moderato della Sinistra storica della quale divenne il capo nel 1873 alla morte di Urbano Rattazzi. Nel 1876 guidò il
primo governo della storia d'Italia formato da soli politici di Sinistra. Tale
esecutivo varò la riforma scolastica istituendo l'istruzione obbligatoria,
laica e gratuita per i bambini dai 6 ai 9 anni.
Benché filofrancese,
per rompere l'isolamento dell'Italia, nel 1882 accettò la Triplice alleanza con Austria e Germania,
per la quale ottenne una formula marcatamente difensiva. Lo stesso anno portò a
termine la riforma elettorale che fece salire gli aventi diritto al voto dal 2
al 7% della popolazione.
Fu il fautore
del trasformismo, un progetto che
prevedeva il coinvolgimento di tutti i deputati che volessero appoggiare un governo
progressista a prescindere dagli schieramenti politici tradizionali, che
Depretis considerava superati. Fu appoggiato in questo progetto dal capo della Destra storica Marco Minghetti.
I governi "trasformisti" così costituiti
eliminarono definitivamente la tassa sul macinato, introdussero le
tariffe doganali favorendo l'industria (soprattutto settentrionale) e vararono
l'espansionismo italiano in Africa.
Il trasformismo,
tuttavia, ridusse il potere di controllo del parlamento e favorì eccessi nelle
spese statali.
c) L'imperialismo
- La politica protezionistica fu giustificata, oltre che con argomentazioni
economiche (necessità di favorire l'industrializzazione del Paese), con
motivazioni politiche: necessità di disporre di una grande industria nazionale,
per garantirsi gli strumenti per una politica di grande potenza e di espansione
coloniale.
Effettivamente,
il protezionismo voleva proporsi come la base di una politica imperialistica,
che era venuta precisandosi nell'ultimo ventennio degli anni Ottanta e che
trovava i suoi punti di appoggio nelle grandi industrie che vivevano delle
commesse dello Stato (in particolare, le acciaierie e i grandi cantieri) e
nella monarchia.
d) La
Triplice Alleanza - Il disegno di una politica imperialistica comportava di
poter far conto su alleanze che la rendessero possibile. Per uscire
dall'isolamento, testimoniato sia dal congresso
di Berlino del 1878, sia dall'occupazione francese della Tunisia nel 1881,
l'Italia costituì la Triplice Alleanza con la Germania e l'Austria nel 1882,
anche se ciò contrastava con le sue aspirazioni alla liberazione delle terre irredente:
Trentino e Venezia Giulia.
d) Le
riforme della Sinistra - Il programma presentato dalla Sinistra agli
elettori (discorso di Depretis a Stradella, 1875) si riassumeva in tre punti:
istruzione elementare gratuita e obbligatoria; abolizione della tassa sul
macinato; ampliamento dell'elettorato.
La
legge Coppino del 1877 rese obbligatorio e gratuito il primo biennio della
scuola elementare; ma la sua effettiva applicazione fu ritardata e spesso
vanificata dalla mancanza di aule e di insegnanti e dalla miseria delle classi
meno abbienti, che non potevano rinunciare al lavoro dei minori.
L'abolizione
della tassa sul macinato seguì nel 1880, ma il vantaggio per le classi più
povere fu annullato dall'istituzione di dazi comunali sulla farina e i generi
alimentari. Meno fittizia fu la riforma elettorale, che, abbassando il livello
di età e di censo, ampliò effettivamente il corpo elettorale da 600.000 a
2.000.000 di elettori. Poiché la legge limitava il diritto di voto ai cittadini
maschi in possesso dell'istruzione elementare, la stragrande maggioranza
continuava ad essere esclusa.
e)
Francesco Crispi - Fu quattro
volte presidente del Consiglio: dal 1887 al 1891 e
dal 1893 al 1896. Nel primo periodo fu anche ministro degli
Esteri e ministro dell’Interno, nel secondo anche ministro dell’Interno. Fu il
primo meridionale a diventare presidente del Consiglio.
In
politica estera coltivò l’amicizia con la Germania, guidata dal cancelliere Otto von Bismarck e che apparteneva
con l’Italia alla triplice alleanza. Avversò quasi sempre
la Francia, contro la quale rinforzò l’esercito e la marina.
I
suoi governi si distinsero per importanti riforme sociali (come il codice
Zanardelli che abolì la pena di morte e introdusse
il diritto di sciopero) ma anche per la guerra agli anarchici e
ai socialisti, i cui moti dei Fasci siciliani furono repressi con
la legge marziale. In campo economico il suo quarto governo migliorò le
condizioni del Paese.
Crispi
sostenne tuttavia una dispendiosa politica coloniale che, dopo alcuni
successi in Africa orientale, portò alla disfatta di Adua del 1896 e
alla fine della sua carriera politica.
Il
suo avversario politico principale fu Giovanni
Giolitti che lo sostituì alla guida del Paese.
f) La
politica coloniale - Un altro
aspetto della politica imperialistica fu l'avvio di una politica coloniale che
si indirizzò verso l'Africa. Nonostante alcuni insuccessi e alcune cocenti
sconfitte, furono costituite, soprattutto per volontà di Crispi, due colonie:
quella di Eritrea (1885-1896) e quella di Somalia (1889-1905). La loro
conquista non risolse il problema della esuberanza della popolazione, che
continuò ad emigrare; né giovò al prestigio del Paese come nuova grande potenza
per la dimostrazione di incapacità organizzativa e di comando, cui alcuni episodi
dettero luogo.
7 L'economia postunitaria - Il nuovo Regno d’Italia si trovava in condizioni
economiche difficili. Il deficit dello Stato era grandissimo perché non solo il
Piemonte si era fortemente indebitato per fare la guerra del 1859, ma dopo l’unificazione
lo Stato italiano dovette assumere come propri i debiti di quegli Stati che
aveva assorbito. Né si potevano ridurre le spese, perché bisognava creare
strade e scuole, fare bonifiche e canali d’irrigazione, costruire la rete
ferroviaria e quella stradale.
Per riportare il bilancio in pareggio, cioè per fare in modo
che spese e ricavi si pareggiassero, furono imposte pesanti tasse. La più
odiata dal popolo fu la tassa sul macinato: si doveva pagare allo Stato una
tassa per ogni chilo di frumento portato a macinare ai mulini. Questa tassa
rendeva più cari il pane e la pasta e quindi cadeva tutta sulle spalle del
popolo perché il pane e la pasta erano gli unici cibi quotidiani della povera
gente.
a) L'agricoltura
- Nonostante l'avvio dell'industrializzazione, cui si assistette in questo
periodo, l'Italia restava pur sempre un paese eminentemente agricolo. Nel 1861,
gli addetti al settore agricolo erano il 61,79% della popolazione attiva,
mentre quelli delle manifatture e dell'artigianato arrivavano solo al 25,09 %
(gli altri lavoravano nel terziario). Alla fine dell'800, i primi erano ancora
il 59,79, e i secondi il 22% (erano aumentati gli addetti al terziario).
La
tipologia delle strutture agricole si era modificata molto poco rispetto al
periodo preunitario e si poteva ridurre, pur nelle diversità regionali, a
queste tre forme: grandi e medie aziende capitalizzate o in corso di
capitalizzazione condotte con personale salariato, nella pianura padana
piemontese e lombarda; poderi coltivati direttamente da piccoli proprietari o a
mezzadria nelle zone prealpine e nell'Italia centrale; latifondi nel Lazio,
nell'Italia meridionale, nelle isole.
Le
condizioni dei contadini erano ancora molto tristi, anche nelle aziende più
ricche della pianura lombarda, come risulta dall'inchiesta di Stefano Jacini.
b) Il
decollo industriale - L'ultimo ventennio del secolo vide il decollo
industriale del nostro Paese. Le industrie laniere del Piemonte, del Veneto,
della Toscana e quelle cotoniere della Lombardia crebbero di numero e si
rafforzarono. Ad esse si affiancarono l'industria siderurgica e quella
meccanica, quella estrattiva e quella idroelettrica.
Si
trattava sia di grandi complessi, sia di piccole e medie industrie, la cui
nascita, accompagnata da una rapida crescita del commercio, modificò
gradualmente la struttura della società italiana.
Il
ceto dei grandi imprenditori industriali e dei banchieri acquistò un'influenza
determinante sul governo. Ciò spiega perché la Sinistra, andata al potere con
un programma economico di tipo liberoscambista, adottò nel 1887 una politica
protezionistica per difendere dalla concorrenza straniera le grandi industrie
metalmeccaniche dell'Italia centrosettentrionale, gli zuccherifici della Val
Padana e la produzione cerealicola dei grandi proprietari del Mezzogiorno, che
si erano alleati agli industriali.
8 I problemi della società – le varie regioni erano in
condizioni di notevole miseria ed abbandono. La miseria delle plebi era
pressochè generale; l’analfabetismo superava l’ottanta per cento; scarsissime
erano le strade; mancavano quasi del tutto le ferrovie; l’economia era
arretrata; l’industria non esisteva o quasi. S’impose così all’attenzione degli
statisti quella “questione meridionale” che per decenni ha costituito uno dei
maggiori problemi politici nazionali e che non ancora è stata del tutto
risolta.
a) L'emigrazione -
L'emigrazione aveva cominciato a costituire un fenomeno massiccio negli ultimi
venticinque anni del secolo. Le condizioni degli emigranti erano difficili e
spesso addirittura miserevoli, senza alcuna tutela da parte dello Stato. Le
regioni meridionali tennero i primi posti nel flusso migratorio, insieme ad
altre zone depresse del Paese, specie il Veneto, zone dove era assai grande lo
squilibrio fra la popolazione e le risorse.
b) La questione sociale - In
Italia non si verificò una rapida ed estesa trasformazione dell'economia da
rurale ad industriale, come avvenne ad esempio in Inghilterra.
Anche dopo il «decollo
industriale», l'economia italiana continuò ad essere un'economia
prevalentemente rurale; e bisognerà arrivare al secondo dopoguerra per
assistere a un'effettiva trasformazione industriale del paese.
Così stando le cose, si deve
sottoscrivere l'affermazione di Pasquale Villari del 1862: «La quistione
sociale che minaccia oggi tutti i paesi civili, piglia forme diverse nei popoli
diversi. In Italia essa è principalmente una quistione agraria».
Tale questione nasceva - e meglio
si precisò nei decenni successivi - dall'organizzarsi del bracciantato agricolo
tanto nel Sud, dove tale organizzazione culminò, nell'ultimo decennio del
secolo, nei Fasci siciliani, quanto nella pianura padana, sotto l'impulso della
propaganda anarchica e socialista prima, poi sotto la guida del Partito dei
Lavoratori italiani (successivamente Partito socialista).
c) I moti - La tensione fu
aggravata da ricorrenti crisi e dall'aumento del costo dei generi di prima
necessità e in particolare del pane, aumento che metteva a repentaglio anche la
pura e semplice sussistenza dei lavoratori. Essa trovò poi il suo sbocco più
clamoroso nell'ultimo decennio del secolo, punteggiato da una serie di
agitazioni e disordini. Quelli del '98 a Milano assunsero, agli occhi dei
benpensanti, l'aspetto di una vera e propria sommossa, che metteva a repentaglio
l'integrità dello Stato.
Il governo, di fronte alle
situazioni di disordine, scelse la strada della reazione, prima con Di Rudinì,
poi con Pelloux. Il tentativo di limitare le libertà costituzionali fallì per
la violenta resistenza dell'estrema Sinistra. Le elezioni anticipate, in cui il
governo cercò una soluzione, costituirono invece un successo delle sinistre e
avviarono un processo di maggiore attenzione verso le esigenze sociali,
processo che non fu interrotto neppure dall'assassinio del re Umberto I, ad
opera di un anarchico il 29 luglio 1900.
9 I primi anni del
Novecento: l'età giolittiana e la prima guerra mondiale
Il crollo
dei piccoli Stati del XIX secolo determinò nel secolo successivo l'ascesa di
grandi potenze. La rivoluzione industriale aveva aperto grandi strade per la
conquista e il dominio dei territori d'Oltremare a quei paesi avviati allo
sviluppo capitalistico. Così l'Europa colonizzò il mondo, ma le forti tensioni
fra i vari stati e la contesa dei territori d'Oltremare portarono alla Grande Guerra.
La Gran
Bretagna possedeva territori molto vasti per cui era difficile evitare
rivendicazioni di autonomia; la Francia aveva ingrandito i suoi domini grazie
ad ingenti investimenti, ma senza ottenere nulla in cambio; Germania e Italia
erano alla ricerca di un territorio da colonizzare quando il mondo era già
stato suddiviso; Austria-Ungheria, Russia e Turchia si indebolivano sempre di
più fino alla rovina.
In questo
contesto la società fu costretta ad adattarsi continuamente ai problemi del nuovo
secolo: i movimenti operai cominciarono a rivendicare con più fermezza i propri
diritti; marxisti ed anarchici facevano sorgere timori tra le istituzioni più
antiquate; invece le donne, grazie alle suffragiste, cominciarono a lottare per
un riconoscimento politico.
Questa
rivoluzione fu notevole nel mondo artistico. Una delle personalità più
importanti in questo campo fu Pablo
Picasso. Nuove correnti artistiche furono: futurimo, cubismo,
espressionismo e astrattismo. In letteratura furono note le opere di Proust e di Henry James.
Scienza e
tecnica furono due protagoniste del secolo, con grandi personalità come Albert
Einstein.
In questi
anni, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia, Russia ed USA diedero inizio ad
una politica colonialistica sia per espandersi economicamente, sia per avere
una maggior forza negli affari internazionali.
Grazie alla
potenza industriale e ai nuovi mercati conquistati, gli USA divennero uno dei
paesi più potenti del mondo. D'altro canto le nazioni europee, sempre più ambiziose,
formulavano piani che però finivano sempre con lo scontrarsi gli uni contro gli
altri.
