Dalle
pitture nere degli anni dell’Accademia ad una mostra nelle stanze della Galleria L’Indiano di Piero Santi e Paolo Marini a pochi passi da Piazza
del Duomo in Firenze, con quadri che proponevano scorci e gente da Santo
Spirito a San Frediano, stradine strette dai muri alti, Ottone Rosai (1895 –
1957), morto da poco, svelava una Firenze priva di sollazzi e di divertimenti
ed una diffusa presenza del dolore: un dolore quieto che racchiude le
contraddizioni di questo straordinario cantore della solitudine umana.
Come il
viareggino Lorenzo Viani (1882 – 1936), Rosai trova nel misero un
fratello di sofferenza, uno specchio fedele del suo stesso sentire, il sentire
di un artista complesso, dallo spirito passionale e sanguigno in cui la figura
umana è spesso trattata con rudezza, poiché l’umanità dolente di Rosai rifugge
da un umanesimo consolatore.
La lirica
realista di Rosai, artista grande e controverso, nato nei quartieri popolari
dell’Oltrarno fiorentino, fascista anarchico e manganellatore, cristiano e
omosessuale, antiborghese ed ultimo erede della tradizione pittorica iniziata
da Masaccio, è immersa nei silenzi, in composizioni senza tempo e denota uno
spirito malinconico ed indagatore, lontano, quasi alieno dai clamori dello
squadrismo, del chiasso futurista, della violenza del reduce.
In una
Firenze che, nei primi decenni del Novecento, era all’avanguardia della cultura
europea, Rosai fu l’interprete, amaro e spesso scomodo, di una vita sempre
contro corrente, il testimone e ad un tempo animatore di disordini notturni, il
poeta del ventre profondo di Firenze, della sua lingua, della sua pelle. Nella
sua pittura si bruciava e decantava la carica rabbiosa ed eversiva nei
confronti del fascismo borghese che lo
portò ad aderire alla fronda de Il Selvaggio
di Mino Maccari, manifesto di
un’intera generazione.
La sua
dolorosa esperienza culminò nel più nero sconforto con il suicidio del padre, per
il quale Rosai si consumò e si depurò nel dolore: nel febbraio del 1921 suo padre,
malato ed oppresso da debiti non onorati, si annegò nell’Arno e Rosai, scrittore
oltre che pittore, ha lasciato un testo intitolato Babbo, breve e terribile su quanto accadde. Il dolore di avere
deluso suo padre, rifiutando di occupare il suo posto nella bottega artigiana
di via Maggio, fu materiato di sensi
di colpa, poiché si sentiva oscuramente responsabile di quella tragedia.
Nei
suoi scritti giovanili rivelava che avrebbe voluto vivere due vite, la sua e
quella di suo padre, che voleva compendiata nei suoi gesti, nelle scelte e possibilmente
nelle sue affermazioni. Poiché il demone della pittura si era già manifestato,
Rosai pensò che il mezzo più immediato ed efficace per rimediare al dolore,
fosse quello di infliggersene uno ancora più grande: impedirsi di dipingere. Ma
l’inibizione all’espressione pittorica durò solo per poco tempo.
Le
opere di Rosai, il cui inconfondibile linguaggio espressivo è tra i più
significativi nella cultura figurativa italiana del '900, ci danno l’essenza, di
un itinerario pittorico che si snoda dagli anni dieci del Novecento con una Vallesina, già di proprietà di Vittorio
De Sica, ed una Rotonda del 1916 di
temperamento naif, quando Rosai era sul fronte nella Grande Guerra, le Follie estive di stampo futurista.
Il suo avvicinamento
al Futurismo era già avvenuto all'esposizione promossa da Lacerba da Gonnelli a
Firenze: per un giovane della sua estrazione sociale e segnato dal solco del
dolore e della disperazione, il Futurismo rappresentò una preziosa opportunità
di riscatto, di protesta e di crescita. Nel movimento futurista, Rosai entrò tramite
Papini e soprattutto tramite Soffici, che lo presentarono alla
pattuglia degli indemoniati spiriti ribelli – Marinetti, Palazzeschi, Boccioni, Carrà, Severini, Tavolato – e lo inquadrarono nella fase
magmatica dell’avanguardia: nel 1914 Rosai realizzò la sua prima opera
futurista Dinamismo bar San Marco e
partecipò alla mostra futurista romana da Sprovieri, collaborò a Lacerba con scritti e disegni, frequentava
assiduamente Soffici cui deve la conoscenza del cubofuturismo e delle esperienze artistiche francesi. Ma al
Futurismo Rosai prestò una pittura lunare, notturna, saturnina negli esiti, perché
il suo futurismo si attenne solo alla scomposizione plastica piuttosto che alla
concezione del dinamismo bocconiano: in lui la vena poetica conduce
all’osservazione degli umili, delle scene di vita popolare di una città che non
era più solo nei salotti dannunziani e nelle ovattate atmosfere del Marzocco, ma si apriva ad altre
stagioni, più vivaci e destabilizzanti.
