mercoledì 5 agosto 2009

Il diritto: una chiave di interpretazione del conflitto ideologico fra occidente laico ed oriente islamico di Emilio Cascone

Nei primi anni del terzo millennio, parlare del diritto-religione dell’Islam, tra scontri caratterizzati proprio dalla visione del diritto, che non è sicuramente semplice, ma è proprio questo che spinge a parlarne per cercare di comprendere modi di essere, di relazionarsi, in una sola parola di vivere.
Parlavo di diritto-religione dell’Islam, infatti, per quei paesi non si è mai verificato il distacco tra diritto e religione e dunque tra peccato, inteso quale offesa alle divinità, e devianza, intesa quale non osservanza della norma giuridica che ha caratterizzato invece tutti i moderni ordinamenti giuridici occidentali.
Proprio questa differenza, molto probabilmente, è ciò che rende poco comprensibile le diversificazioni tra modi diversi di concepire il diritto tra occidentali e islamici, ognuno dei quali conosce in parte il proprio ordinamento e molto poco e talvolta solo ciò che ha sentito dire in televisione dell’altro.
Tutti gli ordinamenti occidentali, come dicevo, sono caratterizzati da una visione laica del diritto, da un netto distacco, quindi, tra ordinamento giuridico e confessionalità; ulteriori differenze, tra gli stessi paesi occidentali vengono poi a galla tra i sistemi basati sul common law, fondamentalmente americani ed inglesi, ed i sistemi basati sul civil law dei restanti paesi occidentali.
Non mi prolungo più di tanto sui sistemi giuridici occidentali in quanto scopo principale di questo articolo vuole essere quello di cercare, in qualche modo, di capire dinamiche e caratterizzazioni del diritto islamico.
Il diritto islamico, ha una storia che inizia nel VII secolo d.C, infatti un arabo, Maometto, predicò una dottrina religiosa contenuta in un testo scritto, il Corano, da lui composto per ispirazione dell’Arcangelo Michael.
Tale testo presentava precetti da seguire riguardanti la vita familiare, la preghiera, il digiuno ed altro, comunemente definiti shari’ah.
Secondo i musulmani, la shari’ah, è la legge di Dio e, siccome racchiude in sé tutti i doveri religiosi che Dio richiede ai fedeli, essa è unica e inderogabile. Questo è il primo elemento di contrasto con i paesi occidentali che rivendicano al diritto il suo essere armonico e in continua evoluzione con l’evolversi dei tempi e soprattutto la sua laicità.
La shari’ah, dove vige, non può affiancarsi ad altro tipo di ordinamento giuridico: il diritto islamico è infatti tutto codificato al suo interno, tanto da non consentire altri eventuali ordinamenti. La mancata differenziazione tra fede e diritto è il secondo fondamentale elemento di contrasto con i sistemi giuridici occidentali.
Considerando la shari'ah l’insieme del diritto islamico, le sue fonti sono il Corano e la Sunna. Il Corano è una rivelazione divina: ciascuna parola in esso contenuta proviene da Allah. La Sunna è la raccolta delle istruzioni date dall'ultimo Profeta e delle sue memorie, dei suoi atti, dei suoi detti, dei suoi silenzi, come furono tramandate dai testimoni della sua vita o da coloro che ricevettero le notizie dai compagni della sua vita.
Questi testi, dopo aver subito un processo di verifica della loro autenticità, furono compilati in forma di libri, tra i quali le raccolte compilate da Malik, al Bukhari, Muslim, Tirmidhi, Abu Dawud, Nasa'i e Ibn Majah sono considerate le più autentiche.
Dunque si può dire che la shari’ah è la legge di Dio, data agli uomini per regolarne la condotta: al suo interno essa contiene regole che trattano della comunità islamica, del rapporto fra il mussulmano e l’infedele, dell’uomo e della donna, della famiglia, delle successioni, delle relazioni patrimoniali, del diritto penale, del giudice e delle modalità di giudizio e… di tanti altri istituti che noi occidentali definiamo giuridicamente l’ordinamento.
