sabato 17 maggio 2014

Massa Lubrense e la Cattedrale di Santa Maria delle Grazie. di Chiara Somma e Maria Veropalumbo

Il nostro lavoro ha avuto come fonte documentaria ed iconografica il testo di AAVV  Antica cattedrale di Massa Lubrense - Santa Maria delle Grazie - Franco Di Mauro Editore, testo che ci è stato prezioso per la nostra ricerca.
Massa Lubrense è collegata con diciassette frazioni. Alcuni toponimi rilevano diretti rapporti con casali già esistenti al tempo dei Romani: ol nome di Marciano, ad esempio, deriva, infatti, dal nome della gens Marcia.
Prima della conquista dei Romani, Massa Lubrense fu sede di colonizzazione da parte dei Greci: la difficoltà di navigazione rese necessario individuare un'area sulla costa del promontorio su cui edificare un tempio dedicato alle Sirene. In seguito un tempio consacrato alla dea Atena sorse sulla Punta Campanella, dove attualmente si eleva una torre cinquecentesca.
Già durante la decadenza dell'Impero Romano, il territorio lubrense fu esposto ai frequenti attacchi dei predoni del mare, sopratutto nelle ville romane di tipo marittimo di cui le più importanti furono: la villa di Pollio Felice a Puolo, la villa in località Chiaia, la villa Marciano e le ville d'Isca e di Crapolla. La ricchezza di queste dimore è testimoniata dalle opere d'arte che le abbellivano, come il ninfeo della villa di Chiaia oggi al Museo Villet di Piano di Sorrento.
Nel periodo in cui il territorio di Sorrento entrò a far parte della monarchia normanna, i Massesi occuparono i luoghi più interni della collina dell'Annunziata, dove nel 1133 fu edificata una fortezza.
Carlo d'Angiò nel 1273 ordinò di radere al suolo la cittadella perché i Massesi non si erano schierati dalla sua parte. La città dell'Annunziata fu ricostruita a partire dal 1389, estendendosi sulla collina di Santa Maria e fu di nuovo abbattuta nel 1465 da Ferrante I di Aragona.
Anche la cattedrale fu rasa al suolo e successivamente ricostruita in località Palma.
Dal punto di vista della struttura, si evidenzia che la struttura dell'Università di Massa si avvicina per forma urbana al tipo tentacolare costituito da casali che gravavano fino all'età aragonese alle nuove strutture di Massa centro.
Altro importante segno identificativo del territorio massese è costituito dalle torri di difesa. Tre furono le torri angioine: dei Galli, di capo Corvo sul promontorio omonimo e di Minerva sul promontorio di punta Campanella, quest'ultima costruita per volere di Roberto d'Angiò tra il 1334 e il 1335. Altre dieci torri furono costruite in seguito al decreto vicereale del 1563, dopo l'invasione turca del 1558: torre di Fossa di Papa, torre di Minerva, torre di Montalto, torre di Crapolla, torre di Nerano, torre di Recommone, torre di Toledo, torre Baccoli, torre San Lorenzo e torre di Capo Massa. Le torri angioine avevano forma circolare con basamento tronco conico a cui era sovrapposto un toro in pietra di tufo pipernoide. Le torri vicereali mostrano invece pianta quadrata con volte a botte incrociate. Il passaggio dalla forma circolare a quella quadrata e con muratura di spessore maggiore verso il mare e minore verso monte, fu dovuto all'avvento dell'artiglieria che richiedeva forme più solide per sostenere i colpi. La torre di Minerva e la torre Toledo furono riarmate dai Francesi per difendere la costa dagli attacchi degli Inglesi che avevano occupato l'isola di Capri.
Contemporaneamente alla costruzione delle torri costiere anche i privati e gli ordini religiosi cominciarono a dotare le proprie dimore di torri di difesa. Per il pericolo rappresentato dalle incursioni turche fu ricostruita sulla collina dell'Annunziata l'antica città distrutta da Ferrante, dotata di una nuova ampia cinta muraria in grado di difendere la popolazione. Di questa importante opera fu incaricato l'ingegnere Giacomo Lentieri.
