lunedì 12 febbraio 2024

Honoré Daumier e la miseria del popolo parigino di Massimo Capuozzo

Anche Honoré Daumier (1808-1879), pittore politicamente ancor più impegnato di Courbet nella denuncia delle ingiustizie sociali, ha dato un contributo molto significativo al “Realismo” prima come caricaturista e incisore, poi anche con i suoi dipinti e con le sue sculture. Questo ha fatto sì che le sue due carriere fossero il più delle volte considerate separatamente. Oggi però non è più possibile questo tipo di approccio perché è palese che la sua pittura risenta della sua intenzione di disegnatore e che quest’ultima abbia come suo presupposto inalienabile la sua visione pittorica.
Daumier era marsigliese nato nel 1808 nel popolare quartiere del “Porto vecchio” da un padre vetraio e velleitario autore teatrale. Era giunto a Parigi nel 1816 insieme alla madre per raggiungere il padre che, per le sue ambizioni letterarie, vi si era trasferito due anni prima.
A tredici anni, Daumier era andato a lavorare prima per un libraio poi il padre gli aveva trovato un lavoro come fattorino presso un ufficiale giudiziario: in questo suo secondo lavoro ebbe senza dubbio modo di osservare il tipo del “grande avvocato” che avrebbe rappresentato successivamente in diverse occasioni e in altrettanto diverse situazioni.
A quattordici anni aveva incominciato a disegnare e nel 1822 era stato notato per il suo talento da “Alexandre Lenoir”, personaggio famoso all’epoca, archeologo e conservatore museale che si era occupato di custodire e mettere in salvo le opere antiche che la furia iconoclasta della Rivoluzione dell’Ottantanove aveva scatenato, producendo importanti distruzioni. Il buon Lenoir si accorse del talento del ragazzo e ne incominciò a curare la formazione: gli faceva copiare oggetti d'antiquariato e poi i maestri del Louvre trasmettendogli la sua ammirazione per Tiziano e per Rubens. Nel frattempo il ragazzo entrò nell’Accademia Svizzera di Parigi dove studiò poi con molta attenzione la litografia, una tecnica molto diffusa all'epoca per la riproduzione di immagini disegnate.
Proveniente da un'effervescente città portuale, inserito in una Parigi in continua ebollizione, prestò la sua attenzione ai grandi rivolgimenti che toccavano la Francia presso le redazioni dei giornali con cui incominciava a collaborare, e Parigi era un luogo di osservazione particolarmente privilegiato.
Daumier aveva ventidue anni quando nel 1830 scoppiò la rivoluzione a Parigi che diede inizio alla “Monarchia di Luglio” un evento che diede a Honoré Daumier, contribuendo a una varietà di giornali satirici parigini, l'opportunità di esprimere i suoi sentimenti repubblicani nella sua caricatura.
Nel luglio del 1830 il popolo di Parigi si era mobilitato per detronizzare l’assolutista e reazionario Carlo X, quando fu offerta a Luigi Filippo, cugino del re, la luogotenenza del regno e il 9 agosto, dopo l’abdicazione di Carlo X, il Parlamento lo proclamò “re dei Francesi”.
Con questa proclamazione e con tale titolo i liberali volevano sottolineare che era il popolo l’entità che dava legittimità al nuovo sovrano, insieme con il giuramento di fedeltà alla Costituzione e con l’adozione della bandiera tricolore, simbolo della Rivoluzione francese, in luogo della bandiera bianca coi gigli d’oro dei Borbone.
Delle tante aspettative in questo sovrano, Luigi Filippo allargò solo molto limitatamente il diritto di voto: su una popolazione di circa 30 milioni di abitanti si passò da 100.000 a 165.000 elettori, scelti con criteri censitari. Mantenne invece la nomina regia per una delle due camere del Parlamento, quella dei Pari che era di per sé già ereditaria, contrariamente a quanto si aspettavano i liberali. In questo modo il sistema politico rimaneva nelle mani dell’aristocrazia e della borghesia più agiata I governi nominati da Luigi Filippo presero quasi subito una piega conservatrice, contrastata dall’opposizione della classe operaia, dei repubblicani e dei socialisti, interpreti di un sentimento d’insoddisfazione che si diffuse sfociando in frequenti insurrezioni spontanee e altrettanto frequenti attentati al re.
Dopo essere scampato a uno di questi attentati nel 1835, Luigi Filippo fece approvare severe leggi liberticide di polizia che limitarono drasticamente anche la libertà di stampa.
Di quelle “Tre gloriose giornate” come erano ricordati i moti parigini del Trenta e che erano state celebrate dal famosissimo dipinto di Delacroix “La Libertà che guida il Popolo” a cui aveva preso parte lo stesso Daumier, così piene di speranze, rimaneva ora ben poco: la monarchia continuava con un nuovo sovrano Luigi Filippo, c’era stato solo qualche aggiustamento alla carta costituzionale “octroyée”, ossia concessa nel 1814. E il dipinto che era stato esposto brevemente e non nella Sala del Trono alle Tuileries, ma al Museo Reale, prima che fosse rimosso nel 1832 e conservato in luogo più appartato, per evitare di incitare altre rivolte popolari per il suo contenuto sovversivo.
D’altro canto fin dalla sua creazione, il nuovo regime di Luigi Filippo dovette affrontare una forte opposizione repubblicana, concentrata soprattutto nei centri urbani. A questa opposizione politica si aggiunsero diversi moti popolari, suscitati dalle difficili condizioni di vita e dalle speranze deluse di quella rivoluzione che aveva ispirato il celebre dipinto con la “Marianne”, simbolo delle libertà, che guida il popolo.
Per far fronte a questa situazione, il governo introdusse allora diverse misure repressive, tra cui il divieto delle associazioni politiche segnatamente repubblicane e la limitazione della libertà di espressione: se la situazione del paese era grave servivano i bavagli alla stampa.
In Francia, come del resto in Europa e nella stessa Inghilterra dove era nato il fenomeno, il passaggio da un'economia ancora in gran parte agricola a un'economia di tipo industriale era stata l'origine di una crescita straordinaria e abnorme della popolazione urbana e, nello stesso tempo, di un significativo deterioramento delle condizioni di vita del nuovo proletariato urbano che si andava costituendo.
L’idealismo umanitario del Settecento che si era trasformato in un “socialismo utopistico” nel pensiero di Saint Simon cominciava a lasciare il posto a una più ardente e concreta richiesta di riforme politiche e sociali, contrastata dall’opposizione intransigente di una élite determinata a mantenere i propri privilegi.
Sono questi gli anni dell'inizio della carriera di Daumier che si dedicava principalmente alla litografia e la sua notorietà si legava innanzitutto alla collaborazione con “La Caricature”, un settimanale satirico creato nel 1831 da Charles Philipon (1800 – 1862), il giornalista ed editore lionese ostile al governo di Luigi Filippo: su questo giornale Daumier si fece portavoce di attacchi feroci che gli sarebbero valsi una serie di condanne immediate, di salatissime multe e di periodi di detenzione soprattutto per il suo “Gargantua”, un’irriverente caricatura del governo corrotto e famelico di Luigi Filippo, per il quale nel 1832 Daumier dovette scontare sei mesi di prigione.
Osserviamo l’immagine.
Fig. 1
In “Gargantua”, famelico personaggio dei romanzi di Rabelais, Daumier irrideva il re Luigi Filippo le cui necessità finanziarie erano inestinguibili. Noto a tutti per la sua avidità, il re aveva lottato duramente per poter ottenere un'importante lista civica che fosse a suo favore e aveva cercato perfino di procurarsi dei posti in parlamento per la sua numerosa famiglia. Daumier denunciò anche la corruzione elettorale praticata dal regime corrotto della “Monarchia di Luglio”: sotto il “trono”, che in realtà sembra più che altro una tazza del water, si vedono i deputati corrotti, considerati come escrementi del re, che dalla sede del governo si dirigono verso il “Palais-Borbone”, sede della “Camera dei Deputati”.
In questo periodo, e siamo a inizio anni Trenta, Daumier incominciò anche a realizzare sculture e caricature in argilla cruda, che, oltre ad essere vigorose opere d’arte in sé, aumentarono notevolmente le sue capacità disegnative: nel 1832 realizzò una serie di trentasei busti, definiti da lui stesso i “ritratti delle celebrità della borghesia” o dei “parlamentari”. Non a caso la “Monarchia di Luglio” è chiamata “borghese” perché quello di Luigi Filippo fu un regime che rappresentava gli interessi della borghesia francese e si basava sulle reciproche connivenze fra questa classe e il sovrano.
Nel 1834, Daumier pubblicò “La pancia legislativa” che presentava i più famosi deputati della destra, pubblicò “Libertà di stampa”, poi “La sepoltura di La Fayette” e soprattutto “Rue Transnonain” che condannava la repressione poliziesca e in cui mostrava le patetiche conseguenze di un massacro militare di civili.
Fig.2
Fig. 3
Fig. 4
Dopo la pubblicazione di “Rue Transnonain”, la censura soppresse “La Caricature”, che però riprese subito dopo le sue pubblicazioni con un nuovo titolo, “Le Charivari”, una testata giornalistica che sarebbe sopravvissuta al suo stesso editore.
Osserviamo ora il “disegno dello scandalo”.
Fig.5
Questa litografia testimonia una scena del massacro avvenuto in una soffitta durante la rivolta popolare scoppiata a Parigi ad aprile del 1834 che il governo represse duramente.
Che cosa era successo?
Il 14 aprile, nei pressi di una barricata in “Rue Transnonain” un capitano di fanteria era rimasto ferito da un colpo di pistola sparato da una finestra del civico 12. Per rappresaglia, due terzi degli occupanti l'edificio da cui si diceva che sarebbe partito il colpo, furono massacrati dai soldati.
Daumier creò la litografia che ricordava l’evento e che è considerata attualmente uno dei suoi capolavori e da alcuni critici una delle prime manifestazioni del “realismo”.
Quest’incisione, denunciando la repressione della polizia, dimostra la forza dello stile Daumier e delle sue convinzioni politiche. Gli occupanti del palazzo erano stati massacrati indiscriminatamente: i soldati erano entrati nelle case e avevano ucciso dodici residenti e ferito molti altri fra cui anziani, donne, bambini.
Daumier sintetizza solo un episodio del massacro. In una stanza con il letto disfatto, un uomo scivolando dal letto schiaccia sotto il suo peso un bambino, mentre in primo piano si vede in modo incompleto il volto di un vecchio, anche lui morto.
Nel suo commento alla vignetta il direttore de “La Caricature”, Charles Philipon, diede libero sfogo all'indignazione suscitata dal “massacro di rue Transnonain” e scrisse: “Questa non è una caricatura, non è un’accusa, è una pagina sanguinosa della nostra storia di oggi”. Baudelaire (1821 – 1867), si mosse nella stessa direzione qualche tempo dopo scrivendo: “Non è proprio [una] caricatura, [è] storia, [è] realtà terribile e banale”. Baudelaire, pur non conoscendo né la pittura né le sculture di Daumier, considerando comunque questa litografia uno dei vertici dell'opera del caricaturista, ne diede questa drammatica descrizione: “In una stanza povera e triste, la tradizionale stanza del proletario, con mobili banali ed essenziali, giace supino il corpo di un operaio nudo, con camicia di cotone e berretto, tutto il corpo lungo, gambe e braccia divaricate. Ci fu senza dubbio una grande lotta e un grande trambusto nella stanza, perché le sedie erano rovesciate, così come pure il comodino e il vaso da notte. Sotto il peso del suo cadavere, il padre schiaccia il cadavere del suo bambino tra la schiena e il pavimento. In questa fredda soffitta c'è solo silenzio e morte”.
Baudelaire fu l'unico ad aver compreso pienamente dalle sue litografie e dalle sue caricature il talento di Daumier e vide in lui, il terzo più grande disegnatore del secolo dopo Ingres e Delacroix.
Con quest’opera da caricaturista, Daumier era salito dunque al rango di “pittore di storia” anche se solo “in bianco e nero” e aveva anticipato il movimento realista nella pittura.
A seguito di questo disegno, nel 1835, “La Caricature”, com’è noto, fu costretta a concludere le sue pubblicazioni, ma Philipon non si diede per vinto e diede vita al giornale “Le Charivari” con la cui testata Daumier incominciò il suo sodalizio e a esso rimase fedele per venticinque anni.
Con il passaggio al rinnovato giornale, Daumier passò dalla caricatura esplicitamente politica alla satira sociale e ai riflessi della società borghese in tutti i suoi aspetti: scene di tribunale, ma anche di attori e artisti di strada che esercitavano su di lui un fascino particolare, perché il teatro di strada o no era per lui fonte di ispirazione: qualunque fosse il soggetto o la situazione, i suoi lavori avevano però un'umanità estranea a qualsiasi deriva verso il “romantico” e il “pittoresco”. I suoi disegni a matita o a penna illustravano ogni aspetto delle relazioni umane e della condizione umana del suo tempo.
Tra il 1836 e il 1842, Daumier realizzò una serie di cento caricature di costume basati su un personaggio inventato, “Robert Macaire”, nel quale si incarnavano tutti i vizi, gli intrighi e le sozzure della società basata sugli affari e sul profitto.
“Macaire” è l’immagine del truffatore opportunista in cui l’artista individua una varietà di tipi sociali contemporanei, tutti coinvolti in "loschi traffici per [il raggiungimento di] una ricchezza istantanea", e lo identifica soprattutto con il finanziere e uomo d'affari “Émile de Girardin” (1806-1881), che promosse le sue avventure finanziarie senza scrupoli attraverso il proprio giornale, “La Presse”.
“Macaire” è sostanzialmente un criminale, un cinico imbroglione degli inizi dell'era industriale di cui Philippon e Daumier si impadroniscono e lo trasformano in un eroe negativo attraverso una raccolta di racconti umoristici intitolati "Cento e uno".
Questa lunga serie inaugurò la caricatura di costume e racconta le diverse azioni di questa loro "Commedia umana" di balzachiana memoria.
Che sia un finanziere, un politico, un avvocato, un giornalista, un medico, il “Robert Macaire” di Daumier e Philippon è un individuo privo di scrupoli ipocrita e infame che approfitta del sistema e sfida la morale: il tipo stesso dell'opportunista sempre pronto ad afferrare la migliore occasione per trarne profitto. Finto benefattore dalla postura pontificante e rispettabile, pingue e intrallazzatore, è accompagnato dal suo seguace, lo scheletrico e famelico Bertrand.
