Il nostro lavoro ha avuto come fonte documentaria ed iconografica il testo di AAVV Antica cattedrale di Massa Lubrense - Santa Maria delle Grazie - Franco Di Mauro Editore, testo che ci è stato prezioso per la nostra ricerca.
Massa Lubrense è collegata con diciassette frazioni. Alcuni toponimi rilevano diretti rapporti con casali già esistenti al tempo dei Romani: ol nome di Marciano, ad esempio, deriva, infatti, dal nome della gens Marcia.
Massa Lubrense è collegata con diciassette frazioni. Alcuni toponimi rilevano diretti rapporti con casali già esistenti al tempo dei Romani: ol nome di Marciano, ad esempio, deriva, infatti, dal nome della gens Marcia.
Prima
della conquista dei Romani, Massa Lubrense fu sede di colonizzazione da parte
dei Greci: la difficoltà di navigazione rese necessario individuare un'area
sulla costa del promontorio su cui edificare un tempio dedicato alle Sirene. In
seguito un tempio consacrato alla dea Atena sorse sulla Punta Campanella, dove
attualmente si eleva una torre cinquecentesca.
Già
durante la decadenza dell'Impero Romano, il territorio lubrense fu esposto ai
frequenti attacchi dei predoni del mare, sopratutto nelle ville romane di tipo
marittimo di cui le più importanti furono: la villa di Pollio Felice a Puolo, la villa in località Chiaia, la villa
Marciano e le ville d'Isca e di Crapolla.
La ricchezza di queste dimore è testimoniata dalle opere d'arte che le
abbellivano, come il ninfeo della
villa di Chiaia oggi al Museo Villet
di Piano di Sorrento.
Nel
periodo in cui il territorio di Sorrento entrò a far parte della monarchia
normanna, i Massesi occuparono i luoghi più interni della collina
dell'Annunziata, dove nel 1133 fu edificata una fortezza.
Carlo
d'Angiò nel 1273 ordinò di radere al suolo la cittadella perché i Massesi non
si erano schierati dalla sua parte. La città dell'Annunziata fu ricostruita a
partire dal 1389, estendendosi sulla collina di Santa Maria e fu di nuovo
abbattuta nel 1465 da Ferrante I di Aragona.
Anche
la cattedrale fu rasa al suolo e successivamente ricostruita in località Palma.
Dal
punto di vista della struttura, si evidenzia che la struttura dell'Università
di Massa si avvicina per forma urbana al tipo tentacolare costituito da casali
che gravavano fino all'età aragonese alle nuove strutture di Massa centro.
Altro
importante segno identificativo del territorio massese è costituito dalle torri
di difesa. Tre furono le torri angioine: dei Galli, di capo Corvo sul
promontorio omonimo e di Minerva sul promontorio di punta Campanella, quest'ultima
costruita per volere di Roberto d'Angiò tra il 1334 e il 1335. Altre dieci
torri furono costruite in seguito al decreto vicereale del 1563, dopo
l'invasione turca del 1558: torre di Fossa di Papa, torre di Minerva, torre di
Montalto, torre di Crapolla, torre di Nerano, torre di Recommone, torre di
Toledo, torre Baccoli, torre San Lorenzo e torre di Capo Massa. Le torri
angioine avevano forma circolare con basamento tronco conico a cui era
sovrapposto un toro in pietra di tufo pipernoide. Le torri vicereali mostrano
invece pianta quadrata con volte a botte incrociate. Il passaggio dalla forma
circolare a quella quadrata e con muratura di spessore maggiore verso il mare e
minore verso monte, fu dovuto all'avvento dell'artiglieria che richiedeva forme
più solide per sostenere i colpi. La torre di Minerva e la torre Toledo furono
riarmate dai Francesi per difendere la costa dagli attacchi degli Inglesi che
avevano occupato l'isola di Capri.
Contemporaneamente
alla costruzione delle torri costiere anche i privati e gli ordini religiosi
cominciarono a dotare le proprie dimore di torri di difesa. Per il pericolo
rappresentato dalle incursioni turche fu ricostruita sulla collina
dell'Annunziata l'antica città distrutta da Ferrante, dotata di una nuova ampia
cinta muraria in grado di difendere la popolazione. Di questa importante opera
fu incaricato l'ingegnere Giacomo Lentieri.