Nel XVII secolo la crisi in cui versava il viceregno mostrò i suoi effetti negativi anche a Massa Lubrense che fu interessata solo da interventi promossi dagli ordini religiosi, tra i quali il più importante è quello del collegio gesuita, imponete edificio con giardino e chiesa.
Fondamentale per lo sviluppo di Massa Lubrense fu il tracciato di nuove strade voluto da Ferdinando II di Borbone: nel 1843, fu aperta quella che collegava Castellammare di Stabia con Sorrento, mentre tra il 1853 ed il 1855 si realizzò la strada di collegamento tra Sorrento a Massa Lubrense.
Dopo l'Unità d'Italia, il nuovo centro di Massa fu collegato a Sant'Agata mediante una strada progettata dall'ingegnere del corpo Reale del Genio Civile, Emanuele Mascoli.
Alla metà del Novecento si deve l'attuale assetto di piazza Vescovado, quando si determinò l'ampliamento di viale Filangieri, a discapito di parte del giardino murato di Santa Teresa, per consentire l'attraversamento della strada per Sant'Agata.
Per molti anni, prima della realizzazione delle arterie descritte, i collegamenti con Napoli furono tenuti solo via mare. Le feluche partivano dal porto di Marina della Lobra e attaccavano nel porto di Napoli nella zona di Porta di Massa.
La prima pietra per la costruzione della chiesa Cattedrale fu posta il 25 Marzo del 1512: la scelta dell'area dove far sorgere la chiesa, consacrata poi l'8 luglio 1543 da monsignor Pietro Marchesi, dipese dal fatto che in questa zona fu spostato il nuovo centro della città dell'Annunziata. La nuova città inglobò nel suo sviluppo alcune preesistenze, come le torri di Vescovado e di Palma. La stessa costruzione della Cattedrale dovette relazionarsi con la presenza delle strutture vicine: esistevano, infatti, un antico palazzo vescovile e l'estaurita di Sant'Erasmo.
La preesistenza fu in qualche modo interpretata e divenne l'attuale cappella di San Cataldo: essa fu in parte demolita, per incastrarne l'invaso con la nuova chiesa, ma è evidente come la sua presenza non fu cancellata. Rispetto alle altre cappelle, essa conserva a tutt'oggi una sua autonomia formale, sia per la permanenza di parte della sua originaria struttura, sia per la consistente profondità del suo volume, dove si può identificare la spazialità autonoma di una piccola conca absidale. Tale configurazione manifesta in qualche modo un'autonomia di gestione che risale all'accordo che ci fu nel 1538 tra il Vescovo di allora, Monsignor Marchesi, ed i confratelli estauritari: per risarcirli della perdita dell'estaurita, il Vescovo si impegnava infatti non solo a versare ai Confratelli 25 ducati, ma offriva la cappella, che restò intitolata a Sant'Erasmo, lasciando loro il diritto di eleggervi il cappellano e di celebrarvi una Messa alla settimana.
La cappella presenta un soffitto voltato a botte e decorato con stucchi; sulle pareti, ai lati dell'altare, vi sono due nicchie con le statue del Cuore di Gesù, a sinistra, e di Sant'Agnese, a destra. La cappella dà accesso ad una piccola sagrestia, uno spazio laterale di servizio e di passaggio verso un piano superiore e verso un ambiente sottoposto, che ospitava alcune sepolture.
L'architettura dell’ex Cattedrale di Massa Lubrense è il risultato di numerose e successive vicende di costruzione, determinate nei secoli sia dai lavori di rinnovamento e restauro previsti in occasione delle sante visite, sia dagli interventi di consolidamento e di manutenzione che, all'indomani di dissesti dovuti ai terremoti del 1687 e del 1688 o anche alla luce di alcune necessità di miglioramento della chiesa.