L’indebolimento
dell'impero Austro-Ungarico e dell’impero Ottomano favorirono il dominio
tedesco, che organizzò un esercito sempre più potente nel centro Europa.
Anche
l'Italia, nonostante la sua precaria economia, partecipò alla corsa coloniale,
e con la guerra di Libia fu reso più precario l'equilibrio politico
internazionale. Inghilterra e Francia erano impegnate a proteggere i loro
Imperi dalla Germania. La Russia cercava di mettere in piedi il suo Impero
senza tener conto della crisi della sua società. Fu in questo periodo di
debolezza russa e di distrazione occidentale che il Giappone impose la sua
forza politica, industriale e militare, entrando in competizione con gli Imperi
europei e costruendo un proprio spazio asiatico.
Nel
frattempo, in seguito alle razzie colonialistiche, la Cina andava via via
dissolvendosi. Era noto infatti che, fin dalla fine del 1800, le grandi potenze
europee avevano avviato l'espansionismo coloniale che portò alla loro
evoluzione economica e diplomatica. Le motivazioni del cristianesimo, che erano
state alla base dell'occupazione delle nuove terre per la diffusione della fede
cristiana e della civiltà dei bianchi, si sostituirono agli interessi
commerciali e politici. Così, l'occupazione delle colonie incrementò il flusso
migratorio proveniente dagli stati europei.
Robert
Salisbury, primo ministro britannico, affermò: «Possiamo suddividere le nazioni
del mondo in due gruppi: quelle vive e quelle moribonde». Le nazioni vive erano quelle che godevano della
forza derivante dallo sviluppo industriale come Francia, Germania, USA e Gran
Bretagna; quelle moribonde erano da
identificarsi in Turchia e Cina perché in via di disintegrazione politica e
geografica. Proprio per questo motivo erano state sovrastate dalle potenze
europee.
10 L'età giolittiana - Giovanni
Giolitti (1842 – 1928) dopo aver
lavorato per vent’anni al ministero delle Finanze entra in Parlamento nel 1882
come deputato per il comune di Dronero. L'anno seguente Giolitti entra nel
Governo Crispi come Ministro del Tesoro, divenendo Primo Ministro nel 1892.
Costretto a dimettersi per via dello scandalo della Banca Romana, fece il suo ritornò al
governo come Ministro degli Interni, dopo l’assassinio di Umberto I. Fu in
seguito eletto Capo del Governo nei primi anni del ‘900. Nella storia
politica dell'Italia unita, la sua permanenza a capo del governo fu una delle
più lunghe.
L'impronta di Giovanni Giolitti
nella politica italiana fu talmente importante che questo periodo è
passato passò alla storia come “Età Giolittiana”.
Sebbene la sua azione di governo sia stata oggetto di critica
da parte di alcuni suoi contemporanei, come per esempio Gaetano Salvemini,
Giolitti fu uno dei politici liberali più efficacemente impegnati
nell'estensione della base democratica del giovane Stato unitario, e nella
modernizzazione economica, industriale e politico-culturale della società
italiana a cavallo fra Ottocento e Novecento.
Furono gli anni delle
concentrazioni industriali, delle formazioni delle masse popolari socialiste e
cattoliche, dell’attività coloniale italiana in Eritrea, Libia e Dodecaneso,
delle rivolte per il pane e della nascita del Partito Fascista.
Il suo programma politico si fondava sullo stimolo e la
protezione industriale, la protezione e la difesa del Bilancio del Regno,
l’eliminazione del monopolio da parte dei privati e sull’opposizione alle forze
finanziare estere.
Giolitti patrocinò l’avventura
coloniale in Libia nel 1912, anche se non si dimostrò d’accordo con l’ingresso
dell’Italia nella Grande Guerra Mondiale. Fu per questo motivo che rassegnò le proprie dimissioni il 20 marzo 1914.
Contemporaneamente, introdusse il suffragio
universale maschile, fece salire il numero di elettori a
quota 8.000.000, estendendo il voto anche agli elettori analfabeti di età
superiore ai 30 anni.
Fece ogni tentativo per venire a
patti con Mussolini. Nel 1921, gli propose un governo di conciliazione, ma
senza successo. Dal 1924 si tenne all'opposizione di
Benito Mussolini.
a) Giolitti e il liberismo riformista - Negli ultimi anni del
secolo, sotto la pressione delle masse popolari che andavano organizzandosi, la
politica repressiva non poté più essere portata avanti e si ebbe una svolta verso
una politica più liberale. Ciò fu dovuto soprattutto a Giolitti, la cui figura
dominò la scena politica italiana sino allo scoppio della guerra.
Il principio direttivo dell'azione
giolittiana fu di smussare le tensioni sociali con la concessione di riforme,
che andavano incontro alle esigenze più pressanti delle masse. Il risultato fu
l'emarginazione dell'ala estremista del socialismo a favore dei socialisti
riformisti, i quali accettarono, pur ponendosi all'opposizione, le istituzioni
dello Stato e le regole democratiche.
b) Lo stato neutrale nelle lotte fra capitale e
lavoro - Un aspetto del liberismo riformista del Giolitti fu il
rifiuto di affidare allo Stato il compito di difesa del capitale contro i
lavoratori. Secondo Giolitti, lo Stato doveva assumere un atteggiamento di
neutralità nei conflitti sociali, limitando la sua azione alla tutela
dell'ordine pubblico. Era, di fatto, un riconoscimento del diritto di sciopero
dei lavoratori. Questa politica favorì lo sviluppo delle organizzazioni dei
lavoratori e, contrariamente alle preoccupazioni dei capitalisti più retrivi,
favorì lo sviluppo dell'industria.
c) Lo sviluppo industriale - Nel periodo
giolittiano, l'economia del Paese, e in particolare l'industria, ebbe un grande
incremento, che si può riassumere in queste cifre: il reddito nazionale aumentò
del 50 per cento dal 1895 al 1915; l'industria, che nel 1895 contribuiva alla
produzione totale nella misura del 19 per cento, nel 1914 era passata al 25 per
cento.
Le industrie che maggiormente si
svilupparono furono la tessile (i lanifici di Biella, Schio e Prato e i
cotonifici lombardi e napoletani) e la meccanica (fabbriche d'auto Fiat e
Itala).
In questo periodo si può collocare
la seconda fase della rivoluzione industriale dell'Italia, con il nascere e lo
svilupparsi delle industrie idroelettriche e termoelettriche. L'elettricità,
prevalentemente ricavata dalle nostre risorse idriche, si sostituiva, in parte,
al carbone, che doveva invece essere importato.
Giolitti, sostenendo lo sviluppo
industriale che porterà alla trasformazione della vecchia struttura
dell'economia italiana basata sulla terra in una struttura basata
sull'industria, pensava di favorire l'avanzamento civile del Paese.
Uno degli strumenti, ai quali
Giolitti ricorse per industrializzare il Paese, fu lo sviluppo dei mezzi di
comunicazione (ferrovie e strade), sviluppo che fu raggiunto grazie a forti
investimenti pubblici.
Al termine dell'età giolittiana, la
struttura economica del Paese era tale che poté sostenere lo sforzo richiesto
dalla guerra, che a sua volta, tra tanti e tragici effetti negativi, determinò
un ulteriore sviluppo industriale.
d) Il pareggio del bilancio - La floridezza economica
consentì a Giolitti - nonostante le spese per i grandi lavori pubblici - di
mantenere il pareggio del bilancio già raggiunto al tempo di Crispi, ed anzi di
migliorare ancora la situazione finanziaria dello Stato. La lira italiana
acquistò tale prestigio da fare aggio sull'oro, cioè da essere preferita alla
moneta aurea sul mercato internazionale.
e) Le riforme
- L'avanzata civile del Paese si tradusse in un miglioramento
della condizione del proletariato grazie anche alla legislazione sociale
promossa da Giolitti a favore dei lavoratori infortunati o invalidi o anziani,
a protezione del lavoro delle donne e dei fanciulli, del diritto al riposo
settimanale e di altre provvidenze assistenziali. In questo quadro, per le sue
ripercussioni sociali, si inserisce l'estensione dell'obbligo elementare
(obbligo che peraltro fu spesso ampiamente evaso per le difficili condizioni
economiche, soprattutto dei contadini e di molti comuni che non erano in grado
di approntare aule e attrezzature).
f) L'estensione del diritto di voto - Nel 1912 fu approvata una legge che estendeva
il diritto di voto a tutti i cittadini maschi, dopo il 21° anno di età, e dopo
il 30° per gli analfabeti. Gli elettori passarono così da tre milioni e mezzo a
circa otto milioni. Le donne restavano sempre escluse dal diritto di voto.
Anche se questo diritto non
modificò immediatamente la situazione delle classi più povere, fu tuttavia uno
strumento importante per la loro progressiva presa di coscienza.
g) L'avanzata delle classi popolari - La politica giolittiana avvantaggiò le organizzazioni
politiche delle masse popolari: il Partito Socialista e il Partito Popolare: un
partito cattolico, questo secondo, costituitosi a seguito del ritiro, da parte
della Santa Sede, del divieto ai cattolici di partecipare alla vita dello Stato
italiano, il già ricordato « non expedit». Nacque anche, a tutela dei
lavoratori e a promozione dei loro diritti, la Confederazione generale del
lavoro, cui seguì ben presto la Confederazione dell'industria.
h) La guerra di Libia - Per quanto contrario
ad avventure militari, Giolitti ritenne di non poter rimandare oltre
l'occupazione della Tripolitania e della Cirenaica (la «quarta sponda»), nel
timore che altre nazioni europee se ne impossessassero. Ne seguì una guerra
alla Turchia, dalla quale quelle regioni dipendevano, guerra che si concluse
rapidamente con la loro conquista e la costituzione in colonia della Libia (22
settembre-5 novembre 1911). In realtà, rimasero focolai di resistenza, che
protrassero le operazioni militari per molti anni.
i) Gli aspetti negativi della politica giolittiana - Non mancarono
tuttavia, nella politica di Giolitti, aspetti negativi. Egli infatti fece
proprio il «trasformismo» inaugurato dal Depretis, impedendo così il
costituirsi di una corretta dialettica parlamentare, cioè il formarsi di una
effettiva opposizione; continuarono di conseguenza clientelismi e favoritismi.
L'elemento più negativo fu, però,
aver favorito lo sviluppo dell'industria del Nord a scapito del Sud, aggravando
il divario già esistente fra le due parti del Paese.
Il fenomeno dell'emigrazione,
specie nel Sud, acquistò dimensioni notevolissime, impoverendo ancor più
regioni già depresse ed esponendole al pericolo della demagogia e della
corruzione elettorale, cui Giolitti ricorse in larga misura.
l) L'età delle masse - Nel periodo
giolittiano si assiste, in Italia, alla prima comparsa di un fenomeno di
carattere europeo: il ridimensionamento delle élite, cioè delle minoranze quali
uniche protagoniste della storia, e la progressiva partecipazione ad essa delle
masse. D'ora in avanti, e sempre più (e la prima guerra mondiale concorrerà ad
accelerare questo fenomeno) avranno peso nella vita degli Stati le masse
organizzate in partiti e sindacati.
m) L'irrompere dell'irrazionale nella cultura - Al di sotto della
liscia superficie dell'età giolittiana, cui corrispose, sul piano europeo,
quella che fu definita «la belle époque», quasi a significare che la civiltà
era entrata in una fase di progresso inarrestabile e di pace sicura, in realtà
si agitavano tensioni sociali e internazionali, che irromperanno alla luce con
la guerra mondiale e la rivoluzione russa.
Queste inquietudini sotterranee
vengono colte dagli artisti e si esprimono nelle varie forme di quel vasto
movimento che va sotto il nome di decadentismo, il cui carattere dominante è il
rifiuto della ragione.
11 La prima guerra
mondiale (1914 -1918)
La prima guerra mondiale fu un conflitto che coinvolse le
principali potenze mondiali e molte di quelle minori tra l'estate del 1914 e la
fine del 1918. Chiamata inizialmente dai contemporanei guerra europea, con il coinvolgimento successivo delle colonie
dell'Impero britannico e di altri
paesi extraeuropei tra cui gli Stati
Uniti d'America e l'Impero
giapponese, prese il nome di "guerra mondiale" o anche "grande
guerra": fu infatti il più grande conflitto armato mai combattuto fino
alla seconda guerra mondiale.
Il
conflitto ebbe inizio il 28 luglio 1914 con la dichiarazione di guerra
dell'Impero austro-ungarico al Regno di Serbia in seguito all'assassinio
dell'arciduca Francesco
Ferdinando d'Asburgo-Este, avvenuto il 28 giugno 1914 a Sarajevo, e si concluse
oltre quattro anni dopo, l'11 novembre 1918. A causa del gioco di alleanze
formatesi negli ultimi decenni dell'Ottocento, la guerra vide schierarsi le
maggiori potenze mondiali, e rispettive colonie, in due blocchi contrapposti:
da una parte gli Imperi centrali (Germania,
Austria-Ungheria, Impero
ottomano) e la Bulgaria (questa
dal 1915) e dall'altra le potenze
Alleate rappresentate
principalmente da Francia, Regno Unito, Impero russo e Italia (questa dal 1915). Oltre 70 milioni di
uomini furono mobilitati in tutto il mondo (60 milioni solo in Europa) di cui
oltre 9 milioni caddero sui campi di battaglia; si dovettero registrare anche
circa 7 milioni di vittime civili, non solo per i diretti effetti delle
operazioni di guerra ma anche per le conseguenti carestie ed epidemie.