Nel
XVII secolo la crisi in cui versava il viceregno mostrò i suoi effetti negativi
anche a Massa Lubrense che fu interessata solo da interventi promossi dagli
ordini religiosi, tra i quali il più importante è quello del collegio gesuita,
imponete edificio con giardino e chiesa.
Fondamentale
per lo sviluppo di Massa Lubrense fu il tracciato di nuove strade voluto da
Ferdinando II di Borbone: nel 1843, fu aperta quella che collegava
Castellammare di Stabia con Sorrento, mentre tra il 1853 ed il 1855 si realizzò
la strada di collegamento tra Sorrento a Massa Lubrense.
Dopo
l'Unità d'Italia, il nuovo centro di Massa fu collegato a Sant'Agata mediante
una strada progettata dall'ingegnere del corpo Reale del Genio Civile, Emanuele
Mascoli.
Alla
metà del Novecento si deve l'attuale assetto di piazza Vescovado, quando si
determinò l'ampliamento di viale Filangieri, a discapito di parte del giardino
murato di Santa Teresa, per consentire l'attraversamento della strada per
Sant'Agata.
Per
molti anni, prima della realizzazione delle arterie descritte, i collegamenti con
Napoli furono tenuti solo via mare. Le feluche
partivano dal porto di Marina della Lobra e attaccavano nel porto di Napoli
nella zona di Porta di Massa.
La prima
pietra per la costruzione della chiesa
Cattedrale fu posta il 25 Marzo del 1512: la scelta dell'area dove far
sorgere la chiesa, consacrata poi l'8 luglio 1543 da monsignor Pietro Marchesi,
dipese dal fatto che in questa zona fu spostato il nuovo centro della città
dell'Annunziata. La nuova città inglobò nel suo sviluppo alcune preesistenze,
come le torri di Vescovado e di
Palma. La stessa costruzione della Cattedrale dovette relazionarsi con la
presenza delle strutture vicine: esistevano, infatti, un antico palazzo vescovile e l'estaurita di Sant'Erasmo.
La
preesistenza fu in qualche modo interpretata e divenne l'attuale cappella di San Cataldo: essa fu in
parte demolita, per incastrarne l'invaso con la nuova chiesa, ma è evidente
come la sua presenza non fu cancellata. Rispetto alle altre cappelle, essa
conserva a tutt'oggi una sua autonomia formale, sia per la permanenza di parte
della sua originaria struttura, sia per la consistente profondità del suo
volume, dove si può identificare la spazialità autonoma di una piccola conca
absidale. Tale configurazione manifesta in qualche modo un'autonomia di gestione che risale all'accordo che
ci fu nel 1538 tra il Vescovo di allora, Monsignor Marchesi, ed i confratelli
estauritari: per risarcirli della perdita dell'estaurita, il Vescovo si
impegnava infatti non solo a versare ai Confratelli 25 ducati, ma offriva la
cappella, che restò intitolata a Sant'Erasmo, lasciando loro il diritto di
eleggervi il cappellano e di celebrarvi una Messa alla settimana.
La
cappella presenta un soffitto voltato a botte e decorato con stucchi; sulle pareti,
ai lati dell'altare, vi sono due nicchie con le statue del Cuore di Gesù, a
sinistra, e di Sant'Agnese, a destra. La cappella dà accesso ad una piccola
sagrestia, uno spazio laterale di servizio e di passaggio verso un piano
superiore e verso un ambiente sottoposto, che ospitava alcune sepolture.
L'architettura
dell’ex Cattedrale di Massa Lubrense è il risultato di numerose e successive
vicende di costruzione, determinate nei secoli sia dai lavori di rinnovamento e
restauro previsti in occasione delle sante
visite, sia dagli interventi di consolidamento e di manutenzione che,
all'indomani di dissesti dovuti ai terremoti del 1687 e del 1688 o anche alla
luce di alcune necessità di miglioramento della chiesa.
