Leonardo
Dudreville (1885-1975) è stato un protagonista, sebbene anomalo, tra i più indicativi dell'arte italiana della prima metà
del Novecento: vicino a tanti movimenti del suo tempo il suo percorso espressivo si è, infatti, svolto dal divisionismo al futurismo, dal Novecento Italiano – di cui è stato sempre
un esponente inquieto, eretico, e forse per questo il valore della sua opera è
stato a lungo trascurato – fino a giungere al realismo fiammingo.
Pur non
essendo tra i pittori più noti al grande pubblico, il suo nome è ben noto ai
frequentatori di musei e, soprattutto, ai collezionisti di pittura moderna, che
sono disposti a spendere per le sue opere anche cifre importanti.
Dudreville
è una vera e propria finestra sulla pittura del Novecento, che Dudreville ha attraversato con grande eclettismo e con
una particolare capacità di interpretare, talvolta di anticipare, i mutamenti
del clima culturale.
Leonardo
Dudreville nacque a Venezia, 4 aprile 1885 da genitori veneziani di
lontana origine francese – il nome della famiglia Dudreuil era stato italianizzato
nell'Ottocento in Dudreville. Nonostante una menomazione fisica, aveva,
infatti, perduto un occhio giocando con una balestra all'età di nove anni,
Dudreville si dedicò comunque precocemente alla pittura. Si trasferì ben presto
a Milano, dove compì i suoi studi presso l'Accademia di Brera: qui, Dudreville, entrò in contatto con
l'ambiente divisionista lombardo che influenzò fortemente la sua opera lungo il
corso del suo primo periodo artistico.
Nel
1905 strinse amicizia con Anselmo Bucci, con il quale affittò uno studio e realizzarono,
con Luigi Arrigoni, Eugenio Bajoni, Guido Caprotti e ad altri, al Coenobium monzese, un vivace cenacolo
culturale frequentato da pittori, scultori e letterati unito nella difesa e
nell’affermazione dei valori fondamentali dell’arte.
Nel 1906 si
recò a Parigi con Anselmo Bucci e lo scrittore Mario
Bugelli.
Nella
capitale francese restò solo per pochi mesi, prima di tornare in Italia.
Nel
1907 si presentò ad Alberto e Vittore Grubicy de Dragon con le sue prime opere,
segantiniane e divisioniste: i due noti galleristi, ma anche virtuosi talent-scout, erano i maggiori
sostenitori del divisionismo, apprezzarono i suoi
dipinti e lo accettarono tra gli artisti della galleria quando aveva
poco più di vent’anni; questo diede a Dudreville la possibilità di esporre con loro a Parigi.
Particolare
emozione suscita la prima produzione di Dudreville, quella divisionista o
comunque influenzata da questa tendenza. La Trilogia Campestre – un monumentale trittico di tre pannelli che
Dudreville nel 1912 presentò alla Permanente di Milano ritenuto a lungo
disperso e ora conservato a Lugano nei Civici
Musei – è certamente il punto più elevato di questa fase pittorica che ha
come tema l’armonia della natura.
La “Trilogia campestre” è ancora un lavoro
giovanile, ma fondamentale per capire il pensiero di Dudreville, animato da un
profondo naturalismo.
La trilogia composta da pannelli
laterali che appartengono a una stagione ancora divisionista e rappresentano
rispettivamente un paesaggio notturno un prato invaso dalle lucciole Le voci del Silenzio e uno solare,
una campagna lavorata dai contadini con le nubi pastose
segantiniane di Terra-Madre grande.
Nella tela centrale, Quando
le campane martellano, è raffigurata una giornata domenicale: una sagra
paesana, illuminata dai vestiti delle persone che sfilano in processione sia verso
la chiesa sia verso l’osteria. Alla commozione della visione della natura
corrisponde l’ironia con cui è ritratto l’uomo.: è una
pittura non più fondata su una semplice osservazione della realtà esterna, ma
orientata dal ritmo interiore delle cose.