Fig. 6
Negli anni Quaranta Daumier produsse diverse altre serie di litografie, ad esempio “Storia antica” del 1842, parodia dell'arte neoclassica, ma i suoi bersagli erano spesso rivolti contro la pomposità e la pretenziosità, come nella serie dedicata a “Gli uomini di Giustizia” (1845-8): qui, l'abito fluido e il contrasto in bianco e nero della toga permettevano effetti pittorici impressionanti.
Ma gli anni Quaranta furono anche quelli del suo avvicinamento, o forse riavvicinamento, alla pittura nel senso stretto: le sue opere pittoriche, spesso oscure e malinconiche, raffiguravano poveri e lavoratori in condizioni difficili. Per questo Daumier, anche se solo “ex post”, fu acclamato come uno dei principali artisti del ‘Realismo’, forse il primo cronologicamente, grazie alla sua capacità di utilizzare anche la satira e la critica sociale per creare immagini potenti e coinvolgenti.
Daumier è un personaggio importante sulla scena artistica e politica parigina perché il suo lavoro spinse anche molti altri artisti a utilizzare l'Arte come strumento di denuncia delle ingiustizie sociali e politiche del suo tempo e non a caso ancora una volta Baudelaire considerò Daumier “uno degli uomini più importanti, non [...] solo della caricatura, ma anche dell'arte moderna”.
Nel 1845 già trentasettenne Daumier sposò una giovane sarta e si stabilì sull'isola di Saint Louis sulla Senna dove vivevano una vita piuttosto grama.
Era la metà degli anni Quaranta e ormai le condizioni di vita in Francia cominciavano a diventare insostenibili e il regime di Luigi Filippo diventava sempre più smaccatamente favorevole a una élite molto ristretta che gli garantiva il suo appoggio in un parlamento corrotto.
I tanti contadini che avevano abbandonato le campagne e si erano riversati nelle città, vivevano nelle baraccopoli, antenate delle moderne “banlieue”, in condizioni inumane e accrescevano il numero dei disoccupati.
Nel febbraio del 1848 lo scontro violento fu inevitabile.
Al centro di dibattiti appassionati, il socialismo radicale di Marx e di Proudhon e le opere letterarie di Zola, di Baudelaire e di Dickens attingevano a fonti comuni: le “conseguenze della industrializzazione”, l'”opposizione tra il benessere della borghesia e la miseria delle classi proletarie” e il “contrasto tra l'eleganza dei nuovi quartieri residenziali e il degrado delle baraccopoli”.
Nelle arti figurative, questi stessi temi trovarono espressione nel movimento diventato poi la corrente del “Realismo”. Oltre a Courbet – la cui pittura oscura e dolorosa, con soggetti scabrosi, a volte perfino osceni, suscitava innumerevoli controversie con la critica e gli ideali borghesi –, il “Realismo” riunì anche il più ascetico “Jean-François Millet” e il graffiante caricaturista della politica e degli ambienti giuridici “Honoré Daumier”, ma anche pittore attento al mondo dei più umili.
L'appello lanciato da Baudelaire agli artisti affinché essi si appropriassero "dell'eroismo della vita moderna" fu accolto con favore da un numero sempre crescente di pittori, che rifiutavano categoricamente il condizionamento delle convenzioni dell’arte di regime rappresentata dall’accademismo. Si ricordino in tal senso, in un arco di tempo anche se non brevissimo, opere come “Il vaglio del grano” di Gustave Courbet del 1855 del “Museo delle Belle Arti” di Nantes, “Le spigolatrici” di Millet del 1857 al Museo d’Orsay a Parigi, “La lavandaia” del 1863 di Honoré Daumier ancora al “Museo d'Orsay”, “I piallatori di parquet” del 1875 di Gustave Caillebotte sempre al “Museo d'Orsay”.
La pittura realistica si affermava contrastando sempre più vigorosamente gli ideali moralisti e ipocritamente avulsi dalla realtà che avevano caratterizzato e imbalsamato l'arte accademica e che i suoi fautori si ostinavano a mantenere col favore del potere politico.
Dopo la rivoluzione del 1848, in Francia la situazione economica delle zone svantaggiate continuava tuttavia a peggiorare sia nelle campagne sia nelle città, compreso il mondo che gravitava intorno ad esse, e questo diventò uno dei temi preponderanti del “Realismo”.
Soggetti cari al Romanticismo, come erano stati “l'esotismo”, il “sublime” e la “spiritualità”, furono sostituiti da soggetti più vicini alla realtà concreta e alle problematiche della vita quotidiana. I dipinti oggetto dell’attenzione dell’arte rappresentavano ora i poveri, gli operai, gli sfortunati: non è un caso infatti che il “Realismo” abbia conosciuto grande successo in Europa proprio dopo i movimenti sociali e politici del 1848.
La pittura realistica si era proposta allora di rappresentare proprio questa realtà sociale: il lavoro nei campi e la vita nelle officine industriali fornirono così un certo numero di temi e anche il nudo, fino ad allora anemico prigioniero dell'allegoria, si avvicinò al realismo.
Era una rivoluzione anche in campo artistico con questa rottura netta con l'accademismo e con la rappresentazione idealizzata di scene convenzionali. Il “Realismo” voleva uno stile naturalistico ispirato alla fotografia che muoveva allora i suoi primi passi.
Il Realismo ebbe un impatto duraturo sulla pittura francese, penetrando, con le debite differenze, nel cuore dello stesso movimento impressionista che, per certi aspetti, ne fu il figlio primogenito.
Il 1848 segnò una svolta anche in Daumier sebbene la sua produzione pittorica fu tenuta quasi sempre nascosta. Noto all’opinione pubblica per la sua aspra critica sociale e per il suo impegno nel denunciare le ingiustizie sociali del suo tempo sui giornali, nei suoi dipinti Daumier raffigurava spesso i poveri e i lavoratori nonché, come si era visto nelle sue sferzanti caricature, politici e affaristi corrotti. Ma dal 1848, il rapporto tra litografia, disegno e pittura in lui si fece più stretto anche se i suoi dipinti rimasero pressoché sconosciuti al pubblico fino a una mostra tenuta a Parigi nel 1878 dal famoso gallerista mentore degli impressionisti “Paul Durand-Ruel”.
L'eccezionale talento di Daumier per la caricatura satirica si era basato su due qualità: in primo luogo, il suo notevole senso del disegno, in secondo luogo, la sua attenta capacità di osservazione degli individui e delle situazioni.
Nonostante nella memoria collettiva dei parigini, sia ricordato per le sue sferzanti caricature, Daumier fu anche un pittore raffinato e avanguardista non solo quando dipinse opere che mettevano a nudo vari aspetti della realtà cittadina ma anche quando svolgeva pochi ma significativi dipinti religiosi e mitologici generalmente di piccole dimensioni, come se Daumier non volesse prestarsi mai al gigantismo dei formati di alcuni suoi colleghi accademizzanti o meno.
Ammirato e perseguitato durante quasi tutta la sua vita per le sue idee politiche che esprimeva coraggiosamente attraverso le sue sferzanti caricature politiche e sociali, rimase più conosciuto per la sua opera grafica che investiva l’opinione pubblica piuttosto che per la sua pittura ma anche perché fu sempre restio ad esporla, considerandola solo un hobby praticato a tempo perso. Ma Daumier fu un artista completo e, alla metà degli anni Quaranta, incominciò a interessarsi con sempre maggiore intensità alla pittura, mentre continuava a produrre litografie come fonte di reddito per il suo sostentamento.
La Rivoluzione di febbraio del 1848 aveva portato i repubblicani al potere: il 24 febbraio Luigi Filippo aveva firmato la sua abdicazione, ma era stato costretto alla fuga a Londra con la sua famiglia e quindi a Parigi fu proclamata la “Seconda Repubblica”.
Su “Place de la Bastille”, un luogo simbolo per i parigini, Charles Lagrange, membro della società segreta della “Charbonnerie”, futuro Governatore dell'”Hôtel de Ville” – corrispondente in italiano al “Palazzo di Città” o “Municipio” –, e futuro deputato al nuovo parlamento repubblicano, si sedette sul trono reale portato dal “Palais-Royal” in segno di spregio affinché esso fosse poi bruciato. Molti artisti e intellettuali erano stati solidali con il popolo che stava per imporre la “Seconda Repubblica”.
Ansioso di frenare la disoccupazione, il 26 febbraio il governo provvisorio repubblicano aveva istituito i "Laboratori Nazionali", fabbriche istituite a Parigi che avrebbero dovuto assorbire la manodopera disoccupata e garantire il diritto al lavoro. Alla fine di marzo il governo lanciò anche un’iniziativa attraverso la stampa con un “appello agli artisti” sotto forma di concorso per “la composizione della figura simbolica della Repubblica francese” e nello stesso tempo il concorso per una figura scolpita della Repubblica e per la medaglia commemorativa della Rivoluzione del 1848 e dell'instaurazione della Repubblica.
Daumier partecipò a questo concorso per la raffigurazione della “Repubblica” che lo portò ad esporre per la prima volta in pubblico un suo dipinto.
Fig. 7
Questo concorso per la rappresentazione di una figura simbolica della Repubblica dimostrava quanto i repubblicani fossero consapevoli dell'importanza della rappresentazione del potere statale.
La Repubblica, astratta, impersonale e collegiale, doveva incarnarsi in una forma visibile per meglio affievolire la memoria concreta, personale e monocratica del re. L'immagine simbolica doveva imporsi fra una popolazione ancora poco repubblicana e doveva essere esplicativa e rassicurante.
I repubblicani del 1848 – da Lamartine a Ledru-Rollin – erano preoccupati di assicurare il trionfo di un governo che potesse però far dimenticare quel precedente regime repubblicano che si era instaurato con il Terrore nel 1793 e che era ancora troppo vivo nella memoria collettiva.
Il governo aveva dato completa libertà agli artisti, ma una circolare di Ledru-Rollin, ministro dell'Interno incaricato delle Belle Arti, ricordava lo spirito che la “Repubblica Fraterna” del 1848 doveva esprimere: “La vostra composizione deve riunire in una sola persona Libertà, Uguaglianza, Fraternità. […] Attenzione anche a non apparire troppo bellicosi. Si pensi soprattutto alla forza morale [del messaggio]”.
Daumier partecipò a questo concorso con la sua figura allegorica della Repubblica: arrivò undicesimo, ma non completò mai il dipinto.
In quest’opera l’artista punta sulla bandiera tricolore. La sua Repubblica, non è la Marianne, è una donna forte, dal seno possente e pesante che fu spesso percepita dai suoi contemporanei come una “Carità”. Nel suo dipinto la Repubblica svolge la stessa funzione della Madre dei “Compagnon”: nutre, accoglie, protegge ed educa i suoi figli.
Gli amici pittori di Daumier, Corot (1796-1875), Millet (1814-1875) e Theodore Rousseau (1812-1867), ne furono ammirati e lo incoraggiarono a continuare sulla strada della pittura, perché era bravo, ma dedicava troppe energie alla realizzazione delle sue litografie.
Il concorso in conclusione si rivelò un fallimento.
La giuria, riunitasi il 23 ottobre, decise di non scegliere nessuna delle venti opere selezionate. Non era più il momento dell'euforia fraterna: l'insurrezione operaia e la sua repressione erano impresse nella memoria di tutti e la “Storia dell’Arte” sarebbe stata altrettanto severa: fra le opere realizzate, i posteri avrebbero ricordato solo “La République” di Daumier. Il suo bozzetto entrò nelle collezioni nazionali nel 1906 e oggi è conservato al “Museo d'Orsay”.
Quanto alla Repubblica col berretto frigio, essa rimase proprietà solo dei repubblicani convinti, che andarono all'opposizione dal 1849 all’indomani dell’elezione del principe presidente Luigi Napoleone Bonaparte, prima che il berretto frigio fosse addirittura bandito dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 e solo col ritorno della “Terza Repubblica” nel 1870 rifiorì il simbolismo repubblicano, e la Marianne tornò a distinguersi come allegoria della Repubblica e presto di tutta la Francia.
La storia di quest’opera di Daumier e on genere di questo concorso fallito è quella che forse maggiormente fa riflettere sulla rapida e confusa complessità dei cambiamenti politici, sociali e artistici che si verificarono nella Parigi di quel terribile 1848: ben presto infatti la vittoria dei repubblicani moderati alle elezioni del 23 e 24 aprile, che si svolsero per la prima volta a suffragio universale maschile, mandò in frantumi attraverso le urne le speranze di una rivoluzione sociale.
Di fronte al loro fallimento economico e alla minaccia rivoluzionaria rappresentata dai 110.000 lavoratori, la maggior parte dei quali erano disoccupati, i "Laboratori Nazionali" furono sciolti il 21 giugno.
Dal 23 al 26 giugno, molti operai di Parigi erano stati gettati sul lastrico e insorsero nuovamente in una terribile battaglia di strada: su ordine del ministro della guerra, Cavaignac, presto soprannominato il "Principe del Sangue", i tumulti furono duramente repressi 4.000 operai da una parte e 1.600 guardie e soldati dall'altra furono uccisi.
La maggior parte dei pittori, dei disegnatori e degli scrittori si schierò con l'ordine costituito.
Non Daumier.
Tra il marzo del 1850 e il dicembre del 1851 pubblicò su “Le Charivari” una trentina di litografie dove era raffigurato un altro personaggio che aveva inventato, quello di “Ratapoil” in italiano “ratto spellato” che rappresenta un esempio di "losco agente, promotore instancabile della propaganda napoleonica", di cui realizzò anche una statuetta di bronzo oggi conservata al “Museo d’Orsay” per fare satira sui poliziotti senza scrupoli di Luigi Napoleone Bonaparte.
Che cosa aveva scatenato questa volta questa campagna satirica?
Quando il 10 dicembre 1848, a capo di una coalizione moderata, Luigi Napoleone Bonaparte era stato eletto alla presidenza della Repubblica ebbe vita una corrente militante di vignettisti antibonapartisti della quale Daumier fu parte fondamentale.
Il principe presidente era stato eletto per quattro anni “non rinnovabili”, ma nel 1850 organizzò un'intensa campagna d'opinione pubblica che sollecitava una revisione della Costituzione per autorizzare il rinnovo del suo mandato. In questo modo prendeva forma il pericolo di una dittatura e di una restaurazione del potere imperiale.
