sabato 4 giugno 2011

Andrea Sperelli e Gabriele D’Annunzio: un’equazione da verificare. Di Giulio Villani

Ecco il ritratto di Andrea come D’Annunzio lo concepisce.
«Sotto il grigio diluvio democratico odierno, che molte belle cose' e rare som­merge miseramente, va anche a poco a poco scomparendo quella special classe di antica nobiltà italica, in cui era tenuta viva di generazione in generazione una certa tradizione familiare d'eletta cultura, d'eleganza e di arte.
A questa classe, ch'io chiamerei arcadica perché rese appunto il suo più alto splendore nell'amabile vita del XVIII secolo, appartenevano gli Sperelli. [ ... ]
Il conte Andrea Sperelli Fieschi d'Ugenta, unico erede, proseguiva la tradi­zione familiare. Egli era, in verità, l'ideale tipo del giovine signore italiano nel XIX secolo, il legittimo campione d'una stirpe di gentiluomini e di artisti eleganti, l'ultimo discendente d'una razza intellettuale.
Egli era, per così dire, tutto impregnato di arte. La sua adolescenza, nutrita di studii varii e profondi, parve prodigiosa. Egli alternò, fino a' venti anni, le lun­ghe letture coi lunghi viaggi in compagnia del padre e potè compiere la sua straordinaria educazione estetica sotto la cura paterna, senza restrizioni e constrizioni di pedagoghi. Dal padre appunto ebbe il gusto delle cose d'arte, il culto passionato della bellezza, il paradossale disprezzo de' pregiudizi, l'avidità del piacere.
Questo padre, cresciuto in mezzo agli estremi splendori della corte borboni­ca, sapeva largamente vivere; aveva una scienza profonda della vita voluttuaria e insieme una certa inclinazione byroniana al romanticismo fantastico. Lo stesso suo matrimonio era avvenuto in circostanze quasi tragiche, dopo una furiosa passione. Quindi egli aveva turbata e travagliata in tutti i modi la pace coniuga­le. Finalmente s'era diviso dalla moglie ed aveva sempre tenuto seco il figliuolo, viaggiando con lui per tutta l'Europa.
L'educazione d'Andrea era dunque, per così dire, viva, cioè fatta non tanto sui libri quanto in conspetto delle realtà umane. Lo spirito di lui non era soltanto corrotto dall'alta cultura ma anche dall'esperimento: e in lui la curiosità diveni­va più acuta come più si allargava la conoscenza. Fin dal principio egli fu prodi­go di sé; poiché la grande forza sensitiva, ond'egli era dotato, non si stancava mai di fornire tesori alle sue prodigalità. Ma l'espansione di quella sua forza era la distruzione in lui di un'altra forza, della forza morale, che il padre stesso non aveva ritegno a deprimere. Ed egli non si accorgeva che la sua vita era la ridu­zion progressiva delle sue facoltà, delle sue speranze, del suo piacere, quasi una progressiva rinunzia; e che il circolo gli si restringeva sempre più d'intorno, inesorabilmente sebben con lentezza.
Il padre gli aveva dato, tra le altre, questa massima fondamentale: «Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'artè Bisogna che la vita d'un uomo d'intelletto sia opera di lui. La superiorità vera è tutta qui».
Anche, il padre ammoniva: «Bisogna conservare ad ogni costo intiera la libertà, fin nell’ebrezza. La regola dell'uomo d'intelletto, eccola: “ Habere non haberi”.[ ... ]
Dopo la morte immatura del padre, egli si trovò solo, a ventun anno, signore d'una fortuna considerevole, distaccato dalla madre, in balia delle sue passioni e de' suoi gusti. Rimase quindici mesi in Inghilterra. La madre passò in seconde nozze, con un amante antico. Ed egli venne a Roma, per predilezione.
