Mario Sironi nacque a Sassari nel
1885 da una famiglia di origini lombarde e trascorse la sua giovinezza a Roma,
dove i genitori si erano trasferiti nel 1886.
Il 1898 fu l’anno del primo grande
dolore della sua vita, infatti, in seguito ad una malattia polmonare, suo padre
morì, mentre sua madre aspettava il sesto figlio: fu una circostanza grave che sua
madre Giulia riuscì a superare anche grazie all’aiuto economico di suo fratello
Libero.
Nel frattempo Mario, dopo aver frequento l’Istituto tecnico di
San Pietro in Vincoli, si diplomò nel 1902 e, seguendo le orme paterne, iniziò
gli studi universitari, iscrivendosi alla Facoltà di Ingegneria all’Università
di Roma, dove si interessò in modo specifico allo studio della matematica.
Nel 1903, Sironi si ammalò di una
forma di depressione, una malattia che è fondamentale per comprendere
meglio la sua opera, e per la quale fu costretto ad un lungo periodo d’inattività
da cui uscì con la ferma determinazione di dedicare tutte le sue energie alla
pittura.
Attratto dal vivace ambiente
culturale romano, Sironi, abbandonati definitivamente gli studi d’ingegneria,
cominciò a seguire i corsi della Scuola Libera del Nudo, presso l’Accademia
delle belle arti di Via Ripetta, dove conobbe Roberto Melli (1885 – 1958) e soprattutto Giacomo Balla (1871 -
1958) che godeva largo seguito in quegli anni nell’ambiente dei giovani artisti
romani e che lo introdusse presso i suoi amici, Umberto Boccioni (1882 – 1916) e Gino Severini
(1883 – 1966), con cui Sironi condivideva lo spirito innovativo, la
rappresentazione avveniristica e la sperimentazione di tecniche divisioniste
che egli stesso utilizzava in quel periodo.
Divenuto molto amico di questi
pittori, essi lo convinsero ad aprire un suo studio nel centro di Roma, mentre
altri amici e parenti lo aiutavano a sbarcare il lunario, procurandogli piccole
commesse, come quella d’illustratore presso La lettura che Sironi non
amò particolarmente, anche se egli dovette fare di necessità virtù. In casa di
sua madre, Sironi radunò, grazie anche alle doti pianistiche di sua sorella
Cristina, molti degli artisti ed intellettuali conosciuti fra l’Accademia
e la terza saletta del Caffè Aragno in via del Corso, uno dei più famosi ritrovi artistici,
frequentato da letterati e pittori che Orio
Vergani nel 1938 definì il «sancta sanctorum della
letteratura, dell’arte e del giornalismo».
In questo primo periodo, Sironi, pur
mantenendo saldi legami con la pittura più squisitamente realista, si dedicò
allo studio del divisionismo. Del 1905 è il ritratto di La madre
che cuce, dove è evidente la presenza di questa tendenza pittorica.
Fra il 1905 ed il 1906, Sironi, per
continuare il suo percorso artistico, si trasferì a Milano, ospite di suo
cugino Torquato, cui diciottenne aveva scritto un’indicativa lettera nella
quale manifestava la volontà di fare dell’arte la sua religione e la sua vita:
era il primo segnale di una ferma intenzione di proseguire per quella strada, l’unica
che sembrava appagarlo. Torquato lo aiutò anche concretamente, elargendogli una
sorta di borsa di studio.
Sironi,
però, continuava a non stare bene: con lo stesso Boccioni viveva un rapporto
conflittuale, senz’altro dovuto alle forti personalità di entrambi. Pare in
ogni caso che Sironi abbia raggiunto l’amico a Venezia in un soggiorno del
1907.
Nel
1908 Sironi compì un viaggio, forse con Boccioni, a Parigi e poi ad Erfurt in
Germania, ospite dello scultore Tannenbaum che aveva in precedenza conosciuto a
Roma al Caffè Aragno. Un secondo soggiorno a Erfurt avvenne inoltre sempre
nel 1908 durante il quale Sironi fece pervenire sue notizie alla madre,
rasserenandola sul suo stato di salute.
Nel 1909 Sironi era a Roma ancora in
contatto con Balla e, disgustato dall’incomprensione dei suoi maestri e sempre
più attento allo sviluppo delle teorie futuriste, dal 1910, si buttò con
passione nel vivo del dibattito futurista, dispiegando la sua vena polemica.
