Da Piazza Tasso, seguendo via De Maio, si arriva alla Basilica di Sant’Antonino, collocata
nell’omonima piazza, chiusa sul lato destro dalla basilica.
La
Basilica fu costruita nel luogo dove sorgeva un antico oratorio, edificato
secondo la tradizione nel IX secolo per accogliere il sepolcro del Santo, che
aveva trovato rifugio durante l’invasione longobarda; tuttavia la presenza di
alcuni elementi ornamentali dell’XI secolo, come la cornice in tufo bicromo del
portale laterale dalle forme romanico-bizantine, fa spostare in avanti la data
di edificazione della Basilica.
Dedicata
al Santo Patrono di Sorrento, la chiesa fu costruita intorno all’anno Mille e
poi interessata da restauri e rinnovamenti tra il XVII e il XIX secolo. Nel
1608, infatti, la chiesa passò nelle mani dei padri teatini e fino alla metà
del Settecento furono impegnati nell’opera di ammodernamento, in chiave
barocca, dell’intera basilica: nel 1668 fu rifatta la facciata con il
campanile, mentre nel corso del XVIII secolo furono aggiunti fregi e stucchi.
Nel 1866, con la soppressione dei monasteri, i PP. Teatini dovettero lasciare
la chiesa, che fu affidata nuovamente ad un rettore.
Occorre
spendere qual parola sul genius loci Sant’Antonino,
partono di Sorrento.
Antonino
Cacciottolo, noto come sant'Antonino abate o sant'Antonino di Sorrento
(Campagna, VI secolo – Sorrento, 14 febbraio 625), fu un benedettino, eremita e
abate. Nacque presumibilmente nella seconda metà del VI secolo nel casale S. Silvestro a Campagna d'Eboli. Figlio di Vitale Alessandro
Catello (cognome modificato in Cacciottolo per derivazione dialettale) e
Adelicia Maddalena De Berea, fra il 555 e il 556 divenne orfano di entrambi i
genitori; accolto dai benedettini dell'abbazia
di Santa Maria de Strada o di Furano
di Campagna, vi rimase iniziando il suo noviziato fino alla fine del 500.
Entrò
nel monastero benedettino di Montecassino, (sebbene alcune notizie individuano
il monastero presso la sua città natale), ma ben presto, in seguito all'assalto
longobardo del 589 dovette riparare a Castellammare di Stabia, ospitato dal
vescovo Catello del quale divenne uomo di fiducia e poi vicario diocesano. San
Catello desiderava dedicarsi alla vita contemplativa e, quando decise di
ritirarsi sul Monte Aureo, affidò a Sant'Antonino la diocesi di Stabia. Durante
il periodo di reggenza della diocesi il richiamo alla vita monastica fu così
forte che Antonino chiese a Catello di ritornare in sede. Antonino a sua volta
si ritirò sul Monte Aureo; visse in una grotta naturale in solitudine cibandosi
di erbe. Fu infine raggiunto da Catello che decise nuovamente di ritirarsi sul
monte e di dedicarsi alle cure della diocesi sporadicamente.
Un
giorno ai due apparve l'arcangelo Michele che chiese che fosse costruita una
chiesa in quel posto da dove si dominava il golfo e si ammirava il Vesuvio.
Così i due santi cominciarono a costruire una chiesa in pietra e legno nel
punto del Faito che ora si chiama Monte
S. Angelo o Punta S. Michele.
I due
religiosi furono accusati di apostasia e culti idolatrici che misero in allarme
papa Sabiniano. Dopo breve tempo, però, furono prosciolti dalle accuse, grazie
a papa Bonifacio III e poterono riprendere le loro attività di ampliamento
della chiesa sul monte che ben presto divenne meta di intensi pellegrinaggi
dalla vicina città di Sorrento.
Antonino
fu invitato dai sorrentini a trasferirsi in città e fu accolto dall'abate
Bonifacio nel monastero benedettino di S.
Agrippino che si trovava dove sorge ora la basilica.
Alla
morte di Bonifacio, Antonino divenne suo successore. Si racconta che un giorno
un fanciullo che giocava sulla spiaggia di Sorrento fu inghiottito da una
balena. La mamma disperata chiese aiuto a Sant'Antonino che si recò sulla
spiaggia ed intimò ai pescatori di cercare il mostro marino e di condurlo in
sua presenza. Quando ciò avvenne fu aperto il ventre del mostro e ne uscì sano
e salvo il fanciullo. Quest'episodio costituisce uno dei miracoli più
importanti compiuti in vita dal santo che diventò un riferimento per tutta la
città e spiega il motivo della presenza, nell’atrio della basilica, di due ossa
di cetaceo.