È un po' difficile riconoscere il disegno iniziale e ricostruire una genesi della chiesa in tutte le sue parti. Sebbene l'impianto risalga al XVI secolo e possiamo riconoscere gli elementi che allora avevano un peso significativo per la sua configurazione, la Cattedrale, continuò ad essere oggetto fino alla fine del Seicento di una serie di lavori di restauro la cui importanza e la cui consistenza ne determinarono l'impronta di un impianto decorativo settecentesco, che fu riconoscibile, nel suo complesso, finché non divenne esso stesso, oggetto, nei secoli successivi, di profonde alterazioni e rifacimenti.
Il volume della chiesa è incastrato tra il palazzo vescovile ed il campanile, cui si accede dall'interno. Uno stretto vicolo separa la chiesa di Santa Maria delle Grazie da quella della Congregazione di Orazione e Morte.
La facciata si sviluppa tra i due volumi ed è articolata mediante stilemi che sono vicini nella loro proporzione ad un linguaggio neoclassico. Tripartita da un sistema di cornici in stucco che dividono secondo una scansione verticale le parti laterali più basse da quella centrale a doppio ordine, essa descrive all'esterno la suddivisione dello spazio interno. La parte centrale culmina con una cornice a spioventi, che ha le proporzioni e la struttura di un timpano triangolare privo di base, ed è raccordata da due volute alle parti più basse, concluse da un sistema di cornici orizzontali. La parte centrale ospita il portale principale incorniciato negli stucchi e sormontato da un piccolo timpano ad arco, spezzato nella continuità della sua base dal rilievo dello stemma di Monsignor Bellotti; esso è sormontato da una finestra e da un oculo. Gli elementi più piccoli, ma analoghi, dei portali laterali e delle finestre sovrapposte riproducono sui due lati la stessa drammatica.
La chiesa ha una pianta a croce latina, a tre navate, separate da un sistema di pilastri quadrangolari su cui insistono le aperture ad arco che mettono in comunicazione la navata maggiore con le due laterali. Su ciascun pilastro, è presente un motivo decorativo a lesene con capitello corinzio, che si sviluppa fino alla quota dei passaggi laterali e si sovrappone alla massa strutturale dei pilastri che scandiscono il ritmo tra pieni e vuoti. Le lesene sorreggono una cornice continua su cui si appoggia il secondo ordine della navata, leggermente arretrato e bucato da aperture ad arco e rettangolari, che si alternato in corrispondenza dei passaggi tra le navate e donano una luminosità diffusa, che riempie tutto il volume.
Le navate laterali sono più basse della centrale e sono coperte entrambe da una sequenza di volte a crociera, che si susseguono determinando un ritmo volumetrico scandito da quattro archi di base, due orientati secondo la direzione della navata, e due che lo dilatano aprendolo verso il centro, da un lato, e verso gli altari e le cappelle, dall'altro.
L'interno della chiesa era decorato con stucchi settecenteschi commissionati dal fervore di rinnovamento ed ammodernamento che animò i lavori voluti da Monsignor Bellotti, realizzati tra il 1764 e il 1766 da maestri provenienti da Napoli per la valorizzazione degli interni della chiesa. Di tutta quest'opera oggi non c'è traccia. Gli stucchi novecenteschi, dunque, adornano attualmente l'interno dei volumi e percorrono le linee strutturali della chiesa, dando rilievo alle pareti chiare. Non solo nelle navate e nel transetto, ma anche nel catino absidale, dove ne ricalcano gli elementi portanti e la semicalotta di copertura, bucata da un lucernario. In realtà, l'abside era in origine coperta da una cupola, di cui oggi però all'interno della chiesa non c'è traccia.
L'esistenza della cupola, che all'intradosso doveva essere stata decorata da Andrea da Salerno con raffigurazioni bibliche, è testimoniata da una descrizione di una visita di Monsignor Nepita ed in alcune vedute che colgono una particolare prospettiva della chiesa, ma deve aver subito negli anni così tanti danni strutturali con conseguenti interventi di consolidamento che la sua stabilità e la sua stessa configurazione ne dovettero risultare talmente alterate, da preferirne una sorta di camouflage nei secoli successivi, sia all'interno che all'esterno della fabbrica. È stato possibile coglierla nella sua fisicità solo quando sono stati effettuati dei sopralluoghi specifici che hanno permesso di scorgere dai tetti un pezzo del tamburo, coperto di tegole, sotto il quale se ne scopre l'estradosso. Oggi la navata centrale è coperta da un soffitto con motivo decorativo a cassettoni. Quando poi furono effettuati, nel 1827, consistenti lavori di restauro, si procedette ad una sostituzione fittizia infatti, la navata fu coperta da una tela con rosoni dorati e disegno che ricordava il cassettonato che fu successivamente sostituita.