La
guerra si concluse definitivamente l'11 novembre 1918 quando la Germania,
ultimo degli Imperi centrali a deporre le armi, firmò l'armistizio imposto
dagli Alleati. I maggiori imperi esistenti al mondo - tedesco, austro-ungarico,
ottomano e russo - si estinsero, generando diversi stati nazionali che
ridisegnarono completamente la geografia politica dell'Europa.
a) L'immane massacro - La
«belle époque» si concludeva con l'immane massacro della «grande guerra», come
fu chiamato il conflitto mondiale 1914-18. Un massacro che i ritrovati delle
scienze e della tecnica, dalle quali ci si era atteso un indefinito progresso
nella pace, resero di proporzioni mai prima immaginate: otto milioni di morti,
vaste e ricche regioni ridotte a deserti di rovine.
b) Le ragioni del conflitto - Le ragioni più importanti che
favorirono lo scoppio della guerra si possono così riassumere:
-
il
timore per la crescente potenza politica, militare ed economica della Germania,
che non tralasciava occasione per ostentare provocatoriamente la sua forza e le
sue mire di supremazia;
-
gli
irredentismi che contrapponevano la Francia alla Germania (per l'Alsazia e la
Lorena che la prima rivendicava) e l'Italia all'Austria (per Trento e Trieste);
-
le
rivalità tra i popoli balcanici che portavano, tra l'altro, ad una
contrapposizione dell'Austria alla Russia (che, facendosi patrona dei popoli
slavi, voleva contrastare il predominio e l'espansione dell'Austria nella
penisola).
c) Il peso dell'irrazionalismo - L'ondata di irrazionalismo che
aveva caratterizzato la cultura europea di fine secolo e che esaltava l'aspetto
istintuale, la volontà di potenza, l'uso della forza e anche della violenza
come espressioni positive di vitalità, indebolì le resistenze di coloro che,
per evitare gli indicibili sacrifici di una guerra, sostenevano il ricorso alla
trattativa e al compromesso.
d) Un conflitto mondiale - Poiché gli interessi delle grandi
potenze implicate si estendevano, tramite gli imperi coloniali, agli altri
continenti, ed il Giappone prima (1914) e gli Stati Uniti poi (1917)
parteciparono direttamente alle operazioni, il conflitto ebbe estensione
mondiale, anche se i campi di battaglia decisivi furono quelli europei. Fu la
prima guerra a coinvolgere tutto il pianeta.
e) Una guerra totale - Anche se le guerre napoleoniche
avevano messo in luce l'importanza, ai fini della vittoria, di riuscire a
mobilitare le risorse del paese, solo con la guerra 1914-18 la supremazia
finale dipese sia dallo sforzo produttivo che l'economia, e in particolare
l'industria, seppe esprimere in ciascun Stato, sia dall'energia morale della
popolazione civile, che doveva sostenere questo impegno globale.
f) Una guerra di posizione - I tedeschi pensavano di concludere
le operazioni belliche nel giro di poche settimane, battendo prima la Francia e
rivolgendosi poi contro la Russia. Fallito il loro piano, alla guerra di
movimento subentrò quella di posizione, tanto sul fronte occidentale che su
quello orientale: così pure su quello italiano, dopo che anche l'Italia entrò
in guerra.
Per
quattro anni, milioni di soldati si fronteggiarono dalle opposte trincee e le
sanguinose offensive (che duravano settimane e mesi, e costavano la vita di
decine e a volte di centinaia di migliaia di soldati) portavano soltanto ad
irrisori spostamenti delle linee.
g) Le nuove armi - Oltre che dallo sviluppo delle
artiglierie, che acquistarono una portata e una potenza mai viste, la guerra
1914-18 fu caratterizzata dall'introduzione di alcune grosse novità nei mezzi
bellici, che modificarono radicalmente le tecniche di combattimento: le
mitragliatrici, i carri armati, i lanciafiamme, i gas venefici e l'aviazione
(utilizzata quasi esclusivamente per la ricognizione).
Sui
mari, più che le mastodontiche corazzate, assunsero importanza i sottomarini,
la nuova arma con la quale i Tedeschi riuscirono a mettere in crisi i
trasporti, di cui gli alleati avevano necessità per i loro rifornimenti di
truppe, di materiali e di viveri.
h) Gli opposti schieramenti - Due furono i gruppi di potenze che
si fronteggiarono. Da una parte il blocco degli Imperi Centrali: Germania,
Austria, Turchia e Bulgaria; dall'altra le potenze dell'intesa (o,
genericamente, gli Alleati: Francia, Russia, Serbia, Belgio, Inghilterra,
Giappone, Italia, Romania e Stati Uniti.
Gli
Stati del primo gruppo erano avvantaggiati dal fatto che la contiguità dei loro
territori facilitava le manovre per linee interne e i rapidi spostamenti di
truppe, armamenti e materiali da un fronte all'altro; quelli del secondo gruppo
erano favoriti dal fatto di poter comunicare con i non belligeranti, per cui
sentirono meno degli Imperi Centrali la penuria di generi alimentari e di
materie prime indispensabili per la condotta della guerra. Fu questa la ragione
che portò alla sconfitta finale degli Imperi Centrali
i) La neutralità dell'Italia: interventisti e
neutralisti - Dopo l'attentato di Sarajevo Austria-Ungheria e
Germania decisero di tenere all'oscuro delle loro decisioni l'Italia, in
considerazione del fatto che il trattato di alleanza avrebbe previsto, in caso
di attacco dell'Austria-Ungheria alla Serbia, compensi territoriali per
l'Italia. Il 24 luglio Antonino di San Giuliano,
ministro degli esteri italiano, prese visione dei particolari dell'ultimatum e
protestò con l'ambasciatore tedesco a Roma, dichiarando che se fosse scoppiata
la guerra austro-serba sarebbe derivata da un premeditato atto aggressivo di
Vienna; la decisione ufficiale e definitiva della neutralità italiana fu presa
nel Consiglio dei ministri del 2 agosto 1914 e fu diramata la mattina del 3. L'Italia,
quindi, appigliandosi al mancato rispetto da parte dell'Austria di alcune
clausole del trattato della Triplice Alleanza, dichiarò inizialmente la sua
neutralità. La neutralità ottenne inizialmente
consenso unanime, sebbene il brusco arresto dell'offensiva tedesca sulla Marna
facesse nascere i primi dubbi sulla invincibilità tedesca.
Ma nel Paese si formarono ben
presto due correnti: quella degli interventisti
e quella dei neutralisti.
I gruppi interventisti minoritari paventavano la sminuita
statura politica, incombente sull'Italia, se fosse rimasta spettatrice passiva:
i vincitori non avrebbero dimenticato né perdonato, e se a prevalere fossero
stati gli Imperi centrali si sarebbero vendicati della nazione vista come
traditrice di un'alleanza trentennale. Tra i primi, che sostenevano
l'intervento a fianco dell'Intesa, si distinsero: gli irredentisti, che
miravano all'annessione di Trento e di Trieste; gli industriali, favorevoli al conflitto perché vi vedevano una fonte
di profitti grazie alle commesse militari; i nazionalisti che volevano inserire l'Italia tra le grandi potenze.
Neutralisti
erano invece, con alcune eccezioni, i socialisti,
che consideravano la guerra espressione degli interessi dei capitalisti. Erano
neutralisti anche i cattolici, che,
contrari al conflitto per motivi religiosi, guardavano inoltre con
preoccupazione ad una eventuale sconfitta dell'Austria cattolica. Per motivi
diversi era neutralista Giolitti, il
quale riteneva che, astenendosi dalla guerra, l'Italia avrebbe potuto ottenere
dall'Austria, grazie a trattative diplomatiche, notevoli concessioni.
Alla fine, prevalsero le forze
interventiste e l'Italia, il 24 maggio 1915, entrò in guerra a fianco degli
Alleati contro gli Imperi Centrali: alla fine del
1914 il ministro degli esteri Sidney Sonnino avviò contatti con entrambe le parti
per ottenere i maggiori compensi possibili e il 26 aprile 1915 concluse le
trattative segrete con l'Intesa mediante la firma del patto
di Londra, con il quale l'Italia si impegnava a entrare in guerra entro un
mese. Il 3 maggio successivo fu rotta la Triplice alleanza, fu avviata la
mobilitazione e il 24 maggio fu dichiarata guerra all'Austria-Ungheria ma non
alla Germania, con cui Antonio Salandra sperava,
futilmente, di non guastare del tutto i rapporti.
Il piano strategico
dell'esercito italiano, sotto il comando del generale e capo di stato maggiore Luigi
Cadorna, prevedeva un atteggiamento
difensivo nel settore occidentale, dove l'impervio Trentino costituiva un
saliente incuneato nell'Italia settentrionale, e un'offensiva a est, dove gli
italiani potevano contare a loro volta su un saliente che si proiettava verso
il cuore dell'Austria-Ungheria. Dopo aver occupato il territorio di frontiera,
il 23 giugno gli italiani lanciarono il loro primo
assalto alle postazioni
fortificate austro-ungariche, attestate lungo il corso del fiume Isonzo:
l'azione andò avanti fino al 7 luglio, ma a dispetto della superiorità numerica
gli italiani non conquistarono che poco terreno al prezzo di molti caduti. Lo
schema si ripeté identico a metà luglio, e poi ancora in ottobre e novembre:
ogni volta gli assalti frontali degli italiani cozzarono sanguinosamente contro
le trincee austro-ungariche attestate sul bordo dell'altopiano del Carso, che sbarrava agli attaccanti la
via per Gorizia e Trieste.
Sul fronte
italo-austriaco, il conflitto si presentò subito estremamente lento, combattuto
nelle trincee scavate nelle montagne del Friuli da soldati reclutati tra le
fasce più povere della popolazione.
Nel
1917 l’offensiva
austriaca divenne sempre più pressante, finché l’esercito italiano subì la
famosa sconfitta
di
Caporetto,
il 24 ottobre del 1917, con gravi ripercussioni anche sulla vita economica e
sociale del Paese. Ebbero infatti inizio una serie di scioperi e di
manifestazioni, tali da costringere il governo a fare grandi promesse ai
soldati, al fine di risollevarne il morale, evitando defezioni ed
ammutinamenti.
Il 1918 fu l’anno
decisivo del conflitto: sul fronte italo-austriaco, l’esercito italiano,
guidato dal un nuovo generale Armando
Diaz, riuscì a conquistare Trento e Trieste, stipulando un armistizio con
l’Austria e giungendo finalmente alla pace.
l) La rivoluzione russa e
l'intervento americano
- Al di
là delle operazioni belliche - per le quali si rimanda alla cronologia - una
considerazione particolare meritano due eventi, per le rilevantissime
conseguenze che ebbero nella successiva storia mondiale: la rivoluzione russa e
l'intervento americano, che si verificarono entrambi nell'aprile del 1917.
Con la
rivoluzione russa - che ebbe come immediata conseguenza il ritiro della Russia
dal conflitto - si costituì nell'Est dell'Europa un forte stato socialista,
l'Unione delle Repubbliche Sovietiche Socialiste (U.R.S.S.), che diede vigore
ai movimenti socialisti in Europa e nel mondo, e caratterizzò, con la sua
presenza, tutta la storia successiva fino ai giorni nostri.
L'intervento
degli Stati Uniti d'America (USA) fu determinato da varie cause:
-
dalla
solidarietà con gli ideali democratici delle potenze dell'Intesa;
-
dalla
preoccupazione di salvaguardare i capitali investiti dalle industrie americane
con la cessione a credito ai belligeranti Alleati di armi e materie prime;
-
dai
danni e dalle reazioni emotive suscitate nell'opinione pubblica americana dalla
guerra sottomarina, che i tedeschi avevano spinto alle estreme conseguenze
affondando anche le navi delle potenze neutrali;
-
dalla
convinzione che, soltanto prendendo parte diretta alla guerra, gli USA
avrebbero potuto partecipare alle decisioni per l'assetto politico postbellico.
Ed era una convinzione esatta: la presenza degli USA alla conferenza della pace
non solo fu di estremo rilievo, ma contribuì decisamente a portarli a quella
posizione di preminenza, che doveva precisarsi con la seconda guerra mondiale.
m) Carattere dei trattati di pace - I trattati di pace, che furono
imposti senza essere discussi dalle potenze dell'Intesa alle nazioni vinte,
ebbero un carattere punitivo, particolarmente quello con la Germania, e ne misero
in ginocchio l'economia.
Tutto
ciò, insieme ad una serie di altri problemi politici irrisolti, rese la pace
fragile e di breve vita: poco più di vent'anni dopo (settembre 1939), essa fu
travolta da un nuovo, più esteso e distruttivo conflitto mondiale.
n) Il significato della guerra per
l'Italia - Per l'Italia la guerra 1915-18 fu,
in un certo senso, l'ultima delle guerre d'indipendenza, perché portò al
compimento dell'unità politica, con l'annessione del Trentino e della Venezia
Giulia.
Ma ben
più complesso è il suo significato, se guardiamo alle grandi trasformazioni che
essa indusse nella società italiana:
-
l'economia
di guerra stimolò lo sviluppo dell'industria ad un ritmo prima imprevedibile;
-
ciò
comportò una vasta mobilitazione delle masse operaie e non solo degli uomini,
ma anche delle donne, con fondamentali trasformazioni politiche, sociali e di
costume;
-
l'incontro,
avvenuto nelle trincee, delle masse prevalentemente contadine (provenienti da
regioni tra loro tanto lontane non solo geograficamente, ma per cultura,
tradizione e costumi) favorì l'unificazione sociale del Paese e diede ai
lavoratori coscienza della loro consistenza, e della loro forza. Su questa
presa di coscienza potrà far conto, nell'immediato dopoguerra, il Partito
Socialista per la sua rapida avanzata.
Queste
profonde trasformazioni sociali sono alla base delle inquietudini e dei
rivolgimenti che caratterizzeranno gli anni immediatamente successivi alla
pace.