Al 1911
risale il terzo ed ultimo viaggio in Germania, più una fuga da chi, compresa la
madre, lo riteneva maturo per la casa di cura. Tornato in Italia nel 1912, la
ricerca pittorica di Sironi si accostò sempre più a quella di Balla e di
Boccioni, al loro divisionismo, benché egli tendesse ad evidenziare una
visione, rispetto a loro, più legata ai volumi che alle geometrie piane.
Già nel
1913 Sironi si era legato allo stile futurista di Umberto Boccioni e, sebbene
considerato uno dei dirigenti del movimento futurista, Sironi ne rimase
defilato, sempre autonomo, poiché la sua pittura, nonostante l’impiego di
elementi riconducibili alla sintassi futurista, non rifletté mai pienamente l’euforia
cromatica e l’ardore dinamico del futurismo cui contrappose un suo personale
itinerario cromatico, restando piuttosto piegato all’indagine drammaticamente
solitaria delle tensioni morali. Il suo temperamento creativo rimase lontano
tanto dalla precarietà emotiva della rivoluzione futurista quanto dall’analitica
scomposizione cubista.
Anche
nello stile di vita Sironi evitò i clamori e le esuberanze degli altri
futuristi contrapponendo a loro una vita quotidiana vissuta con grande
sobrietà, modestia e solitudine.
Sironi
era imbevuto dalla scuola di pensiero tedesca, dalla musica di Wagner, dal
mondo di Nietzsche e da quello di Shopenhauer, sintetizzando tutto ciò nella
geometria di colori e nella solidità dell’esistenza moderna, incarnata
negli aerei, nelle macchine e nei camion, argomenti molto ricorrenti nella sua
pittura.
Il 1914 è l’anno dell’interventismo,
ma anche l’anno in cui, nella Galleria
Permanente Futurista di Sprovieri
a Roma, si tengono le prime mostre dei futuristi e, nell’aprile-maggio, Sironi
fu presente all’Esposizione libera futurista, comprendente anche pittori
non direttamente coinvolti, con una serie di sedici dipinti. Sempre nel 1914,
Sironi conobbe Matilde Fabbrini, la sua futura moglie.
La fine del 1914 e l’inizio del 1915
segnarono un importante sviluppo nella vita di Sironi, giacché l’artista iniziò
a prestare la sua collaborazione ai due periodici di La Tribuna, Noi
e il mondo e La Tribuna illustrata.
All’inizio del 1915, Sironi, in
aperto dialogo con il futurismo, si trasferì definitivamente da Roma nella
Milano dell’anteguerra su invito di Boccioni.
L’incontro di Sironi con Margherita
Sarfatti risale al 1915: Boccioni, molto amico della Sarfatti, introdusse
Sironi nel vivace ambiente culturale e artistico milanese. Il Ritratto di
Margherita, eseguito da Sironi nel pieno svolgimento del suo periodo
futurista, mostra tuttavia il ricorso ad uno stile prefuturista.
Nel frattempo, il fidanzamento con
la Fabbrini era diventato ufficiale. Alla fine di marzo, Marinetti lo inserì
fra i dirigenti del Futurismo, felice di aver potuto rimpiazzare l’uscita
di Ardengo Soffici con "un ingegno
almeno cento volte superiore".
Sironi, come tutti i futuristi,
assunse posizioni interventiste nella Grande guerra e si arruolò tra i Volontari
ciclisti del Battaglione lombardo, con Marinetti, Boccioni, Russolo,
Carlo Erba, Funi e Sant’Elia. Ai primi di giugno, essi partirono per Gallarate
e poi per Peschiera da dove si spostarono fino a Malcesine: ma, alla fine dell’anno,
dopo una vittoriosa operazione militare, il Battaglione lombardo fu
smobilitato e Sironi, che ne aveva fatto domanda, partì per il Corso Allievi Ufficiali del Genio tenuto
a Torino; ne uscì sottotenente a metà del 1917, destinato a Pieve di Cadore. In
questa zona Sironi rimase dislocato con l’VIII Corpo d’Armata, fino alla fine
della guerra.