Antonino
morì il 14 febbraio 625 ed i sorrentini eressero la cripta e la basilica sul
luogo della sua sepoltura, sul bastione della cinta muraria perché per suo
volere fu sepolto né dentro, né fuori la città ma nelle mura della stessa. Da
questo scaturì l'episodio noto come Miracolo della costa di Sant'Antonino:
durante lavori di scavo delle mura un operaio sarebbe stato colpito ad un
occhio da una costa del santo, rimanendo accecato ma, in seguito alla
processione ordinata dal vescovo, ci fu la guarigione immediata del
malcapitato.
Ammirando
i dipinti della basilica si intuisce l'amore di Sorrento per il santo ed i
miracoli compiuti: la vittoria navale contro i saraceni, nell'assedio del
terribile generale Grillo, la preservazione dalla peste, la liberazione dal
colera, la liberazione degli indemoniati.
Si
racconta che quando Sorrento fu saccheggiata dai turchi e la statua trafugata,
non avendo denaro a sufficienza per farne un'altra i sorrentini vi avevano
rinunciato, ma avvenne il miracolo: sant'Antonino si presentò in carne ed ossa
allo scultore al quale pagò direttamente la statua.
Importanti
lavori di ristrutturazione si ebbero a seguito del terremoto del 1980; mentre
sia l’abside sia la cripta sono stati oggetto di altri interventi di restauro,
condotti dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici Paesaggistici Storici
Artistici ed Etnoantropologici di Napoli e Provincia, tra il 2010 ed il 2011.
La facciata della basilica è in stile
romanico[1],
in tufo grigio, divisa in due da una trabeazione, mentre delle lesene, la
dividono verticalmente in tre parti: nella zona inferiore, al centro, vi è un
arco che funziona da ingresso, mentre nella zona superiore si aprono tre grossi
finestroni a volta, quello centrale di maggiori dimensioni, rispetto ai due
laterali, più piccoli.
Sul
fianco destro della Basilica si può ammirare uno splendido portale del XI secolo con un architrave sostenuto da capitelli
corinzi di epoca romana.
Sul lato
sinistro, incassato nella facciata, vi è il campanile,
con la cella campanaria illuminata da quattro monofore.
Superato
il portale ad arco, preceduto da
quattro gradini, si accede ad un piccolo portico, il quale conserva, nel lato
destro, un'urna con le spoglie del rettore, monsignor Francesco Gargiulo. Sul lato meridionale della chiesa si apre una
piccola porta, risalente al X secolo, tra due colonne in marmo giallo antico
con capitelli in ordine corinzio, sormontato da un arco, all'interno del quale
vi è una lunetta con un'incisione di una croce tra due palme.
L’interno, a croce latina, è diviso in tre
navate da dodici colonne marmoree, sei per lato, provenienti con ogni
probabilità da una delle villae maritimae[2]
costruite in epoca romana lungo la costa; la stessa provenienza potrebbero
avere le due colonne del portale d’ingresso che sorreggono un architrave in
marmo e la lunetta affrescata con l’immagine del Santo.
Nella navata centrale, nello spazio tra due
archi, sono posti degli ovali, all'interno dei quali sono affrescate scene
della vita di sant'Antonino: nel lato destro le raffigurazioni di Sant'Antonino che salva un muratore caduto
dal campanile, l'Apparizione del Santo
allo scultore che dovrà realizzare la sua statua, la Fuga della flotta saracena, la Consegna
di pesci ai suoi devoti, l'Entrata
del santo a Sorrento, l'Apparizione a
papa Gregorio I che aveva ingiustamente accusato san Catello ed il torchio
accesso sulla cima del monte, mentre nel lato sinistro il Salvataggio di una barca dal naufragio, la liberazione di un'indemoniata, la Guarigione di un diacono avvelenato da un serpente, la Salvezza di un capro, la Liberazione di alcuni operai da un macigno.