È un
po' difficile riconoscere il disegno iniziale e ricostruire una genesi della
chiesa in tutte le sue parti. Sebbene l'impianto risalga al XVI secolo e
possiamo riconoscere gli elementi che allora avevano un peso significativo per
la sua configurazione, la Cattedrale, continuò ad essere oggetto fino alla fine
del Seicento di una serie di lavori di restauro la cui importanza e la cui
consistenza ne determinarono l'impronta di un impianto decorativo
settecentesco, che fu riconoscibile, nel suo complesso, finché non divenne esso
stesso, oggetto, nei secoli successivi, di profonde alterazioni e rifacimenti.
Il
volume della chiesa è incastrato tra il palazzo vescovile ed il campanile, cui
si accede dall'interno. Uno stretto vicolo separa la chiesa di Santa Maria
delle Grazie da quella della Congregazione
di Orazione e Morte.
La
facciata si sviluppa tra i due volumi ed è articolata mediante stilemi che sono
vicini nella loro proporzione ad un linguaggio neoclassico. Tripartita da un
sistema di cornici in stucco che dividono secondo una scansione verticale le
parti laterali più basse da quella centrale a doppio ordine, essa descrive
all'esterno la suddivisione dello spazio interno. La parte centrale culmina con
una cornice a spioventi, che ha le proporzioni e la struttura di un timpano triangolare
privo di base, ed è raccordata da due volute alle parti più basse, concluse da
un sistema di cornici orizzontali. La parte centrale ospita il portale
principale incorniciato negli stucchi e sormontato da un piccolo timpano ad
arco, spezzato nella continuità della sua base dal rilievo dello stemma di
Monsignor Bellotti; esso è sormontato da una finestra e da un oculo. Gli
elementi più piccoli, ma analoghi, dei portali laterali e delle finestre
sovrapposte riproducono sui due lati la stessa drammatica.
La
chiesa ha una pianta a croce latina, a tre navate, separate da un sistema di
pilastri quadrangolari su cui insistono le aperture ad arco che mettono in
comunicazione la navata maggiore con le due laterali. Su ciascun pilastro, è
presente un motivo decorativo a lesene con capitello corinzio, che si sviluppa
fino alla quota dei passaggi laterali e si sovrappone alla massa strutturale
dei pilastri che scandiscono il ritmo tra pieni e vuoti. Le lesene sorreggono una
cornice continua su cui si appoggia il secondo ordine della navata, leggermente
arretrato e bucato da aperture ad arco e rettangolari, che si alternato in
corrispondenza dei passaggi tra le navate e donano una luminosità diffusa, che
riempie tutto il volume.
Le
navate laterali sono più basse della centrale e sono coperte entrambe da una
sequenza di volte a crociera, che si susseguono determinando un ritmo
volumetrico scandito da quattro archi di base, due orientati secondo la
direzione della navata, e due che lo dilatano aprendolo verso il centro, da un
lato, e verso gli altari e le cappelle, dall'altro.
L'interno
della chiesa era decorato con stucchi settecenteschi commissionati dal fervore
di rinnovamento ed ammodernamento che animò i lavori voluti da Monsignor
Bellotti, realizzati tra il 1764 e il 1766 da maestri provenienti da Napoli per
la valorizzazione degli interni della chiesa. Di tutta quest'opera oggi non c'è
traccia. Gli stucchi novecenteschi, dunque, adornano attualmente l'interno dei
volumi e percorrono le linee strutturali della chiesa, dando rilievo alle
pareti chiare. Non solo nelle navate e nel transetto, ma anche nel catino
absidale, dove ne ricalcano gli elementi portanti e la semicalotta di
copertura, bucata da un lucernario. In realtà, l'abside era in origine coperta
da una cupola, di cui oggi però all'interno della chiesa non c'è traccia.
L'esistenza
della cupola, che all'intradosso doveva essere stata decorata da Andrea da
Salerno con raffigurazioni bibliche, è testimoniata da una descrizione di una
visita di Monsignor Nepita ed in alcune vedute che colgono una particolare
prospettiva della chiesa, ma deve aver subito negli anni così tanti danni
strutturali con conseguenti interventi di consolidamento che la sua stabilità e
la sua stessa configurazione ne dovettero risultare talmente alterate, da
preferirne una sorta di camouflage
nei secoli successivi, sia all'interno che all'esterno della fabbrica. È stato
possibile coglierla nella sua fisicità solo quando sono stati effettuati dei
sopralluoghi specifici che hanno permesso di scorgere dai tetti un pezzo del
tamburo, coperto di tegole, sotto il quale se ne scopre l'estradosso. Oggi la
navata centrale è coperta da un soffitto con motivo decorativo a cassettoni.