Tra gli arredi sacri che connotano in maniera più evidente lo spazio della chiesa ex Cattedrale di Santa Maria delle Grazie, emergono il pulpito seicentesco, con baldacchino ligneo su colonne doriche e post quasi a metà della navata, e l'organo. L'organo è poggiato su una cantoria sorretta da colonne di spoglio, in cipollino verde.
Le cappelle sono così intitolate: cappella di San Gaetano, cappella o esedra col Crocifisso, cappella della Natività, cappella della Madonna delle Grazie, cappella dell'Addolorata.
Nel transetto sul lato destro: cappella dell'Epifania e cappella di Santa Maria del Rosario.
Ai due lati dell'abside, a destra cappella di San Giuseppe, a sinistra cappella di San Cataldo.
Sul lato sinistro del transetto: cappella della Madonna con Santi Giacomo e Nicola e cappella della Madonna di Costantinopoli con i Santi Andrea e Stefano.
Nella navata sinistra seguono: cappella della Madonna del Rosario, cappella di San Michele, cappella di Sant'Anna e cappella del fonte Battesimale.
Tra le ultime due cappelle c'è l'accesso alla sagrestia che fa anche da locale di passaggio verso l'episcopio.
La tavola con su rappresentata la Madonna delle Grazie è l’unico frammento superstite del polittico del XVI secolo costituito da sette pannelli e collocato sull’altare maggiore dell’omonima chiesa. Ai lati di questo pannello con raffigurata la Madonna con il Bambino si trovavano a destra e a sinistra San Giovanni Apostolo e San Sebastiano, mentre nella parte superiore la Resurrezione e l’Annunciazione e nella predella la serie di dodici Apostoli.
L’insieme fu commissionato al pittore calabrese Marco Cardisco il 28 Aprile del 1527 da Pietro de Marchesi e da altri esponenti della curia. Al momento della stipula del contratto l’artista aveva già dipinto il pannello centrale ovvero quello rappresentante appunto la Madonna delle Grazie. Negli anni successivi l’opera fu sottoposta a restauro dal vescovo Giuseppe Bellotti e per questo il complesso delle opere fu diviso lasciando al proprio posto solo il pannello centrale forse solo per ragioni devozionali.
Il polittico nel corso degli anni è stato attribuito ad autori diversi infatti nel 1702 fu riferito a Marco Cardisco da Giovanni Battista Pacichelli, ma solo Carmela Vargas ricondusse l’opera della Madonna delle Grazie all’artista Cardisco grazie al confronto tra l’opera di quest’ultimo e quella che il Cardisco stesso aveva tempo prima realizzato a Napoli per l’altare della Chiesa della Pietra del Pesce, raffigurante anch’essa la Madonna delle Grazie. Negli stessi anni la tavola fu riconosciuta anche da Paola Giusti e Pierluigi Leone De Castris come appartenente al Cardisco; Leone de Castris in particolare ha ravvisato alcune somiglianze anche con il Sant’Andrea anch’esso opera del Cardisco questo perché egli ha individuato in essi un’elevata influenza polidoriana di cui Cardisco fu influenzato quando a Napoli entrò in contatto con Polidoro Caldara.