Daumier, repubblicano radicale convinto, si opponeva con la forza della sua matita ai violenti metodi di proselitismo adottati da alcuni agenti elettorali schierati in favore di Luigi Napoleone Bonaparte.
Il principe presidente aveva organizzato una campagna di opinione permanente in suo favore nel cui contesto, aveva creato un’organizzazione denominata “Società del 10 dicembre” dalla data della sua vittoria alle elezioni presidenziali.
Sebbene fosse piuttosto popolare, questo gruppo di suoi simpatizzanti, sostenitori del militarismo e in particolare del cesarismo napoleonico, acquisì rapidamente la reputazione di essere una cricca violenta e intimidatoria al soldo del principe-presidente: quando alla “Gare de l'Est” di Parigi scoppiò una violenta rissa tra alcuni suoi membri e alcuni repubblicani, artisti come Daumier o intellettuali come Marx presero di mira la “Società del 10 dicembre”.
“Le Charivari” pubblicò allora una serie di litografie di Daumier raffiguranti “Ratapoil” e il suo degno compare “Casmajou”, armati di bastoni, che personificavano caricaturalmente il tipico agente di propaganda al soldo del potere.
Questo è un esempio di una delle vignette.
Fig.8
Nel 1850 Daumier non fu però l'unico illustratore ad aver firmato caricature raffiguranti questo vile duo: altri vignettisti si unirono a questa campagna denigratoria e, quando la reputazione della famigerata società si deteriorò a causa non solo delle bastonature ma anche delle caricature, la sua fine sembrò inevitabile: l’astuto e cinico Luigi Napoleone Bonaparte la sciolse accortamente nel novembre 1850 per privare i suoi avversari politici di nuovi argomenti di protesta contro il suo governo che assomigliava sempre più a un regime.
Per comprendere meglio il personaggio rappresentato in quella trentina di caricature, Daumier aveva modellato una sovversiva statuetta che, dopo il colpo di stato del 2 dicembre 1851 con cui Luigi Napoleone Bonaparte si proclamò imperatore col nome di Napoleone III, fu accuratamente nascosta per sfuggire all'ira della censura, ma la statuetta riapparve nel 1878 e, per la prima volta, fu esposta al pubblico durante la storica mostra delle opere di Daumier alla “Galleria Durand-Ruel”.
Osserviamola.
Fig. 9
Ratapoil è caratterizzato da un profilo lungo ed emaciato, con un’inarcatura insolente della schiena in avanti e con un atteggiamento provocatorio. L’abbigliamento fa di lui un personaggio tragicomico: una redingote dalle pieghe sgualcite, un cilindro sciupato che gli casca sull'occhio sinistro, un lungo bastone che fungerebbe da appoggio, ma la cui presenza è intimidatoria.
Sebbene i lineamenti di Ratapoil non siano una caricatura esplicita del principe-presidente, i baffi e la barba in stile “imperiale” sono il simbolo immediatamente riconoscibile del nemico ed evocano in modo irriverente il futuro imperatore.
Daumier modellò la statuetta con grande libertà di esecuzione, con un realismo così esasperato, da precorrere l’espressionismo: i volumi esasperati, sbilanciati, fragili e forti al tempo stesso, conferiscono all'opera una violenza sovversiva all'altezza della sfida politica che l’artista stava lanciando.
Alla grandezza eccessiva delle calzature, dei pantaloni e della redingote, si aggiunge, l'espressione satanica del viso. Con questa deleteria statuetta, Daumier stilava un'analisi feroce e pessimista delle abiezioni politiche che rappresentava.
Daumier concepì questo personaggio come un'arma politica per denunciare, anche se inutilmente, la propaganda populista del nuovo Bonaparte e la minaccia di una restaurazione imperiale, ma imperterrito continuò a fare satira politica sulle vicende della Seconda Repubblica e poi del Secondo Impero, di cui simboleggiò vizi e difetti anche con il personaggio di “Ratapoil”, in cui elementi presi dalla realtà diventavano emblema di miseria.
Daumier è stato un grande pittore anche se ancora oggi la sua fama di pittore continua ad essere opacizzata da quella di caricaturista. In ogni caso non può esistere distacco fra la sua attività di caricaturista e quella di pittore: nella sua pittura non si ritrova solo la maggior parte dei temi affrontati nei disegni, la borghesia, le scene di vita popolare, sugli avvocati, sui lettori e sugli amanti delle stampe, ma i suoi dipinti hanno anche la morbidezza, la leggerezza e l'austerità di volumi che non sorprendono in un caricaturista e che impediscono ogni divagazione.
Il realismo consiste nel porre davanti allo spettatore l’immagine del mondo reale con l’immediatezza e l’evidenza che la realtà stessa produce e Daumier è profondamente realista, ma la morbidezza delle linee, lo sbiadimento dei volumi grazie al colore spesso acquoso, la sensazione morbida della superficie stimolano la realtà all'immaginazione.
Nella sua pittura il narratore di politica e di vita popolare a un certo punto smette di raccontare, la storia rimane sospesa, ma non come in un'istantanea. Daumier infatti non realizza immagini sul tema: non si tratta mai di individui precisi che hanno agito e che agiscono in un momento preciso e di cui ci descriverebbe l'azione, sono piuttosto figure che diventano personaggi che non rappresentano un solo individuo e un solo evento, ma sono l’espressione di tutti coloro con cui essi condividono lo stesso destino pittorico, ma anche sociale e politico.
Lo spirito della Repubblica è sempre al centro anche nella sua pittura. I suoi avvocati ambiziosi, teatrali e sprezzanti, i suoi politici sazi e ottusi ci parlano ancora perché non sono individui, ma sono tipi umani.
Come in Balzac? Sicuramente, ma con maggiore ironia.
In diverse occasioni la censura impedì a Daumier di continuare la sua azione di demolizione politica e in questi periodi per i giornali illustrati dovette produrre un altro tipo di immagini in cui rivelava la sua tenerezza per gli offesi e per gli umiliati, come accade nel suoi i suoi dipinti di viaggiatori sui trasporti pubblici: schiacciati sui banchi di una carrozza di terza classe o nelle file dei rivoltosi che corrono verso il nemico politico, essi sono sempre il volto dell'attesa dell'essere e della dignità.
Daumier rimase un pittore incompiuto, a causa della sua generosità come illustratore e come attivista. Incompiuto perché non aveva sempre il tempo di realizzare appieno le sue opere di pittura, incompiuto perché lo vediamo solo attraverso i disegni che lo hanno reso famoso.
I primi dipinti allegorici che realizzò e sono significativamente tratti dalle favole di La Fontaine o dalle commedie di Moliere, due grandi fustigatori dei cattivi costumi, ma la maggior parte della sua pittura fu costituita da scene di vita popolare come l'esemplare “Sommossa” un dipinto realizzato probabilmente nel 1848 e appartenente oggi alla “Phillips Collection” di Washington.
Fig. 9
Per il collezionista e critico d’arte “Duncan Phillips”, che comprò sul mercato d’arte il dipinto, “La Rivolta”, a lungo dimenticato, era il gioiello delle opere di Daumier.
Phillips colse al volo l'opportunità di comprarlo.
La sua ammirazione lo portò a parlare di quest’opera in termini superlativi e in più di un’occasione la definì “il quadro più grande della sua collezione”.
“La Rivolta” fu probabilmente ispirata proprio dalla rivoluzione del 1848.
In questo dipinto Daumier ha voluto rappresentare la privazione dei poveri parigini nel 1848 ed esprimere il fervore della rivoluzione causato dal malgoverno di Luigi Filippo attraverso la rielaborazione degli elementi compositivi e pittorici.
Daumier dipinse realisticamente la cruda emozione del personaggio centrale che la tela inquadra: un uomo che, visti i suoi vestiti, è sicuramente un cittadino in camicia bianca che alza il pugno destro in aria mentre emette un grido.
La presenza dietro di lui di un uomo col cappello a cilindro, si tratta quindi di un borghese, e di donne alla sua destra, lascia pensare che si tratti di una rivolta popolare nel senso più ampio dei ceti: tutto il gruppo di persone intorno a lui sembra impegnato nello stesso atto di rivolta collettiva, tutti i volti visibili che sono accanto a lui, sembrano guardare nella sua direzione.
La scena è molto probabilmente quella della rivolta popolare di Parigi, non quella di febbraio, che costrinse all'abdicazione del re Luigi Filippo e determinò l'istituzione della breve e sfortunata Seconda Repubblica, ma quella di giugno.
Daumier era stato testimone dei violenti scontri di Parigi.
Nell’impaginazione l’artista comprime la folla introducendo un muro verticale a destra e le ombre scure a sinistra, ammassando le figure e aumentando così la qualità esplosiva della scena e trasformandola in un "simbolo di tutta l'indignazione umana repressa".
Questa visione, permeata dalle tonalità del marrone, ottiene la forte impressione di un’energia dinamica repressa attraverso il gesto deciso del protagonista, il tratto duro di tutti i soggetti umani (con forti bordi neri) e la presenza di una lunga e indistinta successione degli edifici urbani a sinistra, che – insieme all’edificio incombe in alto a destra – rafforzano particolarmente il senso di chiusura degli esseri umani.
L'opera raffigura la povertà e la disperazione vissute dal popolo parigino durante la rivoluzione del 1848. Lo stile di Daumier nel creare “La Rivolta” fu certamente influenzato da artisti romantici come Delacroix e Gericault ed è considerata una delle sue opere più rappresentative.
Negli anni Cinquanta Daumier dipinse spesso clown e acrobati nei ad esempio, “Saltimbanque”, del 1855\60 al Louvre e scene teatrali come “Crispin e Scapin”, del 1858\60 sempre al Louvre, il cui soggetto è la commedia dell’arte francese in cui il maestro riesce a rendere il tono dell’opera di Molière attraverso una sola immagine molto eloquente.
Fig. 11
Fig. 12
Degli anni Cinquanta è ancora un “Ecce Homo”, una delle immagini più inquietanti di Gesù prodotte nella Francia dell’Ottocento oltre che di una straordinaria modernità.
Fig.
Parte del successo di questo dipinto, come esempio di realismo in una narrazione sacra, è il coinvolgimento diretto che l'opera d'arte stabilisce tra il soggetto e lo spettatore. Ma non solo.
Rara, ma non unica opera di Daumier che raffiguri un soggetto religioso, “Ecce Homo” era un soggetto insolito per l'artista almeno apparentemente.
Anche questo soggetto, ancorché religioso, evidenzia la corruzione di un sistema giudiziario e il processo a Gesù si inserisce iconograficamente in un tema molto ricorrente nell'arte di Daumier.
La folla riunita che accusa Gesù ricorda episodi contemporanei di disordini politici spesso evocati nell'arte realista dell’Ottocento.
Probabilmente iniziato su commissione di una chiesa, “Ecce Homo” rimase incompiuto come molti altri dipinti di Daumier. Raffigurando la scena del racconto nei toni del marrone, che vanno da un cielo giallastro pallido a profonde ombre nere, quest’opera sembra la pittura di base di un lavoro solo incominciato che deve essere completato. Eppure, dal nostro punto di vista di osservatori del ventunesimo secolo, lo stato incompleto del dipinto gli conferisce un senso di drammaticità e di immediatezza, come se l'evento si stesse consumando proprio davanti a noi.
Indossando una corona di spine, Gesù è mostrato davanti alla folla come una figura da scegliere o da rifiutare, ma in ogni caso da schernire: come simbolo contorto della sua sovranità, quella corona di spine identifica questo momento come quello della derisione.
Posizionato su una loggia, al di sopra del tumulto visivo della folla, Gesù è immobile e risoluto, collocato visivamente come se fosse sospeso fra cielo e terra: la sua figura calma, stagliata contro una luce sacra, ha un'immobilità eroica.
Quest’uomo è contemporaneamente usato come sacrificio umano ed esaltato come salvatore divino.
La composizione, con grandi figure in primo piano poste direttamente contro il piano dell'immagine, sbatte lo spettatore tra la folla bieca e inferocita, lo coinvolge direttamente nell'evento e lo trasforma da spettatore passivo di questo spettacolo a testimone impegnato con qualcosa in gioco nel dramma di questa folla che poche ore prima lo aveva acclamato col canto di “Osanna” e poche ore dopo, sobillata da agenti del gran sinedrio, pagata o minacciata col bastone, si sgola al grido “Crucifige”, non è altro che l’esempio della manovrabilità della massa, che non agisce, ma reagisce, che non delibera, diremmo oggi, ma è strumento cieco di politici imbonitori.
E Gesù, il sovversivo, il ribelle a favore del popolo è tradito dal popolo stesso.
Anche questo dipinto religioso ha in sé una potentissima carica politica.
L’artista nutriva un evidente risentimento politico e morale verso le classi superiori che identifica con la élite conniventi con il potere e questa è la motivazione principale della sua pittura che si era già ampiamente riflessa nelle sue acute caricature.
Sotto la pressione della polizia del Secondo Impero, Daumier nel 1860 fu licenziato da “Le Charivari”. La disoccupazione lo costrinse a cercare di guadagnarsi da vivere con i suoi acquerelli di paesaggi urbani naturalmente andati perduti.
Questo incidente però gli consentì di dedicarsi più costantemente alla pittura, prendendo in prestito i suoi temi dalle scene di vita quotidiana di strada o di stazione ferroviaria e dall'osservazione dei più umili, nacquero così le serie di dipinti come il “Vagone di terza classe”, per esempio quello bellissimo della “Galleria Nazionale del Canada” a Ottawa, in cui la stessa natura scultorea del disegnato si può vedere anche nella serie delle “Lavandaie” del 1863-64 del Museo d’Orsay e nel “Salvataggio” del 1870 alla “Kunsthalle” di Amburgo, nonché la serie degli “Emigranti”.
Fig. 
fig. 14
Fig. 15
Di Daumier esistono quattro tele e un rilievo, di piccolo formato, realizzati tra il 1850 e il 1870 che, lasciati senza titolo si possono intitolare “Gli emigranti” o “I fuggitivi” nelle cui diverse versioni troviamo il simbolo di una condizione umana più generale.
