lunedì 1 settembre 2025

Hieronymus Bosch (Jheronimus van Aken): il visionario del Brabante

Ad Alfonso Palumbo, compagno leale e sempre per bene, 
che al liceo sapeva distinguersi per gentilezza e rispetto. 
Con affetto e stima, Massimo.

Nella storia dell’arte europea, pochi nomi riescono a evocare la stessa aura di mistero e di inquietudine di Hieronimus Bosch. Tra questi spiccano quattro figure che, ciascuna a modo suo, sembrano dialogare con il genio visionario del pittore fiammingo. Pieter Bruegel il Vecchio (1525-1569) condivide con Bosch il gusto per il grottesco, la ricchezza di dettagli e la capacità di creare scene allegoriche e morali di grande impatto. Un’opera come Il Trionfo della Morte racconta un’umanità alle prese con il peccato, la follia e il caos, sospesa tra realtà e simbolo.
Matthias Grunenwald (1470-1528) affascina per la deformazione drammatica delle figure e l’intensità emotiva che ricorda le creature tormentate di Bosch. Il suo Altare di Isenheim suscita una inquietudine spirituale profonda, intrecciando salvezza e dannazione in un’atmosfera quasi apocalittica. 
Gustave Moreau (1826-1898), simbolista francese, offre mondi sospesi tra sogno e incubo, ricchi di dettagli fantastici e misteriosi. In opere come L’apparizione o Salomè con la testa di Giovanni Battista, la sua pittura evoca l’imprevedibilità visionaria di Bosch, trasportando lo spettatore in un universo decadente e onirico.


Infine, Max Ernst (1891-1976) reinterpreta in chiave moderna il grottesco e il surrealismo boschiano, combinando elementi reali e fantastici. Opere come La città o la celebre civetta in La vestizione della sposa esplorano l’inconscio e il sogno, trasformando l’orrore in un simbolismo psicologico potente e inquietante.

In questi artisti, lontani nel tempo ma vicini nello spirito, il mondo fantastico e perturbante di Bosch continua a vivere, confermando il suo ruolo unico nella storia dell’arte europea. Questo pittore fiammingo, attivo tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, trasformò in immagini visionarie le ansie religiose, morali e sociali del suo tempo, popolando i suoi dipinti di creature mostruose, paesaggi allucinati e simboli enigmatici.
Sulla sua vita sappiamo sorprendentemente poco: restano frammenti di documenti, sporadiche notizie d’archivio e le opere che ci sono pervenute. Non conosciamo con certezza né la sua formazione né le motivazioni intime che lo spinsero a rappresentare demoni, visioni apocalittiche e allegorie del peccato e della salvezza. Questa scarsità di dati ha alimentato nei secoli un fiorire di interpretazioni, alcune fondate su studi rigorosi, altre affidate alla pura immaginazione, spesso più rivelatrici delle ossessioni degli interpreti che del mondo dell’artista.
È proprio in questo intreccio di mistero biografico, potenza visionaria e invenzione critica che si colloca l’inesauribile fascino di Bosch. Le sue immagini estreme, l’incontro tra reale e fantastico, il simbolismo enigmatico e la profondità psicologica suscitano una tensione emotiva e intellettuale che trascende la cornice storica, aprendo alla riflessione sul male, sulla fragilità umana e sulla libertà della fantasia.
Le inquietudini della sua epoca erano molteplici. La religiosità tardo-medievale e fiamminga ossessionava la salvezza dell’anima: predicazioni insistenti parlavano di peccato, colpa, tentazione e dannazione eterna, alimentando la paura dell’inferno, che Bosch tradusse in scene infernali. Accanto a questa paura, vi era l’ansia escatologica: la fine del mondo, il Giudizio Universale e l’Apocalisse erano percepiti come imminenti, mentre guerre, carestie ed epidemie confermavano la precarietà della vita.
La corruzione della Chiesa e la crisi spirituale, già avvertite prima della Riforma, accrescevano l’inquietudine: il clero era spesso accusato di avidità e immoralità, mentre movimenti religiosi locali invocavano un ritorno a una fede autentica. La caducità della vita, accentuata da pestilenze e conflitti, alimentava l’ossessione per le vanità terrene, rappresentate come piaceri effimeri che conducono alla rovina.
Le tensioni sociali dei Paesi Bassi – mercanti arricchiti, contraddizioni tra vita mondana e morale religiosa – si riflettevano nella pittura di Bosch, che mise in scena vizi e debolezze umane: dalla lussuria all’avarizia, dalla superbia all’ingordigia. In sintesi, la sua arte visualizza la paura del peccato e della dannazione, l’attesa apocalittica, la critica morale alla corruzione e ai vizi e la profonda consapevolezza della fragilità della vita.
Bosch è un artista sospeso tra due epoche, in bilico tra la tradizione medievale e la sensibilità proiettata verso sensibilità nuova dell'arte fiamminga a lui contemporanea che tuttavia poco o niente lo lambisce. Medievale nei temi e nei contenuti, le sue opere trasmettono messaggi religiosi e morali centrati su peccato, dannazione e redenzione. Il suo simbolismo complesso e allegorico, le figure mostruose e le visioni surreali riflettono una visione morale gerarchica del mondo.
Eppure, Bosch sorprende per tratti moderni. Le sue composizioni sfidano le regole prospettiche del tempo, combinando elementi realistici e fantastici con libertà inventiva, anticipando sensibilità rinascimentali e persino surrealiste.
L’osservazione dei comportamenti umani, con attenzione a vizi e debolezze universali, introduce una dimensione psicologica che va oltre il messaggio religioso, lasciando spazio a molteplici interpretazioni. Bosch incarna così l’anima medievale e lo spirito innovativo: la sua arte è un ponte tra due mondi, capace di parlare alla tradizione e anticipare il futuro della rappresentazione artistica simbolista ed espressionista, affascinando anche il pubblico moderno.
Jheronimus van Aken, noto come Hieronymus Bosch, nacque intorno al 1450 a ’s-Hertogenbosch, nei Paesi Bassi borgognoni, e vi morì nell’agosto del 1516. Figlio di una famiglia di pittori, fu avviato all’arte nella bottega di famiglia guidata dal padre Anthonis. Qui si inserì nella tradizione dei cosiddetti primitivi fiamminghi e del rinnovamento della pittura nordica, pur distinguendosi presto per inventiva e spirito visionario.
Eppure in Bosch c’è qualcosa di radicalmente diverso. Mentre i pittori fiamminghi del suo tempo inseguivano il realismo minuzioso, l’armonia prospettica e la descrizione accurata della vita quotidiana, lui percorse un’altra strada. Popolava le sue tavole di mostri, ibridi e visioni apocalittiche, trasformando la realtà in incubi e allegorie. Non lo interessava celebrare la precisione ottica né la quiete domestica, ma dare forma a un immaginario perturbante, dove il fantastico e il simbolico dominano la scena.
Bosch appare così come un’anomalia nel panorama fiammingo. Mentre i suoi contemporanei si distinguevano per il gusto meticoloso del dettaglio realistico, per interni domestici e paesaggi riconoscibili, lui preferì raffigurare l’invisibile: paure collettive, ossessioni religiose, visioni escatologiche. Al posto dell’armonia prospettica e della precisione ottica, introdusse creature ibride e mostruose, paesaggi allucinati e simboli enigmatici che trasfigurano il reale in allegoria.
Laddove altri pittori celebravano la vita terrena con sguardo quasi fotografico, Bosch ne mostrava l’altra faccia: il peccato, la caducità, la tentazione, il rischio costante della dannazione. Questa differenza nasce anche dal contesto spirituale e culturale. In un’epoca segnata da predicazioni ossessive sulla salvezza dell’anima, dalla paura dell’Apocalisse e dall’angoscia del peccato, Bosch seppe tradurre in immagini potenti le inquietudini più profonde, spingendosi ben oltre i limiti della rappresentazione convenzionale.
Infrangendo regole narrative e prospettiche, conquistò una libertà inventiva che lo colloca fuori dal solco fiammingo, ma non fuori dal suo tempo.
È proprio da questa divergenza che nasce la sua unicità: Bosch non descrive la realtà, la reinventa, trasformandola in un universo visionario che ancora oggi continua ad affascinare. Ed è proprio questa distanza che lo rende unico, un artista che sfugge a ogni categoria e che continua a parlare con forza al nostro presente.
Molti studiosi si sono chiesti se l’arte di Bosch sia davvero frutto di pura originalità o piuttosto la rielaborazione di racconti, proverbi e superstizioni radicati nella cultura dei Paesi Bassi tardo-medievali. In effetti, nelle sue opere si ritrovano echi del mondo che lo circondava: leggende popolari, immagini tratte da prediche religiose, allegorie morali, figure grottesche e simboli tratti dalla tradizione orale e visiva della sua terra. Mostri, animali ibridi, diavoli e visioni infernali non nascevano solo dalla sua immaginazione, ma appartenevano a un repertorio culturale condiviso, diffuso nei sermoni, nei libri di devozione, negli arazzi e perfino nelle feste popolari.
Ciò che rende Bosch irripetibile non è dunque la materia di partenza, ma la sua straordinaria capacità di trasformarla. Dove altri avrebbero illustrato un singolo proverbio o una scena morale, lui costruisce mondi interi, in cui superstizione, fede e paura si fondono in un universo pittorico senza precedenti. Ogni frammento di immaginario collettivo diventa, nelle sue mani, parte di un grande teatro visionario, capace di parlare non solo al suo tempo, ma anche al nostro.
Bosch raccoglie dunque i segni del suo mondo, li piega alla sua fantasia e li restituisce come immagini poetiche e perturbanti. La sua grandezza non sta nell’invenzione assoluta, perchè non inventò niente che non appartenesse già alla cultura popolare, ma nella forza con cui seppe trasformare il patrimonio simbolico e superstizioso della sua terra in un linguaggio artistico personale, enigmatico e universale.
Tuttavia, gran parte della critica tradizionale ha affrontato Bosch con strumenti interpretativi principalmente iconografici o stilistici, trascurando la profondità culturale del contesto popolare che lo ha generato. Per comprendere pienamente il suo immaginario sarebbe necessario uno studio di natura antropologica, capace di analizzare la cultura popolare, le credenze, i proverbi e le pratiche simboliche dei Paesi Bassi tardo-medievali. Solo così si può apprezzare come Bosch non fosse un semplice visionario isolato, ma un artista che dialogava con la società che lo circondava, trasformandone miti e superstizioni in un linguaggio universale.
La prima menzione documentaria risale al 1474, quando compare per la prima volta in un registro municipale insieme ai fratelli e a una sorella. Probabilmente compì un viaggio di formazione, pratica comune tra gli artisti dell’epoca, per affinare tecnica e stile. Tornato a ’s-Hertogenbosch intorno al 1480, riprese l’attività pittorica nella bottega familiare.
Tra il 1479 e il 1481 sposò Aleid van de Meervenne, da cui non ebbe discendenza, ma che gli garantì una solida posizione economica e sociale.
Un capitolo significativo della vita di Bosch fu l’adesione, nel 1486/87, alla ‘Illustre Confraternita di Nostra Signora’, prestigiosa istituzione religiosa e laica fondata a ’s-Hertogenbosch nel 1318 e dedicata al culto mariano. La confraternita, che annoverava tra i propri membri non soltanto la borghesia cittadina ma anche nobili di rango e figure legate alla corte borgognona, costituiva un punto nevralgico della vita spirituale e sociale della città. L’appartenenza a tale sodalizio garantiva a chi ne faceva parte non solo un riconoscimento di devozione, ma anche un’elevata distinzione sociale.
Per Bosch, l’ingresso nella confraternita ebbe un valore molteplice. Da un lato gli offrì l’accesso a una rete di committenze e di rapporti privilegiati, consolidando la sua posizione di artista stimato e richiesto. Dall’altro lato lo mise a contatto con un ambiente intellettuale e religioso nel quale si elaboravano riflessioni sulla colpa, sulla penitenza e sulla salvezza dell’anima: temi che percorrono come un filo conduttore l’intera sua produzione pittorica. Infine, vi era anche un significato più intimo e spirituale: l’appartenenza alla confraternita assicurava suffragi e preghiere dopo la morte, un vincolo che congiungeva la memoria terrena alla speranza di redenzione eterna. Così, attraverso quest’istituzione, Bosch non soltanto consolidò la propria posizione sociale e professionale, ma trovò anche un terreno fertile in cui la sua arte poté intrecciarsi profondamente con la vita religiosa e morale del suo tempo.
Alla morte del fratello Goessen, tra il 1495 e il 1499, Bosch assunse la direzione della bottega, circondandosi di familiari e collaboratori, tra cui i nipoti Johannes e Anthonis van Aken e alcuni apprendisti, come Gielis Panhedel.
Già in vita, Bosch godeva di vasta fama. Tra le sue opere più celebri figurano il Giardino delle delizie, Il carro di fieno, Il Trittico di sant’Antonio e il Giudizio Universale, commissionato nel 1504 dal duca di Borgogna, Filippo il Bello. Le sue opere giunsero anche in Italia, dove il cardinale Domenico Grimani ne possedeva diversi esemplari. La sua influenza si estese oltre la morte, dando origine a una scuola di imitatori che replicarono motivi e invenzioni in pittura, arazzi e stampe.