12 Tra le due
guerre: l’etè dei totalitarismi – Nel
campo dell'analisi storiografica e politica il termine totalitarismo cominciò a essere applicato alla fine degli anni
venti del Novecento, in Inghilterra, tanto al regime fascista quanto a quello comunista che si era imposto in Russia con la rivoluzione
del 1917. Ma questo accostamento incontrò forti resistenze fra gli storici di
sinistra che vedevano il modello totalitario compiutamente attuato soltanto
nei sistemi politici guidati da Mussolini e da Hitler.
Nel 1934 lo
storico delle dottrine politiche George H. Sabine ripropose la
definizione di regimi totalitari per
tutti quelli in cui vi fosse l'assoluto predominio di un partito unico.
Dopo la fine
della seconda guerra mondiale la categoria del totalitarismo entrò completamente nel linguaggio della storiografia
politica per descrivere le dittature monopartitiche fasciste e comuniste, o
alcune di esse.
Hannah Arendt
(1906-75), filosofa tedesca, costretta ad abbandonare la Germania dopo la
salita al potere del Nazismo, a cui dedicò un ampio saggio pubblicato nel 1951
(Origins of Totalitarianism;.
In quest'opera, che si compone di tre parti (l'Antisemitismo, l'Imperialismo, il Totalitarismo),
l'autrice spiega che i movimenti totalitari trovano le condizioni del loro
sviluppo nella moderna società di massa e basano la propria forza su settori
di essa solitamente refrattari all'attività politica ed estranei ai partiti e
alle organizzazioni tradizionali. Per questa ragione quei movimenti non si
trovano nella necessità di spostare consensi verso le proprie posizioni sottraendoli
ad altre mediante le forme consuete del confronto politico, della confutazione
e della persuasione: alle masse a cui si rivolgono, digiune di conoscenze
politiche ed estranee ad ogni impegno in questioni di interesse pubblico, esse
offrono un'ideologia, ovvero un sistema articolato di
credenze, con cui identificarsi fanaticamente. Il partito unico, strumento
indispensabile per l'esercizio del potere totalitario, controlla ogni aspetto
della vita sociale mediante una polizia segreta
onnipresente che si impone attraverso il terrore.
Terrore e ideologia
sono dunque, secondo Arendt, i requisiti fondamentali del totalitarismo e
questo trova espressione in un capo carismatico che
incarna il potere stesso e al quale tutti gli apparati dello Stato fanno
riferimento. Egli è il depositario dell'ideologia che da lui soltanto può
essere interpretata e corretta ed è lui infine che individua chi debba essere
additato come nemico potenziale o
oggettivo contro cui attivare la macchina del terrore e la polizia segreta.
L'altra teoria
classica del totalitarismo fu formulata da Carl J. Friedrich e Zbigniew K. Brzezinski, due studiosi
statunitensi in un'opera pubblicata nel 1956 (Totalitarian Dictatorship and Autocracy) nella
quale sono indicati sei elementi caratteristici di questo tipo di regime:
1.
un'ideologia
che abbraccia tutti gli aspetti della vita degli individui e che è
proiettata verso uno stadio finale e perfetto della società;
2.
un
partito unico di massa, guidato da un solo capo, che riunisca
una minoranza (10% circa della popolazione) strutturata in forma rigidamente
gerarchica e raccolta intorno a un forte nucleo di militanti determinati e
fanatici e ciecamente consacrati all'ideologia e pronti a contribuire in ogni
modo al suo trionfo;
3. un sistema di terrore
realizzato attraverso il controllo del partito e della polizia segreta ed
esercitato sia verso i provati nemici
del regime, sia verso intere classi della popolazione;
4. il monopolio del partito e del governo, di tutti i mezzi di comunicazione
di massa;
5. il monopolio dell'uso
effettivo di tutti gli strumenti di lotta armata;
6. il
controllo centralizzato e la guida
dell'intera economia attraverso il coordinamento burocratico di
entità corporative.
Vi
sono molte analogie fra il modello descritto dalla Arendt e quello
formulato da Friedrich e Brzezinski, ed entrambi concordano nel definire il
totalitarismo una forma di dominio politico del tutto nuova e senza
precedenti nel passato e nell'identificare in esso, come aspetti centrali, l'ideologia,
il terrore poliziesco, il partito unico di massa. Ma compaiono anche evidenti differenze,
prima di tutto perché, a differenza di Friedrich e Brzezinski che si
limitano a descrivere il fenomeno e non lo collegano a un progetto politico con
cui esso sia intimamente e necessariamente intrecciato, secondo la Arendt il totalitarismo
si propone sempre un fine strategico che consiste nella trasformazione della
natura umana; inoltre, la filosofa tedesca trapiantata negli Usa giudicava che
fossero espressioni compiute del totalitarismo soltanto la Germania di Hitler e
la Russia di Stalin, mentre gli altri due studiosi inserivano fra quelli
totalitari anche gli altri regimi comunisti e il fascismo italiano.
Se
il totalitarismo rappresenta uno sviluppo possibile della società moderna in
senso speculare, e quindi opposto, alla democrazia liberale, è lecito
domandarsi che cosa stia all'origine di queste differenti alternative. Una
risposta che ha suscitato consensi, ma anche radicali divergenze, è quella formulata
da Jacob Talmon nel suo saggio sulle Origini della
democrazia totalitaria.
Talmon
individua le cause della separazione fra democrazia liberale e democrazia
totalitaria nella comparsa di una concezione messianica della politica, in base alla quale si
ritiene possibile la costruzione di una società perfetta. Un orientamento di
questo genere compare nell'opera del filosofo illuminista Jean-Jacques Rousseau
(1712-78) e ha trovato applicazione nel corso della Rivoluzione francese
da parte di dirigenti giacobini come Maximilien Robespierre (1758-94)
di cui Talmon analizza a lungo il pensiero. La conclusione che lo studioso
ricava è che, mentre «l'orientamento liberale sostiene che la politica procede
per tentativi ed errori, e considera i sistemi politici espedienti pragmatici
escogitati dall'ingegno e dalla libertà dell'uomo», il pensiero democratico
totalitario si basa invece «sull'asserzione di una sola e assoluta verità
politica. Esso può essere definito messianismo politico in quanto postula un
insieme di cose preordinato, armonioso e perfetto, verso il quale gli uomini
sono irresistibilmente spinti e al quale devono necessariamente giungere, e riconosce infine un solo piano di
esistenza, la politica».
13. Il fascismo – L'interpretazione crociana del Fascismo era quella della malattia morale. Questa interpretazione ha avuto tra i suoi
maggiori propugnatori storici in gran parte di origine tedesca e italiana. In Italia Benedetto Croce che espose la sua tesi, riguardo a
questa interpretazione, prima in un articolo del New
York Times del novembre 1943, in seguito nel discorso del 28
gennaio 1944 a Bari al primo congresso dei Comitati di liberazione, e infine in
un'intervista del marzo 1947. Per
Croce il Fascismo era visto come una parentesi
tra lo stato monarchico liberale e lo stato repubblicano democratico, intesi
come uno Stato successore dell'altro. Tale parentesi
era dovuta a una malattia morale che avrebbe corrotto la società e
la politica con il Fascismo.
Sul
fascismo e sulla sua interpretazione in stretta relazione al marxismo, il
filosofo cattolico Augusto Del Noce ha dedicato gran parte dei suoi studi
e delle sue opere. Del Noce intende mostrare la continuità, dalla rivoluzione
francese in poi, che è posta fra l'hegelismo, il marxismo e il fascismo come
tre momenti dell'unico processo di secolarizzazione. Il filosofo inizia quindi
dall'analisi della figura storica di Mussolini e della sua formazione
culturale, notando il suo giovanile anticlericalismo, il suo spontaneo
confluire nel socialismo, e il seguente superamento di quest'ultimo per
l'evoluzione fascista del suo pensiero. È in particolare sul concetto di «rivoluzione» fascista che Del Noce pone l'accento, essendo
questo un concetto base anche del marxismo, una forma di azione tanto vaga e
generale da poter attrarre a sé ogni sorta di ceto sociale (anche il
proletariato) e di frangia ideologica. Questo permette l'affiancamento ideale
dell'attualismo di Giovanni Gentile (ideologo
del regime) al modernismo teologico, fiorente a quel tempo e
condannato come eresia dalla Chiesa cattolica.
L'interpretazione di
tradizione marxista, considera il fascismo come un prodotto della società
capitalista e della reazione della grande borghesia contro il proletariato
attraverso la mobilitazione di masse piccolo-borghesi e sottoproletarie (il regime reazionario di massa descritto
dai comunisti italiani in clandestinità). Nel 1925 Gramsci scrive: "Noi
abbiamo una spiegazione di classe del fenomeno fascista",
un'interpretazione che De Felice definisce come "fascismo reazione di
classe estrema del capitalismo per difendere se stesso".
L'interpretazione
democratico-radicale di Gaetano
Salvemini, di Piero Gobetti, del
movimento Giustizia e Libertà e poi del Partito d'Azione, considera il fascismo come un prodotto logico,
inevitabile, degli antichi mali d'Italia. Per Carlo Rosselli il fascismo aveva
fatto emergere i vizi congeniti degli italiani.
L'interpretazione
che Renzo De Felice dà del fascismo si articola su tre
temi fondamentali: l'origine socialista del pensiero di Mussolini e la
differenza fra il fascismo e le dittature di destra contemporanee, la
distinzione fra il fascismo movimento
e il fascismo regime, la
realizzazione di un consenso popolare determinante a garantire stabilità e
successo al regime fascista. De Felice ha avuto il merito di scardinare
l'univocità della storiografia sul fascismo, fino agli anni '70, legata
soltanto alla interpretazione marxista del fenomeno fascista come reazione dei
ceti dominanti all'irrompere delle masse in politica grazie al socialismo. I
suoi studi sono stati proseguiti dalla cosiddetta scuola defeliciana.
a) La crisi della democrazia in Europa - Il dopoguerra fu
caratterizzato dalla crisi della democrazia, crisi che venne manifestandosi e
accentuandosi col procedere degli anni. La conclusione fu il costituirsi di
stati autoritari, prima in Italia (fascismo), poi in Germania (nazismo), infine
in Spagna (franchismo). Anche in U.R.S.S. il regime dei Soviet, che aveva
caratterizzato i primi anni della rivoluzione, trapassa nella gestione
totalitaria e dittatoriale di Stalin.
Di questi movimenti ci limiteremo
qui ad illustrare i due che più da vicino toccarono la vita del nostro Paese:
il fascismo e il nazismo.
b) Crisi sociale dell'Italia dopo la prima guerra
mondiale - Nonostante l'esito vittorioso, la prima guerra mondiale
lasciò l'Italia in una situazione di gravi disordini connessi con gli
avvenimenti sociali e politici verificatisi durante il conflitto.
Da paese prevalentemente agricolo,
l'Italia si avviava a diventare, almeno nel Nord un paese altamente
industrializzato. Le masse rurali e il proletariato urbano, esclusi
dall'effettiva partecipazione alla gestione dello Stato, premevano per
modificare tale situazione e migliorare le loro condizioni economiche, sociali
e politiche. Esse trovavano coordinamento e guida nel partito socialista,
mentre il successo della rivoluzione bolscevica, che in Russia aveva portato il
proletariato al potere, serviva da stimolo alla loro azione.
L'avanzata delle classi proletarie
era avversata, oltre che dal grande capitale, dalla media e piccola borghesia,
che si vedeva minacciata nel suo prestigio sociale. Per gran parte delle masse
cattoliche, inoltre, data la componente antireligiosa implicita nell'ideologia
marxista, l'avanzata del socialismo costituiva una minaccia per la cristianità.
A queste ragioni di turbamento si
aggiungeva l'insoddisfazione di molti giovani reduci, appartenenti agli strati
piccolo e medio borghesi, che, durante il conflitto, si erano trovati in posti
di comando e di prestigio e ora mal si adattavano a rientrare nella vita
normale.
c) I Fasci di combattimento e l'ascesa di Mussolini - Questa complessa
situazione, aggravata dall'incerto atteggiamento del partito socialista che
intimoriva gli avversari col suo massimalismo, facendo balenare lo spauracchio
di una rivoluzione, che non aveva né la capacità né la reale volontà di
attuare, favorì lo svilupparsi di movimenti di destra, fra i quali primeggiò
quello dei «Fasci di combattimento», fondato da Benito Mussolini il 23 marzo
1919. Esso si affermò grazie all'uso della violenza da parte delle sue squadre
armate, che ben presto furono sostenute dagli agrari e, successivamente, dagli
industriali e dalla tacita connivenza delle autorità.
Il fallimento della occupazione
operaia delle fabbriche rafforzò ulteriormente le destre che riscossero un
successo elettorale nel '21. Fu questo l'inizio dell'ascesa ufficiale del
fascismo, che si affermò poi con la Marcia su Roma (28-10-1922) e la
designazione di Mussolini a capo del governo.
Dopo un breve periodo di
collaborazione con esponenti di altri partiti, Mussolini, abolite le libertà
costituzionali (3-1-1925), instaurò un regime totalitario.
Repubblicano e anticlericale alle
sue origini, il fascismo si alleò poi con la monarchia e cercò l'appoggio della
Chiesa, presentandosi come il suo salvatore contro il «comunismo ateo»
Per dare un contenuto sociale alla
sua «rivoluzione», elaborò la teoria dello Stato corporativo che, sotto
l'etichetta di conciliare gli interessi antitetici del capitale e del lavoro,
nell'interesse supremo dello Stato, di fatto trasformò lo Stato nel tutore
dell'interesse del capitale. L'unico carattere che il fascismo costantemente
conservò fu l'esasperato nazionalismo, che ben presto si manifestò come presuntuoso
imperialismo.
d) La crisi del fascismo e il suo crollo - La conquista
dell'Etiopia (1936) e la proclamazione dell'Impero segnano il culmine del
successo fascista e del consenso che il fascismo era riuscito ad ottenere fra
il popolo. L'inizio della sua parabola discendente e della frattura con la
società italiana si può individuare nel momento in cui Mussolini decise di
avvicinarsi alla Germania (1937), per ovviare a quell'isolamento in cui
l'Italia si era trovata a seguito della guerra etiopica condannata dagli altri
Paesi membri della Società delle Nazioni.