Altri
affreschi sono posti nel cleristorio
(zona tra il cornicione ed il soffitto al di sopra degli archi), dove si aprono
anche dei finestroni: sono rappresentati il Fanciullo
liberato dalla balena, l'Uscita di
acqua dal monte Aureo e l'Apparizione
dell'arcangelo Michele.
La struttura
custodisce tra l’altro dipinti del Seicento di Giovanni Bernardo Lama (pittore attivo principalmente a Napoli
nella prima metà del XVIII secolo).
La navata maggiore è coperta da un soffitto decorato con rosoni d'oro su
fondo azzurro e dipinto a lacunari che mostra al centro un telone di Giovan
Battista Lama con la Storia di
Sant’Antonino che libera dal demonio la figlia di Sicardo principe di
Benevento, opera 1734.
Lo
stesso artista eseguì anche i tondi
laterali con San Gaetano da Thiene e Sant’Andrea da Avellino.
Nel transetto ci sono due bei dipinti di Giacomo Del Po (Roma 1652 - Napoli
1726), importanti per il loro valore storico oltre che artistico: nella parte
dell'abside, si trova un coro ligneo,
con alle pareti quattro tele, tutte opera di Giacomo del Po: nella parte curva le raffigurazioni di sant'Antonino con i santi Baccolo e Atanasio
e san Renato e san Valerio, entrambe
realizzate nel 1686, mentre nelle pareti laterali, a destra, la Liberazione di Sorrento dall'assedio di
Giovanni Grillo del 1648 e, a sinistra, la Guarigione
della città dalla peste del 1656. Ritroviamo il pittore romano anche nel
catino absidale dove lascia un Riposo
nella fuga in Egitto ed un’Estasi di
San Gaetano del 1685; le due tele introducono alla calotta con gli
affreschi più antichi dei compatroni di Sorrento con Sant’Antonino che schiaccia il Maligno.
Le due
navate laterali ospitano ognuna due cappelle con altrettanti altari in marmo:
quelle a destra una dedicata originariamente alla Madonna del Rosario ed in
seguito a san Giuseppe e a sant'Andrea Avellino, mentre quelle di sinistra una
a san Gaetano e l'altra all'Immacolata, con statua della Vergine, risalente al
1848, opera di Francesco Saverio
Citarelli; lungo le navate inoltre sono posti otto dipinti, quattro per
ogni lato, raffiguranti scene di vita di Sant'Andrea e San Gaetano.
La sagrestia della Chiesa, a cui si accede
tramite due ingressi custodisce due tesori preziosi: i frammenti di un antico
pavimento maiolicato ed un pregiato esempio di presepio napoletano del '700,
attribuito ad allievi della scuola di Sammartino con figure presepiali addobbate
da abiti realizzati con stoffe pregiate ed arricchiti da merletti preziosi,
voluto da Silvio Salvatore Gargiulo e realizzato da Ciro Finto e Antonio Lebro.
Originariamente questo era composto da numerosi pezzi, tutti del XVIII secolo,
comprendenti centocinquantadue pastori, di cui sessantacinque animali, e
settantacinque pezzi vari, realizzati con i più disparati materiali come
argento, avorio, rame, vetro ed oro. Tuttavia nella notte tra il 28 ed il 29
gennaio 1983, tutte le statuette furono rubate e fu possibile realizzare un
nuovo presepe solo grazie alle donazioni dei sorrentini, i quali cedettero alla
basilica diversi pastori d'epoca di loro proprietà: si tratta di un classico
presepe napoletano, con riproduzioni di alcuni scorci di Sorrento, come i ruderi
dell'acquedotto romano, le bifore di palazzo Correale e l'antica discesa verso
Marina Piccola ed al centro della scena, tra le rovine di un tempio pagano, la
natività, mentre intorno sono raffigurate scene ed oggetti di vita quotidiana,
tra cui la riproduzione di prodotti tipici culinari come torrone, roccocò e
castagne del monaco; caratteristico anche il corteo dei Re Magi ed i loro
ricchi doni, con il seguito di schiavi ed odalische oltre che ad asiatici,
mongoli e negri.
