domenica 21 febbraio 2010

Il distacco del poeta: Eugenio Montale ed Ossi di Seppia di Massimo Capuozzo

I limoni da Ossi di seppia[1]
All’inizio degli Ossi di seppia, questa poesia costituisce nel contenuto, nel linguaggio e nei modi stilisticiche lo sottendono, la prima messa a punto di una poetica “in fieri”, con caratteri già ben delineati. In questo senso la polemica contro i poeti laureati, con quella sua ambivalenza di toni e di concetti tra l’uso compiaciuto di una terminologia rara e preziosa e il rifiuto di una simile maniera di poetare, si presenta con il doppio valore di scelta letteraria e di indicazione biografica precisa.
Nel rifiutare la predilezione dei luoghi comuni della poesia aulica è contenuto il rifiuto di ogni aulicità.
Così anche i residui crepuscolari e dannunziani ancora avvertibili nel linguaggio (nel profumo che dilaga / quando il giorno più languisce, rami amici, dolcezza inquieta) sono poi riscattati e capovolti nella ricerca di una verità, di una dimensione umana nuova che penetri il segreto delle cose e liberi l’individuo dall’oppressione e dal soffocamento che lo minacciano nelle città rumorose dove l’azzurro si mostra soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.


Ascoltami, i poeti laureati
si muovono soltanto fra le piante
dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.
Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi
fossi dove in pozzanghere
mezzo seccate agguantano i ragazzi
qualche sparuta anguilla:
le viuzze che seguono i ciglioni
,discendono tra i ciuffi delle canne
e mettono negli orti, tra gli alberi dei limoni.
Meglio se le gazzarre degli uccelli
si spengono inghiottite dall’azzurro:
più chiaro si ascolta il sussurro
dei rami amici nell’aria che quasi non si muove,
e i sensi di quest’odoreche non sa staccarsi da terra
e piove in petto una dolcezza inquieta.
Qui delle divertite passioniper miracolo tace la guerra,
qui tocca anche a noi poveri la nostra parte di ricchezza
ed é l’odore dei limoni.
Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s’abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspettadi scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l’ anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità
Lo sguardo fruga d’ intorno,
la mente indaga accorda disunisce
nel profumo che dilaga
quando il giorno più languisce.
Sono i silenzi in cui si vede
in ogni ombra umana che si allontana
qualche disturbata Divinità
Ma l’ illusione manca e ci riporta il tempo
nelle città rumorose dove l’ azzurro si mostra
soltanto a pezzi, in alto, tra le cimase.
La pioggia stanca la terra, di poi; s’ affolta
il tedio dell’ inverno sulle case,
la luce si fa avara - amara l’ anima.
Quando un giorno da un malchiuso portone
tra gli alberi di una corteci si mostrano i gialli dei limoni;
e il gelo del cuore si sfa,
e in petto ci scrosciano
le loro canzoni
le trombe d’ oro della solarità.

Meriggiare pallido e assorto
Nata nel 1916, questa poesia appartiene cronologicamente alla preistoria di Montale, pur contenendo già in sé tutti gli elementi della maturità del poeta: dal paesaggio basato sulla precisa osservazione degli aspetti naturali e sulla ricezione dei suoni, alla lingua che gioca sull’intreccio delle assonanze e sull’onomatopea, alla precisa allusività dei simboli. Si delinea così l’ambiente arido dell’uomo, fatto sguardo stupito e pietrificato. Ma la petrosìtà, appunto, non è tanto una questione di contenuto, la petrosità è piuttosto un fatto di stile, di fulminea ed essenziale sintassi, quell”arte di incidere le parole come pietre dure, secondo ha suggerito qualcuno”

Meriggiare pallido e assorto
presso un rovente muro d’ orto,
ascoltare tra i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse formiche
ch’ ora si rompono ed ora s’ intrecciano
a sommo di minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire con triste meraviglia
com’ é tutta la vita e il suo travaglio
in questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia.

Spesso il male di vivere ho incontrato
Questo testo può essere indicato come esemplare della poetica montaliana del correlativo oggettivo, cioè del rapporto che la parola stabilisce con gli oggetti da essa nominati.
Il primo verso introduce, con un’espressione divenuta proverbiale (“male di vivere”), il male connaturato alla vita, secondo una concezione d’ascendenza leopardiana. Il movimento va dal soggetto alla realtà, dall’astratto al concreto: il poeta usa infatti un verbo (“ho incontrato”) che materializza il concetto, personificandolo, cioè presentandolo quasi come una presenza reale e fisicamente tangibile.
Nella seconda quartina, in opposizione al “male di vivere” che si manifesta negli aspetti più comuni della natura, Montale afferma (ma senza condividere tale soluzione) che l’unico “bene” per l’uomo consiste nell’atteggiamento di “indifferenza” per tutto ciò che è segnato dal male e dal dolore. E tale “indifferenza” è detta “divina” perché è propria della divinità nella concezione stoica. l’apatheia, l’apatia, è propriamente l’indifferenza e addirittura il disprezzo delle emozioni, il distacco dal mondo. Perciò essa “schiude” (cioè permette, procura) il “prodigio” (il miracolo) dell’unico “bene” concesso all’uomo.
Diverse, nelle tre immagini, sono le modalità dell’”indifferenza”, in cui parrebbe (ma senz’altro no per Montale) consistere l’unico scampo al “male di vivere”: la statua si caratterizza per la sua fredda, marmorea insensibilità; la nuvola e il falco perché si levano alti al di sopra della miseria del mondo.


Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Non chiederci la parola
È senza dubbio una delle poesie più celebri di Montale. Si tratta del testo - scritto nel 1923 - che apre Ossi di seppia, e contiene alcune idee essenziali per capire la concezione della poesia e del ruolo del poeta secondo Montale.
L’autore si rivolge direttamente al lettore - o meglio, a quel lettore che esige dai poeti verità assolute e definitive - invitandolo a non chiedergli alcuna rivelazione, né su stesso né sull’uomo in genere, e nemmeno sul significato del mondo e della vita. Egli infatti, a differenza dell’uomo “che se ne va sicuro” perché ignaro ed insieme incurante del senso della propria esistenza, non ha alcuna “formula” risolutiva, ma solo dubbi e incertezze, o al più una conoscenza fondata sul contrasto: l’ultimo verso, infatti, è divenuto proverbiale e viene spesso citato da chi rifiuta di presentarsi come depositario di facili verità.


Non chiederci la parola che squadri da ogni lato l’animo nostro informe, e a lettere di fuoco lo dichiari e risplenda come un croco perduto in mezzo a un polveroso prato. Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro! Non domandarci la formula che mondi possa aprirti, sì qualche storta sillaba e secca come un ramo. Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
NOTE
[1] Ossi di seppia - Nel 1925, in un momento carico di minacciosi eventi storici, in un mondo che pare sul punto di sgretolarsi e dissolversi, Montale firma il manifesto antifascista di Croce e pubblica il suo primo libro Ossi di seppia.
Diversamente da quanto accade nell'opera di altri scrittori deboli tracce rimangono della storia, della guerra, nella sua lirica. Pur senza estraniarsi dal suo tempo, Montale vuole che argomento della sua poesia sia «la condizione umana in sé considerata». E materia della sua ispirazione diviene la disarmonia che l'uomo sente con la realtà naturale e storica che lo circonda.
In piena sintonia con la voce, disorientata ed angosciata dall'inettitudine della vita, della moderna cultura italiana ed europea (da Svevo a Pirandello), la sua poesia tenta di rompere «la campana di vetro» sotto cui vive il mondo, di spezzare quell'ingannevole schermo di apparenza che quotidianamente nasconde la realtà e di entrare in rapporto con l'essenza delle cose.
In questa raccolta, il poeta si immerge nell'aspro e brullo paesaggio ligure, sentito come specchio dell'accartocciata e strozzata condizione umana, e con perplessa e «triste meraviglia», ignorando l'eroica e disperata rivolta di Leopardi, critica, corrode, ma soprattutto interroga «il male di vivere» facendo parlare gli oggetti, non più le parole.
Montale, diversamente da Ungaretti e dagli ermetici, non ricerca una parola pura e naturale e non cerca di estrarre dal linguaggio misteri e segreti nuovi; ma accostandosi alla poetica del «correlativo oggettivo», cattura gli oggetti banali, quotidiani, usuali, e li trasforma non in simboli che rimandano a qualcosa d'altro, ma in emblematici equivalenti di un'emozione, di un'intuizione, di una condizione.
La poesia per Montale, infatti, «nasce dal cozzo della ragione contro qualcosa che non è ragione». Così, in Ossi di seppia, a ogni passo lo sguardo del poeta «fruga d'intorno» ricercando nella realtà concreta, opaca e amara, immobile e fissa, «in questo seguitare una muraglia / che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia» che è la vita, «uno sbaglio di Natura, /… l'anello che non tiene, / il filo da disbrogliare che finalmente ci metta / nel mezzo di una verità». Qualunque cosa, la più assurda imprevista e banale, il profumo dei limoni, un volto che appare all'improvviso in uno specchio d'acqua, può miracolosamente far «balzar fuori» il segreto ultimo, più autentico e profondo dell'esistenza.
Montale, tuttavia, pienamente consapevole dei limiti storici e morali della civiltà contemporanea, dopo il crollo di tutte le verità e certezze positive, sente di appartenere alla «razza di chi rimane a terra». Rifiuta, quindi, la poesia trionfalistica e celebrativa dei «poeti laureati» Carducci e D'Annunzio, e ogni facile ottimismo consolatorio. Torcendo il collo all'eloquenza, attraverso un linguaggio in cui l'aulico cozza con il prosastico, Montale offre al lettore come unico messaggio: «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo».
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1 commento:

  1. REGA LUCIA

    Tra le tante poesie,quella che mi ha colpito di più è stata sicuramente "s'i fossi foco" di Cecco Angiolieri . La scelta di questa poesia è stata fatta perchè alcuni aspetti rispecchiano ciò che penso e mi hanno colpito molto...!

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