Nonostante l’indubbia qualità della sua pittura ed i
molti riconoscimenti, Anselmo Bucci non raggiunse mai il ruolo assoluto che pur
legittimamente gli sarebbe spettato nella storia dell’arte del Novecento. Bucci
è stato, infatti, uno dei protagonisti delle nascenti avanguardie artistiche
dei primi decenni del Novecento, tanto in Italia quanto in Francia. Osservando da
vicino la sua vita ed il suo percorso artistico si profila l’immagine di un
pittore in continuo movimento, in una continua ricerca pittorica, dal
simbolismo e dal post-impressionismo dei primi anni del secolo, alla stagione
del Novecento Italiano, fino al
naturalismo lirico degli anni trenta.
Il suo percorso artistico fu un continuo viaggio, curioso
ed attento, su quanto avveniva intorno a lui: per questo Bucci fu un artista
poliedrico che attraversò correnti e tendenze e che vi si mosse liberamente,
sfuggendo a definizioni che lo potessero imbrigliare, perché, tra un luogo e
l'altro, tra un contatto culturale e un altro, tra un movimento pittorico ed un altro
egli – pure assorbendo da ogni parte stimoli e impulsi culturali – mantenne una
propria autonomia, un’identità mai offuscata dall'appartenenza tout-court ad una scuola. Amico dei futuristi – coi quali si arruolò volontario nella
Grande Guerra – ma non fu mai futurista; vicino ai fauve e ai
simbolisti, eppure pronto ad aprirsi ad altre esperienze, come testimoniano le
sue eccezionali e straordinarie puntate
nel mondo arabo e talvolta orientale del 1912-13); negli anni Venti – divenuto
amico del critico d’arte Margherita Sarfatti – lo troviamo tra i fondatori del
gruppo Novecento, dal quale si allontanò nel 1929; poi, diviso tra la pittura e la
grafica collaborò anche al Corriere della Sera, maturò un graduale
avvicinamento a forme plastiche classicheggianti, con un accanimento figurativo che mantenne fino alla morte.
I suoi dipinti di anni diversi e di altrettanto diversi soggetti,
sono accomunati però da un’incredibile e, difficile da spiegare, forma di
precario equilibrio tra novità e classicità, tra dinamismo e compostezza, tra genio
e regolatezza.
La sua pittura è inesauribilmente varia nei temi,
percorsa spesso da un sottile senso di ironia, è la ricerca del vero, aureolato di poesia,
come egli amava icasticamente dire e in altra occasioni: «Non ho mai cercato di mentire in uno stile,
ma di dire la verità in lingua corrente».
Il desiderio di ampliare i suoi orizzonti creativi lo
portò, tra le due guerre, a trovare anche il tempo per fare l’arredatore e il
decoratore dei grandi piroscafi che portavano lo stile italiano lungo le rotte mondiali e di affrescare il Palazzo
di Giustizia di Milano.
Bucci si dedicò costantemente anche alla critica e alla teoria dell’arte,
com’è evidente nei suoi scritti per il Corriere
della Sera e per l’Ambrosiano o
nei saggi per La fiera
letteraria e per Arti
plastiche.
Anselmo Bucci nacque
a Fossombrone il 25 maggio 1887,
figlio secondogenito di Achille Muzio e di Sestilia Chiavarelli, e fratello dello
scrittore Giovanni Bucci
(1883 - 1961). Seguì la famiglia nel Veneto, a Cittadella,
dove compì gli studi classici a Venezia al regio collegio Marco Foscarini e continuò
a dedicarsi alla pittura: durante la loro permanenza nei dintorni di Ferrara,
il giovane Anselmo, infatti, era stato seguito nel disegno dall'allora noto pittore
Francesco Salvini.
Suo fratello Giovanni intuì subito il suo talento
artistico e lo appoggiò materialmente e spiritualmente nei momenti meno felici.
Bucci risiedette a Monza dal 1904 al 1906 e fu tra gli
animatori del gruppo del Coenobium, un
vivace cenacolo culturale frequentato da pittori, scultori e letterati.