Non volendo rimanere un epigono
della pennellata divisa, già nel 1912 maturò un nuovo stile, infatti, si accostò all'avanguardia futurista, anche perché
lo spinse in tal senso la vecchia amicizia con Boccioni e Severini che aveva già
conosciuto a Parigi con Bucci nel 1908; conobbe Bonzagni e i futuristi, ma non
fu incluso tra i firmatari del Manifesto,
ma la sua pittura, dal 1912, si volse ad un’astrazione di ascendenza
simbolista.
Dal 1912-13 Dudreville praticò una
pittura che aveva punti di contatto col futurismo, ma polemizzò radicalmente
col movimento di Marinetti, di cui non condivise l’entusiasmo per la città
moderna, il mito della velocità e della macchina, la mistica eroica ed
interventista della guerra.
Pur non
aderendo del tutto al movimento futurista, si interessò al concetto di ritmo e al suo rapporto con
il colore.
La sua
pittura, che intorno al 1913 maturò una singolare forma di astrazione di
matrice simbolica, mostrò comunque alcuni punti di contatto col futurismo,
soprattutto nella ricerca del ritmo dell'immagine.
Nel
1913, per chiarire la sua posizione, fondò
con il critico Ugo Nebbia il gruppo Nuove Tendenze, comprendendo
precocemente il valore di artisti allora sconosciuti come Carlo Erba, Achille Funi, Antonio Sant’Elia e Mario Chiattone, che chiamò a
farne parte e intuendo ancor più precocemente le potenzialità dell’astrazione.
La sua dichiarazione di poetica, pubblicata nel catalogo dell’unica mostra del
gruppo, tenuta nel 1914 a Milano alla Famiglia
Artistica, è in realtà il primo manifesto dell’astrazione in Italia:
una primogenitura scomoda, che prima gli causò l’accusa di copiare Kandinsky,
poi non gli fu più riconosciuta, né in bene né in male.
Il
gruppo Nuove Tendenze ebbe, però, vita
breve e si sciolse dopo l'unica mostra milanese.
Capolavori
di questo periodo sono le grandi composizioni delle
quattro stagioni la Primavera del
1912, l'Estate,
l'Autunno, l'Inverno del 1913 tutti alla Civica
Galleria Giannoni di Novara, che interpretano il tema delle stagioni alla
luce della sensibilità astratto-futurista dell’epoca.
La
Primavera fu realizzato in un periodo in cui Dudreville, in polemica con
l'iconografia futurista incentrata sul mondo moderno, cittadino e industriale,
ha affrontato un soggetto naturalistico volutamente tradizionale. Come scrisse
lo stesso Dudreville: «Ho voluto
scegliere di proposito un tema banale e comune: Le quattro stagioni, figurati!
Ma voglio dimostrare che non è la stranezza o la modernità dei temi quella che
conta, ma il modo di vedere, poiché lì soltanto può esistere originalità vera».
Sono di
questo periodo anche gli affascinanti Ritmi
emananti da Antonio Sant'Elia del 1913; il profetico Eroismo, tragedia, follia… del
1914, che si oppone all’interventismo allora dominante e denuncia l’assurdità
della guerra; il lirico Nel bosco dei
castagni ora alla Galleria Civica
Aroldo Bonzagni di Cento, che diede scandalo alla Biennale di Brera del
1916; il monumentale Aspirazione
del 1917, che simboleggia la nevrosi della metropoli moderna; e infine Senso, un nudo di donna che, alla
Mostra Nazionale Futurista del 1919, fu
molto ammirato da D’Annunzio.
Nel 1919 Dudreville
maturò un personale Ritorno all’ordine,
decidendo di abbandonare l'astrattismo per ritornare ad una figurazione
classica e realista: da questo momento il suo motto divenne "Idee chiare, chiaramente espresse".
Alla
base di questo radicale cambiamento ci fu la parentesi di guerra vissuta tra
il 1915 e il 1918, cui Dudreville però non partecipò perché
riformato, ma che rappresentò per il pittore una crisi artistica destinata a
rivoluzionare il suo modo di concepire l'arte.