Se l'artista, sensibile alla rappresentazione dei drammi e dei conflitti del secolo, non ebbe diritto ai benefici delle commissioni pubbliche o private, sfuggì anche alle menzogne ​​ottimistiche delle visioni ufficiali e all'autocompiacimento delle "élite" con la loro fede incondizionata nella scienza.
In queste opere che sembrano o che sono realmente appena abbozzate, Daumier cattura il dramma dell’emigrazione come movimento collettivo faticoso e incerto. Il suo stile e i suoi colori scoprono e si uniscono al peso storico delle immense peregrinazioni alle quali misteriosamente esse alludono. Queste opere sono una rappresentazione emblematica della partenza e di un volontario esilio.
Ma da dove partono e per andare dove?
Non si sa.
Queste opere si riferiscono a rappresentazioni simboliche del tema dell'esilio o del vagabondaggio nato dalla miseria.
Niente si capisce sulle cause della partenza se non l’impossibilità della permanenza: la disonestà degli oppressori, ma anche la miseria. Ciò che rafforza l'impressione della difficoltà del momento si riflette nell'atteggiamento e nella postura dei personaggi: essa è tracciata nei corpi piegati, appesantiti e quasi schiacciati sotto il peso di ciò che trasportano. È tutto ciò che hanno.
La presenza di questo popolo anonimo e senza volto è tanto più forte in quanto la realizzazione dell'opera si basa su un'economia di mezzi, sottolineata dal disegno e dall'incompletezza che è parte della tragica spogliazione della scena.
Ancora una volta in queste opere Daumier ha dimostrato una compassione, verso i più disagiati e ha formato il suo corteo di vinti di questa umanità condannata a vagare senza fine nel deserto sottostante, sotto un cielo cieco, e che va, non sappiamo più dove, e neanche più perché. Alla fine, però, è difficile collegare quest'opera a una corrente artistica precisa: è “romantica” nella sua rivolta generosa ed espressiva, è “realista” nella sua visione premonitrice dell'eroicizzazione degli umili, ed è tuttavia già “espressionista” nella sua straripante carica emotiva, in cui la pittura di Daumier lascia il campo aperto al potere dell'immaginazione.
I dipinti di Daumier non ebbero mai il grado di finitura che i suoi contemporanei si aspettavano, di qui il fiasco della mostra della 1878, ma hanno una qualità evocativa derivante da quella mancanza di rilievo che oggi conferisce loro un fascino speciale. Nel tratto Daumier utilizza una linea provvisoria e spezzata, in modo che i contorni siano definiti quasi impressionisticamente dalla luce circostante. Oggi, per noi venuti dopo le “Avanguardie” del Novecento, i suoi dipinti sono tenuti invece in grande considerazione – soprattutto le sue scene di genere per la sua affinità con l'opera di Gustave Courbet (1819-77) e di Jean-François Millet tanto che i critici lo considerano uno dei fondatori del realismo francese dell’Ottocento altra “cresta sottilissima” immagine che Wölfflin per un altro luogo e un altro tempo.
Osserviamo ora “La lavandaia”, un olio su tavola di 49 × 33,5 cm, attualmente conservato ed esposto al “Museo d'Orsay”.
fig.
In questo dipinto Daumier evoca una scena quotidiana della vita parigina dell'epoca. Daumier si ispirava alle classi lavoratrici delle grandi città durante il Secondo Impero.
Della lavandaia, esistono tre versioni simili, la prima delle quali fu presentata senza successo al Salon del 1861.
Sulla stessa scia di Millet che, rinunciando al folclore, osservava con un'ottica nuova il mondo contadino della metà dell’Ottocento, Daumier nella “Lavandaia” effettua un'analisi parallela a quella di Millet ambientandola, però, in un contesto prettamente urbano come accade per esempio anche in “Operai sulla strada”, un olio su tavoletta del 1838–40 del “Museo Nazionale” di Cardiff.
Fig 18
Liberata dall'aspetto ludico e cortese che invece caratterizzava le lavandaie settecentesche ritratte da “François Boucher”, “Jean-Hònore Fragonard” o da “Hubert Robert”, “La Lavandaia” di Daumier rivela invece tutta la sua disagiata condizione sociale che, il duro e ripetitivo lavoro rende ancor più ingrata.
Fig 19
Fig. 20
fig. 21
Elemento importante dell'economia borghese parigina, la lavanderia dei panni sporchi dava lavoro a un gran numero di donne comuni: pare che un quarto della popolazione femminile di Parigi svolgesse questo lavoro, ma era un lavoro massacrante che alla lunga deformava i corpi di queste donne. Occorre inoltre ricordare che nella gerarchia della servitù, perché anche in quella ce n’era una, le lavandaie occupavano il gradino più basso e questo è accaduto fino all’avvento diffuso delle lavatrici.
In questo dipinto la lavandaia non è oggetto di alcuna idealizzazione.
L'attenzione, rivolta alle due figure umane più che alla scena, in Daumier mira a spiegare l'importanza che un lavoro di questo tipo esercitava sulle anime e sui corpi. Una rassegnazione mista a tenerezza traspare nella madre che aiuta la figlioletta a salire i gradini troppo alti per lei. La bimba, che stringe tra le manine una schiumarola, sembra già destinata a perpetuare il lavoro della madre.
Sullo sfondo, la composizione è chiusa dai caseggiati di un quartiere parigino, contenitore luminoso e, indubbiamente, a lungo analizzato e studiato dall'artista, ma la cui fattura, rimasta incompiuta, conferisce alla scena una dimensione più che altro simbolica.
Daumier viveva sul “Quai d'Anjou” sull'Île Saint-Louis nel mezzo della Senna, e aveva spesso modo di osservare gli atteggiamenti delle lavandaie di ritorno dai lavatoi sul fiume, mentre salivano faticosamente i gradini di pietra, piegate sotto il peso della loro attività di lavaggio e dei panni che dovevano consegnare puliti come si vede in “Le lavandaie del Quai d'Anjou” un olio su tavola del 1850-52 in collezione privata.
Fig 22.
L'attenzione rivolta agli umili si unisce però a una pulsione di forza e di monumentalità che ricorda le mascoline figure femminili di Michelangelo.
Il contrasto di luci tra lo sfondo luminoso e i due personaggi conferisce tutta la sua forza alla rappresentazione di questa lavandaia, che appare michelangiolescamente imponente rispetto alla sua bambinetta.
Quest'opera fu proposta dal pittore al Salon del 1861, e fu esposta ma con un allestimento troppo in alto per essere apprezzata. Sarebbe stata poi presentata in modo più accessibile agli occhi dei visitatori durante l'”Esposizione Universale” del 1900 che celebrava l’arte francese del secolo appena finito.
Daumier dipinse diverse varianti su questo tema: esistono numerose repliche e ci sono almeno altre due versioni, una conservata al “Metropolitan Museum of Art” e l'altra alla “Albright-Knox Art Gallery” di Buffalo, ma questa del Museo d'Orsay sembra, secondo la critica, di gran lunga la migliore. L’opera, acquisita nel 1927 dai Musei Nazionali nell'ambito della vendita di una collezione privata, fu affidata al Museo del Louvre e poi ceduta dal 1986 al Museo d'Orsay.
La serie dei dipinti dedicata a Don Chisciotte e Sancho Panza del 1870 alle “Courtauld Institute Galleries” di Londra fanno parte di un gruppo di opere su questo soggetto, che mostrano le manipolazioni sciolte e le pennellate calligrafiche dei suoi ultimi anni.
In questi ultimi anni della sua vita, la vista di Daumier peggiorò e fu salvato dall'indigenza solo grazie alla generosità degli amici, in particolare di Corot.
Nel suo realismo potente, si avvicinò alle figure più famose della pittura francese.
Oggi i disegni e i dipinti di Daumier possono essere ammirati in molti dei migliori musei d'arte della Francia, ma la maggior parte è dispersa il collezioni pubbliche e private straniere.
L'arte di Honoré Daumier cattura la condizione umana in un modo che va ben oltre il realismo. Dichiarando che "bisogna essere del proprio tempo", Daumier sottolineava la crescente distanza tra l'arte ufficiale e l'arte d'avanguardia.
Daumier rivolse il suo sguardo implacabile alla borghesia e alla magistratura sempre troppo coinvolte nei loro intrighi con il potere politico prima del re Luigi Filippo poi di Napoleone III.
A metà tra Balzac e Baudelaire, Daumier osserva i riti della città moderna, cioè Parigi, i suoi ritmi sociali e meteorologici nonché i gesti dei suoi abitanti le sue composizioni si distinguono per un grande senso di equilibrio delle masse, fortemente enfatizzate, potenti effetti chiaroscurali, una scansione assertiva e uno stile ricco e rapido. Gli ultimi lavori dell'artista si avvicinano sempre di più a Fragonard, che era stato la passione della sua giovinezza, per le sue linee ampie e leggere così come per i suoi toni chiari e appena velati.
Particolarmente iconico è il suo dipinto “Il vagone di terza classe”, titolo di almeno tre suoi dipinti a olio, in cui Daumier descrive realisticamente la povertà e la forza d'animo dei viaggiatori della classe operaia in un vagone ferroviario di terza classe.
Fig. 23
Di questo soggetto realizzò almeno tre versioni di cui due su tela, una datata fra il 1862 e il 1864, ma lasciata incompiuta ed è al “Metropolitan Museum of Art” di New York, un dipinto simile ma completato, datato fra il 1862 e il 1865, si trova nella “Galleria Nazionale del Canada” di Ottawa. Una terza versione fu realizzata su tavola ed è conservata al “Fine Art Museum” di San Francisco ed è datata dai curatori del museo di appartenenza fra il 1856 e il 1858. Se è valida questa datazione sarebbe la prima delle tre versioni.
Nello stile tipico di Daumier, che fece della sua arte una continua lotta politica, “Il vagone di terza classe” evidenzia l'interesse di dell’artista per la vita della classe operaia di Parigi e denuncia le condizioni sociali delle classi più povere in linea con l'intento del Realismo.
Nel 1878 con la presidenza di Victor Hugo fu organizzata una retrospettiva di Daumier alla “Galleria Durand-Ruel”. Daumier era quasi cieco e non vi partecipò neanche all’apertura: la mostra si rivelò un fallimento.
Nel 1879, pochi mesi dopo la mostra, Daumier morì nella sua casa di Valmondois, vicino a Pontoise e nel 1880 le sue spoglie mortali furono trasferite al cimitero del Père-Lachaise, vicino ai suoi amici Corot e Millet che lo avevano preceduto di un anno.
Daumier fu un artista prolifico, impegnato in varie arti e tecniche, e usò le sue abilità artistiche per ridicolizzare il governo e la società francese. Nonostante la sua mancanza di successo commerciale come artista di talento, la sua influenza sugli artisti successivi e sullo sviluppo della pittura francese è esemplificata dall'ammirazione dimostratagli da una varietà di artisti moderni, tra cui “Picasso” (1881-1973), “Paul Cézanne” (1839-1906) e “Francis Bacon” (1909-92), e fu venerato da giovani artisti come “James Ensor” (1860-1949) e da alcuni collezionisti, oltre che da una vasta cerchia di amici tra cui “Baudelaire”, “Delacroix” (1798-1863) e “Degas” (1834 – 1917) per il quale i dipinti di Daumier sulla vita della classe operaia sarebbero stati fonte di grande ispirazione e, durante la sua vita, raccolse oltre 2.000 delle sue opere.
                                                Massimo Capuozzo

domenica 4 febbraio 2024

La storia di Rosa Bonheur: la Storia e le storie di Massimo Capuozzo

Sentendo per la prima volta il nome di ‘Rosa Bonheur’, facilmente si può pensare a una ‘pornostar’ o a un negozio di articoli erotici di Pigalle. ‘Rosa Bonheur’ (1822 – 1899) fu invece uno dei personaggi più famosi sui mercati d’arte della seconda metà dell’Ottocento: anche se non ‘porno’, una ‘star’ lo fu certamente, ammirata da principi e da sovrani, da letterati e da musicisti e conosciuta, oltre che in Europa, anche nelle zone più remote degli Stati Uniti.
Dopo la sua morte nel 1899, Rosa Bonheur cadde in una sorta di oblio fino alla sua riscoperta negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, ma fu una riscoperta avvenuta non tanto per il suo talento artistico, quanto piuttosto per essere diventata un’icona del femminismo e se la sua produzione era stata dimenticata, in ambienti femministi, LGBT e animalisti Rosa è tuttora ricordata vivamente come un emblema.
Pertanto risulta ancora oggi piuttosto difficile farla uscire da questa nicchia o da quell’immagine più convenzionale della ‘pittrice delle mucche’.
Ma per fare questo oggi è necessario considerare la pittrice come una vera appassionata del “mondo vivente” in un momento in cui l'ecologia, il rispetto per la natura e la causa animalista sono all'ordine del giorno.
Alcuni suoi dipinti collocano il ‘mondo vivente’ in spettacolari composizioni dinamiche, altri in veri e propri ritratti come se gli animali stessero in posa ‘vis-à-vis’ con lo spettatore, ma comunque essi sono sempre eseguiti con meticolosità quasi fotografica che restituisce all’osservatore sia l'anatomia sia la ‘psicologia’ degli animali.
Diversamente da altri artisti di umori più romantici come ‘Géricault’ o ‘Troyon’, Rosa Bonheur non cercò mai di umanizzare gli animali, ma volle esprimere sempre la loro singolarità e la loro irriducibile diversità.
Dando voce a chi di voce non ne aveva, il suo ‘femminismo’, molto individuale e poco collettivo, e il suo amore per gli animali andarono sempre di pari passo.
In che modo?
Mettendo ecologisticamente sempre in discussione il rapporto di forza tra l’uomo, il più grande predatore vivente, e gli animali e, allo stesso modo, il rapporto di forza fra uomo e donna, vivendo lei stessa in autonomia, non come una donna sottomessa alla morale patriarcale di allora, ma come una donna libera e capace delle sue scelte, anche se non ne fece mai un vero e proprio programma politico e non partecipò mai a dimostrazioni o a manifestazioni a favore della questione femminista.
Guardare le sue opere suscita nello spettatore moderno un "effetto meraviglia": nei suoi grandi dipinti gli animali occupano un posto d'onore: mi piace ricordare per esempio "Il re del bosco" del 1878, un maestoso cervo sorpreso in prima persona che crea con l’osservatore un “momento di scambio tra specie” un effetto che si ritrova anche in tante altre opere di Rosa come "Il leone in casa" del 1881.