Nel 1905 Bucci a
Milano conobbe Umberto Boccioni
e, pur continuando a risedere a Monza, seguì i corsi dell'Accademia di Brera,
studiando con Bignami, Mentessi e Tallone, ed ebbe modo di incontrare e di
frequentare Carlo Erba (1884 - 1917), Carlo Carrà (1881 – 1966), Romolo Romani (1884 – 1916) e Leonardo
Dudreville (1885 – 1976) con il quale
condivise lo studio e un’amicizia duratura. Tuttavia, fin da questi anni, Bucci
rivelò la sua insofferenza nei confronti della retorica pittorica
che si sintetizzava nell’accademismo e già l'anno successivo, nel 1906, si
trasferì a Parigi, all'epoca capitale dell'avanguardia artistica, dopo aver scoperto
la pittura internazionale sulle pagine di Emporium,
cenacolo culturale frequentato da pittori, scultori e letterati tra cui Eugenio
Bajoni (1880 - 1936), Guido Caprotti (1887 - 1966) e Dudreville.
Fra i primi italiani nella Parigi delle avanguardie, Bucci
realizzò il suo desiderio di ampliare la sua conoscenza e nel 1906 intraprese,
insieme a Dudreville e al critico Bugelli, un viaggio a Parigi, dove rimase
fino al 1914, interessandosi al movimento della vita moderna. A Parigi, dopo un
periodo iniziale di terribili stenti – egli stesso, con un tocco di ironia,
scrisse «Sono arrivato a Parigi nel 1906.
Ho fatto il primo pasto nel 1910, la vita si nutre più di incontri che di cibo»
– fu apprezzato da critici di chiara fama come Guillaume Apollinaire e André
Salmon. Lui stesso scrisse a Boccioni con ironia che gli anni passati a
studiare il movimento gli erano valsi il titolo di pre-futurista.
La stagione francese fu fondamentale nella vicenda artistica
ed esistenziale di Anselmo Bucci. Nella ville
lumiere per sette anni si abbandonò ad un'epopea esistenziale da Belle
Epoque, in balia di terribili stenti, di passione sfrenata per l'arte, di
amicizie bohémien. Giunto ventiduenne a Parigi, non poté fare a meno di
guardare. I suoi occhi spalancati davanti alla strada: la fremente strada di Parigi. Ciò che maggiormente colpiva
l'immaginazione del giovane Bucci era il movimento urbano, quel tourbillon incessante
nei boulevard, per cui la strada diventava il palcoscenico della vita della
metropoli. A Parigi Bucci viveva a Montmartre, dove conobbe Picasso, Apollinaire, Dufy, Utrillo, dove frequentava Modigliani, Severini, Suzanne Valadon e Viani con i quali si legò d’amicizia e a Montmartre la sua arte assunse
un respiro internazionale con frequentazioni a dir poco stimolanti. Conobbe da
vicino le ricerche delle avanguardie, che lo incuriosivano, lo intrigavano, ma
si lasciava solo sfiorare dalla loro ebbrezza, rimanendo fedele a una
rappresentazione post-impressionista, che racchiudeva anche memorie della
classicità italiana.
La sua pittura, oscillante tra i modi fauve e un linguaggio simbolista,
intorno al 1910 si orientò decisamente verso questa seconda via, innestata però
su una base naturalista. Furono anni di lenti, ma fedeli riconoscimenti critici
per la sua pittura.
Nel frattempo Bucci si dedicò all'incisione e nel 1909 ne
realizzò una serie dal titolo Paris qui bouge,
stampata dall’importante editore parigino
Devambez, una raccolta di vedute dall’alto di piazze, vie, mercati,
contraddistinte da un segno dinamico e incisivo che rivelano l’attenzione di
Bucci per quello che sarà un motivo ricorrente di tutta la sua pittura: la tranche de vie. Questo interesse lo portò
a realizzare, in questi anni, alcune tra le sue più note vedute di folla in
movimento.
Bucci ottenne notevoli apprezzamenti: nel 1907 espone al Salon des Arts Décoratifs, nel 1909 al Salon d'Automne, nel 1911 e nel 1913 al Salon des Indépendants. Di questo periodo è il
grande Autunno, apprezzato e
recensito da Apollinaire. Del 1910 è il affascinante Il Kimono.
Nel Mercato a Monza
gli echi della pittura impressionista e post impressionista, evidenti nella
costruzione dell’immagine e nella materia, sono fusi sapientemente con la forza
del colore veneto, ammirato negli anni dell’adolescenza, e con l’intensità
della luce assorbita durante i viaggi nel Mediterraneo. Le figure sono rese con
tasselli di colore, pennellate veloci, compendiarie, che costruiscono il
movimento e l’intera scena. Bucci ha la capacità di descrivere con pochi tocchi
la vita brulicante restituendoci l’atmosfera vibrante del mercato. È lui stesso
a utilizzare il termine vibrismo per
descrivere l’essenza della vita moderna.