Nonostante la perdita di molte opere, Bosch conquistò fama per la capacità di dare vita a figure meravigliose, mostri, sogni e incubi, trasformando l’immaginazione in un linguaggio pittorico unico. Morì nel 1516, probabilmente a causa di un’epidemia. La sua sepoltura fu registrata con cura nei libri della Confraternita di Nostra Signora.
L’attività della bottega proseguì probabilmente sotto la guida di Johannes van Aken e Gielis Panhedel, ma la notorietà del maestro generò una copiosa produzione di copie e imitazioni. Solo tra XIX e XX secolo, grazie agli studi di Justi, Baldass, Friedländer, Tolnay e Combe, si riuscì a ordinare il catalogo, distinguendo le opere autografe da quelle di bottega o di seguaci.
Oggi si contano circa venticinque opere e otto disegni attribuiti con certezza a Bosch, oltre a una mezza dozzina di lavori assegnabili al suo atelier. La produzione è suddivisa in tre fasi: periodo giovanile (1470–1485), intermedio (1485–1500) e tardo (1500–1516), con i capolavori più noti. Analisi dendrocronologiche recenti hanno affinato la datazione dei pannelli in quercia.
Lo stile si distingue radicalmente dalla pittura fiamminga coeva: prediligeva pennellate visibili e superfici ruvide, utilizzando colori a olio con tavolozza sobria ma efficace. Alcune opere sono firmate, fatto raro per l’epoca. Bosch esercitò una forte influenza sull’arte del Cinquecento, in particolare su Pieter Bruegel il Vecchio. Grande estimatore di Bosch fu Filippo II d'Asburgo per Hieronymus Bosch. Questa stima nasceva dal connubio tra rigore religioso e fascinazione per l’enigmatico. I dipinti dell’artista non erano semplici curiosità estetiche, ma strumenti di meditazione morale: invitavano il sovrano a riflettere sulla caducità della vita, sul vizio e sulla necessità della redenzione. Al contempo, possederli consolidava il prestigio culturale della Spagna e il legame con la tradizione fiamminga, mentre la loro complessità simbolica stimolava l’intelletto e la contemplazione spirituale, trasformando la collezione boschiana all’Escorial in un vero compendio di riflessione morale e devozione personale.
Nel corso del Seicento e del Settecento la sua fortuna critica conobbe un lungo e quasi inevitabile offuscamento. L’arte barocca, con la sua enfasi sul trionfo scenografico, sul pathos religioso e sulla grande pittura di storia, non poteva riconoscersi nella visionarietà inquieta e nel moralismo spesso oscuro del maestro di ’s-Hertogenbosch. Il suo linguaggio, che mescolava mostruosità, allegoria e devozione, appariva distante dal gusto dominante, incline a premiare chiarezza narrativa, armonia e monumentalità. Bosch venne così percepito più come un curioso fabbricatore di stravaganze che come un pittore di alta levatura spirituale e intellettuale: un autore eccentrico, degno di stupore ma non di ammirazione universale.
Fu necessario attendere l’Ottocento perché la sua arte venisse riscoperta e riconsiderata. In pieno clima romantico, l’interesse per il bizzarro, il notturno e l’inquietante riaccese l’attenzione su Bosch, ora visto come un precursore della fantasia moderna. I simbolisti, affascinati dall’enigma, dall’inconscio e dall’immagine visionaria, trovarono nei suoi dipinti un repertorio inesauribile di evocazioni e di significati nascosti. Laddove il razionalismo classico aveva visto caos, il Romanticismo scorse un ordine diverso: quello delle profondità interiori, dei sogni e delle paure collettive.
Il Novecento spinse questa linea interpretativa ancora più avanti. I Surrealisti, e tra loro in particolare Dalí e Max Ernst, lo acclamarono come un maestro ante litteram, capace di dare forma pittorica a ciò che sfugge alla logica, anticipando le teorie freudiane sull’inconscio. Nei suoi mostri e nei suoi paesaggi irreali essi riconobbero la possibilità di una pittura libera, sganciata dal naturalismo, capace di rendere visibile l’invisibile e di trasformare l’immaginazione in realtà. Per questo Bosch divenne, insieme a pochi altri, una sorta di padre ideale dell’arte surrealista.
Oggi, alla luce della critica storica e iconologica, Bosch è considerato un artista di frontiera, sospeso tra la cultura tardomedievale e le inquietudini della modernità. Da un lato, le sue opere sono radicate nella tradizione religiosa e morale del suo tempo, alimentate dalla devozione confraternale, dalle prediche morali e dalla spiritualità nordica; dall’altro, la loro invenzione fantastica, la capacità di coniugare simbolo e allucinazione, li rende straordinariamente attuali. La sua fortuna, dunque, non è mai lineare ma rigenerata da ogni epoca, che in Bosch ritrova, di volta in volta, ciò che più corrisponde alle proprie ossessioni: la fede, l’enigma, il sogno, l’inconscio, o, più semplicemente, la vertigine dell’immaginazione.
Le sue scene visionarie, intrise di simbolismo e ambiguità, continuano a suscitare interrogativi, rivelando con lucidità impietosa le debolezze dell’animo umano e le paure della superstizione. La sua arte, sospesa tra sogno e incubo, resta la testimonianza di un genio irriducibile, capace di dare forma ai desideri e agli incubi più reconditi. Bosch continua ad affascinare lo spettatore contemporaneo, rivelandosi come una rivelazione poetica e perturbante di un universo immaginario che sfida ogni logica temporale: un artista fuori dal tempo, eppure profondamente radicato nel suo.
A cinque secoli di distanza, Hieronymus Bosch conserva un fascino irresistibile. Le sue tavole, popolate di mostri, visioni oniriche e paesaggi allucinati, non appartengono soltanto al Medioevo: parlano al nostro immaginario, anticipando suggestioni che vanno dal Surrealismo al cinema fantasy.
Il segreto sta nell’ambiguità. Bosch non offre risposte, ma enigmi: i suoi simboli restano indecifrabili, pronti a generare interpretazioni sempre nuove, religiose, morali, psicologiche. I suoi temi – il male, la corruzione, i vizi, la fragilità della vita – hanno un’attualità sorprendente. C’è poi la potenza visiva: figure ibride, incubi e sogni messi in scena con libertà inventiva unica, un immaginario che sembra nato ieri, capace di parlare tanto agli storici dell’arte quanto ai lettori di ‘graphic novel’. Medievale e moderno, Bosch è un artista senza tempo. Le sue opere ci costringono a guardarci dentro, tra paure e desideri, ricordandoci che il confine tra realtà e fantasia è sottile. E sempre attuale.
Massimo Capuozzo





domenica 6 aprile 2025

Abraham Janssens e 'L'uomo che soccombe al peso del tempo è aiutato dalla speranza e dalla pazienza'