Roma era il suo grande amore: non la Roma dei Cesari ma la Roma dei Papi; non la Roma degli Archi, delle Terme, dei Fòri, ma la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese. Egli avrebbe dato tutto il Colosseo per la Villa Medici, il Campo Vaccino per la Piazza di Spagna, l'Arco di Tiro per la Fontanella delle Tartarughe. La magnificenza principesca dei Colonna, dei Doria, dei Barberini l'attraeva assai più della ruinata grandiosità imperiale. E il suo gran sogno era di possedere un palazzo incoronato da Michelangelo e istoriato dai Carracci, come quello, Farnese; una galleria piena di Raffaelli, di Tiziani, di Domenichini, come quella Borghese; una villa, come quella d'Alessandro Albani, dove i bussi pro­fondi, il granito rosso d'Oriente, il marmo bianco di Luni, le statue della Grecia, le pitture del Rinascimento, le memorie stesse del luogo componessero un incanto intorno a un qualche suo superbo amore. In casa della marchesa d'Ateleta sua cugina, sopra un albo di confessioni mondane, accanto alla domanda: «Che vorreste voi essere?» egli aveva scritto «Principe romano».
Giunto a Roma in sul finir di settembre del 1884, stabili il suo home nel palaz­zo Zuccari alla Trinità de' Monti, su quel dilettoso tepidario cattolico dove l'om­bra dell'obelisco di Pio VI segna la fuga delle Ore. Passò tutto il mese di ottobre tra le cure degli addobbi; poi, quando le stanze furono ornate e pronte, ebbe nella nuova casa alcuni giorni d'invincibile tristezza. Era una estate di San Mar­tino, una primavera de' morti, grave e soave, in cui Roma adagiavasi, tutta quan­ta d'oro come una città dell'Estremo Oriente, sotto un ciel quasi latteo, diafano come i cieli che si specchiano ne' mari australi.
Quel languore dell'aria e della luce, ove tutte le cose parevano quasi perdere la loro realità e divenire immateriali, mettevano nel giovine una prostrazione in­finita, un senso inesprimibile di scontento, di sconforto, di solitudine, di vacui­tà, di nostalgia. Il malessere vago proveniva forse anche dalla mutazione del cli­ma, delle abitudini, degli usi. L'anima converte in fenomeni psichici le impres­sioni dell'organismo mal definite, a quella guisa che il sogno trasforma secondo la sua natura gli incidenti del sonno.»
Andrea Sperelli è stato il più delle volte identificato come la semplice trasposizione letteraria di Gabriele D’Annunzio. Tuttavia la complessa vicenda di Andrea non è completamente sovrapponibile alla complessa figura del suo autore.
Nato nel 1863 a Pescara da un’agiata famiglia borghese, e qui la prima discrepanza, D’Annunzio studiò in una delle scuole più aristocratiche del tempo, il collegio Cicognini di Prato. Precocissimo, esordì nel 1879, sedicenne, con un libretto in versi, Primo vere, che suscitò clamore ed ottenne l’attenzione anche da parte dei letterati di fama fra cui lo stesso Carducci. Raggiunta la licenza liceale, a diciotto anni, si trasferì a Roma per frequentare l'università che comunque non portò mai a termine: durante i suoi anni romani D’Annunzio scrisse Il Piacere che pubblicò nel 1889. Il Piacere diventò l’espressione romanzata delle sue esperienze, sociali e sentimentali, ma ancora una volta si nota una differenza: Andrea Sperelli è, infatti, l’incarnazione di un primo ideale dannunziano, un po’ snobistico, ma sofferto ed infine, in parte, raggiunto; Sperelli è un uomo distinto di suo, che ha fascino e sa come usarlo, proprio come il suo autore la cui distinzione ed il cui fascino sono invece costruiti.
Gli anni romani sono, infatti, proprio quelli in cui D'Annunzio si crea la maschera dell'esteta, dell’individuo superiore dalla squisita sensibilità, che fugge inorridito dalla mediocrità borghese, rifugiandosi in un mondo di pura arte e che disprezza la morale corrente, accettando come regola di vita solo il bello e lo stile. Andrea diventa così il laboratorio di Gabriele: ricco, nobile, mondano, Andrea conduce una singolare esperienza di vita alla ricerca spasmodica «del godimento, dell'occasione, dell'attimo felice», e può essere, infatti, considerato uno dei manifesti dell’estetismo.