Fig. 1
Fig. 2
L'artista mise consapevolmente in risalto la quotidianità del mondo contadino, attraverso il lavoro dei cavalli da tiro o dei buoi in piena fatica, su grandi formati, precedentemente riservati solo alla "pittura nobile", quella ‘storica’, come nella sua celebre e monumentale “La follatura del grano in Camargue” che purtroppo rimase incompiuto.
Moltissime opere di Rosa si trovano oggi nel Regno Unito e negli Stati Uniti, e appartengono a collezioni private o a importanti istituzioni museali: questo perché, fin dall'inizio della sua carriera, le sue opere furono vissute con una particolare passione soprattutto nel mondo anglosassone in seguito a un’“esplosione” nel commercio oltreoceano dell'Arte europea e della fame di pittura, che quella giovane nazione cominciava ad avere.
In Francia oggi il nome di Rosa Bonheur è conosciuto soprattutto attraverso una strada, una scuola, nella migliore delle ipotesi una trattoria o un caffè che portano il suo nome nel quartiere degli artisti a Montmartre, eppure Rosa aveva appena trent’anni quando i suoi quadri cominciavano a viaggiare sull’Atlantico ed erano venduti in America.
Ma chi è Rosa Bonheur? E soprattutto perché ne parlo?
Da un pezzo della mia vita mi interesso, anche se ora in modo più saltuario, del ‘femminile dell’Arte’ sempre troppo trascurato ma sempre molto sorprendente. Nel mio incontro con il “Realismo” francese ho incontrato di nuovo Rosa e questa volta ho deciso di conoscere fino in fondo questa tipica outsider che seppe imporsi nell’Ottocento come pittrice della vita agricola e della fauna selvatica in un'epoca in cui la ‘rivoluzione industriale’ e la crescita urbana stavano corrodendo interi settori dell'antico habitat naturale dell’uomo.
‘Marie Rosalie Bonheur’ era la figlia primogenita del pittore e insegnante di disegno Raymond e di Sophie “Marquis”, un’insegnante di pianoforte che era stata allieva del giovane marito.
La nascita di Sophie, una figura determinante per Rosa, è avvolta nel mistero: era nata nel 1797, in Germania, dove si trovavano molti nobili francesi in fuga dalla Rivoluzione, tra questi c’era ‘Jean-Baptiste Dublan de Lahet’, un ricco commerciante bordolese in odore di nobiltà, che nel 1799 portò con sé la piccola Sophie a Bordeaux, indicandola come sua nipote e, solo sul letto di morte avrebbe rivelato che in realtà era lui il suo padre biologico. Non si sa però chi fosse la madre di Sophie: in giro si sussurrava soltanto che fosse una principessa di sangue reale, ma una coltre di silenzio scendeva sempre immancabilmente intorno a lei appena si domandava qualcosa di più.
Che fosse vero o no, è certo che la piccola Sophie ricevette un'educazione degna di una gran dama dell'alta nobiltà: studiava letteratura francese e spagnola, canto, danza, pianoforte e disegno. Conobbe il giovane Raymonde Bonheur, di un anno più grande di lei, che proveniva invece da una modesta famiglia di cuochi, ma studiava ‘Belle Arti’ e si guadagnava da vivere umilmente impartendo lezioni di disegno.
Entrambi belli e sognatori, si innamorarono e nel 1821 si sposarono.
Il 16 marzo 1822 a Bordeaux nacque la loro prima figlia, al numero 29 di ‘rue Saint Jean-Saint-Seurin’, e la chiamarono Marie-Rosalie, che però la madre chiamò sempre Rosa, la ‘sua rosa’.
Nel 1824 nacque poi Auguste, nel 1827 Isidore e infine nel 1830 la sorella Juliette. Tutti i bambini Bonheur sarebbero diventati artisti: Rosa, Auguste e Juliette pittori e Isidore scultore.
La piccola Rosa visse un'infanzia dorata nella campagna bordolese, al castello di “Grimont” a Quinsac sulla riva destra della Garonna, dove durante i primi anni della sua vita, con la sua famiglia trascorreva le vacanze in estate. Rosa era una bambina vivace, amava le passeggiate in campagna e soprattutto gli animali: pecore, mucche, tori. Si dice che fosse un maschiaccio, dato che le piaceva correre liberamente dovunque senza paura.
Fu lì che sviluppò il suo amore per la natura e per gli animali, due temi che avrebbero alimentato il suo lavoro per tutta la vita.
Fin da piccola Rosa manifestò un talento naturale per il disegno che praticava con ogni mezzo, ritraendo gli animali della campagna in cui era cresciuta felice, prima che nel 1829 la sua famiglia, lasciando la Gironda, si trasferisse a Parigi per raggiungere il padre, uomo profondamente idealista di fede sansimoniana che, come tanti artisti, sperava di raggiungere il grande successo nella capitale.
Quest’avventura si trasformò tuttavia in un vero e proprio disastro.
Non avendo ottenuto il successo sperato, il padre entrò nella comunità di ispirazione sansimoniana di ‘Prosper Enfantin’ che, nonostante la conclamata ‘fede’ nell’emancipazione femminile, ne escludeva le donne e lasciò così la moglie, sola e con i quattro figli.
Sophie cercò allora di sbarcare il lunario impartendo lezioni di pianoforte di giorno e facendo piccoli lavoretti di cucito di notte con esigui compensi sia per le lezioni sia per il cucito: nel 1833, Sophie Bonheur morì ad appena trentasei anni e la sua famiglia era talmente povera che le sue spoglie dovettero essere deposte in una fossa comune nel ‘Cimitero di Mont-Martre’. Più tardi Rosa avrebbe detto che tutto questo succedeva mentre suo padre ‘si occupava della salvezza del genere umano’.
Non è certo però se Sophie sia morta di colera per un’epidemia che imperversava in quell’anno a Parigi o se fosse stata davvero consumata dai lavori malpagati che svolgeva per sostentare i quattro figli piccoli, ma certamente Rosa, nella sua mente di bambina, preferì questa seconda versione. Sta di fatto che l’undicenne Rosa non si sarebbe mai del tutto ripresa da questa perdita.
Con la morte di Sophie, i quattro figli furono dispersi tra i vari membri della famiglia, solo Rosa rimase a Parigi con il padre: fu tolta dalla scuola e andò come apprendista da una sarta, ma quel lavoro non le piaceva e decise che voleva diventare una pittrice.
Papà Raymond, che avrebbe sempre incoraggiato le capacità artistiche dei suoi figli, convito dalla forte determinazione della ragazzina la prese come allieva e le dedicò tutto il suo tempo ad insegnarle e così Rosa a tredici anni smise di essere un’apprendista sarta e si potette dedicare completamente alla pittura e al disegno.
Contento dei suoi progressi e del suo entusiasmo, Raymond incoraggiava l'ambizione di sua figlia proponendole come modello la grande e famosa ritrattista ‘Elisabeth Vigée-Lebrun’ (1755-1842). Il padre riuscì inoltre ad ottenere per Rosa il permesso di frequentare il ‘Palazzo del Louvre’ per copiare i grandi maestri del passato, un esercizio fondamentale per chi voleva diventare un pittore.
Le donne all’epoca non avevano il diritto di studiare il ‘nudo’, pertanto erano loro impediti i grandi quadri come le scene mitologiche, storiche e religiose in cui lo studio del ‘nudo’ era fondamentale, ed erano proprio questi i dipinti che facevano la reputazione dei loro colleghi uomini: esse dovevano quindi limitarsi a generi considerati ‘minori’ come il ‘ritratto’, il ‘paesaggio’ e la ‘natura morta’.
Formatasi con il padre che era un discreto ritrattista che a Bordeaux aveva stretto amicizia anche con Goya, Rosa capì presto la sua “vocazione” e decise di diventare brava, ma non per ‘superare la Vigée-Lebrun’, della quale non le importava niente, ma rappresentando ciò che ella amava di più: gli animali e la natura, per lei unica fonte ispiratrice e vera maestra anche più dei grandi del ‘Louvre’ che comunque non si stancava mai di studiare.
Avendo dunque trovato la strada che riteneva giusta, cominciò a nutrire l’ambizione di diventare sì la Vigée-Lebrun, ma degli animali.
La morte della madre aveva segnato profondamente Rosa, tanto più che a lei sembrava che fosse stata sopraffatta dalla fatica e dalla miseria. A questa madre, cresciuta ed educata come una principessa e seppellita in una fossa comune come una “miserabile” per la miseria in cui versava la famiglia, Rosa avrebbe dedicato un vero e proprio culto per tutta la sua vita, decisa però a non seguirne l’amaro destino.
Se l’influenza del dramma materno fu determinante per lei, altrettanto determinante fu il pensiero paterno, secondo il quale tutti coloro che volevano dedicarsi a una ‘grande causa’ dovevano fare la scelta del celibato, uomini e donne. E la ‘grande causa’ di Rosa fu l’Arte, la “missione divina” a cui avrebbe consacrato tutta la sua vita.
Un incontro fondamentale per lei quattordicenne avvenne nel 1836 quando incontrò ‘Nathalie Micas’, un evento questo che le cambiò la vita per sempre.
Louis Frédéric ed Henriette Micas si erano recati nello studio di Raymonde Bonheur affinché dipingesse il ritratto della loro figlia, la dodicenne Nathalie, che aveva una salute così fragile da far loro temere che sarebbe potuta morire presto.
Durante le sedute di posa nell’atelier di Raymond la bambina e sua madre strinsero amicizia con Rosa, che con suo padre conduceva una vita ‘bohémien’ in cui anche l’igiene domestica lasciava a desiderare.
Fu la signora Micas a prendere in mano la situazione aiutando con la sua presenza materna i Bonheur e fra le due ragazze nacque un rapporto stabile che sarebbe durato più di cinquant’anni, fino alla morte di Nathalie nel 1889.
Nel 1841 Raymond Bonheur decise di risposarsi con tale Marguerite Peyrol, una vedova di ventotto anni che aveva già un figlio e che, dal loro matrimonio ne avrebbe concepito un altro, Germain.
Per la diciannovenne Rosa, questo sembrò un tradimento, anche se grazie al matrimonio del padre i suoi fratelli e la sorella li potettero raggiungere a Parigi e la loro famiglia si potette finalmente riunire. A Parigi tutti iniziarono a studiare disegno sotto la direzione di Raymond.
La famiglia Micas riteneva però che il talento di Rosa non potesse sbocciare in mezzo a quel gran baccano e decise che, siccome la giovane pittrice stava già incominciando a guadagnare con la sua arte, avrebbe potuto benissimo avere un proprio studio.
Nel 1841 era stata ammessa ad esporre al ‘Salone di pittura e di scultura’, comunemente noto come il ‘Salon’, la più importante vetrina d'Arte contemporanea di Parigi. I primi due dipinti di Rosa esposti al “Salon” furono immediatamente notati oltre che dai giudici che l’avevano ammessa all’esposizione, anche dal pubblico.
Da quel momento ogni anno Rosa presentò suoi lavori e ogni volta furono accettati da quell’insidiosa giuria. Dopo quei primi successi, il padre le consigliò di firmarsi ‘Raymond’ col pretesto che il loro cognome ‘Bonheur’, in italiano ‘felicità’, sembrava una beffa alla loro infelicità. Per lei questa scelta sembrava invece un insulto a sua madre e, proprio per associarla alla sua celebrità, dal 1844 in poi firmò tutti i suoi dipinti con l’abbreviativo con cui la madre la chiamava: Rosa.
Se il padre le aveva insegnato il mestiere, era stata però sua madre che per prima ne aveva riconosciuto e incoraggiato il talento, e Rosa, con estrema convinzione, riteneva che la madre la ispirasse, che la proteggesse e che guidasse ancora i suoi passi.
Al Salon del 1845 Rosa ottenne già due medaglie di bronzo e le sue opere incominciarono a essere discretamente vendute.
Per perfezionare la sua arte camminava, cavalcava in campagna, visitava i mercati del bestiame anche e i macelli. Per poter fare questo si rese conto che i pantaloni erano molto più pratici delle gonne. Una legge del 1800 prevedeva però che ogni donna che volesse vestirsi da uomo dovesse ottenere dalla Prefettura di Polizia una speciale ‘autorizzazione al travestimento’, rinnovabile ogni sei mesi. Rosa allora chiese ed ottenne dall’ufficio competente di Parigi l'autorizzazione per un ‘permesso di travestimento’: se il motivo ufficiale erano le ragioni di salute, i pantaloni in realtà le servivano come abito da lavoro, indispensabile per poter disegnare indisturbata in campagna, nei boschi, nelle fiere, nelle stalle e nei mattatoi che frequentava per la sua pittura.
Fig.3
Elevando all’eccellenza i canoni del ‘Realismo’ che in quegli anni si stava affermando, Rosa aprì nuovi orizzonti anche per le pittrici del suo tempo, fino a quel momento relegate a generi minori, e diventò un modello per loro.
Fig.4
Nella turbolenta edizione del ‘Salon’ del 1848, la ventiseienne Rosa espose ancora, e fu premiata con la medaglia d’oro che le permise di ricevere un ordine dallo Stato e di attrarre tra la sua clientela alcuni facoltosi collezionisti privati.
In quella circostanza ‘Théophile Gautier’ la pose sullo stesso piano di ‘Paulus Potter’ (1625 – 1654), un pittore olandese del Seicento, specializzato in animali e paesaggi e noto come il ‘Raffaello degli ovini’, sottolineando la ricerca della ‘verità’ e l’osservazione perfetta di Rosa. Ancora una volta ‘Théophile Gautier’, per trovare una matrice al ‘Realismo’ contemporaneo, si richiamava all’Arte olandese del Seicento, non senza implicazioni politiche.
In effetti, il ‘Realismo’, basato sullo studio del disegno o sulla fotografia, è molto presente nell’opera di Rosa ed è in evidente sintonia con il lavoro dei campi e l'armonia che lega i contadini e gli animali.
I mercanti d'Arte incominciavano a interessarsi al suo lavoro e la sua carriera cominciò a essere molto redditizia, cosa che le valse anche diverse proposte di matrimonio visto che ora non era più una ‘miserabile’, ma cominciava a diventare un buon partito. Ma Rosa era troppo scossa dal modo in cui la madre aveva dovuto soffrire a causa del suo matrimonio, pur essendo stato comunque un matrimonio d'amore. Rifiutò di rinunciare alla sua libertà per un uomo e non si sposò mai, preferendo dedicare tutta la sua vita all'Arte.