Fedele alla tradizione dei pittori francesi, nel 1912 -
1913 Bucci decise di spostarsi in giro per l’Europa e per il Mediterraneo,
studiando nuove colorazioni e luminosità. Visita diversi luoghi compiendo in
Sardegna, in Africa, nel Sud della Francia lunghi viaggi, di cui rimane traccia
nella sua opera, da Inverno in riviera
del 1912 e dalla serie di paesaggi di Cagnes, dipinti con particolare felicità cromatica
durante un viaggio nel sud della Francia. Del 1913 sono Algeri e la coloratissima Bottega araba.
Nel 1914, allo scoppio della Grande Guerra, Bucci ventisettenne
si arruolò volontario seguendo l'impeto patriottico dei suoi amici futuristi nel
Battaglione lombardo Volontari Ciclisti e
Automobilisti con Filippo Tommaso
Marinetti, fondatore del Futurismo, assieme a Umberto Boccioni, Anselmo Bucci,
Achille Funi, Antonio Sant'Elia, Luigi Russolo, Ugo Piatti, Carlo Erba, Mario
Sironi, tutti vicini o protagonisti del movimento futurista (che voleva dire
abbasso il passato evviva il dinamismo, la velocità, il progresso della
modernità), salirono subito in sella per correre in bicicletta dietro al mondo
che passava veloce sognando di bruciare i musei e di liberare di Trento e
Trieste. Nel Dicembre dello stesso anno il Battaglione
Lombardo fu sciolto e i volontari che
lo componevano furono congedati dall'unità, ma alcuni di loro spinti dall'amor
patrio e dalla scalmanata esuberanza giovanile, si arruolarono nell'esercito
italiano regolare. Sparsi in giro per i principali fronti del nord, alcuni di
loro pagarono con la vita (tra cui il grande Umberto Boccioni e il giovane
architetto visionario Antonio Sant'Elia) altri furono gravemente feriti.
L’interesse per le scene di vita vissuta portò Bucci a
diventare uno dei più prolifici ed acuti pittori
di guerra. Di questo periodo e legati alla breve, ma straordinaria
esperienza nel Battaglione lombardo,
nel 1915, fra l'addestramento a Gallarate, l'ulteriore preparazione a
Peschiera, e l'immissione in prima linea sull'Altissimo, sul lago di Garda,
sono le cinquanta puntesecche dei quattro album di Croquis du Front italien, pubblicati a Parigi da D'Alignan, nel
1918 (tutte riferite all'esperienza nel Battaglione). Bucci inviò inoltre dal
fronte numerosi schizzi, disegni, dipinti, come il Funerale dell’eroe del 1917 e Temporale
del 1918, che ci restituiscono un’immagine della guerra senza retorica, in
movimento anch’essa, per definizione.
Verso il 1919, terminata la guerra, Bucci cercò di fare
la spola fra Milano e Parigi, non rinunciando mai a lunghi soggiorni nella
capitale francese, in quel periodo particolarmente attiva e fervida di idee. Si
dedicò pienamente alla sua attività di pittore, espose in molte rassegne
artistiche italiane e francesi, mentre il suo nome e le sue opere cominciavano
a circolare anche fuori della Francia: in Inghilterra, in Olanda e in Belgio.
Intorno al 1919-20 la sua ricerca maturò una svolta in
chiave classica: pur senza abbandonare i contatti con Parigi, si avvicinò alla
cerchia di Margherita Sarfatti. Nel frattempo tenne molte mostre che lo fecero
conoscere e gli procurarono l'invito alla Biennale di Venezia del 1920.
Del 1920 sono la vivace Via Manzoni di Milano ed il
dipinto In volo esposto
da Bucci alla Biennale del 1920, rappresenta l’esito più alto delle capacità
dell’artista. Lo stesso autore in una lettera del 1954 scrisse: «Ho venduto il mio ‘Volo’ a Venezia 20.000
lire nel 1920, vale a dire quattro milioni di adesso! Ne era geloso perfino
Gola, è tutto dire!».
Nel 1922, Bucci con Sironi, Funi, Dudreville, Malerba,
Marussig, Oppi, fu tra i fondatori del famigerato gruppo di Novecento,
il movimento più importante dell’Italia degli Anni Venti, senza astrazioni
metafisiche e senza rigidezze arcaiche alla Valori
Plastici, movimenti per i quali la Sarfatti non nutriva alcuna simpatia, e
a lui si deve l’individuazione del nome Novecento
per indicare il gruppo di artisti che, come lui, erano riuniti intorno a
Margherita Sarfatti e Lino Pesaro. Margherita Sarfatti scrisse di lui
definendolo uno dei più «brillanti
improvvisatori della linea spezzata e della tavolozza impressionistica».