Le riflessioni sul corso della vita umana non erano appannaggio esclusivo degli scritti filosofici, ma trovavano spesso espressione anche nelle arti figurative attraverso complesse rappresentazioni allegoriche.
In questo ambito si possono distinguere iconografie di due tipi.
Il primo tipo di iconografia enfatizza l'aspetto fisico e illustra le età attraverso le quali l’individuo passa, dalla fanciullezza alla vecchiaia. Queste età, il cui numero può variare da tre a nove, sono rappresentate da figure disposte su scale che salgono e scendono, oppure appaiono come personaggi che recitano all’interno di una rappresentazione drammatica.
Il secondo tipo invece, più orientato verso la spiritualità, era molto popolare e diffuso: esso rappresentava la vita umana come un viaggio.
Normalmente l'argomento era trattato in chiave moralizzatrice, insegnando che l’uomo si trova di fronte a due scelte. Ispirato all'antichità è il noto tema di Ercole al bivio, l’eroe mitologico chiamato a scegliere tra virtù e lussuria come nella magnifica rappresentazione di Annibale Carracci.
Altri esempi rinviano alle parole di Cristo e alla letteratura religiosa contemporanea.
L’essere umano è raffigurato come un pellegrino che ha la possibilità di percorrere due strade: quella ampia e agevole che conduce alla distruzione e quella stretta e ardua che porta alla vita eterna. Talvolta lungo il suo cammino incontra virtù o vizi che tentano di influenzarlo positivamente o negativamente. Si riscontrano numerose varianti di questo tema del viaggio nella letteratura e in diversi rami dell'arte.
Una rappresentazione meno conosciuta del ciclo della vita ci viene offerta dal dipinto di Abraham Janssens del 1609, che stiamo per esplorare. Qui si trovano in modo potente sia la suddivisione in età che l'idea del viaggio della vita, mostrando le grandi doti artistiche di Janssens.
In questa opera, l'uomo è visto come un pellegrino. È solo, quasi seminudo, con solo un bastone e degli stivali da cammino come beni materiali mentre affronta il difficile viaggio della vita. C'è però solo una strada da percorrere e né paradiso né inferno lo attendono.
Nel background ci sono piccole scene che raccontano qualcosa del suo passato e del suo futuro. A destra lo vediamo da bambino mentre si allontana verso la luce del sole nascente; una donna anziana gli passa un cesto che dovrà portare per tutta la vita e che col tempo diventerà sempre più pesante.
La scena principale mostra un uomo di mezza età che ha già percorso metà strada nel suo viaggio. Il suo fardello è diventato così pesante da rischiare di schiacciarlo. Il Tempo, implacabile, non fa sconti nemmeno a lui; tradizionalmente viene raffigurato come un vecchio alato con una lunga barba bianca e una falce in mano. La sua corona di frutti e verdure simboleggia il suo ruolo di re delle stagioni. Prende una grossa pietra dal suo cesto e la mette accanto al carico dell'uomo stanco, che sembra quasi voler rinunciare al proprio cammino.
Ma qui intervengono due figure allegoriche: la Pazienza e la Speranza, pronte ad aiutarlo lungo questo difficile percorso della vita. La Pazienza, umile e con gli occhi bassi, si inginocchia per sostenere il pesante cesto dell’uomo insieme al suo agnello paziente. Dall'altra parte c'è la Speranza, con le ali e spighe tra i capelli, che si avvicina a lui piena di compassione cercando di incoraggiarlo; ai suoi piedi troviamo l'ancora, simbolo della sua presenza.
Il viaggio giunge alla fine quando il sole tramonta.
Accolto e abbracciato da una figura anziana, l'uomo ritorna nella caverna, simbolo del grembo della terra, mentre la morte, rappresentata da uno scheletro, lo libera finalmente dal suo pesante fardello.
Nonostante vi siano diversi punti di contatto con le consuete rappresentazioni, non è ancora stato possibile risalire all'origine di questa interessante ma alquanto singolare allegoria.
Per quanto ne sappiamo, sono noti solo altri due esempi dello stesso soggetto, entrambi appartenenti alla scuola di Anversa, ma risalenti a un periodo precedente e potrebbero essere stati seguiti direttamente da Abraham Janssens.
Una raffigurazione molto simile, in cui riconosciamo gli stessi personaggi e anche le stesse scene di sfondo, è attribuita a Jacob de Backer, la ‘Allegoria delle tre età dell’uomo’.
De Backer, che visse tra il 1555 e il 1591 circa, è stato un pittore fiammingo del Manierismo attivo ad Anversa dal 1571 al 1585. Anche se è morto giovane, a soli trent'anni, ha lasciato un'impronta significativa nel mondo dell'arte con una serie di opere piuttosto ampia. Gli storici dell'arte non sono tutti d'accordo su quante di queste siano veramente sue o se provengano dalla sua bottega. Le opere attribuite a lui o alla sua bottega mostrano uno stile tardo-manierista con chiare influenze italiane.
Sembra che le sue composizioni fossero abbastanza popolari, dato che ne esistono diverse versioni conservate in posti come l’Ermitage di Leningrado, il Joanneum di Graz e la Galleria d'Arte di New York. Un altro esempio interessante è un disegno attribuito ad Adam van Noort, che si trova in una collezione privata a Londra; qui 'Patientia' tiene in mano una croce e sullo sfondo si vede una folla di fedeli.
Parlando invece del dipinto del 1609 che stiamo analizzando, possiamo notare le straordinarie capacità artistiche di Abraham Janssens. In modo molto personale, Janssens combina elementi da tre stili diversi: il Manierismo del Cinquecento, l'arte di Caravaggio e il Classicismo, creando così un proprio stile caratterizzato da un forte aspetto decorativo. Conformemente al Manierismo, non solo vediamo soggetti allegorici complessi ma anche atteggiamenti piuttosto artificiosi nei personaggi. Questi ultimi sono stati messi insieme all'interno di una figura geometrica ben definita per occupare lo spazio in primo piano. Altri richiami a questo stile includono dettagli decorativi intricati e giochi di luce sui piani irregolari dei drappeggi.
Detto ciò, le caratteristiche innovative emergono come più significative e predominanti; hanno anche uno scopo puramente decorativo. In Italia, Janssens ha avuto l'opportunità di osservare le opere di Caravaggio ed è stato uno dei primi artisti del Nord a integrare elementi della sua arte. Questa influenza si riflette nella grande plasticità delle forme – quasi come se le figure fossero scolpite – e nel forte contrasto chiaro-scuro grazie all’uso sapiente delle ombre proiettate. A questo si aggiunge la ricerca di un classicismo raffinato accompagnato da una sublime bellezza: le forme risultano semplici ma definite con grande precisione.
Le atmosfere delle sue opere sono principalmente rappresentate con colori locali. Tra il 1605 e il 1615, Janssens ha sviluppato uno stile personale davvero interessante; i lavori realizzati in quel periodo sono senza dubbio tra i più notevoli della sua carriera artistica. Altri esempi degni di nota realizzati con una tecnica impeccabile ma ancora più equilibrati e semplificati nella forma includono 'Scaldis e Antwerpia' e 'Pace e abbondanza legano insieme le frecce della guerra', quest'ultimo del 1614 oggi al Museo di Wolverhampton.
Negli anni in cui Janssens era al massimo della sua creatività artistica, era considerato ad Anversa quasi alla pari con Pieter Paul Rubens, che tra l'altro era solo due anni più giovane. Anche se le sue opere mostrano delle qualità incredibili, si possono già notare alcuni limiti.
Pur riuscendo a evitare la freddezza tipica dell'accademia grazie all'uso ricco dei materiali, ai dettagli manieristi e ai colori così vivaci, c'è comunque un certo intellettualismo nelle sue creazioni che non lascia molte aperture.
I soggetti delle sue opere rispecchiano il suo talento: sono decorativi e sembrano in movimento, ma in realtà mancano di azione vera e propria.
Anche se la sua arte è senza dubbio notevole, sembra un po’ priva di vitalità e sarebbe stata presto superata dalla fantasia e dal dinamismo di Rubens.

domenica 23 marzo 2025

Abraham Janssens: Pace e Abbondanza legano le frecce della guerra

Durante gran parte del Cinquecento e del Seicento, i Paesi Bassi settentrionali, noti come Province Unite, si opposero al dominio degli Asburgo nella loro lotta per l'indipendenza, una contesa in cui i Paesi Bassi spagnoli funsero spesso da campo di battaglia.
Janssens, che un tempo competeva con il suo illustre contemporaneo Pieter Paul Rubens in termini di fama e successo, cercando di ottenere le commissioni più ambite nella prospera città di Anversa, cadde nell'oblio nei primi anni dell’Ottocento ed è stato una figura ingiustamente trascurata.
Janssens fu notevolmente oscurato dal suo contemporaneo fiammingo Rubens, il quale avrebbe dovuto completare come pendant il dipinto ‘Pace e Abbondanza legano le frecce della guerra’ con la sua opera ‘Incoronazione del Vincitore’.
I due dipinti furono realizzati nel corso della ‘Tregua dei dodici anni’ (1609-21) tra i Paesi Bassi spagnoli e le Province Unite, un accordo che portò alla temporanea revoca di un blocco imposto dagli olandesi sul fiume Schelda, principale via commerciale di Anversa e fondamentale per la sua prosperità economica.
L’opera di Rubens, come i suoi primi dipinti, può essere definita "quasi una teoria politica": insieme, le due opere simboleggiavano per un selezionato gruppo di borghesi di Anversa la piazzaforte militare che garantiva la pace con tutti i suoi vantaggi.
L'allegoria di Janssens, un olio su tavola di dimensioni 157,5 x 264 cm, celebra le benedizioni e i benefici della pace annunciati da questa tregua e fu commissionata e finanziata dalla ‘Corporazione dei Balestrieri’ di Anversa per la ‘Sala dell'Assemblea’ della stessa Corporazione, la principale compagnia di milizia cittadina.
Questo edificio esiste ancora oggi, sebbene molto modificato, situato nella piazza centrale della città vecchia nota come ‘Grote Market’, nei pressi del magnifico Municipio tardo rinascimentale; in passato il dipinto era appeso sopra una mensola del camino nella 'Sala delle Assemblee'.
La tavola fu realizzata nel 1614, coincidente con l'anno in cui era originariamente esposto il quadro ‘L'incoronazione del vincitore’ di Rubens, ora conservato presso la ‘Gemaldegalerie’ di Kassel.
Quest'opera di Rubens, come i suoi primi dipinti e al pari di quella di Janssens può essere definita "quasi una teoria politica": insieme, le due opere simboleggiavano per un selezionato gruppo di borghesi di Anversa la piazzaforte militare che garantiva la pace con tutti i suoi vantaggi.
Nel dipinto di Janssens la Concordia o Pace è personificata dalla figura femminile a sinistra. In conformità con i simboli descritti nell'‘Iconologia’ di Cesare Ripa del 1593 – un manuale essenziale sui soggetti e simboli per ogni aspirante pittore narrativo barocco – la Concordia è incoronata da un serto di ulivo, simbolo della Pace, e sostiene una cornucopia che rappresenta l'Abbondanza, conseguenza immediata della Pace. Nella mano destra stringe un fascio di frecce legate, a simboleggiare la Concordia.
Ai suoi piedi si trova la colomba della Pace. Inoltre, vi sono due figure femminili che incarnano la Carità e la Lealtà mentre legano le sue frecce.
La Lealtà, vestita di bianco e adornata con una corona di rose rosse e bianche, simboleggia sia la città di Anversa sia la ‘Corporazione dei Balestrieri’.
La Carità indossa abiti rossi e protegge un bambino addormentato il cui cuore ardente simboleggia l'Amore.
Seduta nell'ombra sullo sfondo a destra emerge la figura maligna dell'Invidia, una vecchia megera caratterizzata da serpenti tra i capelli a indicare che essa diffonde sempre veleno ed erode il proprio cuore. Con i suoi seni cascanti e un'espressione orribile, mette in evidenza l'orrore che ella prova e che è provocato dal trionfo della Pace, rappresentato dal putto alato che porta una corona.
Il dipinto era ancora ad Anversa nel 1769, come attestato in una guida della città redatta da Jean-Baptiste Deschamps: "Sopra il camino nella sala dei vecchi balestrieri si trova una bellissima opera che mostra un'ingegnosa allegoria della Concordia, ben dipinta e ben composta nel 1614 da Abraham Janssens". Documentato ancora ad Anversa nel 1789, potrebbe essere stato portato in Inghilterra per motivi di sicurezza durante le guerre napoleoniche o forse come bottino da parte di un ufficiale britannico. Attraverso diverse aste fu infine acquistato dalla ‘Art Gallery’ di Wolverhampton nel 1885 dove è attualmente conservato.
Il dipinto è stato restaurato grazie a una sovvenzione della ‘National Heritage Lottery’ nel 1998, rivelandone così i colori vivaci. Nonostante i nobili sentimenti espressi nell'opera di Janssens, la pace sarebbe durata solo altri sei anni.
La ‘Guerra dei Trent'anni’, che devastò l'intera Europa dal 1618 al 1648 e nella quale si inserì anche la ‘Guerra degli Ottant’anni’, fu infine risolta con il Trattato di Münster nel 1648, il quale sancì la definitiva divisione tra le due parti dei Paesi Bassi.
Oggi questo dipinto risulta particolarmente attuale rispetto al concetto di pace mentre sul mondo spirano venti bellicosi.
Nonostante i nobili sentimenti espressi nell'opera di Janssens, la pace sarebbe durata solo altri sei anni. La ‘Guerra dei Trent'anni’, che devastò l'intera Europa e nella quale si inserì anche la ‘Guerra degli Ottant’anni’, fu infine risolta con il Trattato di Münster nel 1648, il quale sancì la divisione tra le due parti dei Paesi Bassi.
Oggi questo dipinto risulta particolarmente attuale rispetto al concetto di pace mentre sul mondo spirano venti bellicosi.
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[1] ‘L'Incoronazione dell'eroe virtuoso’, conosciuta anche come ‘Il trionfo del vincitore’, è un'opera del primo barocco realizzata da Pieter Paul Rubens.
Questo dipinto, eseguito in colori ad olio su tela, fa parte della collezione permanente della ‘Gemäldegalerie Alte Meister’ di Kassel.
Al centro dell'opera si trova un generale romano, rappresentante dell'eroismo e della virtù, il quale ha placato le insurrezioni della discordia. Quest'ultima è simboleggiata da un uomo ucciso con capelli a forma di serpente disteso a terra e da un barbaro incatenato sulla destra.
Dietro al vincitore si erge il Genio dell'Unità, che tiene in mano un fascio di frecce legate, simbolo di pace. Tale figura funge sia da custode che da preservatore della religione, come evidenziato dalla presenza dell'altare e del fuoco eterno nelle immediate vicinanze del genio stesso.
L'eroe virtuoso riceve la corona d'alloro della vittoria dalle mani di Nike, la dea della vittoria, raffigurata a sinistra. Dietro l'altare si trova l'unico riferimento alla casa regnante degli Asburgo: una bandiera rosso-bianco-rosso. Con quest'opera la corporazione intendeva manifestare discretamente la propria fedeltà alla Casa d'Asburgo.
Questo dipinto, caratterizzato da colori vivaci e dai tratti stilistici tipici del primo barocco, fu realizzato tra il 1613 e il 1614.