Il faqihil è chiamato ad interpretare la shari’ah ed il suo prodotto interpretativo è chiamato fiqh.
Tra i più importanti fiqh si annoverano: il Corano, composto da 114 capitoli o sure, suddivisi in 6200 versetti, dei quali 500 dedicati al diritto che è il diritto di tutto l’islam; il secondo fiqh è l’opera interpretativa del faqih, la sua condotta è definita sunna e deve essere necessariamente perfetta in quanto il faqih è ispirato da Dio; il terzo fiqh è relativo al giudizio che la comunità islamica, definita Umma, dà all’interpretazione del faqih; molto importante è la valenza da dare all’analogia, definita qiyas, in quanto non si sa dove voglia estendersi la volontà di Dio.
La complessa legislazione proveniente dal Corano e dalla Sunna è stata compilata da alcuni dei più eminenti fuqaha’ o giurisperiti del passato. Inizialmente molti sapienti che si dedicarono a questo compito per cui, oggi, si possono distinguere quattro scuole di fiqh, che costituiscono la giurisprudenza islamica: al fiqh al-hanafi il cui fiqh è diffuso soprattutto in Turchia, Pakistan, Bharat in India, Afghanistan, Giordania, Indocina e nelle repubbliche islamiche ex sovietiche; al fiqh al-maliki il cui fiqh è diffuso in Marocco, Algeria, Tunisia, Sudan, Kuwait, Bahrain e nell’Africa Nera; al fiqh ash-shafi il cui fiqh è osservato soprattutto in Siria, Palestina, Libano, Egitto, Iraq, Yemen, Indonesia, Sud dell’India; infine al fiqh al-hanbàli il cui fiqh è diffuso in Arabia Saudita, Libano ecc.
Queste scuole di fiqh furono stabilite nella forma che conservano ancor oggi nei due secoli che seguirono alla morte di Maometto. Le differenze tra queste quattro Scuole, derivano dal fatto che una stessa realtà si può osservare da angolazioni diverse. L’autenticità che viene accordata a queste quattro differenti scuole è l'integrità dei loro rispettivi fondatori e dei metodi che essi adottarono. Per questo tutti i musulmani, a qualunque scuola appartengano, considerano queste quattro scuole come corrette e vere. Sebbene l’autenticità di queste quattro scuole non sia messa in dubbio non se ne può seguire che una nel corso della vita.
Oltre a questi importanti fiqh ci sono altri due elementi da tenere in considerazione: l’istislah che da un lato rappresenta la certezza, l’utilità ed il bisogno concreto della regola di diritto e dall’altro rappresenta il principio di equità.
Come dicevo poco prima, la dottrina del diritto islamico, laddove vige, ha avuto modo di estendersi molto profondamente in quanto non ha trovato concorrenti in un legislatore umano o, quanto meno, in una giurisprudenza che si potesse ad essa contrapporre: inoltre il giudice islamico non motiva il tenore della propria sentenza, in quanto non è tenuto a farlo e ciò lo libera dal peso di dover rendere noto perché abbia scelto quella regola o meno.
La dottrina musulmana ha avuto diverse interpretazioni, sulla base delle diverse scuole che si sono formate al riguardo: la scuola sunnita, sciita, kharigita.
La scuola sciita, a sua volta, si distingue tra zayditi, i duodecimani ed i settimani.
Queste diverse interpretazioni si distinguono per alcuni elementi dottrinali, come il valore da assegnare alla sunna come le modalità di elezione del califfo e le sue prerogative.
Ogni scuola fa capo ad un unico maestro. Fra queste scuole si distingue quella hanafita che è indubbiamente la più seguita, la scuola malikita, la scuola hanbalita e la scuola sciafiita.
Ognuno può decidere di aderire ad una determinata scuola, anche se può cambiare indirizzo; in particolare la legge può imporre al giudice, in casi particolari, di applicare la dottrina di una scuola diversa rispetto a quella che di solito trova applicazione nel paese.