In particolare, gli nocquero le
conseguenze di tale avvicinamento: la partecipazione, con reparti di volontari,
alla guerra civile di Spagna in appoggio a Franco e a fianco dei «camerati»
tedeschi; la promulgazione, ad imitazione di quanto Hitler aveva fatto in
Germania di una legislazione antisemita (leggi razziali).
La partecipazione alla seconda
guerra mondiale, in qualità di alleato della Germania, e i gravi insuccessi
militari determinarono la caduta di Mussolini e il crollo del fascismo (25
luglio 1943).
e) La repubblica sociale di Salò - La liberazione di
Mussolini (che era stato relegato sul Gran Sasso) ad opera dei tedeschi portò a
una effimera rinascita del regime fascista, che, per l'occasione, richiamandosi
alle sue origini repubblicane, proclamò la Repubblica Sociale Italiana, detta
Repubblica di Salò dal paese sul lago di Garda dove il governo aveva sede. La
sconfitta tedesca in Italia e il successo delle azioni partigiane ne segnarono
la fine.
f) Come giudicare il fenomeno fascista - Il fascismo, secondo
alcuni, fu soltanto una malattia passeggera nello sviluppo liberale dell'Italia
contemporanea. E' questa la tesi sostenuta, ad esempio, dal filosofo Benedetto
Croce. Per altri, rappresentò invece la manifestazione estrema e caratteristica
di una permanente tendenza antidemocratica della nostra storia nazionale, che
ha tenuto costantemente le masse al di fuori della vita politica.
Spetterà alla Resistenza colmare,
almeno in parte, questo divorzio fra Stato e popolo, e di creare così le
premesse per una costituzione che prevede la partecipazione attiva delle masse
democratiche alla cosa pubblica.
14 Il nazismo – Il 10 luglio 1921, in una Germania ridotta alla
miseria dal disastro bellico, Adolf Hitler, un anonimo ed oscuro reduce di
guerra di origini austriache, era eletto capo indiscusso di una piccola
formazione di destra, dal nome Partito
nazional-socialista dei lavoratori tedeschi. Dopo anni di militanza quel
piccolo manipolo di visionari avrebbe raggiunto, sotto il segno della svastica,
antico simbolo indo-europeo, il dominio sull’Europa, con il fine di costituire
un grande Reich millenario, volto a sottomettere il mondo intero.
I principi enunciati da Hitler
nel Mein Kampf, riassumibili nel principio della superiorità della razza
ariana eletta, destinata ad imporre la propria egemonia, trovarono tragica e
sistematica attuazione nello sterminio di 6 milioni di ebrei, nei
massacri, nei rastrellamenti, nell’incubo cui dovettero soggiacere decine di
migliaia di persone dal gennaio 1933, anno dell’ascesa al potere del
nazional-socialismo, fino al maggio del 1945, quando, in una Berlino ridotta ad
un mucchio di rovine, la bandiera rossa sovietica fu issata sul pennone del
Reichstag. Fu così la fine di quell’oscuro e malefico impero, di una perversa
ideologia che il suo fuhrer voleva
millenaria e che invece non sopravvisse alla straripante superiorità alleata;
ad una ad una le armate tedesche che avevano occupato l'Europa e apparivano invincibili,
furono travolte e sconfitte, fino alla capitolazione, che pose termine alla
spirale di violenza, ma non riuscì a rimuovere e a cancellare il ricordo di una
tragedia costata 50 milioni di morti e destinata a rimanere indelebile, nella
memoria collettiva.
a) Crisi politica ed economica della Repubblica di
Weimar - In Germania, dopo la fuga del Kaiser Guglielmo II, fu
proclamata la repubblica (9 novembre 1918), guidata da un governo provvisorio
di indirizzo socialdemocratico.
La
situazione interna era però molto delicata: nel gennaio 1919 a Berlino scoppiò
una rivoluzione, capeggiata dal Partito
comunista fondato da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg e finalizzata ad
abbattere il vecchio apparato dello Stato e il sistema capitalistico, che fu
repressa nel sangue.
L’11
agosto 1919 l’Assemblea costituente proclamò la repubblica di Weimar, dotata di una nuova Costituzione che trasformava lo Stato
unitario in repubblica federale. Gli ambienti di destra osteggiarono la nuova
repubblica, organizzando atti terroristici e tentando un colpo di Stato il
putsh di Kapp nel 1920. La situazione fu aggravata dal disastro economico,
della disoccupazione e da un’inflazione galoppante, che resero impossibile
pagare i risarcimenti previsti dal trattato di pace alle potenze europee. A
garanzia del pagamento, la Francia occupò il bacino minerario della Ruhr nel 1923.
La Repubblica di Weimar ebbe vita
difficile, per i tentativi comunisti di instaurare una repubblica dei Soviet e
le tendenze nazionalistiche e militariste delle destre. Delle difficoltà
economiche e del malcontento per le dure condizioni della pace approfittò
Hitler che, nel 1920, fondò il Partito
nazionalista dei lavoratori tedeschi, più noto come partito nazista. In
politica estera, esso puntava alla revisione del sistema instaurato dal
trattato di pace e alla creazione di un grande Reich (= impero) pantedesco e,
in politica interna, mirava ad instaurare un governo autoritario. Per instaurare in Germania un regime
autoritario Hitler e i suoi seguaci tentarono un colpo di Stato, fallito,
contro il governo bavarese, il cosiddetto putsh di Monaco del 1923.
In
politica internazionale negli anni Venti prevalse uno spirito di distensione
con il patto Locarno del 1925 e ciò rese possibile un piano di aiuti americani
all’economia tedesca (piano Dawes). La Germania fu ammessa nel 1926 alla
Società delle Nazioni e nel 1929 furono
ridotti e rateizzati i risarcimenti di guerra tedeschi e fu imposto alle truppe
franco-belghe di abbandonare la Renania.
b) Le cause del successo di Hitler - Fallito il suo primo
colpo di stato nel 1923 (putsch di Monaco; Hitler incarcerato scrisse il Mein Kampf = La mia battaglia, in cui
espose le sue teorie). La crisi
economica del 1929 pose fine allo spirito di Locarno e rafforzò in Germania le
tendenze di estrema destra. I nazionalsocialisti nelle elezioni del 1930
divennero il secondo partito del Paese. Due anni dopo Hitler fu però battuto
alle elezioni presidenziali dal maresciallo Hindenburg. La mancanza di un
governo stabile portò a due successive elezioni (luglio e novembre 1932) e alle
fine Hinderburg affidò il cancellierato a Hitler (30 gennaio 1933).
Hitler incontrò un successo nelle elezioni del 1930, grazie alle attività
terroristiche delle squadre armate del partito (SA e SS) e all'aumentato
malcontento popolare per i crescenti disagi seguiti alla grave crisi mondiale
del '30 che ebbe anche in Germania dure ripercussioni, soprattutto nel campo
della occupazione. Non furono estranei al suo successo gli strumenti della
propaganda elettorale, gli slogan, i simboli, i riti fortemente suggestivi che
accompagnavano le manifestazioni naziste. Tutto ciò, peraltro, non sarebbe
stato sufficiente all'affermazione hitleriana, se militaristi, agrari,
industriali e piccoli borghesi non avessero visto, nel movimento nazista, la
risposta più soddisfacente ai loro sentimenti nazionalistici e al diffuso
timore verso i comunisti.
Il nazismo trovò entusiastici
finanziatori nei magnati dell'industria tedesca; e le azioni delle squadre
armate del partito conobbero la tolleranza delle autorità, che erano invece
pronte a colpire le violazioni della legge compiute dai comunisti.
I
nazisti, sempre più forti, provocarono alcuni gravi incidenti per screditare i
partiti dell’estrema sinistra (incendio del Reichstag, 27 febbraio 1933).
Usarono la violenza per eliminare gli oppositori del regime e indussero le
classi medie ad aderire in massa al nazionalsocialismo, praticando la politica
del terrore e limitando le libertà politiche e civili (decreto straordinario,
28 febbraio).
Nel
corso delle nuove elezioni (5 marzo 1933) i nazionalsocialisti ottennero la
maggioranza insieme ai conservatori. Hitler a quel punto si assicurò pieni
poteri per quattro anni (legge-delega, 23 marzo 1933). Furono sciolti i partiti
politici, mentre fu dichiarato partito unico quello nazista (14 luglio 1933);
venne istituita una nuova polizia segreta (Gestapo), con il compito di
reprimere ogni forma di opposizione. Alla morte di Hindenburg (agosto 1934)
Hitler ottenne il potere assoluto (cancellierato e presidenza) del neo
costituito Terzo Reich.
Il
consolidamento della dittatura nazista poté contare anche sull’azione di
propaganda e sull’inquadramento, soprattutto dei giovani, nelle organizzazioni
del Partito nazista.
La
principale ragione del consenso del popolo tedesco al programma hitleriano deve
essere cercata nei buoni risultati fortemente in campo economico, grazie a una
politica fortemente autarchica, sostenuta dalla presenza imprenditoriale dello
Stato nel campo dei lavori pubblici, delle infrastrutture, dell’industria
pesante.
L’ideologia
politica del nazismo si basava su due elementi fondamentali: quello della
assoluta superiorità della razza ariana, identificata con il popolo tedesco, e
quello della ineguaglianza, ritenuta legge fondamentale della natura e come
tale motivo determinante della sottomissione delle masse ai capi e delle razze
inferiori a quelle superiori. Da questa premesse discendeva anche
l’antisemitismo nazista: il popolo ebraico era considerato come l’origine di
tutti i mali del mondo, da cui discendevano il liberalismo, la democrazia, il
marxismo. Inoltre riteneva che le comunità ebraiche fossero troppo potenti
economicamente e perciò non integrabili nel progetto totalitario del nazismo.
In base a queste convinzioni iniziò una vera e propria persecuzione, che
divenne sistematica con le leggi di Norimberga (settembre 1935), in base alle
quali gli Ebrei furono privati della cittadinanza tedesca, fu loro vietato
contrarre matrimoni con altri cittadini tedeschi e furono obbligati a rendersi
riconoscibili esibendo sugli abiti la stella gialla di David.
La
politica estera nazista fu estremamente aggressiva nei confronti dei Paesi
naturalmente tedeschi (come l’Austria e il territorio dei Sudeti in
Cecoslovacchia), la cui acquisizione costituiva la prima tappa di un’ulteriore
espansione che avrebbe portato i Tedeschi ad avere un’unica grande patria
germanica (pangermanesimo), in cui sottomettere altri popoli considerati
inferiori per sfruttarne le risorse economiche.
L’Europa
sottovalutò il pericolo nazista per diverse ragioni: da una parte Hitler
realizzò il programma con meditata lentezza; inoltre la Germania non era
l’unico Paese in cui esisteva una dittatura; infine l’autocomunismo di Hitler
suscitava molte simpatie in campo internazionale.
c) Caratteristiche del fenomeno nazista - Il nazismo si distinse
dal fascismo italiano, cui si ispirava, non solo per l'inclusione del mito
della razza pura ariana, al quale si accompagnava un violento antisemitismo, ma
anche per una concezione complessivamente più fanatica e disumana.
L'insediamento del nazismo nel cuore dell'Europa e le mire espansionistiche
della politica hitleriana dovevano travolgere nella guerra il nostro continente
e il mondo intero.
d) Il crollo del nazismo - L'insuccesso finale cui
Hitler andò incontro nella guerra da lui scatenata portò alla fine del nazismo
e alla morte tragica e scenografica del suo capo.
15 Il comunismo - Subito dopo la Rivoluzione d'ottobre in Russia scoppiò
una guerra civile tra l'esercito sovietico, la cosiddetta Armata Rossa, organizzato e comandato
da Lev Trockij, e i vari
eserciti che si rifacevano al potere zarista, le Armate Bianche. La Russia
dei Bolscevichi perse i suoi territori ucraini, polacchi, baltici e finnici con
la firma del trattato di
Brest-Litovsk, con il quale usciva dalla prima guerra mondiale e poneva
fine alle ostilità con gli Imperi centrali. Le potenze alleate
dell'Intesa lanciarono senza successo un intervento militare a
sostegno delle forze anticomuniste. Nel frattempo sia i Bolscevichi che
l'Armata Bianca effettuarono campagne di deportazioni, arresti di massa ed
esecuzioni contro i propri avversari, denominate rispettivamente Terrore
rosso e Terrore bianco. Entro la fine della guerra civile l'economia russa
e le sue infrastrutture furono pesantemente danneggiate. Milioni di persone
divennero rifugiati bianchi e si stima che la carestia russa del
1921-1923 causò fino a un massimo di 5 milioni di vittime.
a) Lo Stato sovietico e
la NEP -
Le condizioni in cui la guerra mondiale aveva lasciato l'ex Impero russo erano
davvero disastrose; crisi economica e speranza controrivoluzionaria. Furono gli
anni in cui si combatté il comunismo di guerra, quando furono presi drastici
provvedimenti. Al paese mancava tutto, e vi era la necessità di una fiducia
decisiva nel regime, anche se la socializzazione dell'economia non arrivò mai.
Per venire incontro alle esigenze alimentari delle popolazioni
furono requisiti tutti i prodotti agricoli, e nel marzo del 1921 i marinai di
Kronstand insorsero al grido i soviet ma
senza i bolscevichi.
Questa rivolta, che testimoniava una tendenza democratica del
popolo, fu sedata con il sangue. Lenin però capì che bisognava instaurare un
forte cambiamento, visto che le armate bianche erano definitivamente sconfitte.