domenica 16 marzo 2025

Abraham Janssens - Il monte Olimpo

Dopo il ritorno di Abraham Janssens ad Anversa nel 1602, le sue opere mostrarono inizialmente una marcata influenza da parte di Raffaello. Questo è particolarmente evidente nella composizione ‘Monte Olimpo’, risalente circa al 1605 e attualmente custodita presso l’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera. Quest'opera riflette la fusione dello studio di Janssens dell’arte antica e di Michelangelo, durante il suo soggiorno in Italia, nonché delle stampe a cui aveva accesso sul mercato d’arte di Anversa.
Osserviamo quest’opera di Janssen, comunemente intitolata il "Monte Olimpo".
Questo passo descrive un episodio della guerra tra i Troiani e i popoli italici, come narrato da Virgilio all'inizio del decimo libro dell'Eneide.
Giove aveva convocato tutti gli dei dell'Olimpo per esortarli a promuovere la pace fra Troiani e Italici.
Tuttavia, Venere, dea della bellezza, si oppose e intervenne in difesa dei Troiani e di suo figlio Enea.
Propongo una versione la più fedele possibile al testo originale per coloro che nutrono nostalgia per la cultura classica. 
Chi non lo fosse può omettere i versi evidenziati in corsivo.
“Si apre nel frattempo la dimora dell’onnipotente Olimpio, e il padre e sovrano degli dei e degli uomini convoca il consiglio nella sede celeste, da cui osserva dall’alto tutte le terre, gli accampamenti dei discendenti di Dardano e i popoli latini.
Si riuniscono nelle sale a due porte, ed egli stesso inizia: 'Grandi abitatori del cielo, perché mai si è girata indietro per voi la sentenza e combattete tanto con animi ingiusti? Avevo vietato che l’Italia entrasse in guerra con i Teucri. Quale discordia contro questo divieto? Quale paura ha persuaso questi e altri a impugnare le armi e provocare la spada? Verrà, non provocatelo, il giusto momento dello scontro, quando un giorno la fiera Cartagine infliggerà una grande strage alle rocche romane e le Alpi saranno aperte: allora sarà possibile affrontarsi con odio, avendo distrutto tutto. Ora smettete e stipulate un accordo piacevole.'
Così Giove in breve; ma l’aurea Venere risponde portando in evidenza molte questioni: 'O padre, o eterno potere di uomini e cose (e cos’altro ci sarebbe che ormai possiamo implorare?), come esultano i Rutuli e Turno superbo si presenta tra i cavalli correndo gonfio per Marte propizio? Le mura chiuse non proteggono più i Teucri. Anzi si mischiano gli scontri dentro le porte e sulle stesse costruzioni delle mura ed i fossati traboccano di sangue. Enea ignaro è assente. Forse mai permetterai che si levi dall’assedio? Ormai incombe sulle mura il nemico della nascente Troia ed un secondo esercito, e di nuovo contro i Teucri sorge da Arpi etolica un Tidide. Lo credo fermamente; rimangono le mie ferite ed io tua progenie aspetto armi mortali, se senza la tua pace e con la tua potenza contraria i Troiani hanno cercato l’Italia, paghino gli errori anziché essere favoriti con aiuti; se invece seguendo tanti responsi che i celesti davano, perché ora qualcuno può sovvertire i tuoi ordini e creare nuovi destini? Perché ricordare le flotte bruciate sul lido ericino? Perché il re delle tempeste provoca venti furenti dall’Eolia o Iride inviata dalle nubi? Adesso anche le mani (questa sorte di cose era rimasta intentata) muove ed Alletto immediatamente mandata dai cieli ha scatenato il delirio tra le città degli Itali. Non mi preoccupo affatto dell’impero. Questo lo sperammo mentre ci fu fortuna. Vincano coloro che preferisci tu che vincano. Se non c’è alcuna regione che la tua dura consorte conceda ai Teucri, padre, ti prego per i fumanti eccidi di Troia distrutta: sia lecito salvaguardare Ascanio dalle armi affinché possa sopravvivere il nipote. Enea certamente sia gettato su onde ignote e segua qualunque via Fortuna abbia stabilito: fa’ sì che io possa proteggerlo e sottrarlo allo scontro crudele. Ho Amatunte, ho l’eccelsa Pafo e Citera, il palazzo di Idalia: inglorioso, deposte le armi qui trascorra la vita. Con grande potere comanderai che Cartagine opprima l’Ausonia; poi nulla ostacolerà le città tirie. A cosa valse sfuggire alla rovina della guerra ed essere fuggiti in mezzo ai fuochi argolici, tanto provati pericoli del mare e della vasta terra mentre i Teucri cercavano il Lazio ed una Pergamo recidiva? Non sarebbe più bello sedersi sulle ultime ceneri della patria sul suolo dove Troia fu? Restituisci ti prego Xanto e Simoenta ai miseri e concedi nuovamente ai Teucri di rivivere gli eventi iliaci.”
Il racconto virgiliano del concilio degli dei è presentato da Janssens in maniera intima: mentre tiene per mano il giovane Cupido, si rivolge al riflessivo Giove e a sua moglie Giunone, la quale è accusata, non senza ragione, di essere contraria ai Troiani.
All'estrema sinistra, Minerva, armata, si inclina verso Giunone; dietro Giove si scorge Diana con il diadema lunare. Parzialmente celati dal braccio di Venere, Apollo con la lira e Marte, dio della guerra, osservano la scena, mentre sul bordo destro del dipinto si avvicina Ercole, adornato con una pelle di leone e munito di una clava.

sabato 8 marzo 2025

Abraham Janssens e ‘Scaldis e Antverpia’