Tutta la popolazione islamica è riunita nella umma: la umma risale alla costituzione della comunità di Medina nel 623, quando sotto la guida di Maometto, alcuni fedeli musulmani, tribù e clan ebraici formarono una comunità politica finalizzata alla reciproca protezione ed alla solidarietà. Attraverso la rottura con l'ebraismo operata dal Profeta, la umma divenne la comunità esclusiva dei fedeli musulmani, tra loro legati da vincoli religiosi: essi riconoscono come propria guida solo Allah, assoggettandosi alla sua legge ossia alla suprema comunità; al vertice della stessa sta l’Imam. Nella religione islamica, il termine si applica ad 'Ali ibn Abi Talib fino al dodicesimo discendente che, misteriosamente scomparso, ricomparirà trionfante alla fine dei tempi. Detto anche Califfo, ossia il vicario di Maometto (secondo gli sciiti il Califfo è in stretto contatto con la divinità, tanto da essere infallibile, questa concezione è avversata dal resto della comunità islamica, che è sunnita).
Il Califfo deve essere scelto dal suo predecessore oppure può essere eletto dal popolo tra un musulmano pubere sano, maschio e moralmente irreprensibile; il Califfo, una volta salito in carica, si assume il rispetto di tutti i doveri religiosi, tenuto conto che il mancato rispetto comporta la decadenza dall’incarico.
Il Califfo nomina tutti i suoi sottoposti, specialmente i giudici, definiti qadi, ed emana ordini cui si deve totale obbedienza.
Il rispetto della religione islamica è dovuto a tutti, pena il ricorso alla guerra santa, definita gihad la quale è necessaria per ridurre alla verità religiosa gli infedeli. Essa deve essere condotta solo in casi di estrema ribellione degli infedeli e deve essere condotta in modo corretto, tanto che vanno rispettate le vite di vecchi, donne e bambini. Il combattimento non può iniziare prima di mezzogiorno e può cessare solo quando sia provata la superiorità del nemico.
I pieni diritti politici competono solo al musulmano, mentre si attua un regime di tolleranza per coloro che credono nel vero Dio pur non essendo musulmani: essi sono i cristiani e gli ebrei i quali godono della protezione islamica, una volta ridotti in fedeltà, a seguito del pagamento di una speciale imposta. Coloro che sono considerati fuori da Dio, ossia gli atei, i politeisti, gli idolatri saranno sottoposti alla guerra santa e, nel corso della stessa, saranno uccisi o ridotti in schiavitù.
Un'altra importante considerazione nel diritto islamico è quella che attiene alla distinzione tra l'uomo e la donna. Quest'ultima è considerata come una figura subalterna all'uomo, bisognosa di protezione i cui diritti sono essenzialmente quelli al matrimonio ed al mantenimento.
Oltre ad una certa subordinazione all'uomo, la donna è discriminata anche per ciò che attiene al caso della sua uccisione poiché la sua vita vale la metà di quella dell'uomo: anche nel caso in cui sia chiamata a testimoniare, la sua testimonianza vale la metà di quella dell'uomo.
La composizione della famiglia si basa sulla autorità del padre-marito.
Il matrimonio è un accordo che intercorre tra una parte e l'altra: la controparte può essere determinata dal wali, ossia l'uomo che ha il potere sulla donna (dunque il padre, generalmente), oppure può essere assunto dalla donna stessa la cui volontà è integrata dal consenso del wali.
La legge islamica disciplina il concubinato tra il padrone e la schiava se da esso nascono figli ed inoltre tollera per l'uomo fino a 4 matrimoni. L'uomo può mettere fine al proprio matrimonio in qualsiasi circostanza, mediante la pratica del ripudio. I beni sono separati tra i due coniugi e la sposa può amministrare autonomamente i propri, ma deve richiedere l'autorizzazione dell'uomo per effettuare donazioni.
