La
chiesa di S. Maria delle Vergini, ha origini remote ma non precisabili, la
collocazione della sua nascita nel tempo è vaga, addirittura per quanto attiene
al secolo. Secondo Vincenzo Rioles – Cenni storici su Scafati, del 1923 – il
documento più antico in cui se ne faccia menzione, conservato nell’archivio
diocesano di Nola, sarebbe una bolla di Innocenzo
III emanata nel 1215 nella quale il pontefice, “accennando i confini della
Diocesi di Nola, fa memoria della chiesa Ricettizia S. Maria delle Vergini a
Nord-Ovest della stessa”.
Il
primo millennio dell’era cristiana è buio: in mancanza di cronache o documenti
espliciti, siamo liberi di individuare un periodo, diciamo l’alto medioevo,
quando un’ecclesia, vale a dire una
prima comunità di fedeli scafatesi, possa essere venuta aggregandosi. Per
quanto riguarda il carattere ricettizio
questa chiesa è definita tale “ab
immemorabili”[1].
Per
molti secoli questa chiesa dovette avere una consistenza molto modesta e
comunque in subordine rispetto alla chiesa
dell’Abbazia di Santa Maria di Realvalle a San Pietro, fondata da Carlo
d’Angiò nel tredicesimo secolo.
Per
ottenere delle informazioni riguardanti la chiesa, occorre rifarsi ad una bolla
papale del 1523, il cui contenuto è noto attraverso copie di copie, e sulla cui
autenticità più di un dubbio è stato insinuato già nel primo Ottocento. La
bolla, emanata da Clemente VII dei Medici, il 1523, fu spedita il 2 novembre
dello stesso anno al vescovo di Lettere. In essa si rileva come la Chiesa
Parrocchiale di S. Maria delle Vergini fosse fondata, costruita e dotata
dall’Universitas (termine col quale anticamente si designava il Comune) di
Scafati, con L’obolo dei fedeli, e
come ciò fosse avvenuto in un tempo antico non meglio precisato. Altro
documento importante è il resoconto della santa
visita del 1561 effettuata dal
vescovo nolano di allora Mons. Antonio Scarampa[2].
Per
quanto riguarda l’edificio, almeno nella pianta, non ha subito da allora
mutazioni. Manca nella cripta qualsiasi traccia di murature antecedenti o
elementi architettonici discordanti che potrebbero far pensare a
sovrapposizioni di edifici diversi, la chiesa com’è oggi, fu, nelle grandi
linee, costruita assieme alla cripta. Essa è l’insieme delle fondazioni
predisposte e suddivise come sepolture. Mons. Scarampa, ispezionò nel 1561, una
chiesa di estensione pari all’attuale (m. 22.50 di larghezza per 42 di
lunghezza) che certamente ha subito modifiche nei secoli successivi, ma solo in
altezza e nella disposizione degli spazi interni[3].
Di notevole importanza, è il resoconto di una santa visita successiva: quella
del 1615, che, dopo un fugace accenno all’ispezione del battistero,
dell’eucarestia e della custodia dell’olio santo, ci permette di ricavare che la
cappella di S. Maia del Parto fosse patronato
della famiglia “de Maro” e che esisteva
una cappella di “Mariae de Virginibus in qua est erecta Confraternitas
laicorum”: questo è il primo e fondamentale riferimento all’instaurazione
nell’ambito della chiesa di un vero e proprio culto di S. Maria della Vergini e
di una confraternita laica ad essa dedicata. Degna di nota, la specificazione
dell’esistenza in chiesa di un ricco reliquiario “di rame cipro” contenente
reliquie dei Santi Fortunato, Bonifacio, Lorenzo, Maurilio, Cordelio, Longino,
Biagio, Stefano, e di una santa, Pontiana, oltre ad una “pietra della casa dove
si incarnò N.S.” e “Lo legno della Croce”.
Altre
famiglie notabili scafatesi che avevano diritto di patronato su cappelle della
chiesa, oltre ai già menzionati D’Amaro, erano i Cisale (S. Maria delle Grazie)
ed i Morlicchio ( S. Maria del Carmelo).