Novecento nacque
a Milano ed a Milano ebbe la sua massima diffusione: quegli anni milanesi della
prima metà degli anni Venti furono i soli in cui si mise in evidenza la poetica
del movimento, che voleva dire ritorno all’ordine e ritorno, soprattutto, alla
classicità, una classicità che doveva essere moderna, sia nello stile sia nei
soggetti. L’intento programmatico era quello di ritornare alla figura alla riconoscibilità
del soggetto distaccandosi dagli estremismi avanguardie nascenti, sempre più
lontane dalla classicità.
I
valori umani, diceva la Sarfatti, sono centrali, perché la classicità
coincideva con la ritrovata centralità dell’uomo nell’opera. Dunque, questa
pittura mirava ad una moderna classicità, che voleva dire un ripensamento dei
grandi maestri antichi filtrato da un nuovo senso di essenzialità, in sintonia
con quanto stava avvenendo nel Ritorno
all’Ordine in Europa. Tutto avveniva in quel lontano 1923
nell’elegante galleria di Lino Pesaro in Via
Manzoni a Milano, dove c’è oggi il Museo
Poldi Pezzoli.
A
Milano fu presentato il gruppo, a Milano fu esposta la mostra che è passata poi
alla storia. Erano sette. Li sosteneva Margherita Sarfatti e la mostra
iniziale fu inaugurata dal Presidente del Consiglio Cavalier Benito Mussolini.
Il gruppo nel 1924 si presentò alla Biennale di Venezia, poi si sciolse, quindi
fu rifondato nel 1925. Agli inizi degli anni Trenta il movimento fu travolto
dalle polemiche sia esterne, vale a dire dai movimenti neo romantici e
antinovecentisti come la Scuola Romana,
i Sei di Torino e i Chiaristi, sia interne con il ritorno
alla pittura murale sostenuto da Sironi. Tornare all’affresco non significava
solo cambiare tecnica, ma scardinare anche il sistema classico dell’arte che si
basava sul quadro, sul circuito delle mostre e del mercato.
Con il 1931
– 1932 terminò la stagione delle grandi mostre internazionali del gruppo per
dare inizio poi dal secondo dopoguerra a un interminabile silenzio che coincise
con il rapportare il gruppo al Fascismo, e a indicare quell’arte come arte di
regime.
Giova ricordare oggi quanta insufficienza storiografica
abbia portato gli storici a seguito della damnatio
memoriae a tralasciare in toto un
periodo ed un movimento solo da qualche tempo riscoperto.
Nonostante Bucci sia stato un elemento fondamentale della
fondazione del gruppo, mantenne con esso un rapporto molto critico, tanto da
non presentarsi all’inaugurazione della prima mostra, curata dalla Sarfatti
alla galleria di Lino Pesaro, inaugurata alla presenza di Mussolini.
La grande pala I
pittori di Anselmo Bucci, una tela compiuta tra il 1921 e il 1924, esposto
alla Biennale di Venezia del 1924, che doveva rappresentare il suo pensiero sull'arte
antitetico ai movimenti d'avanguardia, tante volte espresso negli scritti di
allora e degli anni successivi. Il sogno della metropoli, come simbolo della
modernità più eccitante, che aveva animato le ricerche dei nostri futuristi, da
Boccioni a Severini, da Carrà a Soffici, nelle loro evasioni parigine, era per Bucci una tentazione pittoresca e
disordinata, tipica dell'anarchismo della giovinezza.
Nel 1925 sempre
in questa data Bucci si fece apprezzare per le otto tavole a puntasecca che
realizza e che fanno da illustrazione per la prima edizione italiana del Libro della giungla di Rudyard Kipling.
Nel 1926 partecipò alla I Mostra del Novecento Italiano alla Permanente
di Milano, e sembrò subito evidente che le carte si erano completamente
rimescolate, perché la Sarfatti raccoglieva tutti gli artisti più significativi
del momento, allargando le spire del suo controllo anche su ex futuristi, ex
metafisici, ex valori plastici, coinvolgendo anche outsider come Ottone Rosai e Felice Casorati. Per questo gradualmente, Bucci tese a
distaccarsi dal gruppo, per affiancare all'attività di artista quella di
giornalista e di scrittore e negli anni trenta tornò ad impostare la sua
ricerca su un naturalismo dai delicati cromatismi. Fu questo il momento del
distacco per Bucci, che negli anni trenta riprese la sua ricerca su un
naturalismo lirico, di cui massimo esempio è Quercia del 1932. «Non ho mai
cercato di mentire in uno stile – scrisse Bucci a proposito di questo
distacco –, ma di dire la verità in
lingua corrente».