Quando poi furono effettuati, nel 1827, consistenti lavori di restauro, si
procedette ad una sostituzione fittizia infatti, la navata fu coperta da una
tela con rosoni dorati e disegno che ricordava il cassettonato che fu
successivamente sostituita.
Tra gli
arredi sacri che connotano in maniera più evidente lo spazio della chiesa ex
Cattedrale di Santa Maria delle Grazie, emergono il pulpito seicentesco, con
baldacchino ligneo su colonne doriche e post quasi a metà della navata, e
l'organo. L'organo è poggiato su una cantoria sorretta da colonne di spoglio,
in cipollino verde.
Le
cappelle sono così intitolate: cappella di San Gaetano, cappella o esedra col
Crocifisso, cappella della Natività, cappella della Madonna delle Grazie,
cappella dell'Addolorata.
Nel
transetto sul lato destro: cappella dell'Epifania e cappella di Santa Maria del
Rosario.
Ai
due lati dell'abside, a destra cappella di San Giuseppe, a sinistra cappella di
San Cataldo.
Sul
lato sinistro del transetto: cappella della Madonna con Santi Giacomo e Nicola
e cappella della Madonna di Costantinopoli con i Santi Andrea e Stefano.
Nella
navata sinistra seguono: cappella della Madonna del Rosario, cappella di San
Michele, cappella di Sant'Anna e cappella del fonte Battesimale.
Tra
le ultime due cappelle c'è l'accesso alla sagrestia che fa anche da locale di
passaggio verso l'episcopio.
La
tavola con su rappresentata la Madonna
delle Grazie è l’unico frammento superstite del polittico del XVI secolo costituito
da sette pannelli e collocato sull’altare maggiore dell’omonima chiesa. Ai lati
di questo pannello con raffigurata la Madonna
con il Bambino si trovavano a destra e a sinistra San Giovanni Apostolo e San
Sebastiano, mentre nella parte superiore la Resurrezione e l’Annunciazione
e nella predella la serie di dodici
Apostoli.
L’insieme
fu commissionato al pittore calabrese Marco
Cardisco il 28 Aprile del 1527 da Pietro
de Marchesi e da altri esponenti della curia. Al momento della stipula del
contratto l’artista aveva già dipinto il pannello centrale ovvero quello
rappresentante appunto la Madonna delle
Grazie. Negli anni successivi l’opera fu sottoposta a restauro dal vescovo Giuseppe Bellotti e per questo il
complesso delle opere fu diviso lasciando al proprio posto solo il pannello
centrale forse solo per ragioni devozionali.
Il
polittico nel corso degli anni è stato attribuito ad autori diversi infatti nel
1702 fu riferito a Marco Cardisco da Giovanni Battista Pacichelli, ma solo Carmela Vargas ricondusse l’opera della
Madonna delle Grazie all’artista Cardisco
grazie al confronto tra l’opera di quest’ultimo e quella che il Cardisco stesso aveva tempo prima
realizzato a Napoli per l’altare della Chiesa
della Pietra del Pesce, raffigurante anch’essa la Madonna delle Grazie.
Negli stessi anni la tavola fu riconosciuta anche da Paola Giusti e Pierluigi
Leone De Castris come appartenente al Cardisco; Leone de Castris in particolare ha
ravvisato alcune somiglianze anche con il Sant’Andrea
anch’esso opera del Cardisco questo
perché egli ha individuato in essi un’elevata influenza polidoriana di cui Cardisco fu
influenzato quando a Napoli entrò in contatto con Polidoro Caldara.
Il
carattere polidoresco del dipinto di Massa però mette in discussione la data di
realizzazione del dipinto in quanto è noto che Polidoro giunse a Napoli solo dopo il Sacco di Roma (luglio 1527).