In tal senso Andrea diventa un personaggio esemplare per comprendere l'Estetismo, fondamentale componente dell'arte e della letteratura decadentista: le sue origini vanno rintracciate già con l'esaltazione romantica dell'artista e della capacità di quest’ultimo di rompere nei confronti della società e della cultura del momento, isolandosi dal contesto attraverso una sorta di straniamento. Più che movimento letterario o artistico preciso, l’estetismo è un atteggiamento ed una tendenza del gusto, che si diffuse in molti ambienti della letteratura e dell'arte europea nel secondo Ottocento che si manifestò come devozione alla bellezza e all'arte, ritenendo fondamentali e primari i valori estetici e riducendo in subordine ad essi tutti gli altri soprattutto quelli morali.
Nei valori estetici, l'intellettuale di questo periodo ravvisa un mezzo per distaccarsi sprezzantemente dalla massa, riconoscendo però in questo modo la sua condizione di isolamento e per questo è costretto a rifiutare tutto ciò che è banale, insignificante, meschino. L'Estetismo, inoltre, presenta come tratto ricorrente un continuo invito a godere della giovinezza fuggente, un edonismo nuovo in cui l'esaltazione del piacere è morbosamente collegata alla corruzione della decadenza e in cui la bellezza è intesa come manifestazione del genio, ma superiore, al contempo, al genio stesso.
Denominatore comune di tutte le opere di D’Annunzio è proprio la sua costante obbedienza all’estetismo. Per D’Annunzio, come per Wilde o Huysmans, l’estetismo è aspirazione ad un’esistenza d’eccezione, al vivere inimitabile, a fare della propria vita un’opera d’arte. Gli stessi altri aspetti della poetica dannunziana ne sembrano una geminazione. Si osservi, infatti, lo stesso mito del superuomo, molto presente nei personaggi dei suoi romanzi, rappresenta la sua forte volontà, il suo spirito attivo, aristocratico superiore: di solito si fa discendere la concezione del superuomo da Nietzsche, ma questo non è del tutto esatto perché D'Annunzio, trovò nel filosofo scrittore tedesco un maggiore chiarimento ai sentimenti di potenza, di piacere e di bellezza che già esistevano in lui nell’esteta Sperelli. L’estetismo è anche culto della sensazione, comunemente identificato nel vocabolario della critica dannunziana come sensismo, inteso come culto del corporeo e dell’istintivo, in senso irrazionale ed anticristiano e della sensazione D’Annunzio fa l’unico centro di conoscenza della realtà, degradando il sentimento che per i romantici rappresentava il desiderio di assoluto. Il sensismo tende infine a collocare la vita dell’uomo dentro la vita della natura in ciò che è comunemente definito il panismo.
Dall’estetismo si moltiplicano dunque come una sorta di scatole cinesi tutte le idee guida della poetica dannunziana e non solo, ma dall’estetismo dannunziano discende lo stesso programma del poeta che D’Annunzio concepisce come supremo–artefice, ovvero come colui che produce oggetti dell’arte, attraverso una lunga elaborazione tecnica, simile nel suo operare ad un fabbro. In nome dell’estetismo D’Annunzio concepisce l’arte come il prodotto di una mente superiore: egli definiva se stesso, infatti l’imaginifico, il creatore di immagini, attraverso suoni ricercati e parole preziose e rare. Ma l’imaginifico, non è solo abile sul piano tecnico-formale, ma sa anche colpire l’immaginazione del lettore con la riproduzione aggiornata dei miti del passato, come se fossero degli incantesimi, giochi illusionistici, effetti speciali che offrono ai lettori emozioni incontenibili. Il poeta-artefice è quindi un poeta-mago, ma è anche il poeta-tribuno: egli è, infatti, colui che sa toccare le corde di pochi lettori scelti e che sa piegare l’arte al dominio della folla.