Lenin era cosciente del fatto che la rivoluzione che si era affermata in Russia
non era propriamente in linea con il marxismo, ma faceva riferimento
all'interpretazione dei socialisti.
I socialisti vedevano nel capitalismo l'occasione senza la quale
non sarebbe potute essere instaurato il comunismo. Mentre Marx sosteneva che al
rivoluzione sarebbe potuta venire anche da civiltà primitive. Lenin si
riavvicinò così al marxismo più puro ed affermò che l'affermazione dello Stato
comunista sarebbe potuta avvenire senza il passaggio dell'urbanizzazione,
puntando su concessioni ai contadini.
Nacque così la NEP (Nuova Politica Economica), con la quale non si
propose nessun obiettivo rivoluzionario. Per sette anni la politica economica
bolscevica ebbe un carattere misto. Lo stato continuava a controllare lo
sviluppo economico, ma venivano concesse ad agricoltori e piccole industrie
agevolazioni fiscali, creando un’economia di mercato affianco a quella statale.
Insieme a questi provvedimenti si inserirono importanti manovre di
alfabetizzazione, favorendo la letteratura locale. Fu istituita un’organizzazione
sanitaria ed assistenziale e fu riconosciuto il diritto all'autodecisione delle
varie nazionalità, portando alla creazione nel 1922 nell'Unione delle repubbliche socialiste sovietiche. Fu riportata la
moralizzazione che nei tempi addietro aveva preso un ritmo incalzante con
divorzi eccessivi, allontanamento dei vincoli matrimoniali, delinquenza, aborto
ecc.
La chiesa greco-ortodossa fu duramente colpita perché il regime
sovietico proclamò l'ateismo. Nel 1921 venne proibita l'istruzione religiosa e
nel 1926 fu condannato il clero ai lavori forzati. Nelle scuole veniva
ufficialmente impartito l'ateismo e durante il regime si assistette alla
scomparsa di numerosi vescovi e preti e alla distruzione di chiese e conventi.
Partendo dalla definizione marxista della religione
come oppio dei popoli, i bolscevichi, portarono avanti una decisa lotta
contro la Chiesa.
La politica della NEP ebbe poi importanti ripercussioni in ambito
internazionale. Ora non aveva più senso parlare di rivoluzione permanente
perché la NEP aveva concesso un piccola libertà all'iniziativa capitalistica e
si faceva largo l'idea di un comunismo di un solo paese, riallacciando i
rapporti internazionali, promuovendo il sentimento di difesa dell'URSS.
In politica estera, con la partecipazione alla conferenza di Ginevra
nel 1922 e di Losanna nel 1923, si ridiscusse della pace con la Turchia, e la
Russia rientrò nella scena mondiale. Artefice di questa svolta importantissima
fu Cicerin, ministro degli Esteri sovietico, che incontrò a Rapallo il ministro
degli Esteri Rathenau, creando un amicizia russo-tedesca che favoriva gli
scambi commerciali.
b) L'unione Sovietica
staliniana
– Lenin non riuscì a vedere la fine della NEP. Morì dopo appena due anni dalla
sua attuazione per un arteriosclerosi precoce. La sua compagna non avrebbe
voluto che si fosse costruito un mausoleo per conservarvi il corpo dell'uomo
imbalsamato. Il posto occupato da Lenin fu preso da Stalin, un georgiano, abile
uomo politico ed organizzatore, nemico di Trotzkij.
Stalin riteneva che i compiti del partito erano cambiati. La
costruzione dello Stato comunista richiedeva uomini in grado di controllare la
macchinosa macchina statale.
Trotzkij non negava gli obiettivi della rivoluzione bolscevica, ma
riteneva che questi potessero realizzarsi mantenendo certa libertà di opinioni,
e per questo nel 1929 fu cacciato dal partito e costretto all'esilio.
Eliminata la sua più irruenta opposizione Stalin poté dedicarsi
maggiormente al suo programma, che con la dichiarazione del 4 febbraio 1931
diede la massima accelerazione dell'industrializzazione, iniziando i piani
quinquennali. Stalin ritenne che coloro alla cui spesa si sarebbero attuati i
piani quinquennali sarebbero stati i kulaki, i contadini più agiati.
Incitò i contadini più poveri a muoversi contro questi che furono,
imprigionati, deportati e fucilati. Così fu permessa l'attuazione
dell'industrializzazione sfrenata di Stalin.
Né Marx né Engels avevano mai teorizzato che la rivoluzione
sarebbe dovuta avvenire con esportazioni e uccisioni. La Russia diveniva così
un paese prevalentemente industriale, ma pagando un carissimo prezzo. Gli
oppositori di questa politica furono fatti fuori e mentre l'Occidente si
dibatteva per superare la crisi del 29, l'URSS, percorrendo la strada di un
economia pianificata, portava la produzione industriale a livelli paurosi, ma
con metodi dittatoriali. Si creò una generale atmosfera repressiva che investì
tutti i settori della vita. Dal dispotismo industriale si passò ad un
dispotismo puro e semplice.
Nacquero le purghe staliniane, con le quali con una serie di
processi vennero condannati a morte tutti coloro che erano contrari al regime.
Gli imputati con intimidazione e pressioni psicologiche finivano per confessare
reati mai commessi.
Nel XX congresso del partito comunista a distanza da 3 anni dalla
morte di Stalin Krusciov poté dichiarare gli errori commessi dal regime
stalinista. Il problema sta nel capire se la politica stalinista è una
deviazione del progetto di Marx e Lenin, o se è stato portata implicitamente
dal leninismo. La rivoluzione di Lenin era stata in sostanza una rivoluzione di
masse, e sull'obiettivo della costruzione di una nuova società, Lenin si vide
indeciso, perché da forme radicali passò alla forme più democratiche della NEP.
Lenin aveva operato in circostanze particolari; la pessima economia zarista,
prevalentemente agricola, non aveva nulla del progresso industriale. Lenin
partendo dal dato storico della rivoluzione contro lo zarismo, aveva conferito
a questa rivoluzione elementare e imponente, una direzione rivoluzionaria con
la guida del bolscevismo. Stalin non mutò nulla di questo. Accelerò soltanto i
tempi dell'industrializzazione, eliminò ogni meccanismo di mercato e si servì
del terrore e delle purghe, delle repressioni di masse contadine per imporre
dall'alto un industrializzazione massiccia. Con il modello staliniano, la
partecipazione degli operai fu pressoché annullata, lo Stato perse ogni
autonomia rispetto al partito e l'attività sindacale consistette sempre più
nella mobilitazione degli operai per realizzare i ritmi e gli obiettivi del
piano imposto dall'alto.
16. La
seconda guerra mondiale (1939-1945) – Tutte le guerre sono
inutili massacri dagli albori della storia e non sono servite mai a
nulla. La seconda guerra mondiale fu quella che vide l’impiego di mezzi
veramente moderni come aerei, navi, missili, armi complesse ecc ecc
Ma non fu assolutamente una guerra
ideologica, bensì fu una guerra per fini territoriali e di risorse. La guerra
scoppiò dichiarata da Francia e Gran Bretagna contro la Germania perché questa
si volle espandere troppo fuori dai suoi confini. Ideologicamente Francia e GB
erano stati borghesi e Hitler era dittatore di uno Stato borghese.
Nel 1941 con l’Operazione Barbarossa la Germania non andò in URSS perche c'era
Stalin, ma per espandersi ad est e conquistare le grandi ricchezze del
sottosuolo russo (ci sarebbe andato anche se ci fossero stati gli Zar).
Quindi non fu nemmeno una guerra
per la difesa dei martiri dei lager, perche purtroppo nessuno li aiutò. È vero
che nel 1945 i superstiti ebbero salva la vita, ma è altrettanto vero che se i
nazisti non fossero usciti dai confini nessuno avrebbe mosso un dito per
salvare ebrei ed altri prigionieri.
Quindi la seconda guerra mondiale,
come la grande guerra e molte altre del passato fu una guerra tra potenze per
avere o limitare una grande espansione territoriale.
a) La politica espansionistica di
Hitler - La
seconda guerra mondiale fu lo sbocco fatale della politica espansionistica di
Hitler, nei cui confronti le potenze occidentali, in particolare Inghilterra e
Francia, tennero, per più anni, un comportamento incerto, caratterizzato da un
sostanziale cedimento.
Esse
non potevano condividere la dottrina nazista e temevano fortemente il riarmo
materiale e morale della Germania. Tuttavia, in Hitler, come pure in Mussolini,
esse vedevano un fanatico e deciso «alleato» contro il comunismo sovietico e un
forte di fensore dei «valori dell'Occidente».
Da
tale situazione contraddittoria derivarono i cedimenti di fronte agli atti
della politica aggressiva di Hitler: la rimilitarizzazione della Renania nel 1936,
l'intervento nella guerra spagnola a favore di Franco (1936-39), l'occupazione
e l'annessione dell'Austria nel marzo 1938, l'annessione dei Sudeti nel settembre
1938, l'occupazione della Cecoslovacchia nel 1939.
b) Stalin si accorda con Hitler - Tale atteggiamento della Francia e
dell'Inghilterra e il timore di più precisi accordi con la Germania a suo
danno, spinsero poi Stalin a stringere un patto di non aggressione con Hitler,
che, ormai sicuro sul fronte orientale, decise di attaccare la Polonia il 1°
settembre 1939.
Le
potenze occidentali non potevano accettare questo ulteriore atto
dell'imperialismo hitleriano senza esporsi al rischio di dover soccombere.
Scoppiò
così la guerra, che insanguinò l'Europa per quasi sei anni da settembre 1939 a maggio
1945, distruggendo milioni di vite umane, annientando l'economia europea e
lasciando dietro di sé intere città e regioni distrutte.
c) La guerra totale - Il primo conflitto mondiale era già
stato una guerra totale, in quanto aveva implicato lo sforzo e l'impegno non
solo degli eserciti, ma di tutte le energie materiali e spirituali delle
nazioni in guerra.
Tuttavia,
anche se le popolazioni avevano dovuto sopportare condizioni di vita a volte
durissime, quasi solo le truppe furono esposte ai rischi dei combattimenti.
La
seconda guerra, invece, è stata totale in un senso ancora più vasto. I
bombardamenti su vasta scala colpirono città inermi, centri produttivi, linee
di comunicazione, colonne di profughi; e la caratteristica di guerra di
movimento che il conflitto assunse, coinvolgendo nelle operazioni militari
quasi tutto il continente, espose i civili a rischi diretti non dissimili da
quelli dei combattenti.
Aggravò
la spietatezza di questa guerra la politica razziale nazista, che sfociò nella
deportazione e nello sterminio in massa degli ebrei nei campi di
concentramento. Un numero enorme di prigionieri dei paesi invasi furono
trasferiti in Germania. E infine le iniziative di resistenza, che si
organizzarono nei paesi occupati, gravarono sulla popolazione civile che subì
le conseguenze di imboscate, rastrellamenti e rappresaglie.
d) L'Italia dalla neutralità
all'intervento
- Quando
l'invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche diede inizio al
conflitto, l'Italia proclamò la sua neutralità, anche se aveva stretto, solo
pochi mesi prima, un'alleanza militare con la Germania, il cosiddetto «patto
d'acciaio», che impegnava le due potenze a prestarsi reciproco aiuto in caso di
guerra.
La
neutralità italiana era dovuta all'impreparazione dell'esercito e alle
insufficienti risorse industriali. La sua giustificazione, nei confronti
dell'alleato tedesco, stava invece nel fatto che le due potenze si erano
accordate segretamente nel non provocare guerre prima di tre anni, patto che
Hitler non aveva rispettato.
Quando
però Mussolini vide Hitler spazzar via, apparentemente senza difficoltà, la
Polonia, occupare la Norvegia, invadere la Danimarca, l'Olanda e il Belgio, e
quindi superare la modernissima linea difensiva francese, la Maginot, e
invadere la Francia convinto che l'Inghilterra si sarebbe piegata e il
conflitto si sarebbe concluso rapidamente, per non restare escluso dalle
trattative di pace, dichiarò guerra alla Francia e all' Inghilterra.
e) Il disastro finale - Ma le previsioni di Mussolini si
rivelarono ben presto sbagliate. L'Inghilterra resitette, prima sola, poi sostenuta
dagli Stati Uniti d'America intervenuti direttamente nel conflitto. Le
strepitose vittorie di Hitler, che lo portarono ad occupare quasi tutta
l'Europa penetrando fin nel cuore della Russia, non lo salvarono dal disastro
finale.
17
La Resistenza - Il 25 aprile è festa nazionale: si
celebra la Liberazione dai nazisti che erano stati nostri alleati (Patto
d'Acciaio, Asse Roma-Berlino) e non occupavano il territorio italiano
contro la volontà del nostro governo. I nostri soldati combattevano al fianco
delle truppe hitleriane contro gli Alleati (Usa, Gran Bretagna, Francia, Urss):
in Francia, nei Balcani, in Russia e in Nord Africa.
Dopo l'8 settembre 1943 l'alleato
germanico divenne improvvisamente nemico, ma solo per il Regno del Sud: la
Repubblica Sociale rimase fedele al Terzo Reich fino alla fine dei suoi giorni.
L'Italia liberata non fu mai considerata, durante il conflitto, una potenza alleata, ma solo un paese cobelligerante, quindi privo di
uguaglianza giuridica con gli Alleati.
È vero che uno Stato ha
necessariamente bisogno di miti sui quali legittimare e fondare la propria
esistenza. Per la Repubblica Italiana la Resistenza
è mito fondativo, costituente, e come tale storicamente falso.