La cripta, chiamata comunemente Succorpo, si trova in un'area
sottostante la chiesa ed ha accesso tramite due scalinate in marmo poste alla
fine delle due navate laterali, con balaustre scolpite nel 1753 e decorazioni
alle pareti in stucco del 1778 che hanno coperto gli affreschi del 1699, opera
di Pietro Anton Squilles: l'ambiente
è sostenuto da quattro colonne realizzate con marmo recuperato da antichi
templi pagani, le quali sorreggono quattro archi piccoli nella zona dell'altare
e quattro più grandi che vanno verso l'esterno; racchiuso in una balaustra vi è
l'altare con la statua e le spoglie del santo ed una lampada ad olio in
argento, perennemente accesa, ed accarezzata dai fedeli in segno di devozione,
in quanto, secondo la tradizione, dopo essersi rotto una gamba, sant'Antonino
sognò di prendere dell'olio da un'ampolla su suggerimento della Madonna,
risvegliandosi, il mattino successivo, guarito.
Nella
cripta vi è un altare centrale con il
sepolcro del Santo ed inoltre sono presenti altri due piccoli altari: quello
sulla destra presenta un crocifisso in legno ricoperto in argento, portato in
processione in caso di calamità o in segno di penitenza, mentre quello sul lato
sinistro è abbellito da un affresco della Madonna
delle Grazie, risalente al XIV secolo, in origine dipinto sulle mura
cittadine e che risulta essere la più antica raffigurazione di Maria a
Sorrento.
All'interno
della cripta sono esposte sei tele del sorrentino Carlo Amalfi del 1778, raffiguranti san Valerio, san Renato, sant'Atanasio, san Baccolo, san Gennaro
e san Nicola e numerosi ex voto, in
particolare dipinti, alcuni di autori famosi come Edoardo De Martino, i cui quadri si trovano all'interno di Buckingham Palace a Londra.
Essa
inoltre, raccoglie numerose opere d'arte ed ex voto; tra le opere due tavole ad
olio, una ritraente la Madonna col
Bambino, l'altra San Catello e
Sant'Antonino, opera di Luca de Maxo,
risalente al 1539, un dipinto della
Madonna in stile bizantino e due sculture in legno una del Crocifisso, l'altra della Madonna del Rosario, del XVII secolo.
Gli ex voto invece, in passato composti da gioielli, opere pittoriche, sagome
di corpo umano, si sono ridotti a poche unità e quelli conservati nella sagrestia
sono settantasei dipinti, quasi tutti legati al tema del mare, probabilmente
doni di marinai.
Superati
cinque gradini si raggiunge la crociera, nel cui soffitto vi è un dipinto dello
Spirito Santo, che ha sostituito le
antiche pitture dei santi Antonino e Gaetano; nella stessa zona è anche posto
l'altare maggiore, proveniente dal Monastero
della Santissima Trinità di Sorrento e consacrato il 1º luglio 1814 da
monsignor Vincenzo Calà ed alle sue spalle. Sono presenti inoltre due reliquiari del 1608, contenenti uno
diciassette reliquie di san Baccolo e l'altro ventuno reliquie di san Placido:
questi erano custoditi originariamente nella cattedrale di Sorrento e poi
trasferiti nella basilica di Sant'Antonino tra il 1659 ed il 1679. Nella chiesa
è inoltre conservata una statua di
sant'Antonino in argento, sulla quale è riportata la data di realizzazione
ossia il 2 febbraio 1564 e il nome del realizzatore, Scipio di Costantio: la leggenda vuole che una prima statua fosse
stata realizzata nel 1494, ma a seguito di un'incursione dei saraceni, il 13
giugno 1558, questa fu depredata e fusa per ricavarne delle armi. Era volontà
dei sorrentini realizzarne una nuova, ma mancando i fondi, l'opera tardava ad
essere terminata: fu così lo stesso sant'Antonino che apparve all'orafo
napoletano che era stato incaricato di compiere l'opera, consegnandogli un
sacchetto con il resto della somma mancante e intrattenendosi per diverso
tempo, in modo tale da farsi ben osservare affinché la statua fosse quanto più
simile a lui. I sorrentini, una volta trovati i fondi e recatisi
dall'artigiano, seppero del miracolo e a testimonianza di ciò fecero
aggiungere, tra le mani del santo, un sacchetto, simbolo della cifra versata.
Quasi tutti i manufatti fin ora descritti furono
voluti dai padri teatini.
Marianna Donnarumma
[1]
Il Romanico – La facciata è caratterizzata da tetti poco inclinati e da strette
finestre, il portale, costituito da un arco a tutto sesto, generalmente è
strombato, cioè svasato verso l’esterno, ed è riccamente decorato con sculture
raffiguranti scene religiose o animali simbolici e con fasce decorative di tipo
geometrico o floreale, è riccamente decorato con sculture rappresentanti scene
religiose e animali selvatici.