Anche
dal fronte Sironi continuò la sua opera di collaborazione con i periodici e
cominciò a collaborare anche con la rivista Avvenimenti di Umberto Notari, nella quale, dal 1915 al
1917, cercò di dare alla guerra tutto il sapore, l’ardore, la parvenza di un
fatto nuovo e sicuramente decisivo per il futuro dell’Italia e dell’Europa
intera. Ancora più essenziale fu la collaborazione, dal 1914 al 1915, su Noi
e il mondo, con un disegno per il Mantello di Socrate di Alfredo
Panzini e proseguita da sessantasette illustrazioni; il suo lavoro alla rivista
si concluse con la realizzazione dell’unica copertina da lui proposta nell’arco
di circa tre anni.
La grossa parentesi su Noi e il
mondo mostra emblematicamente il particolare percorso di Sironi dal
prefuturismo al futurismo, partendo dalle splendide tempere nel 1912 fino alle
anticipazioni classicheggianti che l’artista divulgò dagli anni Venti in poi,
passando in sostanza da un’ispirazione di tipo russa nel 1914, ad un periodo di
forti accenti in cui i temi italiani d’avanguardia scavalcarono anche le
tendenze secessioniste, sperimentate parallelamente agli stimoli provenienti
dall’est.
Il 1° gennaio del 1919 Sironi era a
Vittorio Veneto e, quando alla fine della guerra rientrò a Milano, nel luglio
del 1919, sposò a Roma Matilde Fabbrini, da cui avrebbe avuto due figlie, Aglae
e Rossana.
Sironi, però, che nell’ideale
politico interventista aveva pienamente condiviso i futuristi, nel suo lavoro,
non condivise mai pienamente il dinamismo delle loro immagini e neppure la
frammentazione dei cubisti, contrastanti con la sua naturale inclinazione verso
forme solide, compatte e monumentali, pertanto Sironi si accostò cautamente verso
temi metafisici, trattandoli comunque nella solita personalissima maniera, con
le figure più che mai scandite nei vigorosi chiaroscuri, tanto da avvicinarlo
più ad alcuna pittura nordica tedesca, vicina a Georg Grosz (1893
– 1959)
o Constant Permeke (1893 – 1959), che alla
pittura nitida e pulita di Giorgio De
Chirico (1888
–1978).
Negli anni del primo
dopoguerra Mario Sironi transita
da una pittura di violente spezzature plastiche a una, di volumi compatti,
definiti da una luce drammatica e tagliente. Questo transito avviene attraverso
una breve stagione, che, per comodità e con qualche forzatura, è definita metafisica.
La poetica metafisica non fu
certamente cercata da Sironi, era forse nell’aria, carpita forse anche in
seguito al ritorno all’ordine che si avvertì in Europa
prima sommessamente poi più imperiosamente negli anni dell’immediato
dopoguerra. Di sicuro alcuni tratti stilistici che ricordano questa convergenza
spirituale si possono riscontrare al di là del primo Sironi che è stato
futurista e che pure nel firmare il "Manifesto
contro tutti i ritorni" aveva criticato la metafisica.
Sta di fatto che questo biennio è il
più misterioso di tutta la sua produzione.
Al periodo
metafisico di Sironi sono legati
alcuni dei suoi capolavori e una splendida serie di disegni. In pochi, decisivi
quadri Sironi definisce quella poetica di tragica rappresentazione della
condizione umana attraverso il conferimento di un’intrinseca monumentalità alle
più comuni presenze quotidiane.
Nei suoi quadri e nei suoi disegni fra
il 1919-1920, enigmatiche figure esibiscono il loro status di manichini e, insieme, la condizione di una dolente
umanità; i richiami alla tecnologia meccanica contemporanea convivono con una
crescente volontà classicista; in gelidi interni si addensano presenze cariche
di tensione.
Nell’ottobre del 1919, Sironi espone
la sua prima mostra personale a Roma alla storica Casa d’Arte Bragaglia
in Via Condotti, commentata, con qualche polemica, da Mario Broglio su Valori
Plastici, periodico ideato
e promosso dallo stesso Broglio a Roma, come espressione dell’omonimo movimento
figurativo.