Per
Rosai la fase futurista terminò con la Prima
Guerra Mondiale, alla quale partecipò probabilmente cercando la bella morte
sul campo di battaglia, una morte che non trovò. Incontrò, invece, l’effimera
gloria militare, con due medaglie di bronzo e una targa che ne ricordava le
gesta.
Per lui,
come per molti altri giovani, il rientro nella società fu difficile. Rosai
trovò nel diciannovismo mussoliniano
la stimolo che cercava per osare, per opporsi, per rinnovare la sua mai placata
collera verso la borghesia che tanto detestava: anticlericalismo e fervente
spirito repubblicano erano i sentimenti che guidavano il suo animo.
Dal
1919-20, il ritorno all’ordine per
Rosai avvenne all’insegna di una sintesi fra Paul Cèzanne (1839-1906), la
cui presenza, nelle sorti artistiche a Firenze nei primi decenni del secolo fu
un fondamentale riferimento, e la tradizione fiorentina.
Due perspicaci
giovani collezionisti, Egisto Paolo
Fabbri e Charles Alexander Loeser,
tra Ottocento e Novecento acquistarono e raccolsero nelle loro residenze
fiorentine quarantotto tra le opere più belle di Cèzanne, contribuirono
all’affermazione a Firenze del genio dell’artista
disprezzato in vita dalla grande critica, in quella particolare ed intensa
stagione intellettuale in cui Firenze – dai caffè letterari agli spettacoli
delle avanguardie del primo Novecento, al formarsi delle grandi collezioni
artistiche – era tra le capitali attive della cultura internazionale, tra le più
vivaci sedi di scambi e trasformazioni della cultura a cavallo tra Ottocento e
Novecento, grazie alla presenza simultanea di intellettuali stranieri con
coloro che rappresentavano lo spirito di una tradizione più schiettamente
fiorentina.
In
merito agli influssi della tradizione
fiorentina, gli storici dell’arte si sono sempre soffermati su Masaccio, di
cui Rosai replicò la grazia diretta dei personaggi che riempiono gli affreschi della
Chiesa del Carmine e lo stesso reticolo di strade, quel senso di oppressione
che esso induce negli osservatori, è riconducibile al capolavoro masaccesco. Massaccio non fu tuttavia il solo riferimento
di Rosai, infatti, il pittore assorbì ed adattò alla propria cifra stilistica da
altre fonti come nel caso dei manieristi, specialmente, di Pontormo, dal quale riprese la poesia asimmetrica del corpo umano,
la cui bellezza è catturabile fra le pieghe, fra le curve di anatomie contorte,
che non si offrono ad una contemplazione imbelle, ma urlano le ragioni di una
bellezza, sinonimo di disagio.
Con suggestioni
metafisiche e cubiste, Rosai lavorò a soggetti popolari fiorentini: giocatori
di toppa, uomini nelle osterie e nei caffè, suonatori ambulanti e derelitti in
drammatica solitudine. Presi dal vero, i soggetti di Rosai superano la
dimensione aneddotica e strapaesana, grazie ad una costante attenzione alla
lezione di Cézanne, ad una costruzione robusta, al deciso chiaroscuro e ad
inquiete accentuazioni espressionistiche. Figura umana, nudi o ritratti, e
luoghi reali, come monumenti, strade ed interni, sono interpretati con una
pittura ancora attuale, densa di energia espressiva e di carica umana e
sono sublimati, pur materializzandosi in una scansione architettonica più
metafisica che novecentista, caratterizzati dal tipico taglio obliquo
dell'inquadratura, dall'incidenza delle lame di luce, da un colore denso, asciutto,
piatto.
La sua
arte si rannicchiava in una sospensione metafisica declinata con modi del tutto
personali: in Rosai il segno forte e aspro, non si piega alle mollezze della
cultura del tempo, lontano dalle morbidezze intellettuali di un De Chirico,
o dai raffinati sospiri di un Casorati.
I suoi personaggi, specialmente nel biennio fra il 1919 e il 1920, sono membri
della sua famiglia, come la sorella, o vecchie tristemente sedute in attesa di
un evento ineludibile.
Alla
prima personale fiorentina a Palazzo Capponi nel 1920, presentata da Soffici, dove
compaiono per la prima volta gli omini,
fa seguire una sequenza di dipinti di rilettura del paesaggio toscano. La Serenata e L’attesa del 1920 immergono nei contenuti tipici della sua arte
sanguigna che trovano con Incontro in via
Toscanella del 1922, la matrice del
successivo svolgersi del suo lavoro sui gruppi, gli scorci e le fisionomie
inserite in forme geometriche e volumetrie senza tempo come in Donne alla fonte, Via Toscanella,
L’artigiano, quest’ultimo ispirato al
padre, secondo Piero Pananti «una delle opere di alta qualità che da tempo
non si vedono».