L'eroica lotta partigiana non fu
mai una guerra di popolo. Essa coinvolse direttamente solo un'esigua minoranza
della popolazione (la stragrande maggioranza degli italiani rimase impassibile
e indifferente). La sconfitta della Wehrmacht in Italia ed il crollo
consequenziale della Repubblica di Salò furono determinate esclusivamente dalla
straordinaria potenza militare dell'esercito americano, molto diffidente, per
ragioni ideologiche, nei confronti del movimento di liberazione italiano.
a) Dall'armistizio alla Resistenza - L'8 settembre del 1943,
l'armistizio tra l'Italia e gli Alleati segnò lo sfacelo dell'esercito italiano
abbandonato dal re, da Badoglio, in quel momento capo del governo, e dal
Comando supremo. Costoro, fuggendo da Roma, si rifugiarono a Brindisi senza
lasciare precisi ordini che coordinassero le operazioni militari contro le
forze tedesche in Italia.
Tuttavia,
mentre i Tedeschi acceleravano l'occupazione della penisola, iniziata dopo il
25 luglio, e deportavano in Germania, in vagoni piombati, i soldati italiani
fatti prigionieri nelle caserme, si manifestavano i primi atti di resistenza
armata da parte di militari che intendevano manifestare concretamente i loro
sentimenti contrari al fascismo e alla guerra da esso voluta.
Ai
militari resistenti si affiancarono, a volte, i borghesi, come ad esempio negli
scontri di Porta San Paolo a Roma. Rilievo particolare ebbe, per il suo
carattere di rivolta di popolo, l'insurrezione antitedesca di Napoli (le
«quattro giornate di Napoli»).
Furono
questi i primi atti della Resistenza, il vasto movimento di insurrezione
popolare che costituì un fenomeno di eccezionale portata nella storia d'Italia,
pari al Risorgimento, anche se ben diverso nelle sue modalità e finalità.
b) I protagonisti della Resistenza – È difficile stendere la storia di un
movimento che si frantumò in molteplici azioni e vicende spesso fra loro
indipendenti. Nel prospetto che segue ne sono indicate le fasi e gli episodi
salienti. Qui è più interessante ricordare che l'azione politica della
Resistenza trovò i suoi organi direttivi nei Comitati di liberazione nazionale
(CLN) costituitisi in tutta la penisola dopo l'8 settembre, nei quali erano
rappresentati i partiti comunista, socialista, democristiano, liberale, il
partito d'azione e il partito democratico del lavoro; e, sul piano militare, nel
Corpo Volontari della Libertà, formazione militare, il cui comando - dopo
l'accordo intercorso tra gli Alleati, il governo italiano insediatosi a Roma
liberata e il CLN Alta Italia - fu assunto dal generale Raffaele Cadorna,
mentre vicecomandanti furono Ferruccio Parri del Partito d'azione e il
comunista Luigi Longo.
L'attività
militare della Resistenza era compito di formazioni partigiane (bande) riunite
in brigate, le quali o si ispiravano ai programmi dei ricostituiti partiti
politici, come le brigate Garibaldi (partito comunista), le brigate Giustizia e
Libertà (partito d'azione), le brigate Matteotti (partito socialista); oppure
erano autonome, cioè non si richiamavano ad alcuna precisa ideologia politica e
si ponevano come unico compito la liberazione del paese da tedeschi e fascisti.
Le
bande partigiane agivano in montagna e nelle zone rurali, mentre, nelle città,
si organizzarono i Gruppi di azione patriottica (GAP), impegnati in azioni di
guerriglia urbana. Si affiancavano a volte le Squadre di azione patriottica
(SAP) che controllavano politicamente le fabbriche e inoltre compivano
sabotaggi nelle campagne.
Al
costituirsi di queste forze di resistenza e di lotta fu di spinta, nell'Italia
centrale e settentrionale, la rinascita del Partito fascista, e, dopo la
liberazione di Mussolini dal Gran Sasso, la costituzione della Repubblica
Sociale Italiana o Repubblica di Salò. Le formazioni resistenti ebbero allora
per nemici non solo gli occupanti tedeschi, ma anche i fascisti loro alleati.
Il conflitto, di conseguenza, si allargò e si esasperò.
Le
azioni della Resistenza furono influenzate dalle operazioni condotte, sul
fronte italiano, dagli Alleati che risalivano la penisola. Con essi la
Resistenza stabilì rapporti di cooperazione, che spesso risultarono difficili a
causa della diffidenza degli Alleati stessi nei confronti di un movimento che,
rifiutandosi di essere puramente militare, manifestava apertamente i suoi scopi
e le sue simpatie politiche.
Elemento
fondamentale e caratterizzante della Resistenza fu il comportamento della
popolazione civile, soprattutto della popolazione rurale e montana, che
solidarizzò coi partigiani e li sostenne nonostante i sacrifici e i rischi che
tale solidarietà comportava.
Altro
elemento che entra a far parte del quadro resistenziale è la solidarietà attiva
della popolazione nei confronti dei perseguitati razziali, con l'accettazione
dei rischi che tale solidarietà comportava: un atteggiamento determinato in
egual misura da naturale pietà e da una più riflessa volontà di ribellione
contro la spietata ingiustizia nazifascista.
c) La Resistenza europea - La resistenza antinazista non fu un
fenomeno esclusivamente italiano. In tutti gli stati europei occupati sorse un
movimento di opposizione ai nazisti, movimento che andò via via ampliandosi col
crescere dell'oppressione, delle mortificazioni e dei sacrifici, dell'odio
verso lo straniero occupante e i connazionali che con lui collaboravano, e col
rafforzarsi della speranza della loro sconfitta finale.
In
Cecoslovacchia, in Polonia, in Francia, in Belgio, in Olanda, in Grecia, in
Norvegia uomini e donne crearono sui loro territori una rete per sostenere
l'azione dei reparti armati, che impegnavano i tedeschi all'interno
costringendoli a distogliere truppe dai fronti di guerra, che interrompevano
con attentati ai convogli i rifornimenti, che disturbavano e inceppavano le
comunicazioni.
Sosteneva
i partigiani e la popolazione che li aiutava oltre al tradizionale
patriottismo, l'opposizione cosciente ad una ideologia che negava tutta la
tradizione culturale europea ed i valori che essa era venuta precisando, primi
tra tutti la libertà ed il rifiuto della violenza come strumento di governo e
quale base dei rapporti internazionali.
La
Resistenza trasformò per i tedeschi l'Europa conquistata in un vasto e infido
territorio da presidiare, tenne viva, anche nei momenti più bui della guerra,
quando le armate naziste sembravano inarrestabili, la fiducia nella vittoria
finale, creò legami di solidarietà che aiutarono gli uomini a vincere l'isolamento
in cui l'occupazione li relegava, portò a dibattere sugli errori passati che
avevano generato la triste situazione presente e a delineare i tratti della
nuova società futura.
d) La Resistenza nella letteratura
e nell'arte - La misura dell'intensità con cui
l'esperienza resistenziale fu vissuta dal popolo italiano è testimoniata dalla
fioritura letteraria e artistica che ad essa si collegò.
Negli
anni successivi alla Resistenza, romanzi, liriche, film, opere di pittura e di
scultura, trassero da essa ispirazione e ne rievocarono e ne testimoniarono, di
volta in volta, i momenti drammatici, dolorosi ed eroici.
Di
ispirazione resistenziale è uno dei più importanti filoni della corrente
artistica che va sotto il nome di neorealismo.
18 Il
difficile equilibrio del dopoguerra: dalla guerra fredda alla coesistenza – Alla fase più acuta della “guerra fredda” fra USA e
URSS segue un periodo, cosiddetto di “coesistenza
pacifica”, nel quale i rapporti fra i
due blocchi politico - militari si distendono. Ciò non significa la fine del bipolarismo, ma un cambiamento di
prospettiva e uno spostamento della “coesistenza”
in tutte le aree del mondo in cui c’è stato un processo di decolonizzazione.
Questo spostamento comporta nuove responsabilità economiche, politiche e
militari per entrambe le parti. Inoltre, entra in causa una nuova realtà:
quella della bomba atomica, posseduta da entrambi gli schieramenti, con rischio
di una possibile guerra nucleare.
In Unione sovietica, alla metà degli anni Cinquanta, a Stalin
subentra Kruscev, che nel XX Congresso del PCUS denuncia i crimini e le stragi
del dittatore. Nei Paesi satelliti il malcontento sfocia in rivolte: la più
grave si verifica in Ungheria (1956) ed è soffocata dall'intervento dei carri
armati sovietici.
Il rapporto fra USA e URSS, dopo le prime aperture ("il disgelo"),
peggiora quando Cuba, trasformatasi in paese socialista dopo una rivoluzione
inizialmente democratica, guidata da Fidel Castro e "Che" Guevara, decide, negli anni sessanta, di ospitare basi missilistiche
sovietiche. In seguito a ciò, il presidente americano Kennedy attua
il blocco navale dell’isola. La decisione di Kruscev di ritirare i missili
attenua infine la tensione. Il periodo della distensione continua fino al punto
da dare inizio ad un nuovo equilibrio: l’equilibrio detto del terrore.
Con la presidenza di Eisenhower
l’economia americana, che aveva avuto una crisi dopo la Guerra Mondiale, aveva
ripreso a crescere a pieno ritmo. Con la presidenza Kennedy, negli anni Sessanta, si ha negli USA una politica di
equilibrio fra tendenza alla coesistenza pacifica e all’espansione statunitense
nelle zone contese dal sistema socialista. Dopo l’assassinio di Kennedy, il cui
mandante è rimasto ignoto, questo tipo di politica viene ripresa dal suo successore
Johnson, che favorisce l’integrazione
razziale dei neri americani (vittima della battaglia è il leader non - violento
degli afroamericani, Martin Luther King,
assassinato a tradimento).
Gli anni Sessanta si chiudono però segnando una crisi, causata
soprattutto dalla guerra del Vietnam.
In Russia, nel decennio, Kruscev attua anche una riforma nel
sistema economico, che prevede un minore controllo dello Stato sulla società,
con l’obiettivo di vincere la competizione economica con gli
USA. Sono gli anni in cui, anche per incoraggiamento di papa Giovanni XXIII, la competizione fra USA
e URSS si sposta dal terreno militare a quello economico e alla gara per le
conquista spaziali (nel 1969 si verifica lo storico sbarco americano sulla
Luna). Tutto ciò però è reso vano dalla salita al potere di Breznev che riporta
la politica russa al passato, ovvero ai tempi di Stalin.
I comunisti cinesi, nel frattempo, avviano una modernizzazione del
Paese con una riforma agraria e lo sviluppo industriale. Leader di questa
modernizzazione è Mao Tse-Tung che, nel tentativo di realizzare un ulteriore
progresso e di battere gli avversari nel Partito comunista, con la “rivoluzione culturale” provoca profondi
danni nella vita economica del Paese. Dopo un decennio di alleanza tra Cina e
URSS, i rapporti fra le due nazioni si allentano fino a rompersi: si verificano
anche scontri armati sui confini. Ciò è dovuto alle differenti idee
sull’interpretazione del marxismo. A partire dagli anni Settanta, la Cina
inizia ad avere rapporti con l’Occidente, in funzione anti-sovietica.
Grazie agli accordi di Yalta
del 1945, l’URSS ha il controllo di una fascia di territorio che le permette di
avere influenza politica su molti Paesi dell’Europa orientale. Ciò, però, non
riesce ad evitare differenze economiche tra i vari Stati del blocco sovietico;
alcuni Paesi, come la Cecoslovacchia e Germania, hanno un apparato industriale
sviluppato mentre, al contrario, i Paesi slavi non ne sono provvisti. Dalla
fine della guerra, l’URSS impone la formazione di regimi comunisti a partito
unico, anche con colpi di stato. Con l’istituzione del Consiglio di mutua assistenza economica , il COMECON, fondato sulla convertibilità del rublo, l’URSS cerca di
contrastare la forza economica del blocco occidentale. Le superpotenza
comunista istituisce inoltre l'alleanza militare del Patto di Varsavia e cerca di tenere testa agli USA orientando la
produzione verso l’industria militare; ciò crea però un grande squilibrio
tecnologico nei confronti degli occidentali e una penuria di beni di consumo.
Negli anni Cinquanta, scoppiano moti insurrezionali nei Paesi del
blocco sovietico in seguito alla destalinizzazione
intrapresa da Kruscev: le rivolte vengono però represse dall’esercito sovietico
( in modo particolarmente sanguinoso quella ungherese del 1956). Il disgelo verso l’Occidente conosce un
altro arresto nel Sessantotto, in seguito alla guerra del Vietnam, che verrà
però infine vinta dai vietcong di
Ho Chi Minh, sostenuti dal Nord
comunista e dalla Cina, nonostante il massiccio intervento (centinaia di
migliaia di uomini) dell'esercito americano.
Nel frattempo, sempre negli anni sessanta, si verifica la
repressione, ad opera dei carri armati sovietici, di un tentativo di riforma
all’interno del regime cecoslovacco, mirante a costruire un “socialismo dal volto umano” durante la “primavera di Praga”, guidata dal
socialista riformista Dubcek. In tale
occasione, per la prima volta, i Comunisti italiani condannano l’invasione
sovietica, prendendo decisamente le distanze dall'URSS e ponendosi alla testa
del cosiddetto "eurocomunismo"
che vuole realizzare il programma comunista all'interno del sistema
democratico.
a)L'immediato
dopoguerra (1945-48) - La guerra lasciava l'Italia in condizioni disastrose: città
distrutte, fabbriche rase al suolo, o inutilizzabili, vie di comunicazione -
strade, ferrovie, ponti - sconvolte dai bombardamenti, la flotta mercantile
decimata, la svalutazione che aveva polverizzato i redditi, la speculazione che
dominava i mercati. I compiti più urgenti erano dunque la ricostruzione
materiale e il rinnovamento politico del Paese che si era liberato dal
fascismo.