Nel 1849 realizzò per lo Stato francese lo splendido e monumentale dipinto di tema agricolo ‘Labourage Nivernais’, detto anche ‘Le Sombrage’, che fu anche esposto al ‘Salon’ del 1849 e oggi conservato al ‘Museo d’Orsay’: questo dipinto era liberamente ispirato al racconto ‘La palude del diavolo’ di George Sand.
Fig.5
Con quest’opera Rosa ebbe un enorme successo di pubblico, il dipinto fu salutato unanimemente dalla critica come un capolavoro e Rosa come la più grande artista di animali del suo tempo.
In questa grande opera (1,34 m x 2,60 m) Rosa, utilizzando le dimensioni della pittura storica, raggiunse la fama nazionale a ventisette anni: la pittrice disse che quell’opera era nata in lei per celebrare con la pittura un’altra arte, quella “di tracciare i solchi da cui ha origine il pane che nutre l’intera umanità’.
Quest’opera sembra rispondere a una crisi agricola e alla penuria alimentare che aveva portato alla rivolta nel 1848 che era stata l’innesco della Rivoluzione: tra febbraio e maggio 1848, la monarchia francese era crollata con l'abdicazione di Luigi Filippo ed era nata la breve “Seconda repubblica”.
Gli anni Quaranta dell’Ottocento, erano stati segnati dalla recessione del 1846-1847 e poi dalla rivoluzione del 1848, che avevano visto il passaggio tra le crisi alimentari dell’”Ancien Régime” e quelle più specifiche create dalle economie industriali in via di sviluppo. Abbastanza per alimentare il pensiero socialista che si strutturava intorno a Marx e a Engels.
In quello stesso 1849, che era stato un trionfo artistico per Rosa, si verificarono tre eventi importanti nella sua vita: la morte del padre, il suo trasferimento a casa della famiglia Micas e la sostituzione del padre nella direzione della ‘Scuola di disegno per ragazze’, un incarico che avrebbe mantenuto fino al 1860.
Quando Raymond Bonheur morì, per Rosa fu impensabile continuare a vivere con la matrigna, che lei non aveva mai accettato e questo aveva determinato fra loro un profondo disaccordo. Decise quindi di andare a vivere con Henriette Micas e sua figlia Nathalie, il cui padre era morto anche lui ma l’anno prima. Questa scelta le creò un distacco dalla sua stessa famiglia, imbarazzata da questa sistemazione che sembrava, con le sue scelte del nubilato e dei pantaloni, confermare la presunta omosessualità della sorella.
La signora Micas, Nathalie e Rosa formarono una comunità tutta al femminile. Nathalie, anche lei pittrice di formazione, aiutava Rosa occasionalmente, per esempio per la replica dell’originale immenso dipinto ‘Il mercato dei cavalli’, oggi esposta al ‘Museo d'Orsay’, che fu riprodotto nel laboratorio a quattro mani da Nathalie e da Rosa, mentre la prima tela quella del ‘Metropolitan Museum of Art’ di New York, oggi è dichiarata intrasportabile.
Con Rosa, la scuola di disegno del padre diventò gratuita e destinata a quelle ragazze che volevano intraprendere la propria strada verso l'indipendenza finanziaria. È sintomatico che Rosa fosse solita incoraggiare le sue allieve dicendo loro: “Seguite il mio consiglio, osservate sempre la natura e vi farò diventare Leonardo da Vinci in sottana”.
La sua opera in campo artistico era inseparabile dalla sua vita di ‘donna forte’ che osava oltrepassare i ‘confini" imposti dalle convenzioni. Rosa plasmò la sua identità pubblica di donna finanziariamente ed emotivamente indipendente, fumando, andando a cavallo, praticando il tiro con la carabina, vivendo da single, indossando pantaloni e circondandosi di donne, compresa ‘Nathalie Micas’ la sua amica fin dall'infanzia e donna anche di scienza. Diverse fotografie la ritraggono nel suo laboratorio in pantaloni e camice, con i capelli tagliati corti oppure con un vestito e un cappello in pubblico.
Del resto per praticità, fin da adolescente, aveva sempre portato i capelli corti, con più di ottant’anni anni di anticipo sulla pettinatura alla ‘garçonne’ dei ruggenti anni Venti del Novecento.
Rosa riuscì a imporre quest’esistenza al di fuori delle norme sociali molto sessiste dell'epoca grazie al suo carattere forte, ma ci riuscì anche grazie alla sua fama: era talmente famosa e riconosciuta che si consentiva di fare quello che voleva e stranamente quel suo ‘stravagante’ stile di vita, tanto emancipato e sopra le righe, non suscitava alcuno scandalo. Anche George Sand iniziò a vestirsi in abiti maschili per frequentare i luoghi di ritrovo sociale all'epoca interdetti alle donne ma Rosa diversamente dalla Sand nelle fotografie ufficiali si faceva ritrarre sempre in abiti femminili. “Ho sempre condotto una vita onorata”, affermava, “ma non ho mai voluto svendere la mia libertà per compiere meglio la ‘santa missione’ che mi ero prefissata: ho sempre desiderato elevare la donna”.
Questo dimostra il suo impegno a non rinchiudersi in un ruolo di genere, pur accettando alcune convenzioni richieste dalla sua condizione di donna.
Per avere modelli sempre disponibili, allevava tutti gli animali che poteva: dalla prima pecorella collocata nel piccolo balcone della sua casa paterna, fino alla vera e propria ’arca di Noé’ del giardino della sua casa-studio di ‘rue d’Assas’ a Parigi, un’’arca’ che avrebbe ampliato a Thomery presso Fontainebleau dove nel 1859, acquistò il castello By.
Gli animali per lei non erano solo dei modelli da riportare sulla tela, erano ‘amici’ preziosi, dotati di una propria anima, che traspariva splendente nel loro sguardo e che lei così sapientemente rendeva immortali. «Se non sempre le capiamo, le bestie, loro ci capiscono sempre», era solita affermare e in seguito avrebbe aggiunto: «Trovo mostruoso che le si dicano prive d’anima. La mia leonessa mi amava molto, quindi aveva un’anima, ben più di certi umani che non hanno affatto amore». Per amore degli animali diventò anche la prima socia francese della ‘Società Reale per la Protezione degli Animali’ di Torino, la più antica associazione animalista risalente al 1º aprile 1871, anno in cui ‘Giuseppe Garibaldi’ ne fondò la prima sede su invito della nobildonna inglese, lady Anna Winter, contessa di Sutherland.
Al ‘Salon’ del 1853, con la forza della sua opera monumentale il ‘Mercato dei cavalli’ (2,45 m x 5), oggi al ‘Metropolitan’ di New York, conobbe un secondo trionfo e raggiunse la gloria.
Fig. 6
Quando presentò quest’opera al “Salon”, ancorché incompiuta, le procurò un successo immenso che ella stessa definì ‘folle’ e che la rese celebre nel mondo intero. La giuria stessa del ‘Salon’ si definì ‘incapace di ricompensare questo merito tanto eccezionale’ e decretò per lei l’ammissione diretta a tutti i successivi ‘Salon’.
Il dipinto fu poi esposto a Gand, con enorme successo di critica e di pubblico, ma al ritorno in Francia le sue grandi dimensioni impedirono di trovare un acquirente privato. Rosa allora lo offrì alla sua città natale per un prezzo ragionevole, ma Bordeaux ritenne comunque il dipinto troppo costoso e rifiutò di acquistarlo.
“Il mercato dei cavalli” fu allora acquistato a carissimo prezzo da ‘Ernest Gambart’, un mercante e gallerista belga con sede a Londra che fiutò in Rosa l'artista che avrebbe fatto fortuna e grazie a lui la fama di Rosa oltrepassò i confini di Parigi e della Francia.
Nel 1853 ‘Ernest Gambart’ entrò dunque nella vita artistica di Rosa: questo mercante d’Arte fu un altro personaggio per lei fondamentale, diventò il suo impresario e il responsabile della distribuzione internazionale delle sue opere, assicurandone la diffusione su larga scala attraverso incisioni e litografie realizzate dalla ‘Maison Goupil’, una casa d’Arte che mirava a “mettere la produzione artistica alla portata di tutti”.
Gambart organizzava anche visite guidate e mostre che fecero aumentare a dismisura la notorietà di Rosa. In questo modo la piccola attività artistica di Rosa incominciava a crescere e cresceva vistosamente, grazie alle riproduzioni incise e litografate delle sue opere vendute da Gambart e diffuse in Europa e negli Stati Uniti. Si sta entrando ormai in quella che Walter Benjamin definisce l’epoca della “riproducibilità tecnica” dell’opera d’Arte.
Rosa dal canto suo era ben consapevole dell'importanza dei mercanti d’Arte e dei ‘media’, in particolare in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, i primi due paesi ad averle reso omaggio, e dov’è attualmente conservata la maggior parte delle sue opere. Ed era anche consapevole di tutto ciò che poteva contribuire alla sua autopromozione e al successo della sua carriera: sulla base delle strategie di ‘marketing’ di Gambart accettò pertanto alcune interviste su importanti riviste specializzate e su quotidiani e anche di farsi ritrarre in fotografie da distribuire, tutte destinate dapprima a forgiare, poi ad alimentare la sua leggenda, come per esempio la celebre fotografia in cui un giorno avrebbe posato accanto a ‘Buffalo Bill’.
Nel 1856, Gambart organizzò una tournee in Inghilterra e in Scozia, sia per promuovere la sua opera sia per introdurre il soggetto degli animali viventi come nuova materia di studio nelle scuole di belle arti.
Quella nel Regno Unito Rosa fu una tournée trionfale. A Londra, in occasione della sua prima mostra in cui espose “Il mercato dei cavalli”, la stessa regina Vittoria, desiderando vedere il dipinto che faceva tanto parlare di sé, aveva voluto assistere alla mostra e, per conoscere la pittrice, l’aveva invitata a Windsor. Il ‘Daily Mail’ la osannò e la definì, non senza una qualche esagerazione, ‘la più grande pittrice di scene rurali di Francia e senza dubbio del mondo’.
La reputazione di Rosa intanto cresceva e il “Il mercato dei cavalli” fu esposto in molte altre grandi città britanniche: Gombart fece realizzare incisioni dell'opera in varie dimensioni, che potevano essere acquistate a prezzi modesti e che contribuirono a far conoscere l'artista anche tra le classi sociali meno abbienti. 
Ma ora anche l'America era interessata a Rosa.
Alla fine del 1857 ‘Il mercato dei cavalli’ fu esposto a New York, nel 1858 a Boston e dopo una serie di compravendite il dipinto avrebbe concluso il suo lungo viaggio quando nel 1887 ‘Cornelius Vanderbilt II’, un industriale miliardario americano di origine olandese, lo acquistò all'asta per la somma quintuplicata rispetto alla prima vendita, di 268.500 franchi oro corrispondente oggi a un milione di euro, un prezzo esorbitante per l'epoca, e lo donò poi al “Metropolitan Museum of Art” di New York, dove si trova tuttora e dove l’opera fu riprodotta su numerosi e svariati supporti tra cui addirittura la carta da parati, segnando la definitiva conferma della notorietà americana di Rosa.
Al ritorno dalla strepitosa tournée negli Stati Uniti, la fama di Rosa era diventata tale che, essendo costantemente disturbata dai visitatori del suo studio parigino decise di stabilirsi nel castello By con l’annessa tenuta di Thomery, ai margini della foresta di Fontainebleau, che aveva acquistato l’anno prima con la vendita de ‘Il mercato dei cavalli’.
Questa dimora sarebbe diventata il suo santuario fino alla fine dei suoi giorni.
Quando si trasferì a Thomery nel 1860 Rosa portò con sé quella che considerava la sua famiglia: dopo essersi allontanata dalla casa paterna con Henriette e Nathalie Micas, aveva formato una nuova famiglia, una famiglia declinata tutta al femminile, che fu la base della sua solida carriera. La ‘sorella’ e la ‘madre’ elettive si erano prese cura di tutti gli aspetti pratici della vita quotidiana dell’esistenza comune e le avevano permesso di consacrarsi completamente alla sua arte.
L’affetto che le univa era superiore ai legami della famiglia d’origine perché era il ‘frutto della loro scelta’ come spiegava l’artista stessa, che amava definire le due donne come la stella polare della sua vita.
Al castello di By l'artista trascorse gli ultimi quarant’anni della sua vita, trenta dei quali con la sua cara Nathalie che sarebbe morta nel 1889 e di lei Rosa disse un giorno che se Nathalie fosse stata un uomo l'avrebbe sposata.
In onore di questo sodalizio la proprietà di By fu per loro la ‘dimora della perfetta amicizia’.
All’atto dell’acquisto del castello By e della sua tenuta, Rosa aveva solo trentasette anni ed era la prima donna francese che, con il frutto del suo lavoro, era riuscita a comprare una nobile dimora. In un’intervista confessò di subire un fascino per le scuderie più irresistibile di quello che una cortigiana sentiva per le anticamere regie.
Qui il suo amore per gli animali la portò ad allevare un intero serraglio. Ma al di là del grande atelier in stile neogotico che si era fatta costruire, il ‘vero studio’ di Rosa si estendeva a tutto il parco di quasi quarantamila metri quadrati, in cui ospitava pecore, capre, mucche, buoi, cavalli, yak, cani, gatti, marmotte, scoiattoli, tartarughe, una coppia di scimmie, cervi, cinghiali e perfino due cuccioli di leone addomesticati. E, fuori le mura della proprietà, disponeva inoltre di tutta la foresta di Fontainebleau che, con tutta la sua variegata fauna, si apriva ai suoi occhi come il ‘paese delle meraviglie’ e dove svolgeva gli studi ‘essenziali’ per i suoi lavori futuri. Ad Anna Klumpke, sua amica e biografa ufficiale, aveva confidato di stare bene fra quegli animali: ne osservava con vera passione i loro modi di essere e specialmente l’espressione dei loro occhi, che per lei erano lo specchio dell’anima di tutte le creature viventi.
Rosa era ormai all’apice della gloria e del successo e il trasferimento a Thomery più che una fuga dalle mondanità parigine, fu un ritorno alle origini, a quella campagna che nella Gironda aveva amato tanto nella sua infanzia così felice prima di Parigi.