Nel 1919 Dudreville ritornò ad una
pittura realista, avvicinandosi al cenacolo che gravitava
intorno a Margherita Sarfatti e
nel 1920 firmò con Mario Sironi, Achille Funi e Luigi Russolo il Manifesto contro tutti i ritorni in pittura.
Di particolare intensità sono in questi anni paesaggi come Il cantiere del 1920, simbolo della ricostruzione dopo la
guerra.
Nel
1921 realizzò il grande bassorilievo con Figura
femminile, l’unica scultura realizzata dall’artista; i ritratti di
familiari e conoscenti – il padre;
il figlio Giacomino; la compagna
Marcella; Studio di carattere
della collezione Carima di Macerata –, dipinti senza abbellimenti, con una
precisione da entomologo.
Dudreville fu uno dei più attivi nel
percorso che portò alla fondazione del Novecento Italiano.
Nel 1922 fu
tra i fondatori del gruppo Sette pittori
del Novecento – comprendente Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig,
Oppi, Sironi – ma come fu avanzato nell’adesione lo fu anche nel distacco: la sua partecipazione al gruppo fu breve, infatti, se ne
distaccò nel 1924 e si espresse in un’oggettività fiamminga, vicina alla Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività, un movimento artistico sorto in Germania
alla fine della prima guerra mondiale che coinvolse principalmente la pittura.
Il
casus belli fu il dipinto Amore:
discorso primo, esposto nel 1924 alla mostra dedicata ai Sei pittori del Novecento della
XIV Biennale di Venezia che rappresenta un nodo importante per
Leonardo Dudreville.
Il
dipinto raffigura il prospetto notturno di un palazzo veneziano abitato da
diversi gruppi di persone.
«Questo mio quadro figurativo e realistico
– scrive Dudreville – venne dopo una
parentesi astrattista di qualche anno (...) Esso rappresenta lo spaccato di un
palazzo veneziano visto di notte, con le diverse famiglie e vari episodi
riferentisi ai molteplici aspetti dell'amore (...) Questo quadro (...) è
rimasto sul cavalletto, nel mio studio, per più di tre anni. Naturalmente non
ho lavorato sempre ad esso esclusivamente, si capisce (...) Ma certamente, per
la sua mole, le sue ventisette figure, le sue architetture e tutti gli studi
preparatori che ho dovuto fare per eseguirlo, posso ben considerarlo ancor oggi
l'opera di maggior lena e fatica da me realizzata».
Così,
nelle sue memorie, Dudreville descriveva quest'opera, la sola con cui si
presentò alla mostra Sei pittori del
Novecento nell'ambito della Biennale del 1924. Amore: discorso primo rappresentava infatti il dipinto di maggior
impegno dopo il ritorno ad una pittura realistica, inaugurato nel 1919 con Il caduto. E i molti studi e bozzetti preparatori
lo testimoniano: eseguiti tanto per i personaggi sia per grandi e piccoli
particolari. L'intento narrativo è chiaro, preciso. Ideato come un grande
polittico, in ognuno dei sei scomparti è rappresentato uno o più aspetti
dell'amore, in una sorta di tableau
vivant d'altri tempi: l'amore coniugale e l'adulterio, l'amore animale e
artistico, l'amore sacro, e quello profano, l'amore nelle varie età, da quella
infantile a quella senile, l'amore desiderato, inappagato o dimenticato.
Probabilmente,
per una maggior aderenza al vero, Dudreville ritrasse tra i personaggi se
stesso, nel riquadro in alto a sinistra, con il bicchiere, come nello studio
prima citato; suo padre, intento a leggere il giornale, in alto a destra;
Marcella, la sua prima compagna, in alto al centro con il bimbo; protagonisti,
questi ultimi, di due ritratti eseguiti nello stesso periodo. E un rimando
autobiografico si legge anche nell'ambientazione, Venezia, città natale
sua e dei suoi genitori, ai quali l'opera è dedicata.