Le
opere presentate da Bragaglia hanno un’impostazione già quasi metafisica, quindi, la mostra ufficializza nel 1919 la fase più
propriamente metafisica di Sironi, quella in cui l’artista medita quasi
esclusivamente sul tema del manichino, da sartoria o da studio di artista,
elemento tipico dell’iconografia metafisica insieme alla statuaria antica, e
proprio sulla mescolanza ibrida tra statua, manichino e figura umana si basa
una delle migliori strategie di straniamento. Ma i manichini di Sironi,
diversamente dagli aedi e vaticinatori atemporali del grande metafisico De
Chirico, sono immanenti nell’umano e nell’attuale, calati in una concretezza
drammatica e in un afflato patetico che non ha riscontri in altri artisti del
periodo; diversamente da Carrà, in Sironi temi ed elementi metafisici
appaiono già in diverse opere futuriste: ai manichini Sironi affianca talvolta elementi meccanici, come in L’Atelier delle Meraviglie, La ballerina e La lampada, oppure cavalli, o ancora nature morte – dando origine a
composizioni assolutamente peculiari per concretezza e drammaticità.
Nello splendido Atelier
delle Meraviglie della Pinacoteca di
Brera, ad esempio, Sironi costruisce una
scenografia di elementi meccanici e moderni
non nel febbrile dinamismo di una città industriale, ma nell’atmosfera
dalla realtà immota e sospesa di una stanza
e svela non solo la meccanicità e la modernità dell’epoca nuova, ma il
dinamismo della città industriale.
Del
1919 è anche un altro dipinto famoso, La lampada, un interessante quadro
in cui il pittore propone il tema del manichino, tanto amato da De Chirico con
la differenza che mentre quest’ultimo attribuisce alle sue figure un
ruolo immobile e fantastico Sironi resta ancorato alle realtà dando al
protagonista del soggetto un ruolo tragico e immoto, quasi bloccato nella sua
esistenza, squilibrando così il messaggio naturale della metafisica ufficiale.
Questa è la peculiarità della metafisica di Sironi: sebbene De Chirico rimanga
lo spirito metafisico per eccellenza, insieme ad Alberto Savinio, questa
corrente fu molto variegata per le grandi personalità che l’accostarono quindi Carrà
visse la metafisica con minore attenzione intima e più ordine formale, Morandi
poeta del quotidiano, trovò una dimensione metafisica dimessa e sublime,
fragile ed eterna, come avvolta in un silenzio e in una solitudine e De Pisis
si affidò a sue forme e figure libere, aeree, quasi impalpabili.
Nel dipinto di Sironi la lampadina montata sotto il lume,
piccolo totem della vita moderna tanto celebrato dai futuristi come «sole elettrico dell’avvenire», appare
inquietantemente spenta. Eppure barbagli indecifrabili si diffondono furtivamente
lungo il profilo del manichino da sartoria, in piedi sui tacchi delle scarpe,
un mostro dalla natura ambigua che di umano ha l’ombelico, l’orecchio e i
capelli, mentre allunga una mano inumana verso la lampadina. Barbagli di luce rimbalzano
sulla piramide in bilico sul tavolo. L’ambiente del quadro è in penombra mentre
alcuni oggetti sembrano brillare di luce propria, animandosi di colori preziosi
e nello stesso tempo segreti. Misteriosi intrecci cromatici li legano gli uni
agli altri, come il giallo della piramide che sembra riflettere sulla coscia
sinistra e su un pezzo, il più nascosto, del busto, il verde smeraldo del
tavolo tinge le calze del manichino e si raccorda col rosso rubino dell’altra
metà del busto del manichino. Un gioco luminoso audace tra cupezza e fulgore. È
l’interno metafisico per eccellenza, il più metafisico che l’artista forse
abbia mai dipinto.
L’atelier delle
meraviglie e La lampada sono forse le due opere
più note e più indicative di questa stagione, e sono anche due sicuri
capolavori della pittura italiana del Novecento. La loro interpretazione è,
allo stato degli studi, problematica. Si può leggere qualcosa nell’intrico di
indecifrabili volumi dell’Atelier? Che cosa ci fa un manichino femminile dai
tratti androgini, in guepière e tacchi alti, in un interno di dimessa
domesticità, in dialogo con un tavolo verde e una lampada a saliscendi?
Alla luce
delle informazioni delle radiografie, le due opere appaiono in stretta
relazione con il clima culturale quindi più specificamente della letteratura e
del teatro e con la discussione artistica, tra l’Italia e l’Europa, di quegli
anni densissimi.