Il carattere polidoresco del dipinto di Massa però mette in discussione la data di realizzazione del dipinto in quanto è noto che Polidoro giunse a Napoli solo dopo il Sacco di Roma (luglio 1527). Per questa ragione Leone de Castris ha messo in dubbio la data, anche se è verosimile pensare che i tempi dell’esecuzione dell’opera attestati dal rogito non costituiscano un ostacolo in quanto l’artista avrebbe potuto consegnare la cona ben oltre i termini fissati e che fosse intervenuto nel pannello centrale apportando alcune modifiche, a meno di non dover smentire le fonti che parlano concordemente di una fuga di Polidoro a Napoli nei giorni del Sacco. Leone de Castris ha illustrato, infine, le tangenze di quest’importante tassello del percorso cardischiano con altre opere del maestro, come, la Madonna delle anime purganti coi santi Andrea e Marco di santa Maria delle Grazie a Caponapoli. In anni successivi Andrea Zezza ha riscontrato nell’opera una maggiore adesione alla cultura stilistica del secondo decennio. Lo studioso individua nel Bambino «una sconcertante fissità neo-medievale, inspiegabile se non per motivi di fedeltà iconografica ad un’immagine più antica», e lega il motivo della «veste che fascia i piedi della Vergine, rivelandone la struttura sotto la stoffa», a prototipi sabatiniani come la Madonna e Santi  nella chiesa di san Giorgio a Salerno del 1523.
Il dipinto della Madonna di Costantinopoli è collocato dalla sua origine, ovvero realizzazione, nella cappella de Turris. Riccardo Filangieri considera quest’opera una mediocre riproduzione di un buon quadro di Andrea di Sarto anche se non fa cenno esplicito di questo autore.
Nel 1986 Carmela Vargas ha interpretato l’opera come una testimonianza del polidorismo medievale degli anni 1530-40. La Vargas infatti attribuisce l’opera a Pietro Negroni uno dei maggiori esponenti di questo filone e allievo di Cardisco. E se da un lato l’elemento polidoresco si evince nella monumentalità e nel gigantismo raffaellesco delle figure, dall’altro c’è il decorativismo di matrice salviatesca che si identifica in alcuni elementi del linguaggio negronino degli anni ’30. La Vargas però sostiene che l’elemento di maggior rilievo per riconoscere la paternità della tavola di Massa è la confrontabilità di essa con il polittico di Santa Maria Maddalena in Armillis, di Sant’Egidio del Monte Albino, allora ritenuto opera di Negroni, ma che recenti scoperte ci riconducono allo sconosciuto autore Gian Lorenzo Firello probabilmente alunno di Cardisco. Una diversa lettura è emersa negli studi di Silvano Saccone, che ha evidenziato le indubbie affinità di stile tra la Madonna degli Angeli della chiesa di Santo Stefano a Sala Consilina e l’opera di Massa. Saccone, pur riconoscendo la stretta vicinanza al Negroni, ha preferito ascrivere il quadro ad una differente personalità, denominata col nome di comodo “Maestro di Massa Lubrense” responsabili di una serie di pale d’altare conservate ad Aversa, Aiello, Piedimonte Matese e Padula. Una proposta accolta da Concetta Restaino, che ha parlato del “Maestro di Massa Lubrense” come di un artista dagli esiti paralleli a quelli del Negroni, a lui accomunato dalla matrice “polidoresca, con forti richiami al Cardisco e apporti perino-salviateschi”. I dipinti assegnati a questo pittore erano stati in gran parte già restituiti da Leone de Castris al presunto Leonardo Castellano. È nel catalogo del Castellano, ricordato dal Tutini come discepolo di Cardisco, va ricondotta pure la Madonna di Costantinopoli, troppo diversa dalla più antica opera conosciuta di Negroni, la Vergine col Bambino tra i Santi Antonino e Catello nella sagrestia della Basilica di Sant’Antonino a Sorrento, per essere considerata una sua prova giovanile. Vi si scorgono somiglianze con il Martirio di San Biagio ad Aversa, con le tavole in Santa Maria d’Ajello ad Afragola, in particolare con la Madonna col Bambino e i Santi Giovanni Battista e Gennaro, eseguita poco dopo il 1583, e con la Madonna di Loreto e i SS. Sebastiano e Rocco in Santa Maria della Consolazione ad Aiello, presso Castel San Giorgio. Queste somiglianze con quadri certamente risalenti alla seconda metà del Cinquecento confortano una detrazione del dipinto massese intorno al 1570, ovvero subito dopo la concessione della cappella alla famiglia de Turris. Le affinità tra la tavola de Turris e il polittico di Sant’Egidio del Monte Albino, sottolineata da tutta la critica, fanno pensare che anche i lavori riferiti a Leonardo Castellano potrebbero spettare al pittore di quest’ultimo complesso, Gian Lorenzo Firello.