Se
Nebbia la definì «ingeniosissima, greve
di concetto», proprio la Sarfatti, corifea e critico di riferimento del
gruppo di Novecento, mostrò di non apprezzare quest’opera la giudicò «troppo vasta (...) e narrativa e
dimostrativa più che non pittoresca e plastica». La presenza di tanti
minuziosi dettagli e l’assenza di una dimensione neo-classica, atemporale e
sintetica, fu considerata dalla Sarfatti inopportuna.
Il
motivo delle dimissioni, poco dopo l'inaugurazione della Biennale, di
Dudreville da Novecento va ricercato
più nel significato che queste parole assumono sul piano stilistico, che nei
dissidi politici e fu il pretesto per Dudreville di allontanarsi dal gruppo
del Novecento Italiano.
L’iconografia
di questo dipinto ha molti elementi in comune con l’opera An die Schönheit dell’artista tedesco Otto Dix ,
conservata presso il Von der
Heydt-Museum di Wuppertal, in Germania. Esposta alla medesima
edizione della Biennale, l’opera sulla
bellezza contiene tutte le caratteristiche della corrente più radicale
della Nuova Oggettività, attenta al vero e alla critica sociale.
Il
dipinto Amore: discorso primo ha
anche una esplicita componente autobiografica: ambientato nella città natale di
Dudreville, è dedicato ai genitori e comprende i ritratti dell’artista (con il
bicchiere in mano), del padre (mentre legge il giornale) e della prima
compagna Marcella (mentre lava il bambino). Dal quadro emerge una visione
pessimista della famiglia, forse condizionata dai dissidi tra i genitori che
avevano influito negativamente sulla crescita dell’artista.
Da allora Dudreville procedette
isolato, tenendosi orgogliosamente lontano dal gruppo, anzi non risparmiando
qualche battuta sarcastica sulla pittura monumentale, che costituisce l’ultima
stagione novecentista.
Nel
frattempo la sua pittura era approdata ad un realismo minuzioso che si esprime
particolarmente nelle nature morte, oltre che nei paesaggi. L’esito più alto
sono le piccole nature morte, caratterizzate da un disegno nitido e
millimetrico, in cui si alternano animali, oggetti, elementi naturali: da Argento del 1927 a Cacciagione, esposto alla Quadriennale di Roma del 1935, a Natura morta con beccaccia, presente
alla Biennale di Venezia del 1942.
Negli
anni Trenta l'artista aveva proseguito la sua solitaria ricerca, esponendo
alla Quadriennale di Roma e
a due personali milanesi presso la Galleria
Dedalo nel 1936 e presso la Galleria
Gian Ferrari nel 1940.
Tale
ricerca realistica proseguì anche dopo il 1942, anno in cui Dudreville si
trasferì sul lago Maggiore, nel piccolo paese di Ghiffa, dove era
sfollato nel 1942, dedicandosi fino agli
ultimi giorni di vita alle nature morte – soprattutto cacciagione – ai paesaggi
e ai ritratti. Anche la sua decisione di vivere per sempre sul Lago
Maggiore, fu la conseguenza di un distacco dal sistema dell’arte che aveva
maturato da tempo.
Nel 1959-60 un collezionista
newyorchese, Richard Miller, acquistò le sue più espressive composizioni
astratto-futuriste: Dissidio domestico
quotidiano, Espansione della lirica,
Urto del tragico, In treno attraverso la Pianura padana.
Era un importante traguardo per l’artista, che poco dopo fu invitato all’importante
mostra “Futurism”, aperta al MoMA nel
1961, ma purtroppo si tradusse in una dispersione delle sue opere, che andarono
divise fra raccolte americane e australiane, essendo tutt’oggi di difficile
reperimento.
La
morte lo colse nel 1976.
Massimo
Capuozzo
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Bello e soprattutto ricco di notizie su Dudreville. Io sono stato, da bambino, a Ghiffa, negli anni 50-60, suo allievo privato. Ricordo che dei miei parenti avevano due vedute lacustri di Dudreville. Peccato che in questo post non ci siano illustrazioni relative a questo periodo.
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