Per questa ragione Leone de Castris ha
messo in dubbio la data, anche se è verosimile pensare che i tempi
dell’esecuzione dell’opera attestati dal rogito non costituiscano un ostacolo
in quanto l’artista avrebbe potuto consegnare la cona ben oltre i termini fissati e che fosse intervenuto nel
pannello centrale apportando alcune modifiche, a meno di non dover smentire le
fonti che parlano concordemente di una fuga di Polidoro a Napoli nei giorni del Sacco. Leone de Castris ha illustrato, infine, le tangenze di
quest’importante tassello del percorso cardischiano con altre opere del
maestro, come, la Madonna delle anime
purganti coi santi Andrea e Marco di santa Maria delle Grazie a Caponapoli. In anni successivi Andrea Zezza ha
riscontrato nell’opera una maggiore adesione alla cultura stilistica del
secondo decennio. Lo studioso individua nel Bambino «una sconcertante fissità
neo-medievale, inspiegabile se non per motivi di fedeltà iconografica ad
un’immagine più antica», e lega il motivo della «veste che fascia i piedi della
Vergine, rivelandone la struttura sotto la stoffa», a prototipi sabatiniani
come la Madonna e Santi nella chiesa
di san Giorgio a Salerno del 1523.
Il
dipinto della Madonna di Costantinopoli
è collocato dalla sua origine, ovvero realizzazione, nella cappella de Turris.
Riccardo Filangieri considera quest’opera una mediocre riproduzione di un buon
quadro di Andrea di Sarto anche se non fa cenno esplicito di questo autore.
Nel
1986 Carmela Vargas ha interpretato l’opera come una testimonianza del polidorismo medievale degli anni
1530-40. La Vargas infatti attribuisce l’opera a Pietro Negroni uno dei
maggiori esponenti di questo filone e allievo di Cardisco. E se da un lato
l’elemento polidoresco si evince nella monumentalità e nel gigantismo raffaellesco delle figure, dall’altro c’è il
decorativismo di matrice salviatesca che si identifica in alcuni elementi del
linguaggio negronino degli anni ’30. La Vargas però sostiene che l’elemento di
maggior rilievo per riconoscere la paternità della tavola di Massa è la
confrontabilità di essa con il polittico
di Santa Maria Maddalena in Armillis,
di Sant’Egidio del Monte Albino, allora ritenuto opera di Negroni, ma che
recenti scoperte ci riconducono allo sconosciuto autore Gian Lorenzo Firello probabilmente alunno di Cardisco. Una diversa
lettura è emersa negli studi di Silvano Saccone, che ha evidenziato le indubbie
affinità di stile tra la Madonna degli Angeli della chiesa di Santo Stefano a
Sala Consilina e l’opera di Massa. Saccone, pur riconoscendo la stretta
vicinanza al Negroni, ha preferito ascrivere il quadro ad una differente
personalità, denominata col nome di comodo “Maestro di Massa Lubrense”
responsabili di una serie di pale d’altare conservate ad Aversa, Aiello,
Piedimonte Matese e Padula. Una proposta accolta da Concetta Restaino, che ha
parlato del “Maestro di Massa Lubrense” come di un artista dagli esiti
paralleli a quelli del Negroni, a lui accomunato dalla matrice “polidoresca,
con forti richiami al Cardisco e apporti perino-salviateschi”. I dipinti
assegnati a questo pittore erano stati in gran parte già restituiti da Leone de
Castris al presunto Leonardo Castellano. È nel catalogo del Castellano,
ricordato dal Tutini come discepolo di Cardisco, va ricondotta pure la Madonna di Costantinopoli, troppo
diversa dalla più antica opera conosciuta di Negroni, la Vergine col Bambino tra i Santi
Antonino e Catello nella sagrestia
della Basilica di Sant’Antonino a
Sorrento, per essere considerata una sua prova giovanile. Vi si scorgono
somiglianze con il Martirio di San Biagio
ad Aversa, con le tavole in Santa Maria d’Ajello ad Afragola, in
particolare con la Madonna col Bambino e
i Santi Giovanni Battista e Gennaro, eseguita poco dopo il 1583, e con la Madonna di Loreto e i SS. Sebastiano e Rocco
in Santa Maria della Consolazione ad
Aiello, presso Castel San Giorgio. Queste somiglianze con quadri certamente
risalenti alla seconda metà del Cinquecento confortano una detrazione del
dipinto massese intorno al 1570, ovvero subito dopo la concessione della
cappella alla famiglia de Turris. Le affinità tra la tavola de Turris e il polittico di Sant’Egidio del Monte
Albino, sottolineata da tutta la critica, fanno pensare che anche i lavori
riferiti a Leonardo Castellano potrebbero spettare al pittore di quest’ultimo
complesso, Gian Lorenzo Firello.