La tavola ‘Scaldis e Antverpia’ di Abraham Janssens è un’opera allegorica con una forte valenza politica: per questo motivo, per comprenderne più profondamente il significato è opportuno accennare alla storia di Anversa durante la ‘Guerra degli Ottant’anni’.
Nel frattempo osserviamola
Il fiume Schelda ha sempre rappresentato l'arteria vitale di Anversa, soprattutto durante il regno dell'imperatore Carlo V (1519 – 1556).
All'inizio del Cinquecento, la città visse un periodo di notevole prosperità grazie all'attività del suo porto. A differenza di Bruges, che rimase ancorata a tradizioni antiquate, Anversa riuscì ad adattarsi alle esigenze economiche contemporanee, dando origine a una straordinaria rinascita.
Anversa diventò il fulcro della grande finanza europea. La sua popolazione crebbe significativamente e la sua gloria fu celebrata in termini lirici da coloro che furono testimoni della sua magnificenza.
Questa straordinaria prosperità, tuttavia, non ebbe una lunga durata e, per comprendere appieno l'opera in questione, è necessario ricostruire sinteticamente il contesto storico che ha portato alla commissione di questo dipinto.
I disordini derivanti dalla rivolta delle diciassette province dei Paesi Bassi contro la Spagna avevano arrecato gravi danni ad Anversa. La Guerra degli Ottant'anni (1568-1648) era iniziata come una lotta per l'indipendenza delle Diciassette Province dal dominio spagnolo e si era evoluta in un conflitto che contribuì al progressivo declino della potenza spagnola e alla nascita di un nuovo Stato.
Alla fine del Cinquecento, preoccupata per la propria libertà e desiderosa di tutelare la propria economia, Anversa si schierò con i Paesi Bassi settentrionali nella lotta contro Filippo II di Spagna.
Il 4 novembre 1576, Anversa subì un saccheggio da parte di mercenari affamati al servizio del re di Spagna.
In questo episodio noto come la ‘Furia spagnola’, furono uccisi 8.000 civili e numerose abitazioni furono distrutte dalle fiamme: seguito della diserzione delle compagnie tedesche al servizio dei Paesi Bassi borgognoni e asburgici, nonché della sconfitta delle truppe vallone e cittadine all'interno delle mura, i 'tercios' spagnoli comandati dal temuto duca d'Alba continuarono a devastare la popolazione e a saccheggiare la città per quattro giorni consecutivi.
Successivamente, la città aderì alla ‘Pacificazione di Gand’, un accordo siglato l'8 novembre 1576 tra le province di Olanda, Zelanda e Utrecht e di altre dodici province dei Paesi Bassi, volto a unire le forze in una cosiddetta ‘Unione generale’ contro il re cattolico Filippo II di Spagna.
Dopo la presa della ‘Cittadella di Anversa’ nel 1577, Anversa diventò sostanzialmente la capitale della rivolta anti-spagnola per i successivi nove anni. Questo periodo è conosciuto come Repubblica di Anversa, sotto il dominio calvinista. Sebbene sembrasse che il governatore spagnolo Alessandro Farnese, duca di Parma e nipote di Filippo II di Spagna, avesse messo nel mirino Anversa, egli e le sue truppe combatterono solo una battaglia decisiva prima della sua conquista. Durante i quattordici mesi di assedio, Anversa fu guidata da Filippo di Marnix di Saint-Aldegonde in battaglia contro l'esercito regolare comandato da Alessandro Farnese.
Dopo la conquista di Alessandro Farnese, circa metà della popolazione – la parte protestante – emigrò verso Germania, Francia e Inghilterra e, successivamente, anche in Olanda. La popolazione scese da oltre 90.000 a 45.000 abitanti. Gran parte del commercio, delle arti e delle scienze anversesi si trasferirono altrove in Europa.
Nel 1587, la Repubblica del nord per ritorsione ‘chiuse’ la Schelda al traffico marittimo da e per Anversa diventata ormai spagnola.
Gli Statolder delle Province Unite del nord tentarono più volte di riconquistare Anversa, ma risultarono sistematicamente sconfitti.
Il brutale saccheggio della città nel 1576 aveva dato inizio a un profondo declino; quando nel 1585 il sindaco Marnix van Sint-Aldegonde fu costretto a firmare la resa, Anversa appariva destinata alla distruzione. Dopotutto, gli Stati del Nord rimanevano padroni della Zelanda e quindi dell'estuario della Schelda pertanto potevano impedire qualsiasi accesso oltreoceano al porto. Da quel momento in poi, Anversa continuò ad attendere una pace duratura.
Dopo la caduta della città nel 1585, i magistrati di Anversa si erano dedicati incessantemente alla sua rinascita. Non sorprende dunque che, nonostante numerose delusioni, nuove speranze fossero sorte quando, il 9 aprile 1609, presso il municipio cittadino, fu conclusa la ‘Tregua dei dodici anni’ tra la Spagna e i Paesi Bassi settentrionali, che garantì alla città una maggiore libertà.
Per celebrare questo evento significativo, la sala in cui si svolse la cerimonia di firma della tregua, nota come "Staetencamer", ricevette un’adeguata ristrutturazione da parte del sindaco della città.
In essa furono collocati i ritratti dei conti e dei duchi delle Fiandre e del Brabante; su una parete era appeso un grande crocifisso in bronzo.
Nel 1608, Abraham Janssens ricevette dal magistrato cittadino l'incarico di realizzare un dipinto per decorare la mensola del camino nella ‘Camera degli Stati’ del municipio di Anversa. Qui gli ambasciatori delle Province Unite del Nord e dei Paesi Bassi spagnoli avrebbero condotto i negoziati di pace che avrebbero portato alla ‘Tregua dei dodici anni’ tra i Paesi Bassi del Nord e del Sud. Per tale occasione fu commissionato ad Abraham Janssens un'opera per abbellire la mensola del camino della Camera nel municipio di Anversa, mentre a Rubens fu assegnata l'opera ‘L’Adorazione dei Magi’, attualmente esposta al Prado di Madrid.
Il consiglio comunale intendeva avvalersi delle figure allegoriche ‘Scaldis e Antverpia’ per incoraggiare i negoziatori a riaprire la Schelda alla navigazione, necessaria per la prosperità della città. In quel contesto, i rappresentanti delle Province Unite del Nord e dei Paesi Bassi spagnoli avrebbero condotto le trattative di pace.
Abraham Janssens quindi raffigurò ‘Scaldis e Anversa’, un olio su tavola delle dimensioni di 174 x 308 cm, oggi conservato presso il ‘Museo Reale di Belle Arti’ di Anversa.
Si tratta di una scena allegorica in cui sono rappresentate solamente due figure: Scaldis (Schelda) a sinistra e Antverpia (Anversa) a destra, definiti secondo la denominazione latina.
L'antico dio fluviale Scaldis, adornato di piante acquatiche palustri, è sorretto con la schiena a un'anfora, una brocca di ispirazione ellenizzante da cui scorre l'acqua della Schelda – simbolo emblematico di una divinità fluviale –, mentre porge una cornucopia rigogliosa alla vergine Antverpia, seduta accanto a lui e riconoscibile per la corona merlata che porta sul capo.
La verdura e la frutta che fluiscono dal corno assumono la forma di un volto, chiaro riferimento all'opera del pittore Arcimboldo.
I gigli adornano le rive del ruscello che sgorga dall’anfora.
La scena è sovrastata da un drappo d'onore che, simile a una grande vela, include simbolicamente nella composizione allegorica il tema della navigazione e sottolinea la dignità della divinità fluviale.
La dipendenza della prosperità di Anversa dalla Schelda è rappresentata in questo dipinto in modo straordinario, rendendo così evidente il motivo per cui il magistrato cittadino decise di collocare il dipinto in un luogo centrale della "Staetencamer": richiamando l'attenzione sull'importanza della Schelda per la prosperità di Anversa, evidenziava l'urgenza di riaprire il fiume alla navigazione.
Destinato come ornamento per una pregevole mensola del camino, incorniciato in modo elaborato, il dipinto aveva principalmente finalità decorative. Janssens riuscì a conferire tutto ciò alla sua opera attraverso un ricco riempimento del campo compositivo, grazie alla piena e sinuosa plasticità delle figure situate in primo piano e allo sviluppo eccezionalmente chiaro delle loro forme.
È evidente che Janssens per la composizione di ‘Scaldis e Antverpia’ si sia ispirato alla ‘Creazione di Adamo’ di Michelangelo nella Cappella Sistina. Le figure sono solide e robuste; tuttavia, l'intensa luce che proietta ombre scure è un raffinato richiamo a Caravaggio.
Scultoree come le figure michelangiolesche, 'Scaldis e Antverpia' dominano senza sforzo la cornice scolpita, nonostante la sua abbondante varietà di forme.
Le due possenti figure in movimento sono state disposte con equilibrio all'interno dell'insolitamente bassa cornice. Janssens ha utilizzato uno schema geometrico chiaro per posizionarle: ciascuna figura occupa metà del campo compositivo, con i rispettivi torsi presentati attraverso aree di colore sorprendentemente vivace lungo diagonali parallele.
Queste ultime sono ulteriormente connesse dal parallelismo delle braccia e dalla rotazione speculare delle teste.
Questo impressionante linguaggio formale deve la sua piena forza ai contrasti tra le potenti aree di luce e ombra, alle superfici lisce su cui la luce delinea chiaramente le sue ombre e conferisce un senso tangibile di volume con sobria concretezza, al suono fresco e ricco, nonché ai toni atmosferici locali dai colori molto sobri, che si amalgamano con lo stile plastico-decorativo del disegno per formare un accordo armonioso.
"Scaldis e Antwerpia", un dipinto di classica bellezza accademica, armonico nella forma e caratterizzato da una colorazione corsiva: rappresenta la fase più avanzata dell’arte di Janssens, qui visibilmente influenzato in parte da Caravaggio, la cui potenza visiva derivava dall'uso di forti contrasti tra luce e ombra, e in parte dalla scuola di Bologna, nota per il suo nobile classicismo.
Abraham Janssens aveva circa trentacinque anni quando realizzò quest’opera. Come è evidente dalla ricchezza delle forme e dei colori nonché dalla forte visione personale, la sua arte aveva raggiunto un livello invidiabile. Egli era stato il pittore più rinomato attivo ad Anversa quando Rubens, due anni più giovane di lui, tornò ad Anversa alla fine del 1608 dopo un soggiorno di otto anni in Italia.
In quel periodo entrambi i maestri erano egualmente apprezzati.
Tuttavia, non sarebbe passato molto tempo prima che Rubens dimostrasse finalmente il suo talento predominante e ascendesse a un livello artistico che sarebbe risultato al di là della portata dei suoi colleghi d'Anversa, incluso lo stesso Janssens. Durante questo periodo Janssens aveva raggiunto il culmine della sua creatività. La sua produzione successiva risulta meno convincente e, come quella degli altri suoi colleghi anversesi, sarebbe stata caratterizzata ma anche oscurata dallo stile audace di Rubens e dalla sua straordinaria tecnica pittorica.
Sulla parete opposta al dipinto di Janssens era esposta la colossale “Adorazione dei Magi”: Pieter Paul Rubens si confrontava con questo capolavoro dell'opera di Janssens.
Pareva che i due pittori della ‘Camera degli Stati’ fossero in competizione per il primato, ma si sarebbe trattato di un duello sbilanciato. Mentre ‘Scaldis e Antverpia’ rappresentava il vertice della carriera di Janssens e della sua parabola creativa, con la sua ‘Adorazione dei Magi’, l'astro di Rubens stava appena sorgendo, avviando una carriera fulminante che avrebbe avuto un impatto considerevole sulla vita artistica di Anversa, trasformando questa città in uno degli epicentri della cultura figurativa europea.
Per la sua opera, Rubens ricevette 1800 fiorini, oltre il doppio dei 750 fiorini percepiti da Janssens e anche più del doppio dell'importo speso dalla città per un dipinto in precedenza.
Arnold Houbraken, illustre biografo settecentesco dei pittori attivi nei Paesi Bassi nel Seicento, evidenziò anch'egli questa presunta rivalità nel suo ‘Grande teatro degli artisti e paesaggisti olandesi’.
Nella biografia dedicata a Janssens, l'autore presenta una visione di quest'ultimo che contrasta nettamente con quella dell’elegante, rigoroso e composto Rubens. Houbraken scrive che "Janssens si recava quotidianamente a passeggiare con la sua nuova moglie e si abbandonava all'ozio, il quale lo consumava come una falena; di conseguenza, la sua famiglia si trovò in difficili condizioni e alla fine cadde in povertà, mentre lui vagabondava con la testa china, cercando conforto nelle locande e tentando di lavare via i suoi problemi attraverso l'alcol".
Qualora questa contesa artistica tra due maestri fosse realmente avvenuta, avrebbe apportato significative trasformazioni alla vita artistica della città situata lungo il fiume Schelda. Tuttavia, al tempo dell’ordine, Janssens era uno dei pittori più illustri di Anversa. È quindi ragionevole che il magistrato cittadino gli abbia conferito tale incarico.
Oggi la tavola di Janssens è considerata da storici e studiosi d'arte un documento storico-politico di grande rilevanza. Sia la commissione sia l'iconografia di questo dipinto allegorico rimandano alle trattative di pace per la ‘Tregua dei dodici anni’, un periodo cruciale per Anversa durante la ‘Guerra degli Ottant'anni’.
Durante questo periodo di dodici anni, si verificarono pochi o addirittura nessun combattimento tra la Repubblica olandese e i Paesi Bassi asburgici soggetti all'Impero spagnolo. La tregua perdurò dal 1609 al 1621; il trattato che ne sanciva l'esistenza è noto anche come ‘Trattato di Anversa’. La dipendenza della prosperità di Anversa dal fiume Schelda è rappresentata in modo emblematico, rendendo evidente perché il magistrato cittadino avesse deciso di collocare il dipinto nello "Staetencamer" in un luogo d'onore: ciò attirava l'attenzione sull'importanza del fiume Schelda per consolidare la prosperità di Anversa, evidenziando così la necessità di riaprire il corso d'acqua alla navigazione.
L'opera "Adorazione dei Magi" si confronta con questo momento culminante dell'attività artistica di Janssens e, secondo alcuni critici, persino con l'artista stesso.
Tuttavia, non trascorse molto tempo prima che Rubens manifestasse finalmente il suo straordinario talento, raggiungendo un livello artistico inarrivabile per i suoi colleghi di Anversa, incluso Janssens.
È opportuno fare una breve menzione della vita dell’autore.
L’inizio della carriera di Abraham Janssens rimane ancora in gran parte avvolto nel mistero. Egli nacque ad Anversa nel 1574 o 1575, figlio di Jan e van Roelofken van Nuyssen.
Per distinguersi dai numerosi Abraham Janssens presenti ad Anversa in quel periodo, decise di aggiungere il cognome materno al proprio, facendosi chiamare Abraham Janssens van Nuyssen e firmando le sue opere di conseguenza.
Nel 1584 o 1585 intraprese un apprendistato presso Jan Snellinck, un artista privo di particolare personalità.
Fu solo nel 1601 che ottenne l’ammissione come maestro alla Gilda di San Luca ad Anversa; tale circostanza è parzialmente spiegata dal fatto che aveva precedentemente risieduto in Italia, più precisamente a Roma, come attestano i documenti rinvenuti nella Città Eterna. Divenne decano della medesima corporazione nel 1606. Nel 1608 sposò Sara Goedkind, dalla quale ebbe otto figli. Fu sepolto ad Anversa il 25 gennaio 1632.
Janssens si dedicò alla pittura di scene religiose, mitologiche e allegoriche, oltre a ritratti occasionali. Le sue prime opere, ancora impregnate dello spirito del Manierismo della fine del Cinquecento, si caratterizzano per un disegno elaborato e una tavolozza composta da colori mutevoli tipici del cangiantismo manierista.
La sua opera successiva risulta meno persuasiva e, analogamente a quella degli altri colleghi di Anversa, sarà influenzata dallo stile audace di Rubens e dalla sua raffinata tecnica pittorica.
Nonostante tutti gli sforzi per liberare la navigazione sul fiume Schelda essi rimasero vani. La ‘Guerra degli Ottant'anni’ si sarebbe conclusa soltanto nel 1648: dopo decenni di conflitti, la pace siglata quell'anno a Münster tra la Repubblica dei Paesi Bassi Uniti e il re Filippo IV di Spagna, la Spagna si trovò nell'obbligo di riconoscere l'indipendenza della Repubblica, mentre i Paesi Bassi meridionali rimasero sotto il dominio degli Asburgo ma determinò anche il destino del porto di Anversa. Una delle disposizioni più rilevanti del ‘Trattato di Münster’ stabiliva che la Schelda sarebbe rimasta chiusa.