Il Battesimo di Cristo fu realizzato nel 1592 per la famiglia Pisani (così come è stato riportato dallo stesso autore in basso a destra sulla stessa tela) fu solo nel ‘700 che entrò a far parte della Cappella del Fonte Battesimale, grazie ai restauri promossi da Monsignor Giuseppe Bellotti e fu solo allora che la tavola assunse forma rettangolare in quanto fu ampliata col modesto paesaggio per essere inserita nella nuova cornice in stucco. Nel 1984 l’opera è stata illustrata da Carmela Vargas. Al maestro fiammingo Dirk Hendricksz rimanderebbero la concezione del paesaggio e le “anatomie dolci e pastose”, tenere, dalla “consistenza complessiva di natura non volumetrica né sculturale”. Un modo di concepire la forma in linea con i più antichi pannelli dipinti da Girolamo nel soffitto di Santa Maria Donnaromita, impresa condotta dal napoletano in collaborazione con il fiammingo. Tali aspetti hanno indotto la studiosa a datare correttamente il quadro massese intorno al 1590. Precedentemente Leone de Castris aveva proposto una diversa datazione, collegando il Battesimo di Cristo ad un pagamento del 1599 effettuato da Girolamo Liparulo per una pala destinata ad un’altra chiesa massese, Santa Maria della Santità. Il cartiglio che corre in basso al centro ai piedi delle figure non è stato mai chiaramente decifrato, si tratta di una forma ricorrente in un’incisine di carattere devozionale di origine romana raffigurante il Battesimo di Cristo di cui si conserva un raro esemplare nell’Accademia Carrara di Bergamo.
Sull’altare di patronato dei Maldacea è collocato il dipinto raffigurante la  Madonna col Bambino e i SS Giacomo il maggiore e Nicola di Bari. L’attribuzione del dipinto a Francesco de Mura è dovuta principalmente all’elevata capacità pittorica di quest’ultimo; dalla monumentalità della raffigurazione e infine dell’elegante declinazione della luce che attenua il tasso chiaroscurale con cui sono modellate le forme facente capo con evidenza al magistero di Francesco Solimena, di cui de Mura fu allievo. Questa tela si pone in strettissima relazione con la tela attribuita al grande Solimena raffigurante la Madonna col Bambino e i Santi Gennaro e Sebastiano. L’avvicinarsi al modello solimenesco è del resto un fatto consueto durante la fase giovanile di de Mura entro cui il dipinto deve essere collocato. È nota infatti la volontà da parte dei suoi committenti di ottenere opere, se non realizzate dal maestro in persona, comunque realizzate seguendo strettamente disegni originari di quest’ultimo. L’opera massese è datata presumibilmente intorno al 1720 decennio alla fine del quale egli terminò importanti lavori per Santa Maria di Donnaromita.
Chiara Somma e Maria Veropalumbo

4 commenti:

  1. Lo scritto di Chiara Sommese e Maria Veropalumbo è davvero un esempio supremo di sciacallaggio culturale. Quanto scritto sui dipinti è chiaramente copiato dal testo "Antica Cattedrale di Massa Lubrense Santa Maria delle Grazie", Sorrento, Franco Di Mauro editore, 2012, senza che questa fonte venga minimamente citata, neppure dove affiorano novità rilevanti. Molto bene! Complimenti! Siete invitate a citare il testo in questione altrimenti sarete denunciate per plagio.

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  2. Errata corrige: Chiara Somma e non Sommese.

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  3. il testo in questione è stato citato ora nel suo incipit
    cordiali saluti

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  4. A Massalubrense esiste pure un'opera di Giovannantonio d'Amato raffigurante la madonna coi ss. Antonio da Padova e san Rocco, e' possibile avere una foto? Grazie

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