Il Battesimo di Cristo fu realizzato nel
1592 per la famiglia Pisani (così come è stato riportato dallo stesso autore in
basso a destra sulla stessa tela) fu solo nel ‘700 che entrò a far parte della Cappella del Fonte Battesimale, grazie
ai restauri promossi da Monsignor
Giuseppe Bellotti e fu solo allora che la tavola assunse forma rettangolare
in quanto fu ampliata col modesto paesaggio per essere inserita nella nuova
cornice in stucco. Nel 1984 l’opera è stata illustrata da Carmela Vargas. Al
maestro fiammingo Dirk Hendricksz rimanderebbero la
concezione del paesaggio e le “anatomie dolci e pastose”, tenere, dalla
“consistenza complessiva di natura non volumetrica né sculturale”. Un modo di
concepire la forma in linea con i più antichi pannelli dipinti da Girolamo nel soffitto di Santa Maria Donnaromita, impresa condotta dal napoletano in
collaborazione con il fiammingo. Tali aspetti hanno indotto la studiosa a
datare correttamente il quadro massese intorno al 1590. Precedentemente Leone
de Castris aveva proposto una diversa datazione, collegando il Battesimo di
Cristo ad un pagamento del 1599 effettuato da Girolamo Liparulo per una pala
destinata ad un’altra chiesa massese, Santa
Maria della Santità. Il cartiglio che corre in basso al centro ai piedi
delle figure non è stato mai chiaramente decifrato, si tratta di una forma
ricorrente in un’incisine di carattere devozionale di origine romana
raffigurante il Battesimo di Cristo
di cui si conserva un raro esemplare nell’Accademia
Carrara di Bergamo.
Sull’altare
di patronato dei Maldacea è collocato il dipinto raffigurante la Madonna
col Bambino e i SS Giacomo il maggiore e Nicola di Bari. L’attribuzione del
dipinto a Francesco de Mura è dovuta principalmente all’elevata capacità
pittorica di quest’ultimo; dalla monumentalità della raffigurazione e infine
dell’elegante declinazione della luce che attenua il tasso chiaroscurale con
cui sono modellate le forme facente capo con evidenza al magistero di Francesco
Solimena, di cui de Mura fu allievo. Questa tela si pone in strettissima
relazione con la tela attribuita al grande Solimena raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Gennaro e
Sebastiano. L’avvicinarsi al modello solimenesco è del resto un fatto
consueto durante la fase giovanile di de Mura entro cui il dipinto deve essere
collocato. È nota infatti la volontà da parte dei suoi committenti di ottenere
opere, se non realizzate dal maestro in persona, comunque realizzate seguendo
strettamente disegni originari di quest’ultimo. L’opera massese è datata
presumibilmente intorno al 1720 decennio alla fine del quale egli terminò
importanti lavori per Santa Maria di Donnaromita.
Chiara Somma e Maria Veropalumbo
Lo scritto di Chiara Sommese e Maria Veropalumbo è davvero un esempio supremo di sciacallaggio culturale. Quanto scritto sui dipinti è chiaramente copiato dal testo "Antica Cattedrale di Massa Lubrense Santa Maria delle Grazie", Sorrento, Franco Di Mauro editore, 2012, senza che questa fonte venga minimamente citata, neppure dove affiorano novità rilevanti. Molto bene! Complimenti! Siete invitate a citare il testo in questione altrimenti sarete denunciate per plagio.
RispondiEliminaErrata corrige: Chiara Somma e non Sommese.
RispondiEliminail testo in questione è stato citato ora nel suo incipit
RispondiEliminacordiali saluti
A Massalubrense esiste pure un'opera di Giovannantonio d'Amato raffigurante la madonna coi ss. Antonio da Padova e san Rocco, e' possibile avere una foto? Grazie
RispondiElimina