domenica 16 febbraio 2025

Rubens e Caino uccide Abele

Nel 1608, nulla induceva Rubens a lasciare l'Italia: fra il duca di Mantova, la potente famiglia genovese degli Spinola, a Roma i cardinali Peretti di Montalto, Borghese e Serra, nonché gli ordini dei Gesuiti e degli Oratoriani probabilmente avrebbe potuto intraprendere una carriera completamente italiana. Tuttavia, quando ricevette a Roma la notizia della grave malattia di sua madre, partì per Anversa per assisterla. Purtroppo, al suo arrivo, scoprì che la madre era già deceduta. Dalla fitta corrispondenza che Rubens mantenne con eminenti personalità italiane mostra molte volte di avere intenzione di ritornare nel bel paese.
Dopo otto anni di assenza dalle Fiandre, diversamente dall’Italia dove il suo nome rimbalzava da un’impresa all’altra, si trovava in una situazione di quasi anonimato, ma nello stesso anno Rubens entrò al servizio dei reggenti delle Fiandre l’arciduca Alberto d'Austria e dell’infanta Isabella Clara Eugenia e, grazie alle commissioni per pale d’altare, iniziò a radicarsi nella città da lui scelta.
Durante i suoi primi dieci anni ad Anversa, si dedicò principalmente alla realizzazione di decorazioni per altari. In questo periodo la sua bottega produsse oltre sessanta pale d'altare: circa un terzo destinate alla città e il resto a varie chiese e monasteri delle Fiandre; alcune opere furono anche destinate a paesi stranieri. Le sue abilità narrative diventarono sempre più evidenti e negli anni Venti la sua fama si diffuse attraverso le riproduzioni incise delle sue opere.
Dopo la riconquista di Anversa da parte di Alessandro Farnese e il mantenimento del controllo spagnolo sulla città, vi era stato un forte sostegno al nuovo movimento della Controriforma o restaurazione della Chiesa cattolica: le chiese furono restaurate e rinnovate.
Artisti come Van Noort e Van Veen, che pure erano stati i suoi maestri, Abraham Janssens e Hendrick van Balen, ancora legati al Manierismo, furono trascurati mentre Rubens ricevette il maggior numero di commissioni. Tra le sue opere significative vi è ‘L'Innalzamento della Croce’ (1610-1611), dipinta per la chiesa di Santa Valpurga oggi scomparsa e attualmente esposto nella ‘Cattedrale di Nostra Signora’ di Anversa su incarico della ‘Corporazione dei Venditori di stoffe. Inoltre, la ‘Corporazione degli Artiglieri’ si rivolse a Rubens per un trittico comprendente la ‘Deposizione dalla Croce’ (1611-1614) con, nei pannelli laterali, rappresentazioni della ‘Visitazione’ e della ‘Presentazione al Tempio’.
Tra queste due opere di grande rilevanza si colloca la ‘Deposizione’, attualmente custodita a Ottawa. È importante sottolineare il ruolo di Nicolaas Rockox, che ricoprì più volte le cariche di assessore e sindaco di Anversa e si distinse come un appassionato estimatore d'arte. Rockox conferì a Rubens importanti commissioni artistiche, gettando così le basi per il successo del giovane maestro come pittore negli anni Dieci del Seicento. Questo periodo corrisponde grosso modo alla ‘Tregua dei dodici anni’ (1609 - 1621), all'interno della ‘Guerra degli Ottant'anni’ per l’indipendenza delle ‘Diciassette Province’ dall'Impero spagnolo. La Spagna riconobbe infine la sovranità della repubblica nel 1609, con il trattato noto come ‘Trattato di Anversa’. Tra le commissioni realizzate da Rubens per Rockox vi sono ‘L'Adorazione dei Magi’, attualmente conservata presso il ‘Museo Nazionale del Prado’ a Madrid, e il ‘Trittico Rockox’, commissionato per il monumento funebre di Rockox e sua moglie nella chiesa del monastero francescano di Anversa. In qualità di capo della corporazione degli artiglieri, Rockox si adoperò affinché Rubens ricevesse l'incarico per il suo capolavoro nella ‘Cattedrale di Nostra Signora’ di Anversa: la ‘Deposizione dalla Croce’. Inoltre, Rockox si assicurò che Filippo, il fratello maggiore di Rubens, fosse nominato segretario della città di Anversa. Ad Anversa affidò a Rubens una delle sue prime commissioni: ‘Sansone e Dalila’ (circa 1609). Proprio durante il suo ritorno ad Anversa, Rubens creò una delle opere significative della sua prima maturità artistica: ‘Caino che uccide Abele’ del 1608\9, oggi esposta al ‘Courtauld Institute of Art’ di Londra, dove è evidente l'impatto duraturo delle esperienze italiane su Rubens anche dopo il suo rientro nelle Fiandre. Tra queste due opere di grande rilevanza si colloca la ‘Deposizione’, attualmente custodita a Ottawa. È importante sottolineare il ruolo di Nicolaas Rockox, che ricoprì più volte le cariche di assessore e sindaco di Anversa e si distinse come un appassionato estimatore d'arte. Rockox conferì a Rubens importanti commissioni artistiche, gettando così le basi per il successo del giovane maestro come pittore negli anni Dieci del Seicento. Questo periodo corrisponde grosso modo alla ‘Tregua dei dodici anni’ (1609 - 1621), all'interno della ‘Guerra degli Ottant'anni’ per l’indipendenza delle ‘Diciassette Province’ dall'Impero spagnolo. La Spagna riconobbe infine la sovranità della repubblica nel 1609, con il trattato noto come ‘Trattato di Anversa’. Tra le commissioni realizzate da Rubens per Rockox vi sono ‘L'Adorazione dei Magi’, attualmente conservata presso il ‘Museo Nazionale del Prado’ a Madrid, e il ‘Trittico Rockox’, commissionato per il monumento funebre di Rockox e sua moglie nella chiesa del monastero francescano di Anversa. In qualità di capo della corporazione degli artiglieri, Rockox si adoperò affinché Rubens ricevesse l'incarico per il suo capolavoro nella ‘Cattedrale di Nostra Signora’ di Anversa: la ‘Deposizione dalla Croce’. Inoltre, Rockox si assicurò che Filippo, il fratello maggiore di Rubens, fosse nominato segretario della città di Anversa. Ad Anversa affidò a Rubens una delle sue prime commissioni: ‘Sansone e Dalila’ (circa 1609). Proprio durante il suo ritorno ad Anversa, Rubens creò una delle opere significative della sua prima maturità artistica: ‘Caino che uccide Abele’ del 1608\9, oggi esposta al ‘Courtauld Institute of Art’ di Londra, dove è evidente l'impatto duraturo delle esperienze italiane su Rubens anche dopo il suo rientro nelle Fiandre. Tra queste due opere di grande rilevanza si colloca la ‘Deposizione’, attualmente custodita a Ottawa. È importante sottolineare il ruolo di Nicolaas Rockox, che ricoprì più volte le cariche di assessore e sindaco di Anversa e si distinse come un appassionato estimatore d'arte. Rockox conferì a Rubens importanti commissioni artistiche, gettando così le basi per il successo del giovane maestro come pittore negli anni Dieci del Seicento. Questo periodo corrisponde grosso modo alla ‘Tregua dei dodici anni’ (1609 - 1621), all'interno della ‘Guerra degli Ottant'anni’ per l’indipendenza delle ‘Diciassette Province’ dall'Impero spagnolo. La Spagna riconobbe infine la sovranità della repubblica nel 1609, con il trattato noto come ‘Trattato di Anversa’. Tra le commissioni realizzate da Rubens per Rockox vi sono ‘L'Adorazione dei Magi’, attualmente conservata presso il ‘Museo Nazionale del Prado’ a Madrid, e il ‘Trittico Rockox’, commissionato per il monumento funebre di Rockox e sua moglie nella chiesa del monastero francescano di Anversa. In qualità di capo della corporazione degli artiglieri, Rockox si adoperò affinché Rubens ricevesse l'incarico per il suo capolavoro nella ‘Cattedrale di Nostra Signora’ di Anversa: la ‘Deposizione dalla Croce’. Inoltre, Rockox si assicurò che Filippo, il fratello maggiore di Rubens, fosse nominato segretario della città di Anversa. Ad Anversa affidò a Rubens una delle sue prime commissioni: ‘Sansone e Dalila’ (circa 1609). Proprio durante il suo ritorno ad Anversa, Rubens creò una delle opere significative della sua prima maturità artistica: ‘Caino che uccide Abele’ del 1608\9, oggi esposta al ‘Courtauld Institute of Art’ di Londra, dove è evidente l'impatto duraturo delle esperienze italiane su Rubens anche dopo il suo rientro nelle Fiandre.
Questa pregevole tavola a olio, delle dimensioni di 131 x 94 cm, fu realizzata tra il 1608 e il 1609, poco dopo il rientro dell’artista ad Anversa. La scena illustra un episodio dell’Antico Testamento ed è contraddistinta da una notevole dinamicità e potenza. Può essere considerata uno dei primi capolavori del barocco fiammingo. Sebbene presenti ancora elementi di sobrietà e si trovi in una fase embrionale, ha suscitato l’interesse degli appassionati d’arte per secoli, evidenziando l'eccezionale talento dell'artista nel ritrarre corpi muscolosi. Prima di procedere con l'analisi della tavola, risulta opportuno acquisire alcune informazioni sulla fonte letteraria che ha ispirato l'opera, confrontando la Bibbia ebraica con quella cristiana. Di seguito sono riportati i versetti dal 1 al 18 del IV capitolo della Genesi, i quali narrano l'intera vicenda di Caino e Abele e da cui Rubens ha tratto il momento culminante dell’assassinio.
«Adamo si unì a Eva sua moglie, la quale concepì e partorì Caino e disse: «Ho acquistato un uomo dal Signore».
Poi partorì ancora suo fratello Abele.
Ora Abele era pastore di greggi e Caino lavoratore del suolo.
Dopo un certo tempo, Caino offrì frutti del suolo in sacrificio al Signore; anche Abele offrì primogeniti del suo gregge e il loro grasso. Il Signore gradì Abele e la sua offerta, ma non gradì Caino e la sua offerta. Caino ne fu molto irritato e il suo volto era abbattuto.
Il Signore disse allora a Caino: «Perché sei irritato e perché è abbattuto il tuo volto? 7 Se agisci bene, non dovrai forse tenerlo alto? Ma se non agisci bene, il peccato è accovacciato alla tua porta; verso di te è il suo istinto, ma tu dominalo».
Caino disse al fratello Abele: «Andiamo in campagna!». Mentre erano in campagna, Caino alzò la mano contro il fratello Abele e lo uccise.
Allora il Signore disse a Caino: «Dov'è Abele, tuo fratello?».