Al
centro della facciata, in alto, è quasi sempre presente un rosone.
La
pianta è a croce latina, generalmente divisa in tre navate. Per la costruzione
erano usati materiali semplici e magari di recupero tratti da monumenti semi
distrutti: colonne, capitelli e architravi.
L’interno
è talvolta intonacato e poi dipinto a fresco. La chiesa romanica ha un aspetto
solido e gli storici dell’arte parlano di un
buon equilibrio tra i vuoti e pieni.
[2]
Le ville marittime – Intorno alla metà del II sec. a.C., quando la cultura
greca comincia ad essere accettata senza più ostacoli dalla classe dirigente
romana, appare un nuovo tipo di villa residenziale, di chiara derivazione
ellenistica, in cui, accanto alla tradizionale pars rustica, concentrata intorno all'attività di raccolta e
trasformazione dei prodotti del fundus,
assume sempre maggiore importanza la "pars
urbana", destinata a soggiorno del dominus. La tendenza a privilegiare
sempre più la parte urbana della villa, intesa ormai non solo come centro di
produzione agricola, ma anche come luogo di piacere e riposo, portò alla scelta
di siti ameni come zone costiere o pendii panoramici.
Furono
quindi aggiunti al corpo principale della residenza portici e percorsi per
passeggiate ("ambulationes").
Questo tipo di villa venne ben presto ad accogliere gli "otia" degli uomini politici romani,
quando, nelle pause dell'attività politica, potevano dedicarsi alla
soddisfazione di vari piaceri o alla coltivazione dei propri interessi
culturali.
Tali
ville non erano dunque abitate tutto l'anno dai loro proprietari; infatti
durante l'assenza di questi ultimi venivano amministrate da liberti incaricati
di sovrintendere alle attività dei vari schiavi che risiedevano nella villa.
È
proprio sulle coste della Campania, saldamente romanizzata, che sorgono le
prime ville di questo genere, per iniziativa degli ellenizzanti Scipioni, i
quali possedettero tutti ville d'otium intorno al Golfo di Napoli.
È
importante distinguere tra ville "costiere",
poste in prossimità della linea di costa, ma prive di costruzioni sul mare, e
ville "marittime", legate
ai porti, peschiere o ad altre strutture. Le ville marittime, in particolare,
godettero di largo favore presso l'aristocrazia romana soprattutto fra il I
sec. a.C. ed il I sec. d.C., quando il possedere una villa con peschiere
divenne, oltre che una moda, anche un simbolo di ricchezza. Da un punto di
vista architettonico si possono individuare due sistemi fondamentali: da un
lato le cosiddette "ville a
peristilio", che richiamano le planimetrie dei palazzi reali
ellenistici e dall'altro le "ville a
portico", che discendono dai modelli dell'edilizia domestica del mondo
orientale.
Questo
tipo di villa fu il più utilizzato, nel mondo romano, per l'edilizia costiera,
poiché meglio si adattava a seguire il pendio collinare e ad offrire un vasto
panorama. Somme enormi erano profuse nell'allestimento delle sontuose ville: a
riprova di ciò si diffuse un costoso hobby, la piscicultura, tra i ricchi
senatori, alimentando capricciose follie per l'allevamento di rarità ittiche;
il termine "piscinarius"
divenne sinonimo di vizioso scialacquatore. Ma la piscicultura poteva rivelarsi
anche un investimento oculato: su di essa, ad esempio, costruì la propria
fortuna Sergio Orata, con i suoi
vivai di ostriche nel Lucrino.
Con
il periodo delle guerre civili inizia il declino della nobilitas tradizionale e
l'ascesa di uomini nuovi che ebbero la possibilità, grazie alle proscrizioni ed
alle confische, di mettere le mani sul patrimonio dei ricchi senatori del
partito avverso. Nel III secolo la generale crisi economica e politica
dell'impero romano provocò l'abbandono di gran parte delle ville; seguì un
periodo alquanto florido che favorì il rifiorire delle grandi residenze
patrizie, ma fu di breve durata. Era ormai imminente il crollo dell'Impero
romano e, con esso, la scomparsa delle grandi ville d'otium.
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