Se l’idea del poeta-artefice sembra avvicinare D’Annunzio alla tradizione classica, egli, però se ne distacca per l’indifferenza che mostra rispetto ai messaggi ed ai contenuti, cui la poesia classica mirava in ultima istanza: l’unico messaggio è proprio l’assenza di messaggi, in quanto il fine dell’opera d’arte è d’imporre la propria bellezza, suscitando sensazioni nei lettori. L’opera non è significativa per le idee che trasmette, ma il suo significato è racchiuso nella forma.
In una società in via di industrializzazione dove la riduzione dell’analfabetismo e lo sviluppo dell’editoria esauriscono la figura tradizionale borghese dello scrittore e rendono possibile la lettura di massa, D’Annunzio si propone come un intellettuale di nuovo stampo, che sa dare al pubblico borghese, desideroso di nobilitarsi intellettualmente, modelli neoaristocratici, personaggi d’eccezione, amori raffinati, ambienti falso-antichi che i lettori non possono che ammirare. Da tutto questo nasce il dannunzianesimo, un fenomeno di costume che spianò la strada a scelte politiche forse insospettabili. Se esteriormente il poeta sembra disprezzare la folla, egli sa bene inserirsi nella neonata industria culturale: scrivendo egli stesso per i giornali alla moda, pubblicando con gli editori più importanti, non tralasciò neppure di aprirsi alla nuova avventura del cinema, fece stampare tirature meno pregiate e di prezzo accessibile, D’Annunzio diffuse presso il pubblico medio il suo verbo ed un modello aristocratico.
Al pari di D’Annunzio, Andrea Sperelli è il testimone che percorre il mondo aristocratico che è suo, ma di cui con la sua sensibilità intellettuale, che tende a distaccarsene nella contemplazione un poco ironica e crudele, avverte la fragilità, la precarietà, le manifestazioni ancora celate dalla rovina che vi incombe sopra: anche Andrea è un intellettuale, dilettante di genio, raffinato conoscitore e cultore delle diverse arti e soprattutto raro e prezioso poeta. Viaggiatore inquieto fra corse di cavalli, duelli, amori, incontri mondani, adulteri, seduzioni, viltà ed eleganze, che si consumano nello scenario prestigioso delle vie di Roma e dei palazzi nobiliari.
Diversamente da D’Annunzio, Sperelli è però libero da vincoli coniugali e da obblighi familiari. Ha facile accesso ai riti mondani, ai salotti ed ai ricevimenti: ma Sperelli è uno spettatore tollerato, mentre D’Annunzio è un cronista. Per il resto comunque i due personaggi si somigliano in tutto. Tuttavia D’Annunzio prese una posizione antagonista rispetto al suo Sperelli: già nel romanzo non mancano le critiche negative ed in una lettera all’editore Treves lo definisce un libro pieno d’un’alta moralità, e Sperelli diviene un mostro sul piano morale. Di fatto Sperelli, quel giovin signore del XIX secolo corrotto e sensuale e debole assai, moralmente parlando, diviene nel corso del romanzo sempre più cinico e perverso.
Con la descrizione di tutte le presunte mostruosità di Andrea, D’Annunzio finisce paradossalmente per ingigantire e quindi per nobilitare se non addirittura legittimare il suo egoismo, la sua sensualità, il suo estetismo ed il suo cinismo. Così, a furia di insistere nella descrizione, Il Piacere finisce per diventare un autentico monumento celebrativo ed autocelebrativo.
Proprio nell’ambiguità che caratterizza il protagonista risiede il suo fascino permanente di eroe negativo, letterariamente poco identificabile analizzabile: Andrea rimane sempre in bilico tra il tipo del vinto, caro ai veristi, e quello dell’inetto, destinato a trionfare nei decenni successivi, ed ancora, incarnazione di quel superuomo, caratteristico dei successivi romanzi dannunziani. In seguito D’Annunzio forgiò altri protagonisti, tutti più o meno simili a lui, ma nessuno mai ricco e vivo come Andrea; ricco e vivo proprio come lo era il suo giovane autore, caratterizzato dall’ingenuità propria del dandy ancora alle prime armi, e dalle sue contraddizioni: cinico, falso e immorale, ma anche sentimentale e sensibile, egoista e sensuale, aguzzino e vittima, capace di fare il male, ma anche di lasciarsi sedurre dal fascino dei suoi stessi inganni con cui tentava di mascherare la propria miseria morale.