La sua felicità era completa, la sua arte riconosciuta.
Acclamata dai suoi contemporanei, ‘Eugène Delacroix’ (1798 - 1863), e ‘Camille Corot’ (1796 – 1875), entrambi di una generazione precedente, Rosa diventò la pittrice più venduta del suo secolo, superando nel mercato d’Arte anche i suoi colleghi maschi ed era ai suoi tempi meglio conosciuta perfino di Renoir o di Monet.
Rosa e Nathalie viaggiarono molto insieme in Francia e in Europa, per trovare materie di studio per l'artista, o per soggiornare in città termali per la fragile salute dell'amica.
Rosa si era misurata con i più grandi maestri della pittura equestre come con il grande Géricault ed era considerata addirittura la più grande.
Nel ‘Mercato dei cavalli’ aveva saputo creare un'opera espressiva, di grande realismo, ricca di sentimento ma senza sentimentalismo, nutrita dalle scoperte scientifiche della sua epoca e dalla nuova attenzione rivolta alle specie animali locali, mettendo anche in discussione la gerarchia tra le varie specie equine. La pittrice statunitense ‘Molly Luce’ (1896 - 1986) scrisse che ‘Il mercato dei cavalli’ era stata l’opera che l'aveva maggiormente influenzata e spinta a diventare pittrice.
Il ‘Salon’ del 1855, annesso in quell’anno all’Esposizione Universale’ di Parigi da cui ‘La bottega dell’artista’ di Courbet era stata categoricamente rifiutata dalla giuria, Rosa aveva presentato “La fienagione in Alvernia”, un olio su tela di 215 cm × 422 cm, acquistato dallo Stato imperiale, ed aveva ottenuto una medaglia d'oro, ma era stata deliberatamente esclusa dalla partecipazione alla cerimonia di premiazione, perché una norma vietava alle donne di ricevere quel premio.
La sua fama era diventata ormai tale che, dopo il ‘Salon’ del 1855 non potette più parteciparvi, perché tutte le sue opere erano già vendute ‘sul cavalletto’, ossia in anticipo, e, appena completate, erano subito spedite ai collezionisti esteri.
Fig. 6
Ma qual era il segreto del suo successo? E soprattutto perché una pittrice, realista come Courbet, oggi considerato una pietra miliare della pittura dell’Ottocento, era scartato dai ‘Salon’ mentre a lei era consentito di esporre senza bisogno di alcuna ammissione?
Sicuramente il grande talento, la forte determinazione, il lavoro instancabile e la profonda fedeltà alla madre, idealizzata nelle alleanze femminili che suggellò lungo tutta la sua esistenza.
Ma a questo bisogna aggiungere che Rosa, pur essendo una ‘realista’ era una conservatrice, diversamente da Courbet. Non contestava il ‘sistema delle arti’ e tanto meno entrava in polemica come facevano artisti e critici d’arte contrari all’’accademismo’ dell’epoca, Courbet era invece un contestatore del sistema. Inoltre Rosa, nel dipingere animali, seguiva perfettamente i dettami della pittura accademica: disegni meticolosi, schizzi da tutte le angolazioni ed esecuzioni in dipinto senza la minima sbavatura anticipando quasi la “pittura iperrealista”. Infine era anche dotata di un formidabile senso degli affari e aveva affidato la distribuzione delle sue opere alla ‘Casa d’Arte Goupil’ e al suo agente Gambart che applicava le più moderne strategie di marketing. Si aggiunga ancora a tutto questo che l’opinione pubblica cominciava ormai ad avere un peso politico anche se si trattava di scelte artistiche e le opere di Rosa piacevano al pubblico medio di allora, quello stesso pubblico che contestava o disertava le mostre di Courbet e poco dopo quelle degli impressionisti.
Pochi anni dopo, nel pieno della conquista della ‘frontiera’ occidentale americana, il leggendario West, le opere di Rosa circolarono in tutta l'Inghilterra e poi nel Nord America, grazie ai suoi amici mercanti d'arte, che seppero plasmare e vendere "la sua immagine" e grazie anche alla sua stessa capacità di autopromuoversi attraverso la sua eccentricità.
La precisione anatomica delle sue opere oltre che conquistare le giurie dei ‘Salon’ piaceva anche agli agricoltori americani, i ‘pionieri’ che, grazie a lei, scoprirono i cavalli ‘Percheron’ e cominciarono a importarli dalla Francia.
L’amore per sua madre fu il filo rosso anche della sua relazione con ‘Nathalie Micas’ che aveva una vaga somiglianza fisica con lei, e Rosa condivise la sua vita con Nathalie: appena si erano incontrate si erano subito sentite due ‘anime gemelle’ ed erano diventate ben presto inseparabili. Nathalie aveva condiviso con lei il suo primo studio, aiutandola nella preparazione dei quadri e nella gestione amministrativa che assunse completamente insieme alla gestione dell’immagine dell’artista, suggerendole, tra l’altro, l’adozione di un originale completo di velluto nero che indossava nelle sue apparizioni pubbliche.
Nathalie, formata alla pittura da Rosa, oltre ad occuparsi dei cieli nei suoi dipinti, curava l’orto, il giardino e gli animali, era esperta di medicina e di fotografia, ma anche di meccanica: Rosa fece costruire una piccola linea ferroviaria nel parco del castello sia per monitorare i suoi animali sia per sperimentare un sistema di freni per locomotiva il “freno Micas”, utile per il continuo sviluppo della rete ferroviaria: Nathalie ne fu l’inventrice, il sistema fu sperimentato con successo nel 1862 nel parco della proprietà e il suo brevetto fu depositato in quello stesso anno.
Il 15 giugno del 1864, l'imperatrice Eugenia, la cattolicissima moglie spagnola di Napoleone III, durante un soggiorno al castello di Fontainebleau, fece una visita a sorpresa a Rosa per incontrare colei che aveva una così ben consolidata reputazione per invitarla a pranzo al castello di Fontainebleau.
In una lettera al fratello, Rosa racconta l’episodio dell’ingresso dell’imperatrice: “Mentre io ero impegnata al ‘Cervo sulle Lunghe Rocce’ sua Maestà venne a sorprendermi con tutta la sua corte. Tu puoi bene immaginare quanto avrei voluto nascondermi in qualche tana di topi. Per fortuna mi è bastato togliermi il camice e mettermi una giacca”.
Il 10 giugno 1865, l’imperatrice tornò di nuovo al Castello By per consegnarle di persona la croce d’oro di cavaliere della ‘Legion d'Onore’ e, appuntandogliela lei stessa sul camice, fece di lei la prima artista insignita di quest’alta onorificenza nazionale. Anche in quella occasione la sorprese fra i suoi animali nel giardino e le disse: "Voi ora siete un cavaliere, e sono felice di essere io la madrina della prima artista donna che riceve questa alta onorificenza". Il figlio dell'imperatrice però si incuriosì nel vedere questa donna vestita bizzarramente in camice e pantaloni, segno che questo abbigliamento un po' provocatorio una certa curiosità la suscitava.
Eugenia, mondana ammiratrice della regina Maria Antonietta, era però sempre preoccupata per i più disagiati, era amante delle arti e delle lettere e, sensibile alla causa delle donne, aveva già sostenuto con forza la candidatura di ‘George Sand’ all'’Accademia di Francia’ e ora volle anche con Rosa sottolineare l'importanza che attribuiva a quest’atto di giustizia verso le donne e spiegò che serviva ‘a dimostrare che il genio non ha sesso’.
Nel 1867 Rosa espose nuovamente i suoi dipinti in pubblico, all'’Esposizione Universale’ che si svolse ancora una volta a Parigi. Quando scoppiò la ‘Guerra franco-prussiana’ del 1870 e il ‘Secondo l'Impero’ crollò, i prussiani arrivarono a Fontainebleau sulla strada per Parigi. Rosa aveva acquistato armi per la difesa di Thomery e permise agli abitanti del villaggio di esercitarsi nel suo parco: in mancanza di cibo, distribuì loro una zuppa molto nutriente in enormi calderoni e quando i soldati prussiani invasero il parco, attratti dalla scorta di carne per il suo serraglio, Rosa salvò dalla fame i suoi animali invitando i soldati nella sua cucina ma, da buona patriota, non condivise il pasto con i nemici. Essendo molto famosa anche in Prussia ed essendo il principe reale prussiano Federico Carlo un suo fervente ammiratore, le inviò una lettera di salvaguardia da mostrare a tutti i comandanti militari: in essa il principe ordinava di rispettare i suoi beni.
Al momento della creazione della ‘Comune’ a Parigi Rosa, come molti altri intellettuali (Théophile Gautier, Maxime du Camp, George Sand, Gustave Flaubert, Edmond de Goncourt ed altri) condannò senza appello la ‘Comune’, accusata di aver costituito un governo abbietto basato sul crimine e sulla follia, guidato da individui irresponsabili ed esaltati.
In una lettera a ‘Jules Mène’ (1810 – 1879), scultore di animali di dodici anni più grande di lei, scrisse: “Non riesco a digerire questa repubblica di cartone più di quella del 1848, ora ho la saggezza che deriva dall’età accompagnata dalla sua sincera e onesta indipendenza”. Nella lettera Rosa criticava Mène per essere stato a Parigi a fine maggio, come tanti curiosi: “Cosa si può fare nella Parigi di Papà Duchêne?[1] Saresti della Comune? Io non posso accettare questo né che tu sia un sostenitore dei principi artistici del cittadino Courbet che è bravo a dipingere con il coltello, ma che trovo ottuso sotto tutti gli aspetti”.
Anche se non dovette soffrire materialmente le ostilità del governo comunardo, ne restò comunque psicologicamente segnata e le sue opere riflettono questo colpo: iniziò infatti a dipingere animali selvatici.
Il 1875 fu un anno molto doloroso per Rosa a causa della morte di Henriette Micas e anche la sua salute si indebolì: incominciò a soffrire di brutte emorragie che le impedivano di lavorare finché non fu operata alla fine del 1883. Dopo la morte di Madame Micas, anche la salute di Nathalie incominciò a suscitare preoccupazioni: le due donne infatti trascorrevano i loro inverni a Nizza, e tornavano al castello di By solo con il bel tempo.
A febbraio del 1884 morì Auguste, fratello di Rosa, a giugno del 1889 morì anche Nathalie, lasciandola in un dolore insormontabile. Negli anni bui seguiti alla morte di Nathalie, non trovò nemmeno più sollievo nel suo lavoro e la sua produzione artistica ne soffrì. Rosa aveva iniziato nel 1864 una nuova monumentale tela che rappresentava ‘La follatura del grano in Camargue’, un’opera che lasciò in sospeso dopo la morte di Nathalie, che successivamente avrebbe voluto presentare all’’Esposizione universale’ del 1900 ma che non riuscì mai più a completare. Quest’ultima opera incompiuta si trova ora al ‘Museo delle Belle Arti’ di Bordeaux.
In occasione dell’Esposizione Universale’ di Parigi del 1889 incontrò ‘Buffalo Bill’ e la sua troupe del selvaggio West e si appassionò ai cavalli selvaggi, ai bisonti e ai paesaggi del West americano.
Dalla morte della sua amica, Rosa viveva rintanata nel suo castello e quando seppe che Buffalo Bill sarebbe arrivato in Francia con il suo spettacolo, il “Wild West”, vide questo fatto come un'opportunità unica per disegnare dal vero i bisonti, i cavalli da rodeo e perfino gli indiani Lakota. Da parte sua, Bill immaginò che la famosa pittrice potesse dipingere il suo ritratto.
Fra i due fu un incontro importante.
Il colonnello ‘William Frederick Cody’ in arte “Buffalo Bill” (1846 – 1917) era venuto in tournée a Parigi nel 1889 in occasione dell'’Esposizione Universale’ con il suo spettacolo di cowboy e indiani.
Carismatico, giovane e bello, anche lui come Rosa era una ‘star’ di ‘fin de siècle’: figura mitica ed emblematica dell’epopea della ‘conquista dell'West’, Buffalo Bill era stato un postino del ‘Pony Express’, un cacciatore di bisonti e un colonnello dell’esercito nordista. Nel suo spettacolo, presentava scene della vita dei pionieri, una caccia al bisonte, l'attacco a una diligenza e alla casetta di un pioniere da parte degli indiani.
Appassionata di ‘indiani’, Rosa fu ovviamente presente a questo spettacolo che, ogni giorno da maggio a ottobre riunì 30.000 persone, e ottenne da Buffalo Bill l'autorizzazione a recarsi al campo e di muoversi liberamente nel suo accampamento dove assistette alla vita quotidiana dei ‘Pellerossa’ e dove ogni giorno andava a disegnare le loro armi, i loro cavalli e i loro bisonti, che vedeva per la prima volta, potendo finalmente studiare dal vivo quel popolo che da tempo l’appassionava.
Rosa moltiplicò i disegni di quelle ‘creature così diverse’ da quelle che fino ad allora erano passate davanti a lei con una vera passione antropologica, deplorando che essi fossero stati condannati all’estinzione dall’’usurpatore bianco’. Parlava con loro e anche se non si capivano, si riconoscevano nel loro amore per gli animali e per la natura.
Nonostante un oceano di differenze, l'artista ‘femminista’ e l'’avventuriero del selvaggio West’ si divertivano a discutere delle arti e dell'amore per la natura, attraverso un dialogo che si sarebbe trasformato in un solido legame.
In cambio dell’ospitalità, Rosa invitò Buffalo Bill a Thomery, pranzarono all'’Hôtel de France’ di Fontainebleau e cercarono di organizzare una battuta di caccia al cinghiale. 
Rosa trovò anche l'opportunità di far montare due cavalli selvaggi, ‘Apache’ e ‘Clair-de-Lune’, doni di un ammiratore americano. Buffalo Bill, cavaliere eccezionale, non ebbe problemi a domarli e partì con loro, non prima però che l'artista lo avesse ritratto in sella al suo cavallo preferito.
Fig.8
Negli anni che seguirono i due si scrissero e, quando la sua casa andò a fuoco, Buffalo Bill si rifiutò di uscire senza il ritratto che la sua amica Rosa gli aveva dipinto.