Egli rispose: «Non lo so. Sono forse il guardiano di mio fratello?».
Riprese: «Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo! Ora sii maledetto lungi da quel suolo che per opera della tua mano ha bevuto il sangue di tuo fratello. Quando lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti: ramingo e fuggiasco sarai sulla terra».
Disse Caino al Signore: «Troppo grande è la mia colpa per ottenere perdono! Ecco, tu mi scacci oggi da questo suolo e io mi dovrò nascondere lontano da te; io sarò ramingo e fuggiasco sulla terra e chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere».
Ma il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!».
Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l'avesse incontrato.
Caino si allontanò dal Signore e abitò nel paese di Nod, ad oriente di Eden.
Ora Caino si unì alla moglie che concepì e partorì Enoch; poi divenne costruttore di una città, che chiamò Enoch, dal nome del figlio.
A Enoch nacque Irad; Irad generò Mecuiaèl e Mecuiaèl generò Metusaèl e Metusaèl generò Lamech.»
Ecco una sintesi della narrazione di Adamo ed Eva, che informa riguardo ai loro due figli maggiori, Caino e Abele. Entrambi presentarono offerte a Dio; tuttavia, quando il sacrificio di Caino venne rifiutato, egli, mosso da gelosia e invidia, uccise il fratello. Nel testo originale in ebraico, al versetto 7 del quarto capitolo della Genesi, si trova un passaggio di difficile interpretazione: “Se farai bene sarai esaltato; ma se non farai bene… Il peccato è alla porta; desidera te, ma tu devi dominarlo.” I Padri della Chiesa e gran parte della tradizione rabbinica antica sostengono che Dio inviò un fuoco dal cielo per consumare le offerte di Abele come segno del Suo gradimento. Nella traduzione greca dei Settanta, la colpa di Caino sembra consistere nel fatto che egli offrì a Dio la parte peggiore dei frutti della terra. Inoltre, sia la tradizione ebraica sia quella cristiana affermano che Caino fosse avido e vizioso mentre Abele era giusto e virtuoso. Tuttavia, queste sono solo interpretazioni tradizionali senza fondamento filologico poiché nel testo biblico originale non vi è alcun riferimento a tali caratteristiche. I due fratelli sono descritti esclusivamente attraverso le loro professioni: Caino rappresenta l'agricoltura sedentaria mentre Abele è un pastore, un'attività tipica dei popoli seminomadi dell'antico Vicino Oriente. È storicamente noto che tra contadini e pastori vi fosse una significativa conflittualità nell'età preistorica e anche in quella protostorica poiché la pastorizia danneggiava l'agricoltura. Pertanto, l'episodio biblico potrebbe alludere proprio a questa rivalità. Si ipotizza che la redazione scritta del testo sacro avvenne durante la cattività babilonese, fra il VII e il VI secolo a.C., ma su questo punto esistono opinioni divergenti tra i filologi che propongono il V secolo.
Rubens era un pittore colto ma non esperto di filologia biblica; pertanto seguì la tradizione cristiana. Dopo questa necessaria introduzione letteraria per contestualizzare l'Arte, osserviamo ora il dipinto.
L'opera illustra il momento in cui Caino uccide il fratello Abele, e la composizione del dipinto si distingue per la sua straordinaria capacità di sintesi, ottenuta attraverso una ricchezza di dettagli e una complessità che solo un artista della grandezza di Rubens potrebbe conseguire. Essa rappresenta un'armoniosa integrazione tra l'analiticità fiamminga e la sinteticità italiana. La scena appare caratterizzata da una notevole violenza. In questo contesto, ritengo che Rubens possa aver trovato ispirazione nel 'Martirio di San Matteo', situato nella 'Cappella Contarelli' a 'San Luigi dei Francesi', sebbene con le necessarie differenze legate al contesto.
Mentre "Il martirio di San Matteo" si svolge in un tempio affollato, l'assassinio di Abele è ambientato in un mondo desolato e primordiale. La narrazione si sviluppa all'interno di un paesaggio montano, caratterizzato da una vegetazione lussureggiante che offre uno sfondo naturale piuttosto oscuro, conferendo alla vicenda un senso di isolamento e una natura selvaggia sotto un cielo drammaticamente livido, il quale riflette la tensione tragica del momento narrativo.
Un elemento fumoso, forse di origine soprannaturale, proviene da un barile situato vicino alla figura eretta di Caino, creando nell'aria un'atmosfera mistica o addirittura minacciosa. La scena risulta violenta e intensa, raffigurando un 'mito' con simbolismi o allegorie antiche quasi ancestrali.
Le due figure maschili muscolose sono coinvolte in una lotta feroce; i loro corpi contorti dall’azione evidenziano lo sforzo fisico e l'intensità emotiva del momento. Caino, posizionato a sinistra, con il suo corpo possente e il volto colmo di rabbia, domina la scena: è rappresentato con una muscolatura tesa allo spasimo mentre solleva il braccio destro, probabilmente per infliggere un colpo mortale al più giovane Abele. La sua espressione facciale trasmette feroce determinazione e rabbia; le sue sopracciglia aggrottate e la bocca aperta suggeriscono che stia emettendo un urlo disperato.
Abele, sebbene anch'esso muscoloso, giace quasi indifeso a terra; nel tentativo di sottrarsi al colpo imminente mostra stupore, difesa e dolore. Il suo braccio sinistro è sollevato in un debole tentativo di protezione mentre il suo corpo si piega per attutire l'impatto. La sua espressione aggiunge un elemento toccante alla scena rivelando paura.
Cosa impedisce al pur forte Abele di difendersi con maggiore determinazione? Potrebbe trattarsi dell'effetto sorpresa? È possibile. Ma Rubens vuole piuttosto evidenziare la differente psicologia dei due fratelli così diversi, come la tradizione cristiana e quella rabbinica raccontano. La devozione di Abele, il pastore, nei confronti del Signore è segno di grande bontà perciò, egli non alzerebbe mai la mano contro suo fratello e non avrebbe neppure potuto immaginare che suo fratello potesse alzare la mano contro di lui. La riluttanza di Caino nei confronti dei sacrifici al Signore, sempre in un ambito di risparmio e di detrazione secondo la tradizione rabbinica e cristiana, è indicativa di un animo meno puro e meno riconoscente.
Ma questo la Bibbia non ce lo dice.
Pertanto, Caino apparirebbe meno gradito a Dio e, di conseguenza, non esita a sollevare la mano omicida contro suo fratello. La scena è indubbiamente molto violenta. Rubens ha avuto modo di conoscere bene questo tipo di violenza vivendo a Roma, che ai tempi di Caravaggio era una delle città più pericolose in termini di criminalità. Camminare di notte per quelle strade buie e prive di sorveglianza comportava un rischio elevato: gli stupri di donne e minori erano all'ordine del giorno e spesso non venivano denunciati per vergogna o paura; l'unica eccezione sarebbe stata la denuncia da parte di Artemisia Gentileschi qualche anno dopo. La pedofilia era una pratica comune e tollerata.
Per i giovani, fin dall'adolescenza, era consueto muoversi in gruppo e armati: con coltelli, rasoi, spade o bastoni, a seconda della classe sociale e della ‘dignità’ dell'individuo. Ogni anno bande armate dei vari quartieri si affrontavano tra loro; già allora esistevano clan criminali e anche ambasciate straniere coinvolte nei loro conflitti (francesi, spagnoli, austriaci e fiammingo-olandesi), lasciando morti e feriti sulle strade. Inoltre, risolvere le dispute familiari o tra vicini attraverso la violenza era una pratica comune. Questo implica che nella Roma ai tempi di Caravaggio – ben nota anche a Rubens – l'uso della violenza come mezzo di sopraffazione fosse qualcosa di assolutamente abituale, normale e non perseguito dalla legge per incapacità o indolenza.
È evidente quanto questo contesto abbia influenzato la creazione dell'opera in questione. Dal punto di vista tecnico, sebbene questa tavola non sia in condizioni ottimali, presenta comunque notevoli punti di forza. Ciò che colpisce immediatamente è l'uso dei colori: Rubens ha selezionato una tavolozza ricca e vivace, con tonalità calde e fredde che generano un contrasto molto drammatico.
I dettagli negli abiti e negli accessori dei due personaggi sono sorprendenti per la varietà delle trame e dei motivi, conferendo così profondità e realismo all’opera stessa. Ma non è tutto! Questo rappresenta anche un omaggio da parte di Rubens alla pittura lenticolare della tradizione fiamminga.
La storia dietro questo dipinto è davvero affascinante. Fin dall'inizio, quest'opera è stata considerata una delle più significative della prima maturità artistica di Rubens ed è rapidamente divenuta un modello iconico per le rappresentazioni future su questo tema. Esistono alcuni dettagli poco conosciuti del dipinto che lo rendono ulteriormente intrigante; si narra infatti che la figura di Caino sia ispirata dallo stesso Rubens, il quale amava includere ritratti personali nelle sue opere.
Ma se fosse vero, perché si sarebbe presentato nei panni di Caino? Questa è una domanda alla quale, al momento, non siamo in grado di fornire una risposta con gli studi su Rubens attualmente a nostra disposizione. Le figure muscolose che osserviamo sono influenzate dal suo recente soggiorno-studio in Italia. In particolare, si evidenzia quanto abbia approfondito la scultura dell'antichità classica; l'immagine del ‘Laocoonte’ ha avuto un impatto notevole sulla sua opera, così come la muscolatura dei due personaggi trae ispirazione anche dall'opera di Michelangelo. È impossibile non pensare agli ‘Ignudi’ della ‘Cappella Sistina’ e alla potenza espressiva dei ‘Prigioni’ per la tomba di Giulio II della Rovere! Quest’opera segna indubbiamente un momento cruciale nella carriera di Rubens, rappresentando uno dei suoi lavori in cui il maestro ha finalmente saputo mescolare in modo potente tutto ciò che ha appreso ad Anversa con le impressioni ricevute in Italia. Considerata l'epoca in cui è stata realizzata, possiamo considerarla una delle prime vere espressioni della pittura barocca europea. La ricchezza emotiva e il dinamismo dell’azione sono davvero straordinari! Questo stile, tipico del Barocco, riesce a mettere in risalto la tensione drammatica e le emozioni nel loro massimo splendore.