Rosai non
aveva galleristi e nemmeno un nucleo apprezzabile di collezionisti. Lavorava
per la cerchia degli amici, come ad esempio Romano Sbilenchi, che di lui ha
tracciato un ritratto memorabile, e, fra le sue poche fonti di guadagno c’era
la collaborazione ad alcune testate dell’epoca fascista, come Il Bargello, che gli pubblicava dei
disegni. Anche questa collaborazione rischiò di naufragare dopo la stipula dei
Patti Lateranensi. Rosai ebbe allora la certezza che lo spirito diciannovista
era stato del tutto tradito e reagì con durezza, pubblicando un violento
pamphlet dal titolo Per lo svaticanamento
dell’Italia, che provocò un grave disagio nella federazione fiorentina.
In
quella circostanza, venne a galla l’omosessualità del pittore sulla quale i
gerarchi avevano fino ad allora mantenuto un prudente riserbo. Sulla scia dello
scandalo che il suo scritto aveva suscitato, nacque una polemica che investì
l’uomo, prima ancora che l’artista. Rosai fu in pratica costretto a prendere
moglie, sposando un’amica d’infanzia che conosceva la sua natura e la
tollerava.
Negli
anni Trenta la vita di Rosai fu grama. Avvelenato dal proprio disagio, andò a
vivere in luoghi solitari, nella speranza di erigere una barriera fra sé e il
mondo. Era come un adolescente che stava invecchiando. Qualcosa, nel suo
meccanismo interiore, si era inceppato. Era a disagio con il proprio corpo, che
non riusciva ad accettare. Nell’era del nascente Astrattismo, dell’Aeropittura
e di una figurazione spesso suadente di forme e carica di cultura letteraria,
la pittura di Rosai è originale, personale, avulsa da ambienti organizzati,
come nel caso di L’uomo sulla panchina
del 1930 solo e solitario, che dorme forse il suo sogno di vita, in una posa
che si fa seguire nel movimento, nell’atteggiamento, nei particolari, in quei
colori che s’identificano nella natura ma cupi e smorti come l’esistenza. O
come i quadri nei quali dipinge concerti eseguiti da strumentisti improvvisati,
con cappelli e abiti stirati per l’occasionale esibizione, nasi all’insù, aria
stranita e quel sentore di autentico che la storia sta per violare.
L’impatto
dei paesaggi geometrici e tonali, la morbidezza e la concretezza dei rustici,
degli albereti, dei borghi, delle stradicciole che paiono condurre a svolte
segrete, si incentra nella grandiosità del suo impietoso Autoritratto del 1933 dove traspare la malinconia della sua
specialissima condizione di uomo e di artista: animoso, in lotta con un’effigie
che solo raramente si ricompone e si mostra docile, mentre molto spesso è
travolta dai fumi della collera, dall’anelito di una speranza sempre sospinta
indietro, le sue mani enormi erano come lo specchio di un qualcosa di abnorme
che fuoriesce dagli schemi e procura dolore. Chi osserva la pittura di Rosai non
potrà restare indifferente a questo volto dove è scritta la vita, come non può
rimanere indifferente agli scorci, alle viuzze, ai cieli plumbei e ventosi ai
colori obliqui delle sere.
L’ultimo
Rosai - il Rosai del periodo chiaro - alterna forti figure plastiche: Ritratto di A. Parronchi, Nudo e Nudo di ragazzo, a segni decisi e netti, a vaporosità come Strada di campagna e Santo Spirito.
Sono
proprio i nudi, campioni di una monumentale figuratività che, con la loro
dolorosa fisicità, proiettano Rosai in una prospettiva europea e, secondo Cavallo,
i suoi nudi «esprimono la violenza
dell’essere, la corruttibilità del corpo, mantenendo l’involucro formale».
Rosai
scrive in una sua memoria del 1930: «Non
so rendermi conto nemmeno io di cosa ci fosse in te, nei tuoi occhi, nella tua
voce, su tutta la tua faccia e il tuo corpo bellissimo… ma ti confesso che da
quando ti vidi, tutto cambiò in me e un desiderio grande di amare le cose, il
cielo, Iddio tutto, nacque nel mio animo e avrei voluto che tu mi avessi
seguito in questa ascesa…» ad un ragazzo di nome Valentino. Sentimenti come
questi ispirarono al pittore una serie di nudi maschili di forte tensione
drammatica.
L’amicizia
è consacrata in un Ritratto di Piero
Santi del 1955 dove ci pare sia espresso un dolore o un abbandono e che
indica, come leggeva Valsecchi «...a
quale grado di furore pittorico fosse giunto il lavoro di Rosai».
A
Venezia, in occasione della Biennale del 1956, viene allestita
una grande retrospettiva della sua opera.
Nel
1957, mentre cura ad Ivrea l’allestimento di una sua personale, muore
colto da infarto.
Ottone
Rosai è ricordato anche come scrittore: le sue opere letterarie più
significative sono: Il libro di un
teppista del 1919 in cui narra delle sue esperienze di guerra, Via Toscanella del 1930, Dentro la guerra del 1934 e Vecchio Autoritratto del 1951.
Massimo Capuozzo
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