Anche il dandy è una figura tipica dell’estetismo, riconducibile e due forme diverse: la vita come piacere e la vita come bellezza. L'una e l'altra richiedono tuttavia una sensibilità raffinata e molto acuta, ma proprio le sensazioni più complicate sono quelle migliori. Alla bellezza, per essere tale, è necessario il vizio, il ripugnante, l’orrido. Amare la vita significa renderla unica, perfetta, sovrumana, fino all’esasperazione delle perversioni sadiche che procurano l’estremo e crudele piacere. Per l’edonista il piacere estetico e quello sensuale sono la realizzazione dell’uomo, ma pochi individui sono capaci di raggiungere l'ideale. Esteta non è colui che gode semplicemente delle situazioni della vita, ma chi è in continua ricerca di sensazioni ed esperienze nuove: egli s'innamora di tutto ciò che passa e non dura, ed è proprio il passare di quel di cui s’innamora che gli garantisce la sua libertà.
Sperelli è definito dallo scrittore stesso un dilettante, in quanto si illude di sentirsi immerso nelle cose mentre ne resta sostanzialmente fuori. La sua malattia è l'artificio: egli è «chimerico, incoerente, inconsistente», tende ad assecondare la sua natura sofistica, «camaleontica, mutabile, fluida»; ad essere a suo agio solo in un sottile tessuto di finzioni e perciò ad escludersi dal commercio di sentimenti autentici. Si butta nella vita come «in una grande avventura senza scopo» e si compiace di avere come legge fondamentale la mutabilità. Il suo essere morale è fatto di contraddizioni: «la semplicità e la spontaneità» gli sfuggono. Ultimo erede di un'antica razza di intellettuali, affina la sua educazione estetica dedicandosi al «culto appassionato della bellezza», conduce la propria esistenza all'insegna della massima: "Bisogna fare la propria vita, come si fa un'opera d'arte".
Andrea Sperelli trascorre i suoi giorni sullo sfondo della Roma umbertina e aristocratica, la stessa Roma in cui D'Annunzio matura la sua prima stagione artistica e dà alla letteratura e al costume italiano un modello di personaggio che diverrà di moda.
È preso fra i due opposti amori per la sensuale Elena Muti e per la spirituale Maria Ferres, che rappresenta, contro la pretesa totalizzante del «piacere», l'esperienza dell'arte e della poesia che si fa rapporto amoroso per consonanza perfetta di gusti e di elevazioni dello spirito. Ma in lui finisce per prevalere la passione dei sensi: nella prima notte d'amore con Maria, ad Andrea sfugge il nome di Elena proprio nel rivolgersi a Maria. La vocazione dello spirito e dell'arte è vinta dall'erotismo e la classe aristocratica rivela, allora, le crepe che ormai la feriscono a fondo, dal momento che essa è ormai tanto dedita al piacere dei sensi da non essere più in grado di servire alla bellezza e all'arte e di godere del piacere dello spirito.
Questa disillusione è vista nelle ultime pagine del romanzo Andrea partecipa all'asta in mezzo ai mercanti e usurai che si precipitano sui cadaveri squisiti dell'aristocrazia. Andrea, finita l'asta, percorre le stanze del palazzo ormai desolatamente e squallidamente vuote, con un fondo di disperazione nell'animo che coincide con il fallimento della propria vita amorosa. Sperelli non ottiene ciò cui aspira, ma neppure riesce a nascondersi l'imminenza della fine della sua classe e, con essa, della bellezza, di ogni bellezza della vita come dell'arte.
Giulio Villani

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