Tuttavia, oltre agli aspetti stilistici, l'opera di Rubens suscita alcune riflessioni personali. È la prima volta che mi dedico a un tema iconografico quale l'uccisione di Abele da parte del fratello Caino. Nel passo citato dell'Antico Testamento non viene chiarito il motivo per cui Dio favorisca l'offerta di Abele rispetto a quella di Caino. Fin dai primi studi biblici, la questione della preferenza divina per il sacrificio di Abele ha generato dibattiti tra gli studiosi, i quali non sono mai riusciti a raggiungere un consenso definitivo poiché la Bibbia non specifica mai le ragioni dietro tale scelta.
La rivalità fraterna emerge come un tema ricorrente che attraversa le narrazioni della Torah, dai primi cinque libri dell'Antico Testamento fino alla storia del re Davide e oltre: tali rivalità risultano così centrali nella narrazione biblica da manifestarsi sin dall'inizio con i primissimi fratelli, Caino e Abele. La questione si complica quando entrambi presentano un sacrificio al Signore. Caino, essendo primogenito e agricoltore, offre ciò che produce grazie al suo lavoro; Abele, secondogenito e pastore, presenta invece il prodotto del suo pascolo.
Il testo afferma che il Signore “ha riguardo” solamente per il sacrificio di Abele, provocando in Caino gelosia, ira e infine l’omicidio del fratello Abele; questo è seguito poco dopo dalla sua cacciata (Genesi 4:1–6). Ma perché Dio predilige l’offerta di Abele rispetto a quella di Caino? La narrazione della Genesi si concentra sulla reazione di Caino dopo l’omicidio senza approfondire i motivi sottostanti alle preferenze divine.
Una delle spiegazioni più comuni suggerisce che Dio abbia scelto l'offerta di Abele in quanto rappresentava il primogenito del suo gregge, mentre l'offerta di Caino era una semplice "varietà da giardino" composta da prodotti misti. Il concetto del sacrificio del primogenito è un tema ricorrente nell'intera Bibbia, incluse le leggi sacerdotali relative ai sacrifici, il quasi sacrificio di Isacco da parte di Abramo nel ventiduesimo capitolo della Genesi, la figlia di Iefte con il terribile voto paterno narrato nell'undicesimo capitolo del Libro dei Giudici e, naturalmente, il sacrificio simbolico di Gesù nel terzo capitolo del Vangelo secondo Giovanni. Tuttavia, il testo non presenta valutazioni negative sull'offerta di Caino se non affermando semplicemente che Dio non avrebbe "considerato" tale offerta. Inoltre, offrire le primizie del campo sarebbe poi divenuta una prescrizione divina come indicato altrove nella Torah; pertanto risulta difficile sostenere che Dio potesse dispiacersi per qualcosa che successivamente avrebbe ordinato a tutti gli Israeliti.
È probabile che, sebbene meno soddisfacente dal punto di vista etico, la spiegazione risieda nell'osservare ciò che accomuna tutti i fratelli favoriti nella storia di Israele. La maggior parte di essi è composta da secondogeniti o figli più giovani e frequentemente ricoprivano il ruolo di pastori: Abele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Giuda e Davide. La Bibbia ritrae questi personaggi come i "piccoli" nelle rispettive narrazioni. L'essere pastori li ha distinti come nomadi che vivevano ai margini delle civiltà agricole, caratterizzate da contadini sedentari che facevano maggiore affidamento sui propri sforzi collettivi per costruire comunità, accumulare ricchezze e fondare città; da queste ultime i nomadi pastori sarebbero sempre stati in qualche modo dipendenti.
Numerosi studiosi sostengono che Dio si mostrò favorevole al sacrificio di Abele in quanto rappresentante dei nomadi pastori poiché gli autori biblici intendevano promuovere uno stile di vita nomade e pastorale che rifletteva l'identità israelita rispetto allo stile di vita agricolo e allo sviluppo urbano incarnati dall'offerta di Caino. Pertanto, anche se non abbiamo certezze riguardo al motivo per cui Dio accolse l'offerta di Abele piuttosto che quella del fratello Caino, questa scelta appare coerente con la preferenza espressa per il fratello minore rispetto al primogenito lungo tutto il testo biblico e con la valorizzazione dei pastori e dei nomadi rispetto a coloro che abitavano le città.
La questione relativa al perché Dio scacci Caino ma poi lo segni affinché nessuno possa ucciderlo è profondamente complessa: la risposta implica un tentativo di interpretare il racconto in un modo che auspico possa facilitarne la comprensione.
La vicenda di Adamo ed Eva è completamente astorica nel senso che non sono direttamente interessati alla storia nel modo in cui la concepiamo oggi. I capitoli 1-11 della Genesi sono considerati astorici nel contesto degli studi teologici poiché presentano narrazioni difficili o quasi impossibili da verificare storicamente. Non desidero apparire blasfemo; tuttavia possono essere storicamente comparati ad altre cosmogonie e teogonie presenti nelle tradizioni letterarie della Grecia e del Vicino Oriente mediterraneo, pur mantenendo ciascuna delle peculiarità proprie delle culture che le hanno prodotte.
La tradizione ebraica, generalmente caratterizzata da un approccio più astratto, presenta una narrazione altamente stilizzata la cui interpretazione è simbolica e allegorica. I racconti contenuti nei primi undici capitoli della Genesi, che trattano delle origini del genere umano, veicolano un significato profondo e di grande rilevanza, attinente a aspetti moralmente significativi espressi tramite simbolismo o metafore. In questo contesto, Adamo ed Eva, così come Caino e Abele, non devono essere considerati semplicemente come entità fisiche. Il loro significato nelle tre religioni abramitiche implica che Dio ha effettivamente creato i nostri progenitori umani e che attraverso le loro scelte errate si è verificata una deviazione morale o un peccato nella storia dell'umanità.
A seguito di questo primo peccato, tutta l'umanità, a partire da Caino e Abele in quanto discendenti di tali figure umane, ha perso la sua innocenza originale ed è diventata soggetta al peccato. Il nome Adamo deriva dalla parola ebraica che significa uomo o genere umano; similmente, Eva proviene dalla parola ebraica che significa vita o vivere, assumendo pertanto anche il significato di generatrice in senso metaforico. Per quanto riguarda Caino, il suo nome trae origine da una parola ebraica che indica acquisizione o possesso; mentre il nome Abele è associato a una parola ebraica che significa ampiezza o vapore.
Analizzando i significati dei nomi Adamo ed Eva si può dedurre che non si fa riferimento a un singolo individuo creato da Dio; piuttosto risulta più corretto affermare che Yaweh ha creato l'uomo/l'umanità nel suo complesso. Ne consegue il concetto di "Facciamo l'uomo/il genere umano a nostra immagine e somiglianza", piuttosto che "Facciamo quest'uomo". Eva appare in questo contesto suggerendo che l'uomo o l'umanità creata da Dio possedeva "vita" ed è divenuta entità 'vivente'. Così facendo è evidente che Dio ha creato l'uomo/umanità (Adamo) rendendoli esseri viventi (Eva), separandoli ora in maschio e femmina. Le implicazioni di ciò sono tali per cui Adamo ed Eva non rappresentano semplicemente due individui ma piuttosto un insieme di molteplici identità.
Anche i nomi Caino e Abele rimandano ai concetti legati ad azioni piuttosto che a specifiche parole riguardanti l’essere umano, indicando quindi come l'umanità abbia iniziato a possedere/acquisire (Caino) figli e a generare (Abele) una discendenza come Jaweh aveva comandato loro (Adamo ed Eva) di fare: "Siate fecondi, moltiplicatevi e riempite la terra" (Genesi 1:28). L’assassinio di Abele ad opera di Caino simboleggia innanzitutto la complessità del peccato umano: la prima coppia genitoriale ha peccato dando origine al peccato originale; tale peccato ora si riproduce anche nella loro progenie.
Questa narrazione funge anche da allegoria del conflitto storico tra agricoltori e pastori, poiché tali professioni rappresentano le prime attività umane. Essa svolge un ruolo di ammonimento nei confronti della gelosia e dell'ira, emozioni capaci di sfociare nella violenza e nel peccato. L'espressione "Dio mise un segno" deriva dall'ebraico "Jaweh pose un segno su Caino". Il termine ebraico può essere interpretato come segno, marchio o indicazione. In questo contesto non si fa riferimento a un segno specifico tracciato con inchiostro o vernice; piuttosto, si tratta di una formulazione allegorica che indica che Dio lo distinse o lo proteggesse dagli attacchi ritorsivi al fine di salvaguardarlo dalla morte, evitando così ulteriori omicidi. Pertanto, il segno implica che Dio lo coprì o lo difese dalle aggressioni esterne.
Chi erano i potenziali assassini... il secondo uomo dopo Adamo? Dall'analisi precedente emerge chiaramente che Caino non possa essere considerato il secondo uomo dopo Adamo, poiché Adamo simboleggiava l'intera umanità. Il termine "genere umano" è definito come l'insieme di tutti gli esseri umani viventi sulla Terra. Pertanto, Adamo si riferiva a tutti gli abitanti viventi del pianeta, piuttosto che a un singolo individuo. Di conseguenza, possiamo dedurre che i potenziali aggressori dai quali Dio ha protetto o contrassegnato Caino fossero gli altri abitanti della Terra, i quali avrebbero potuto desiderare vendetta per l'uccisione di Abele. Questo chiarisce anche la questione riguardante Caino e la donna da lui sposata, dalla quale ebbe dei figli: da dove proveniva questa donna? Essa derivava da Adamo (il genere umano) che generava (Eva) su tutta la Terra.

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