«Bucci non
appartenne a Novecento perché non appartenne a nulla e a nessuno – scrive
di lui Paolo Biscottino –, restando
sempre quell'indipendente, come scrisse Carlo Bo, che a diciannove anni era
impaziente di respirare l'aria di Parigi. E se a quell'età non vi è ragazzo che
non nutra un analogo desiderio, in lui dice anche una propensione al viaggio,
nel senso ancora romantico del termine, che non lo lascerà mai, come mai lo
lascerà del tutto la memoria della pittura di matrice impressionista, dai
colori accesi e dalla vibratile qualità atmosferica, e della vita bohemienne,
che invano ricercherà in seguito, quando le guerre, l'età e i disinganni
renderanno amare le sue meditazioni, ma non la sua pittura, fino all'ultimo
energica, fantasiosa e libera».
Dal 1928 al 1942, Bucci espose a tutte le Biennali
di Venezia e alle mostre sociali della Permanente. Nel 1929 espose con Aldo
Carpi alla Galleria Pesaro. Nel 1930 vinse
il premio Viareggio con
il volume Il pittore volante.
Il suo carattere poliedrico lo portò a dedicarsi anche alla collaborazione con
dipinti, progetti di arredo e decorazioni all'allestimento dei grandi piroscafi
italiani degli anni Trenta, pur continuando a prendere parte a mostre
internazionali e, sempre negli anni trenta, tornò ad impostare la sua ricerca
su un naturalismo dai delicati cromatismi, verso quel vero aureolato di poesia, come amava definire.
Alla metà degli anni Trenta Bucci entrò in rapporto con
la Quadreria Cesarini di Fossombrone.
Espose alla rassegna delle opere offerte dal senatore Borletti al Leu de Piume. Del 1932 sono la Quercia, esempio del cromatismo lirico
degli anni trenta. Il sensualissimo Riposo della bibliotecaria, e
al davvero solare Ritratto della
Signora Gizi Braun. Nel 1936 alla XX Biennale vinse il Premio Fradeletto. Del 1938 è l'affresco a Palazzo di giustizia di Milano.
Nel 1940, con Orio Vergani, Bucci seguì il Giro dominato
da Fausto Coppi. Durante il secondo conflitto fu pittore di guerra che illustrò
in dipinti, disegni e litografie nel 1940-41. Nel 1942 a Milano pubblicò Marinai e il Libro della Bigia. Nel 1943 i
bombardamenti su Milano gli distrussero lo studio di largo Augusto e l'artista si trasferì nella casa paterna di Monza
dove rimase fino alla morte, diventando una delle figure culturali di
riferimento. Nel 1945 fondò la Federazione
degli artisti indipendenti con Natalia Mola, Antonio Arosio e Nicolò
Segota.
Bucci espose ancora alle Biennali del 1948 e 1950, ma i
suoi ultimi anni furono segnati da un progressivo isolamento: la sua vecchiaia
non fu serena, si avviluppò nell'amarezza, in una sorta di mania di
persecuzione, che lo portò a rinchiudersi nelle poche stanze del palazzo avito di
piazza Garibaldi a Monza dove morì
nel 1955.
Fossombrone,
sua città natale, ne conserva un consistente corpus di dipinti di varie fasi e maniere
pittoriche nella Quadreria Cesarini.
Dopo una mostra organizzata immediatamente dopo la sua
morte all'Angelicum di Milano, dopo
la retrospettiva alla Biennale del 1956 e dopo le retrospettive all'Arengario
di Monza con presentazione di U. Nebbia nel 1957, nessuno ha più pensato di
dedicargli un'esposizione organica e di grande respiro che passasse in rassegna
tutto il suo lavoro, traendone il meglio.
Lo merita anche la sua coerenza che, nell’ultimo decennio
della sua vita, tempo di avanguardie e di critici militanti e discriminanti,
pagò duramente con l'esclusione dal giro delle gallerie che contavano, con i
mancati inviti, con un sostanziale oblio.
Massimo Capuozzo
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