Sempre del 1919 è La
ballerina delle Civiche Raccolte
d’Arte a Milano: incastonata sulla tela nella tecnica futurista del collage
il soggetto, anch’esso di tradizione futurista, è trasformato in un automa
meccanico, un manichino, elemento
metafisico per eccellenza.
La metafisica non è solo una questione d’atmosfera immota e
atemporale, ma è specialmente identificabile in una rassegna di oggetti tipici
e il repertorio metafisico di Sironi, oltre al manichino, esibisce Il Cavallo bianco dipinto nel 1919 oggi
al Museo Guggenheim di Venezia, in cui il manichino ha una sua concretezza drammatica. Il dipinto apparentemente sembra banale per l’evidenza
del tema, ma in realtà cela molte più cose di quelle che lascia intendere al
primo sguardo.
La parte superiore del dipinto ricorda Composizione con elica nel disordine secondo lo stile fortemente
spezzato cubo-futurista. La metà inferiore, che racchiude il nudo e il cavallo,
evidenzia una qualità narrativa ed enigmatica che tradisce la simpatia di
Sironi per la pittura metafisica di Giorgio De Chirico e di Carlo Carrà. La
sensazione di trovarsi in un contesto urbano stranamente popolato di figure
mitologiche richiama l’atmosfera inquietante della pittura metafisica. Che cosa
sono, per esempio, quegli strani solidi geometrici ammassati in un cumulo
disordinato sullo sfondo? Dalle radiografie è emerso che sotto l’intero quadro
che si vede ora, c’era un vecchio collage geometrico futurista piuttosto simile
a quella composizione di solidi. Sironi decise di cancellarlo dipingendoci
sopra un nuovo pensiero: era il 1919, l’anno in cui cominciò ad abbandonare la
scomposizione dinamica dell’immagine futurista per guardare agli artisti che
rifondavano i «valori plastici», cioè i volumi, delle figure. De Chirico era
fra questi e un’eco delle sue colonne, archi e manichini torniti si percepisce
con molta evidenza, per esempio, nella gamba sinistra del cavaliere del dipinto
di Sironi. Ma la complessità del quadro va ancora oltre tali questioni formali.
Sironi sta passando dall’adesione all’avanguardia al suo rinnegamento. Ma non lo
fa proponendo modelli nostalgici come De Chirico, che all’epoca stava
consolidando la sua Metafisica a Roma. Il suo cavallo con cavaliere non ha
nulla del monumento celebrativo, è piuttosto un’immagine che capovolge la
dimensione eroica del soggetto. Sironi non usa la coppia cavallo-cavaliere per
guardare al mito, ma per fotografare il suo tempo, quell’inizio di secolo in
bilico fra modernità e vecchi valori, fra un mondo ancora rurale, ma in marcia
verso l’industrializzazione. Un’Italia dove la maggioranza della popolazione
viveva ancora nelle campagne, anche se le periferie delle città cominciavano ad
estendersi per accogliere nuovi abitanti e lavoratori. Dietro il cavallo bianco
in primo piano dal sapore arcaico e antieroico, quel cumulo di solidi geometri
nasconde la sagoma sintetica di un motociclista visto da dietro. Sopra la testa
del cavallo, dipinti con rapidi segni bianchi, si riconoscono la forcella, la
ruota posteriore, la sella del passeggero e il manubrio e il dorso, il braccio,
la gamba e la testa del motociclista. A sinistra si riconoscono la coda e il
timone di un aeroplano.
Un
altro capolavoro è la Venere dei Porti
delle Civiche Raccolte d’Arte a
Milano, un’opera che attesta la fase di passaggio tra le esperienze
tardofuturiste e l’incipiente approccio alla pittura metafisica, riconoscibile nell’imponente
figura femminile simile a un manichino da sartoria. Erroneamente attribuita per
consonanze stilistiche alla produzione degli anni 1914-15, la Venere dei porti è stata in seguito
posticipata al 1919, sulla base della data riportata dal giornale La tribuna di cui è costituito il
collage.