Tre ulteriori sante visite, susseguitesi nel corso del Seicento sono avare di notizie e di nessuna pratica utilità. Per quanto riguarda il Settecento, ci vengono in aiuto solo scarsi e sporadici riferimenti in carte d’archivio.
Il
primo è del 1752. Scafati era allora ancora un feudo del Principe di Valle e
narra come una commissione di quattro ingegneri fosse stata da questi inviata a
Napoli a Scafati per ispezionare lo stato miserevole in cui si trovava
l’edificio, e proporre degli interventi. Essi proposero di ricostruire la
cupola poiché lesionata dalle intemperie, le autorità comunali autorizzarono la
ricostruzione della cupola e dei tetti delle cappelle anch’esse lesionate.
Cupola lesionata e minacciante di crollare, cappelle dal tetto sfondato e
tenute su con opere provvisorie di sostegno: questo è il quadro che emerge dal
manoscritto, assieme alla buona volontà sia del barone che delle autorità
cittadine di riportare la chiesa ad una situazione di decoro e sicurezza per i
frequentatori.
Nel
1769 le stesse autorità vengono nella determinazione di sostituire la balaustra
dell’altare maggiore: decidono di “fare una palaustrata” di marmo sostituendola
a quella di legno, e per fare ciò incaricarono il “Professore Marmoraro” D.
Giuseppe Cimmafonte. La bella balaustra che tuttora esiste, è datata quindi
1769 o poco dopo; non è molto azzardato attribuire alla stessa epoca ad allo
stesso artigiano anche l’altare maggiore e l’altare dell’Arciconfraternita,
trasferito nella sua sede attuale dall’interno della chiesa principale, dove
doveva trovarsi nel transetto di destra. Per quanto riguarda il battistero, si
è avuta la soddisfazione di poter attribuire l’opera al Cimmafonte, difatti
ispenzionandone l’interno per controllare la data in esso incisa (1761) e la
sua posizione si è rilevato che la data è sormontata da due iniziali CF, che
stanno per Cimmafonte Fecit.
Il 26
giugno 1769 ha luogo un’altra visita da parte dell’ordinario diocesano. Scarni
gli atti, resi interessanti dal solo fatto che per la prima volta viene
menzionata la sacrestia, nella quale il vescovo chiede venga istallata una
fontanina di marmo per l’abluzione delle mani dei sacerdoti prima e dopo la
messa (probabilmente si tratta del lavabo che si trova tuttora in sacrestia.
Gli
interventi di restauro proseguono senza sosta: nel 1777 viene deciso di rifare
il tetto dei “tre Cappelloni”, il tetto sovrastante la cupola, e lo
smantellamento del “lanternino di piombo”.
Questo
è anche il secolo in cui la chiesa la chiesa si arricchisce di alcuni tra i più
pregevoli dipinti (a parte quelli del polittico probabilmente già posto da
tempo): la stupenda Madonna del Carmelo
con le anime purganti di Fedele
Fischetti, firmata e datata 1759, che si trova nel transetto di sinistra;
la tela di Angelo Mozzillo, datata e
firmata 1787, raffigurante la Madonna con
S. Giovanni Battista e la Maddalena, a sinistra dell’altare maggiore; i due
tondi siti nell’area presbiterale, uno raffigurante un angelo custode, l’altro San
Michele arcangelo, attribuiti a Giuseppe
Bonito; l’Adorazione dei pastori,
nella navata sinistra, attribuita a Pietro
Bardellino; la Madonna con S. Antonio
di Padova e S. Francesco d’Assisi, di autore ignoto, nella navata destra;
sotto la volta della navata centrale la Madonna
in gloria con i santi anch’essa di autore ignoto del Settecento e la statua
lignea della Madonna delle Vergini,
attribuita a Nicola Fumo ed all’anno
1713.