La
Resistenza aveva creato il clima morale favorevole per la realizzazione di
questi fini; e la volontà di creare una società più giusta si traduceva in una
larga e appassionata partecipazione delle masse alla vita del Paese, nella loro
fiducia ormai radicata di essere le protagoniste di questa trasformazione.
Il
momento culminante di questa fase fu la formazione del governo presieduto da
Ferruccio Parri, il capo della Resistenza, cui parteciparono tutti i partiti
che avevano fatto parte del Comitato di liberazione nazionale o C.L.N.
(giugno-dicembre 1945). Si trattò di un breve momento: la caduta del governo
Parri segnò l'inizio della crisi della linea di unità nazionale e, nel
contempo, dell'impegno per le grandi riforme strutturali della società
italiana.
b) La proclamazione della
Repubblica - Il più vistoso risultato della
tendenza al rinnovamento fu la proclamazione della Repubblica (2 agosto '46),
cui si pervenne mediante un referendum popolare (per la prima volta votarono
anche le donne). Aveva così fine la monarchia dei Savoia, il cui ultimo re,
Umberto II, si ritirava in esilio.
c) La promulgazione della nuova
costituzione
- La
caduta del fascismo imponeva un nuovo assetto costituzionale, che riflettesse
l'autentica fisionomia del paese, nel quale si erano manifestate nuove spinte
politiche, sociali ed economiche.
Inoltre
la nuova costituzione doveva essere non più concessa dall'alto, come lo Statuto
albertino, ma doveva essere elaborata da organi eletti dal popolo.
Doveva
inoltre offrire garanzie contro la minaccia di regimi totalitari, ed essere
perciò rigida (e non già flessibile come lo Statuto albertino), non
modificabile cioè se non attraverso una legge costituzionale, per
l'approvazione della quale era richiesta una particolare procedura.
Per
elaborare la nuova Costituzione, contemporaneamente al referendum istituzionale
(monarchia o repubblica) venne eletta l'Assemblea Costituente. Essa si riunì
per la prima volta il 25 giugno 1946; nominò capo provvisorio dello Stato il
senatore Enrico De Nicola che avrebbe esercitato le sue funzioni sino a che
fosse stato possibile nominare un presidente della repubblica secondo le norme
che la Costituzione avrebbe formulato. Affidò a una commissione interna di 75
membri il compito di preparare un progetto di costituzione, che tutta
l'Assemblea discusse in sedute plenarie e approvò infine nella seduta del 22
dicembre 1947.
La
nuova Costituzione repubblicana entrò in vigore il 1° gennaio 1948.
d) La ricostruzione - Tra il '45 e il '50, posto un freno
all'inflazione grazie anche agli aiuti americani, in particolare tramite il
cosiddetto Piano Marshall, iniziò, sotto i governi di De Gasperi, leader del
partito democristiano, una febbrile opera di ricostruzione. La riattivazione
delle vie di comunicazione e dei servizi e la ricostruzione edilizia
consentirono la ripresa economica, che renderà possibile, qualche anno più
tardi, il cosiddetto «miracolo economico».
Sempre
in questo periodo, per favorire l'agricoltura, particolarmente nel Sud, venne
realizzata una parziale riforma agraria, mentre l'istituzione di una Cassa del
Mezzogiorno doveva fornire le basi finanziarie per gli altri interventi a
favore del Meridione.
e) Il miracolo economico - Fra il '50 e il '61 si ebbe, più
che una espansione, un vero e proprio salto qualitativo dell'economia italiana.
Basti
pensare che il reddito pro capite in Italia si è triplicato tra il 1861 e il
1961, ma che più della metà dell'incremento si è verificato negli anni
1951-1961.
Questo
«miracolo economico» fu innanzitutto favorito dalla larga disponibilità di
manodopera che, abbassando i costi di produzione, rese concorrenziali i
prodotti italiani sui mercati esteri che avevano larga possibilità di
assorbimento.
La
ricchezza che si costituì creò anche un vivace mercato interno e si elevarono
le condizioni di vita delle masse lavoratrici. La società italiana cambiò
aspetto, allineandosi con quelle dei grandi paesi industriali europei. La
motorizzazione sulle strade e l'ingresso degli elettrodomestici e dei mezzi di
telecomunicazione (telefono, radio, televisione) nelle case costituirono due
degli aspetti più vistosi di questo cambiamento.
Le
nuove esigenze di vita che si verificarono furono di stimolo alle masse
lavoratrici per richiedere e conseguire retribuzioni sempre più adeguate. I
sindacati furono i grandi organizzatori delle lotte rivendicative di questi
anni e finirono con l'acquisire un peso politico notevole, perché, andando al
di là delle pure rivendicazioni salariali, si preoccuparono di tutti gli
aspetti della condizione operaia nella fabbrica e fuori.
Per
far fronte alle nuove esigenze dell'industria fu riorganizzato l'IRI (Istituto
per la ricostruzione industriale) e fu costituito l'ENI (Ente nazionale
idrocarburi).
Con
la riorganizzazione dell'IRI si volle creare uno strumento per la ricostruzione
di aziende che lo Stato aveva assunto in proprio, totalmente o parzialmente, ai
fini di attuare una strategia dell'occupazione rispondente ai bisogni del
Paese; con la costituzione dell'ENI si intese mettere a disposizione dello
Stato un organismo che operasse ai fini nazionali nell'importantissimo campo
della ricerca e dello sfruttamento dei pozzi petroliferi.
f)L'emigrazione interna - La
disponibilità di manodopera per l'industria derivò anche da un flusso
migratorio verificatosi dalle regioni più povere, specie del Sud, a quelle
maggiormente industrializzate e ricche di opportunità di lavoro. Fu un largo
muoversi di masse (si spostarono circa 15 milioni di abitanti) secondo queste
linee: dal Sud al Nord, dalla montagna alla pianura, dalla campagna alla città.
Una delle conseguenze fu l'enorme espansione dei centri urbani, in particolare
di quelli situati nel cosiddetto triangolo industriale che ha per vertici
Milano, Torino, Genova.
L'altra
faccia di questo fenomeno fu l'abbandono della campagna, conseguenza anche del
fatto che il problema della razionalizzazione dell'agricoltura non fu
adeguatamente affrontato.
g)L'emigrazione
esterna - Nonostante l'espansione
dell'economia italiana non si crearono posti di lavoro sufficienti; molti
lavoratori furono costretti ad emigrare all'estero. Contrariamente
all'emigrazione prebellica, i Paesi verso i quali questo flusso (circa cinque milioni)
prevalentemente si diresse furono quelli europei: Svizzera e Germania in
particolare. L'alto tenore di vita di questi Paesi riservava agli italiani i
posti di lavoro meno qualificati, disdegnati dai locali.
h)L'Italia
e la Comunità europea
- Il commercio
con l'estero che contribuì al «miracolo economico», fu favorito dalla maggior
liberalizzazione degli scambi commerciali fra le varie nazioni, cui tenne
dietro prima la costituzione della Comunità europea del carbone e dell'acciaio
(C.E.C.A., 1951), successivamente l'ingresso dell'Italia nel Mercato comune
(M.E.C., 1957). Era l'avvio all'auspicata unione europea che, tra l'altro, si
proponeva di trasformare il nostro continente in una grande potenza che si
ponesse come terza forza tra i due blocchi che si erano costituiti a seguito
della «guerra fredda»: quello statunitense e quello sovietico. Questa idea fu
sostenuta da uomini come De Gasperi per l'Italia, Schuman per la Francia,
Adenauer per la Germania, Spaak per il Belgio.
Sul
piano dell'unificazione europea, però, non si andò al di là della creazione di
alcuni istituti di scarsa efficacia, come il Consiglio d'Europa (1949), e al di
là del progetto di un esercito comune europeo, la Comunità europea di difesa
(CED, 1952) che, anche a seguito della mancata ratifica francese, non poté
essere attuato.
i)La
guerra fredda
- Alla
fine della seconda guerra mondiale le reciproche diffidenze degli Alleati e i
loro contrasti per le proprie zone d'influenza portarono ad una tensione carica
di minacce, la cosiddetta «guerra fredda».
Si
erano costituiti due schieramenti antagonistici che avrebbero successivamente
formato due blocchi: quello del Patto Atlantico (1949), nel quale erano
raccolti, attorno agli USA, i Paesi dell'Europa occidentale, e che ebbe la sua
organizzazione militare nella NATO; e il blocco del Patto di Varsavia (1955)
cui aderivano, attorno all'URSS, i Paesi dell'est europeo. Solo il possesso
delle armi atomiche da parte di entrambi i blocchi impedì lo scoppio di
un'altra guerra di grandi proporzioni, mantenendo un precario equilibrio detto
«l'equilibrio del terrore», perché solo il terrore di un'immediata ritorsione
sconsigliava gli avversari dall'intraprendere qualunque azione offensiva.
Ciò
non impedì, però, lo scoppio di guerre locali in cui le due grandi potenze, USA
e URSS, non si scontrarono direttamente, ma fecero, per così dire, la guerra
per interposta persona: la guerra di Corea (1950), in cui gli Americani
sostennero la Corea del Sud, filoccidentale, contro la Corea del Nord, comunista,
sostenuta a sua volta dai Sovietici, e che costò 2 milioni di caduti
complessivamente fra i due stati.
In
Europa la situazione di Berlino, e il muro costruito nel 1961 dai Tedeschi
orientali che divideva la città in due parti (da una parte le tre zone amministrate
da Americani, Inglesi, Francesi; dall'altra la zona amministrata dai Sovietici)
rimase il simbolo tangibile di questo contrasto.
l) Conseguenze
della guerra fredda sulla politica italiana - Il più evidente riflesso della
guerra fredda in Italia fu la già ricordata rottura dell'unità nazionale che
portò all'esclusione dal governo dei partiti della sinistra (P.S.I. e P.C.I.)
esclusione avvenuta col quarto governo De Gasperi (maggio 1947).
È
una situazione che caratterizzerà il panorama politico italiano per molti anni,
sino alla costituzione del primo governo di centrosinistra, quando il P.S.I.
rientrerà nel governo (1963).
Conseguenza
della nuova linea politica fu l'incondizionata adesione dell'Italia al Patto
Atlantico e alla sua politica, e l'abbandono della tesi neutralistica, che era
stata predominante nei governi del C.L.N. e di unità nazionale.
Nel
periodo '48-'62, che si definisce del centrismo, la politica italiana fu
dominata senza contrasti dalla Democrazia cristiana, che aveva conseguito la
maggioranza assoluta nelle elezioni del '48. Essa, nella formazione dei governi
che si successero, si alleò con liberali, repubblicani e socialdemocratici
(Quadripartito). Il partito socialdemocratico era nato dalla scissione avvenuta
all'interno del Partito Socialista (gennaio '47), in connessione con il clima
della guerra fredda e con la decisione di allineare l'Italia alla politica
americana.
La
politica del Quadripartito risentì molto dell'influenza delle grandi forze
economiche, per cui, anche se vennero avviate, non senza gravi compromessi,
alcune riforme, in realtà risultò favorita la ristrutturazione del settore
industriale, mentre rimasero insoluti molti problemi di politica sociale.
m) Il
disgelo - La morte di Stalin (5 marzo 1953)
avviò un processo di distensione fra i due blocchi, il cosiddetto «disgelo».
Kruscev, successo a Stalin, al XX Congresso del Partito Comunista Sovietico
(1956) denunciò il culto della personalità e i metodi terroristici usati dal
suo predecessore, e nello stesso tempo si dichiarò favorevole a una politica di
distensione. Essa fu resa possibile anche dalla linea politica scelta dal
presidente degli Stati Uniti, John Kennedy, e dal nuovo spirito di dialogo con
tutti i Paesi del mondo, non esclusi i Paesi comunisti, introdotto nella Chiesa
cattolica da papa Giovanni XXIII.
n) Conseguenze
del disgelo in Italia: il centrosinistra - Alla
fine del '62 il Quadripartito non rispondeva più alle mutate esigenze
economiche, politiche e sociali del Paese. I tempi erano maturi per una nuova
soluzione di governo: il centrosinistra, l'incontro cioè tra le masse
cattoliche e quelle socialiste, rappresentate rispettivamente dalla D.C. e dal
P.S.I.. Il clima internazionale di distensione favorì questa svolta che fu
facilitata anche dalla rottura del Patto d'unità d'azione fra socialisti e
comunisti.
Il
centrosinistra, ai cui governi parteciparono anche il P.S.D.I. e il P.R.I.,
fece risorgere le speranze che finalmente sarebbero state varate le riforme di
struttura indispensabili al rinnovamento della società italiana. E la partenza
fu buona: si procedette alla nazionalizzazione dell'industria elettrica e alla
riforma della scuola media. Però ben presto le frizioni esistenti all'interno
dei partiti che costituivano il centrosinistra portarono ad un immobilismo, che
contribuì ad esasperare le tensioni sociali; le quali, del resto, trovarono la
loro base nella maggior forza contrattuale acquisita dalle classi lavoratrici,
cui non corrispondeva l'attesa evoluzione democratica e sociale delle istituzioni.
o)La riforma scolastica - Una delle scelte che ebbe e avrà in
futuro la maggior incidenza sulla elevazione civile della società italiana fu
l'estensione del limite dell'obbligo scolastico al quattordicesimo anno d'età,
con la conseguente istituzione della cosiddetta Scuola media. In tal modo non
solo tutta la nuova popolazione (e non più soltanto una esigua minoranza di
essa) fruiva di tre anni in più di istruzione e di educazione, ma aveva modo di
avvicinare una forma più articolata di sapere. Le indicazioni programmatiche
della scuola ne sottolineavano il valore prevalentemente formativo alla vita
civile. Negli anni successivi, l'istituzione della scuola media portò ad una
rapida espansione anche delle Scuole medie superiori. Il problema annoso della partecipazione
delle masse alla vita pubblica - partecipazione che richiede un minimo di
preparazione culturale - veniva avviato alla soluzione.
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