Per ciò che attiene alla successione, ad essa sono chiamati gli eredi coranici, ossia i non agnati, come i fratelli uterini, gli ascendenti e i vedovi, nonché gli agnati quali figli e fratelli, secondo un grado differente di successione. Generalmente alla figlia spetta la metà di ciò che sia toccato al figlio.
Nel diritto islamico ha particolare importanza la proprietà individuale; in particolare il diritto islamico distingue tra capitale, detto raqaba ed il reddito, detto manfa'a. Oltre ai diritti di proprietà esistono poi diritti personali e diritti che fanno conseguire determinate utilità: si riconosce infatti una particolare modalità di destinazione del bene oggetto di proprietà attraverso la destinazione al waqf, ossia a fondazioni pie o a persone che perseguono scopi elevati di ordine morale.
Tra le manifestazioni di volontà più compiute spicca, nel diritto islamico, il contratto, definito aqd; per il contratto liberale è necessaria la consegna materiale della cosa. Sul danneggiante sorge l’obbligazione al risarcimento dei danni in caso di commissione di fatti illeciti.
Nell'ambito del diritto penale va distinta la possibilità di comminare tre tipi di pene: la pena del taglione, le pene coraniche e le pene inflitte dalla decisione giudiziale.
La pena del taglione può essere evitata mediante composizione, ossia il pagamento di una somma di denaro, definita diya, ossia prezzo del sangue, attraverso la quale si compensa il torto arrecato; essa sarà misurata sulla base del valore personale assunto dalla persona vittima dell’omicidio, e dovrà essere corrisposta dall'omicida e dai suoi familiari.
Le pene coraniche, quali la morte o la fustigazione, sono inflitte nei casi di abuso di alcool o di fumo, per i rapporti extraconiugali illeciti o per l’accusa di rapporto extraconiugale illecito.
Le pene inflitte dal giudice nei casi di falsa testimonianza o falsificazione di documenti sono dati mediante la reclusione ed anche la fustigazione.
Il giudice, definito qadi è nominato su delega del Califfo e dirime le controversie tra i musulmani e, solo raramente, si occupa di casi che coinvolgono gli infedeli. Il qadi è un giudice monocratico che può circondarsi di esperti giuristi e può altresì delegare altri giudici. La sua sentenza, oltre a non essere motivata, obbligo cui non è tenuto, è inappellabile, è esecutiva e, pur potendo essere modificata nel corso del tempo, non può essere passata in giudicato.
Integrata alla shari’ah è la siyasa, ossia tutto ciò che è imposto nel mondo islamico da un soggetto dotato di autorità che pone regole non in contrasto con la shari’ah.
La siyasa è una fonte di diritto pubblico volta a tutelare gli interessi dell'assetto governativo e mantenere un certo ordine sociale che non è comunque in contrapposizione con le caratteristiche della shari’ah. Tale diritto è generalmente considerato di competenza del qadi che sembra avere la possibilità di rimodellare il diritto islamico tramite un maggior influsso dello Stato nella vita politica e giuridica e di avvicinare il diritto islamico a modelli dottrinali di stampo occidentale.
Accanto alla shari’ah è possibile considerare la presenza della consuetudine, posto che la stessa non collida con i precetti della shari’ah: quando il diritto islamico si diffonde in un nuovo Stato non è infatti detto che esso abbatta immediatamente la dottrina inizialmente dominante in quel territorio, ma spesso convive almeno inizialmente con le consuetudini locali.
Va inoltre ricordato che la regola della shari’ah, specialmente quando pone un divieto può spesso essere derogata tramite il ricorso ad uno stratagemma giuridico: in questo modo, ad esempio, è stata abbattuta la poligamia, almeno in via pratica.
All'interno dello stesso diritto islamico è possibile ravvisare delle incongruenze ad esempio la maggior parte dell'Islam ripudia la venerazione dei santi, eppure alcuni soggetti, nati da profeti, sprigionano attorno a sé un'aura di pace e di santità che lirende meritevoli del culto dei santi o anche solo di riunire attorno a sé un gruppo di confratelli che si occupano di adorare un santo.