Tutto
ciò induce a pensare che l’edificio sia stato riattato a fondo proprio nel XIX
secolo, poiché tante opere d’arte che vi sono ospitate furono collocate al loro
posto dove le vediamo in funzione dei nuovi spazi, e, superfici, che si erano
venute a creare.
Il
pantheon interno è anche mutato rispetto a quello settecentesco, altro indizio
che punta ad una profonda ristrutturazione del luogo di culto, forse anche in
conseguenza all’incendio verificatosi, nel corso del precedente secolo[4].
La chiesa che era stata fino ad allora ricettizia innumerata, diventa numerata,
venendo fissato in sedici il numero di costoro, compreso il parroco e viene
elevata allo stato giuridico di collegiata.
L’Ottocento
è il secolo più documentato, in prevalenza da incartamenti relativi a lunghe
liti giudiziarie tra il Comune da una parte e la chiesa ed il vescovo
dall’altra, quando il patronato laicale fu posto in discussione.
Nel
1860 fu eretto il nuovo edificio dell’Arciconfraternita, cha da allora ospita
sull’altare maggiore della relativa cappella la statua titolare di S. Maria
delle Vergini, all’uopo rimossa dalla nicchia dove era collocata S. Anna nel
transetto di destra della chiesa. La nuova costruzione fu realizzata previo
abbattimento di un edificio circolare che ospitava il battistero e un paio di
edicole che si affacciavano sul Sarno, una con un crocifisso, l’altra con
un’immagine sacra impossibile da identificare, ma forse della stessa Madonna
delle Vergini.
Un’altra
tornata di lavori decorativi importanti ebbe termine nel 1866, anno in cui il
pittore Vincenzo Galoppi firmò,
datandola, l’ultima delle due fatiche alla cupola delle volte della chiesa, un Coro di angeli musici immediatamente
sopra l’ingresso. L’artista aveva allora già dipinto il maestoso interno della
cupola, illustandovi nel contesto di angeli e santi, scene della disputa teologica tra Francescani e Domenicani sulla
verginità di Maria, ed altri affreschi sull’area presbiterale (proclamazione del dogma dell’immacolata
da parte di Pio IX; Gesù tra i pargoli);
sul transetto di destra, San Domenico di
Guzman che predica il rosario e su quello di sinistra una scena biblica; ed infine un secondo Coro di angeli musici sotto la volta della navata centrale. Opera
dei suoi aiutanti sono invece le figure di santi, profeti, personaggi femminili
del Vecchio Testamento, allegorie delle virtù cardinali e teologali in veste
femminile, che adornano unghie, lunette e sesti della cupola, delle volte e dei
finestroni, che essendo state nel tempo a più riprese sfigurate dalle
intemperie e dalle infiltrazioni, hanno subito restauri non sempre felici. È interessante
notare che la dedica che figura alla base interna della cupola “MARIAE VIRGINI
ANTE PARTUM IN PARTU POST PARTUM HOC TEMPLUM DICATUM” ci riconduce ad un
dimenticato culto di S. Maria del Parto alla quale era innalzato un altare nel
Cinquecento.
Passato
poco più di un ventennio dalla sua costruzione, quando l’edificio
dell’Arciconfraternita venne devastato da un terribile incendio; questo scoppiò
la notte del 2 febbraio 1882. La statua ne uscì piuttosto malconcia e fu
necessario un intervento di restauro eseguito dal “valente scultore Avallone”.
La cappella venne riportata al pristino stato, ed una lapide collocata al suo
interno a ricordare l’avvenuto restauro.
Il 1906
segna un’altra data importante per l’Arciconfraternita: è in questo anno che gli
scafatesi chiesero al vescovo Agnello Renzullo di rendersi tramite presso il
Capitolo vaticano acciocché la statua della Patrona venisse incoronata,
beneficiando di quanto disposto per casi del genere fin dal sedicesimo secolo
da parte del conte Alessandro Sforza, che aveva destinato all’uopo le opportune
risorse finanziarie. Il breve di accettazione dell’istanza pervenne da Roma e
il 21 luglio si procedette a fregiare il capo della statua della corona aurea e
dell’aureola di dodici stelle.