Il 12 maggio 1894, durante la Terza Repubblica, grazie al presidente della Repubblica Sadi Carnot, suo amico e ammiratore, Rosa diventò anche la prima donna nominata ‘Ufficiale di Francia’ un’onorificenza fino ad allora mai attribuita ad artiste, ma solo a donne che avevano compiuto un atto di coraggio o reso un chiaro servigio alla nazione.
Nel corso della sua esistenza Rosa ottenne innumerevoli altri premi e riconoscimenti nazionali e internazionali che non le evitarono mai però attacchi che s’intensificarono particolarmente nei suoi ultimi vent’anni di vita con le critiche dei giovani pittori che ormai la ritenevano superata, ma lei fu sempre convinta che essi fossero mossi non tanto dal fatto che fosse vecchia e attardata, quanto dal fatto che era una donna di successo capace di dimostrare che l’arte non ha sesso rivendicando e anche sostenendo la ‘grande e indomita ambizione per il sesso al quale sono fiera di appartenere e di cui sosterrò l’indipendenza fino alla fine dei miei giorni’.
Durante la sua vita Rosa si circondò di personaggi politici e artistici alla moda come il Presidente della Repubblica francese ‘François Sadi Carnot’ e il compositore ‘George Bizet’.
L’’Esposizione Universale’ del 1889 le aveva dato anche l'opportunità di conoscere un’altra donna fondamentale nella sua vita, la ritrattista americana ‘Anna Klumpke’ (1856 – 1942), sua grande ammiratrice.
Di trentaquattro anni più giovane di Rosa, questa giovane pittrice era già affermata negli Stati Uniti dove aveva eseguito, tra gli altri suoi dipinti, un ‘Ritratto di Elisabeth Cady Stanton’[2], un’attivista del movimento di emancipazione femminile. Anna era venuta in Francia per dipingere il ritratto del suo "mito", perché proprio a Rosa doveva la sua vocazione per la pittura, che aveva scoperto al “Metropolitan” davanti a ‘Il mercato dei cavalli’, di cui aveva fatto una copia che le aveva permesso di pagarsi il primo anno di studio all’’Accademia Julian’, un scuola d'arte privata di pittura e scultura fondata a Parigi nel 1867, famosa per il numero e la qualità degli artisti che la frequentarono: nel 1880, le donne a cui non era permesso iscriversi agli studi all'École des Beaux-Arts erano accettate dalla nuova Accademia. 
Le due pittrici si erano già incontrate nell'autunno del 1889, subito dopo la morte di Nathalie Micas, ma solo nel 1898, dopo diverse visite alla pittrice, Anna trovò il coraggio di chiederle il permesso di dipingere il suo ritratto.
Rosa ne fu felicissima: si era ormai affezionata ad Anna, che ancora una volta le ricordava la madre morta troppo presto, e vedeva nella più giovane ‘sorella di tavolozza’, colei che avrebbe saputo meglio proteggere e trasmettere ai posteri la sua opera e la sua memoria e le affidò così anche il compito di scrivere sulla sua biografia.
Rosa la pregò di condividere la loro esistenza, di prendere con lei il posto che aveva occupato Nathalie e di aiutarla a scrivere le sue memorie. Anna si trasferì così al castello di By per realizzare i suoi primi schizzi e non ne sarebbe andata più via.
Le loro affinità elettive si confermarono.
Il 1898 fu l’ultimo anno della vita di Rosa che, grazie ad Anna, ebbe un rigurgito di vitalità e di gioia rinnovando il suo modello esistenziale della ‘perfetta amicizia’ anche con la pittrice statunitense.
Dall'arrivo di Anna, sentì finalmente rimuoversi quel peso di piombo che gravava su di lei dopo la scomparsa della sua amata amica.
Con serietà ed entusiasmo progettò il completamento del grande quadro della ‘Follatura del grano in Camargue’. Con Anna al suo fianco, sentì che le forze le ritornavano. Desiderava inoltre lasciare in eredità alla giovane tutti i suoi beni, con la responsabilità di prendersi cura della sua memoria futura. Se le sue opere fossero toccate ai nipoti e al fratello Isidoro (la sorella Giulietta era morta nel 1891) era convinta che avrebbero dissipato tutto senza alcuna preoccupazione per assicurarle la fama postuma.
Fig. 9
Rinvigorita dalla sua presenza, Rosa iniziò i lavori al castello di By, in particolare la costruzione di un nuovo laboratorio per completare il grande dipinto che, secondo lei, avrebbe consolidato la sua reputazione di più grande pittrice di animali del suo tempo presentandolo all’’Esposizione Universale’ del 1900.
Purtroppo questa rinnovata vitalità e questo nuovo progetto di vita furono di breve durata brutalmente interrotti dalla sua morte improvvisa.
Rosa prese un raffreddore e spirò per una complicanza polmonare il 25 maggio 1899.
Aveva 77 anni.
Fu sepolta nel “Cimitero di Père Lachaise” a Parigi, nella tomba della famiglia Micas, accanto a Nathalie e ad Anna Klumpke le cui ceneri per sua espressa volontà furono riportate a Parigi dagli Stati Uniti nel 1948.
Fig. 10
Rosa aveva affidato alla giovane amica i suoi ricordi e la redazione della sua biografia, e, chiamandola ‘figlia davanti alle Muse’, l’aveva nominata sua erede universale, come era avvenuto, a suo tempo con Nathalie e lei stessa di Nathalie.
Anna, che condivise con Rosa l'ultimo anno di vita dell'artista ne scrisse la biografia ufficiale "Ricordi della mia vita", pubblicata per la prima volta nel 1908 e recentemente ristampata da ‘Phébus’ nel 2022 in occasione del bicentenario della nascita dell’artista. Dal libro emerge che l'ammirazione di Rosa Bonheur per gli Stati Uniti è stata reciproca al punto che "le femministe americane dell'epoca offrivano alle loro figlie bambole con la sua immagine".
Fedele alla sua ’missione sacra’ di cui era stata investita, Anna si attivò su tutti i fronti per difendere e diffondere la memoria della famosa pittrice, conservando tra l’altro inalterato il grande studio, in stile neogotico, dove Rosa aveva realizzato le sue opere negli ultimi quarant’anni. Anna si occupò inoltre del suo inventario, elencando una collezione di 2.100 opere fra dipinti, acquerelli, disegni, incisioni e sculture che Rosa non aveva mai voluto esporre al “Salon” per non fare ombra alla carriera di suo fratello scultore Isidore, anche se continuò a scolpire per tutta la vita: la maggior parte di queste opere fu venduta alla ‘Galleria George Petit’.
La collezione pubblica francese è conservata presso il ‘Dipartimento di Arti Grafiche’ del ‘Museo del Louvre’, al ‘Castello di Fontainebleau’ e al ‘Musée des Beaux-Arts’ di Bordeaux.
Il ritratto di Rosa, realizzato da Anna, troneggia accanto all’ultima tela incompiuta, su una sedia con gli abiti da lavoro, i colori sulla tavolozza, e i pennelli pronti all’uso, come se dovesse rientrare da un momento all’altro per terminare il dipinto. Alle pareti, fotografie, disegni, e ancora ritratti, tra cui quello di lei bambina realizzato dal padre. Lo sguardo determinato, la matita in mano, e per terra un foglio con una grande A.
In occasione del bicentenario della sua nascita Rosa Bonheur è stata oggetto di nuove biografie e di nuovi studi, ma la sua pratica artistica dopo la sua morte e forse anche prima aveva cominciato ad essere considerata obsoleta alla luce delle nuove tendenze dell'Arte moderna.
La sua fama pertanto svanì rapidamente dopo la sua morte.
Nonostante il suo ‘animalismo’ e il suo ‘femminismo’ che avrebbero dovuto fare di lei una donna ‘alternativa’, Rosa Bonheur fu invece facilmente associata al mondo borghese in cui era molto addentrata e al quale si opponevano invece le avanguardie artistiche a cominciare dall’’Impressionismo’, un rapporto amplificato dalla chiarezza delle sue posizioni estetiche conservatrici: le più moderne tendenze artistiche ripudiarono il suo stile pittorico e “Paul Cézanne” fu molto critico nei suoi confronti considerandola “un eccellente sottoprodotto” dell’Arte. Del resto il suo conservatorismo estetico era stato inflessibile di fronte ai nuovi movimenti artistici in Francia come l'Impressionismo, che incominciarono a gettare ombra sulla sua opera e molti consideravano la Bonheur troppo commerciale e caratterizzarono la sua incessante produzione su commissione come quella di una fabbrica, da cui sfornava dipinti privi di ispirazione pertanto i nuovi orientamenti del gusto la inquadravano nella categoria del ‘kitsch’.
Che sia a causa del diminuito gusto per il realismo dell’Ottocento o del suo status di donna o di una combinazione di queste due cause, Rosa Bonheur mantiene nella Storia dell’Arte più il profilo di una “donna pioniera” a cui guardare, che di una grande pittrice.
Rosa Bonheur, caduta in quel relativo oblio, è stata riscoperta alla fine degli anni Ottanta del Novecento grazie a una retrospettiva itinerante del 1997 partita da Bordeaux, giunta a Barbizon e infine a New York.
In ambito critico ritorna oggi la domanda sull’altalenante interesse per la carriera di Rosa Bonheur. Fu vera gloria?
La sua posizione artistica in realtà è anomala innanzi tutto perché la sua pittura si svolse lontano dalle correnti artistiche contemporanee, anche se rimase vicina ma comunque non inserita nella ‘scuola di Barbizon’ e nel ‘Realismo’ di cui fu un’artista atipica. In lei non ci fu alcuna ispirazione religiosa e spirituale come in ‘Millet’ e nessun orientamento politico come in ‘Daumier’ e in ‘Courbet’, realisti anche loro, ma profondamente impegnati nel dibattito politico.
La sua stessa scelta di nicchia, quella di rappresentare gli animali viventi, passata la ‘moda’ del momento, fece precipitare in picchiata l’interesse per la sua pittura dopo la sua morte. Rosa aveva scelto deliberatamente di rivolgersi all'anatomia del mondo animale, al paesaggio di sfondo e al grande formato, piuttosto che alle scene di genere o alle nature morte, e per questo rappresentò regolarmente gli animali domestici per i suoi ricchi clienti: si sforzò e riuscì a catturare la bellezza dei loro corpi, rivelati nei loro atteggiamenti e nel loro essere stesso, approfondì lo studio del loro mantello e dell'espressione trasmessa attraverso i loro occhi. Ma, tranne un pugno di opere pregevoli – e sono quelle nelle quali, non a caso, appare la figura umana –, esse avevano un valore solo e puramente decorativo e destinato solo agli appassionati del genere.
Eppure a guardare le onorificenze ufficiali sembrerebbe di no: medaglia di III classe nella sezione “Paesaggi e Animali” al ‘Salon’ del 1845, medaglia di I classe al ‘Salon’ del 1848, esenzione dei suoi dipinti dal giudizio della giuria di ammissione nel ‘Salon’ del 1853, membro onorario della ‘Pennsylvania Academy of Fine Arts’ e della ‘Società di Artisti Belgi’ nel 1863, “Cavaliere della Legion d'Onore”  su decreto nel consiglio dei ministri nel 1865, sempre nello stesso anno le fu assegnata la “Croce di San Carlos del Messico”, dall'imperatore Massimiliano e dall'imperatrice Carlotta, membro dell'”Accademia di Belle Arti” di Anversa nel 1868, “Commendatore dell'ordine reale d'Isabella” da parte di Alfonso XII di Spagna e sempre nello stesso anno le fu conferita la “Croce al merito” dell’”Ordine di Leopoldo” del Belgio nel 1880, membro onorario della “Reale Accademia degli Acquarellisti” di Londra nel 1885 e nello stesso anno croce al “Merito delle Belle Arti” di Sassonia-Coburgo-Gotha, “Ufficiale della Legion d'Onore” nel 1894 e la medaglia d'onore postuma della “Società degli artisti francesi” nel 1899.
Spesso ritorna la domanda sulla ragione per cui dopo essere rimasta così a lungo dimenticata e sconosciuta nel panorama artistico francese e ha conosciuto una rinascita di popolarità negli ultimi anni.
Diverse ragioni spiegano sia l’oblio sia la riscoperta.
Nella società esistono indubbi cambiamenti di mentalità che permettono di guardare in modo diverso Storia, Arte e Letteratura: ogni volta che un’epoca intraprende un processo di revisione su un’altra, rivede sì il passato, ma lo si fa sempre dall’ottica del presente. Il nostro presente è rivolto alla rivendicazione della parità di genere e in tal senso guardiamo con un occhio particolare le artiste. A questo si aggiunga che oggi il cambiamento climatico e le riflessioni ecologiche sono al centro delle nostre preoccupazioni e per questo risuona più forte la visione della Bonheur affascinata dalla natura, dagli esseri viventi, dagli animali, e si rimane affascinati dal suo modo di mostrarli nella loro individualità e bellezza.
Rispetto al Novecento poi, oggi è cambiato anche il nostro rapporto con la pittura. Se per un certo periodo Rosa Bonheur è stata eclissata dagli artisti d'avanguardia di cui lei non faceva parte questo è successo perché è stata sostanzialmente una pittrice figurativa, e troppo di nicchia anche nell’ambito del “Realismo”: questo ne decretò il successo durante la sua vita e l’oblio dopo la sua morte. Erano gli anni in cui si stavano formando le ‘avanguardie storiche’ che trasformarono lo scandalo in una potente macchina da guerra artistica e che condizionarono fortemente gli sviluppi dell’Arte del Novecento destrutturando la figura fino all’astrazione.
Oggi, rispetto al Novecento, si è verificato un rinnovato interesse per la più tranquillizzante e comprensibile Arte figurativa e questo ha fatto eco anche nella riscoperta dell’opera di Rosa Bonheur.
Altrettanto spesso ritorna la domanda sulla sua omosessualità. All'epoca la pittrice lo confutò recisamente, ma aveva forse una scelta?  E che importanza può avere oggi ancor più che ieri che viviamo in una società così liquida?
Rosa Bonheur è stata una donna che ha voluto la sua libertà e che non ha voluto dipendere dagli uomini e si è saputa prendere come ha voluto la sua libertà.
                                                    Massimo Capuozzo

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[1] Papà Duchesne era un personaggio immaginario della Rivoluzione francese rappresentativo dell'uomo del popolo sempre pronto a denunciare abusi e ingiustizie.

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