Un ulteriore esempio di contraddizione si riscontra nel diritto di famiglia: l'Islam ammette la pratica poligamica, eppure nella pratica molte etnie la rifiutano oppure stabiliscono che le diverse mogli di un unico uomo non vivano insieme.
Molto spesso poi la consuetudine può introdursi nella shari’ah, corrodendone i significati più profondi e facendo credere al musulmano meno accorto che ciò che essa dice provenga dalla Rivelazione divina. Per ovviare a questi problemi sono stati avviati processi di purgazione della shari’ah, in modo da farle riacquistare l'originaria purezza.
Si è pensato inoltre di riaprire la porta dell'interpretazione, ma la Comunità islamica non può non rifiutare questo atteggiamento, anche se ciò riporterebbe il dibattito sull'eventualità di aver creduto per secoli in verità dottrinali che in realtà erano errate.
Nel diritto islamico, il legislatore assume un'importanza capitale se si pensa che egli ha la possibilità di orientare l'operato del giudice, indicando quale dottrina adoperare, in che modo attuare la legge,ecc. L'influsso del legislatore è ancora più forte se si pensa che sono state istituite su tutti i territori islamici corti di appello e di cassazione a dimostrazione della volontà di rivedere le sentenze dei giudici che spesso possono farsi sostituire da collegi giudicanti. Si è sempre espresso fondamentalmente il divieto del legislatore a modificare mediante la trascrizione il testo della shari’ah e delle sue leggi: la codificazione scritta della shari’ah ha voluto in realtà significare solo la possibilità di apportare delle modifiche necessarie e importanti alla lettera del testo, senza stravolgerne in alcun modo i precetti ed i contenuti. La massiccia opera di codificazione cui anche la dottrina islamica si è avviata, apre chiaramente le porte alla tradizione del diritto occidentale come mostra l’esempio della Micelle turca, un codice civile e di procedura civile chiaramente ispirato al codice francese.
D'altro canto la lettura della shari’ah è piuttosto lacunosa e dunque necessita assolutamente dell’integrazione apportata dal legislatore laico il quale ha così operato in modo profondo una sorta di laicizzazione del diritto islamico. I paesi che hanno aderito a questa nuova concezione del diritto sono essenzialmente la Turchia ed altri paesi che vi si sono attenuti, seppur in forma mediana. Altro fattore di laicizzazione è costituito dal qadi il quale di norma è un giudice sacro che si basa sui precetti indicatigli da Dio e che fa assolutamente la volontà di Dio. Attualmente si è verificata una tendenza sempre più accentuata ad assumere giudici laici che conoscono più o meno profondamente la shari’ah, ma che comunque la applicano secondo criteri altamente razionalizzanti e dunque deformanti dei canoni preesistenti di tipo sacrale.
Arrivati a questo punto spero che sia riuscito a dare almeno in parte un’idea del diritto islamico. Certo comporta in alcuni casi disparità di trattamento tra uomo e donna, in altri casi non è chiaro nel definire le modalità di infliggere la pena e sicuro non lascia ai cittadini libertà che per noi occidentali sono scontate.
Ma, se consideriamo che i popoli islamici sentono quella forma di diritto come sacra in quanto collegata direttamente alla vita religiosa viene da chiedersi se sia giusto privare questi popoli delle loro radici in nome di una democrazia che forse democrazia non è, soprattutto quando tenta di imporre un modello o uno stile di vita diverso dal proprio in nome di una pretesa globalizzazione a chi è diverso da sempre.
Se aggiungiamo poi che la storia ci insegna che ogni popolo è la diretta espressione dei suoi antenati, come si può tentare di imporre qualcosa che non sia la diretta e spontanea emanazione della volontà popolare? E che cosa dire dell’ottocentesco, ma non ancora superato principio di autodeterminazione dei popoli?
Emilio Cascone

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