Con
l’opera tenace e proficua dei parroci che si sono susseguiti alla guida della
chiesa, Sabato Aiello, Vincenzo Rioles, Domenico Cannavacciuolo ed Angelo
Pagano e con il concorso delle autorità cittadine, del clero e della
popolazione, è stata operata una serie ininterrotta di restauri sia al corpo
principale della chiesa sia alla cappella dell’Arciconfraternita.
La
chiesa pur dopo le spoliazioni ed i trafugamenti subiti, rimane depositaria di
un patrimonio artistico eccezionale in termini generali ed unico a livello
locale.
Rosa Pirone
[1] Receptitiae
erano quelle chiese formate da un collegio di chierici al quale potevano essere
recepti, cioè ammessi, soltanto coloro che erano originari del luogo in cui
esse sorgevano. L’organizzazione ricettizia era una delle forme più semplici e
più primitive, che una comunità locale potesse darsi, e questo soltanto ci
porta a concludere che anche la ricettizia
di S. Maria delle Vergini potrebbe essere ascritta al primo insorgere di
tali entità nel Meridione. Un altro carattere che accomunava le ricettizie è
che di norma esse erano di patronato di qualche famiglia, o del comune: così fu
anche per quella di Scafati. Il diritto di patronato consisteva nel fatto che
ai fondatori era riservato il privilegio di presentare all’autorità
ecclesiastica i candidati ad un beneficio di aver voce in capitolo per la
designazione dei chierici e del parroco.
[2] Ad esso possiamo far riferimento per alcune informazioni
di grande valore storico. Emerge che l’altare maggiore era adorno di un grande
gruppo ligneo dorato raffigurante la Madonna, S. Pietro e S. Michele: non c’era
dunque ancora, nel 1561, il grande polittico che ora si ammira, eretto qualche
tempo dopo anche se alcuni quadri che lo compongono (le quattro figure di
santi) erano già dipinti.
La
chiesa aveva una serie di cappelle sulla navata sinistra, e di altari su quella
destra, dov’era anche il battistero, di modo che, seguendo un percorso
antiorario a partire dall’altare maggiore si incontravano sul seguente ordine:
una cappella decorata dedicata a S. Maria del Parto; una cappella dedicata
all’Annunziata; una ex cappella appartenente alla confraternita in onore della
Madonna delle Grazie, il cui altare era adorno di un’icona lignea in rilievo
raffigurante la Madonna stessa con S. Elena e S. Marta, ed un’ultima cappella
dedicata a S. Maria ed altri santi, con statua in legno della Madonna,
arricchita da due colonne. Numerose sepolture si notavano al pavimento di
queste ultime cappelle laterali. Passando davanti alla porta di accesso alla
chiesa e portandosi sull’altro lato, seguendo lo stesso percorso, si incontrava
per primo un altare dedicato a S. Leonardo, poi il battistero, e poi due altari
disadorni.
[3]
Una lapide/botola che fino ad alcuni decenni fa chiudeva l’accesso ad uno degli
avelli gentilizi sul pavimento della chiesa recava questa scritta: D.O.M. DE
FAMILIA COSMI ET DAMIANI AGNELLI FIENGA A.D. 1623. (per misericordia di Dio
Onnipotente / della famiglia di Cosimo e Damiano Aniello Fienga / nell’anno del
Signore 1623). L’epigrafe attesta che la cripta è stata usata almeno a partire
dall’inizio del ‘600 e fissa una data ante quem per la costruzione
dell’assieme, che se prendiamo per buona la bolla del 1523, possiamo ascrivere
al quindicesimo secolo.
[4]
In chiusura del secolo l’università di Scafati volle redigere gli statuti della
chiesa, alla cui stesura parteciparono tutti i membri del clero. In essi si
indica come l’amministrazione della chiesa fosse sempre tenuta dall’università,
che ne nominava il parroco, presentando il candidato al vescovo per
l’istituzione.
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