Sola, ritta e irrigidita in un busto giallo; i tacchi alti e
il volto misterioso, coperto da un’ombra profonda. Che cosa fa quella donna in
piedi su un molo deserto, in una notte senza luna? Forse è la fidanzata di un
marinaio, forse la moglie di un pescatore o forse una prostituta in attesa
dell’ultimo cliente. Il soggetto della
Venere non ritrae un personaggio reale, ma simboleggia la donna che il marinaio
trova in ogni porto, una figura ideale, simbolica, monumentale, che non ha
nulla di romantico e riflette il paesaggio portuale circostante, che rimanda
alle periferie urbane industriali, con le loro atmosfere deserte. Quella donna misteriosa è una dea moderna: futurista
nel collage di giornali che costruisce il suo corpo; metafisica e cubista nei
volumi geometrici che la rendono simile a un manichino.
L’opera
è il risultato di una lunga rielaborazione. Sironi ha scelto di servirsi vari tipi
di carta diversa, giornali, pagine di libri, carta da spolvero e cartoncino,
incollati gli uni sugli altri in vari strati, sui quali l’artista è intervenuto
a tempera con pennellate spesse, molto materiche, facendo uso di una gamma
cromatica scura, ridotta al minimo, una gamma cromatica a lui cara che si ritroverà
anche nelle opere successive. I frammenti, in tre lingue, sono funzionali al
tema: descrivono testi tecnici o d’economia di settore che richiamano l’idea
del commercio. L’opera è stata poi intelaiata per realizzare una robusta
composizione plastica.
Esami
approfonditi, fotografie a luce radente e radiografie, hanno evidenziato sotto
il collage e la pittura a tempera, tracce di una figura maschile, ipotizzando
una precedente stesura, riutilizzata in seguito dall’artista insoddisfatto
della prima versione.
Sironi era stato il primo degli artisti futuristi a fare dell’aeroplano
un soggetto autonomo, ma lo rappresentò per lo più schiantato a terra. Così
come le periferie industriali, di cui diverrà il pittore per eccellenza proprio
dal 1919, saranno per lui luoghi solitari, tristi, alienanti e statici, il
contrario dell’energica Città che sale
di Boccioni.
L’ondata della modernizzazione fra il 1896 e il 1907 aveva
visto nascere la Fiat nel 1899, la Lancia nel 1906 e l’Alfa nel 1910, ma il
cavallo e la bicicletta restavano ancora i mezzi di trasporto più diffusi. L’Esposizione Universale ospitata a Milano
nel 1906 lanciava l’immagine dell’Italia come una vetrina del progresso, ma la
mitologia della Belle Epoque, fondata
sul culto della velocità, conviveva ancora con una Milano che appena fuori
dalle mura spagnole era ancora tutta circondata da risaie.
L’Italia che si andava illuminando con l’elettricità era la
stessa dei carusi che in Sicilia erano venduti per lavorare nelle miniere, delle
donne che raccoglievano ancora le fascine per il fuoco. Sironi vive drammaticamente
questo passaggio italiano e ne sente la malinconia più che l’energia. Non è un
ottimista e i suoi colori scuri, seicenteschi,
rivelano i suoi dubbi di testimone che cinque anni prima ha vissuto la fine
della Belle epoque sancita della
Grande guerra che si era arruolato volontario con il Battaglione ciclisti e automobilisti lombardi, ma che aveva vissuto
l’umiliante sconfitta di Caporetto. Sironi vide l’inizio della fine del mondo
rurale e individuò nel progresso tecnologico il suo potenziale di alienazione.
Nel 1919 Sironi sta chiedendosi in che cosa credere poiché,
come i futuristi, sferzava la borghesia quanto il bolscevismo, ma con la mostra del 1919, Sironi aveva chiuso pressoché
definitivamente con l’avanguardia, anche se quest’esperienza lasciò sempre
intelligibili tracce nella sua poetica.
Allo stato
attuale delle ricerche, la fase più propriamente metafisica di Sironi, quella
in cui l’artista medita quasi esclusivamente sul tema del manichino è
individuata al 1919, ma non fu solo un momento: da allora l’elemento
metafisico rivestì un’importanza fondamentale nello sviluppo della sua arte e
del suo universo pittorico lungo tutto l’arco degli anni venti e dei primi
trenta, fino a una breve stagione neometafisica
nel periodo della seconda guerra mondiale.
Nella
sua pittura, nelle sue periferie, c’è certamente un richiamo alla realtà, ma
soprattutto vi si legge una sorta di intuizione, di illuminazione, un ordine
superiore che sfugge, un’attesa e un respiro come di chi resta ad aspettare
l’evento.
Massimo
Capuozzo
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