giovedì 30 giugno 2016

Francesco Hayez fra Romanticismo e Risorgimento di Alfonso Iovino, Mario Coppola, Ciro De Rosa, Peppe Esposito, Mario Ruocco

La polemica tra classicisti e romantici in Italia assunse un forte colorito politico, perché nello storicismo tipico del romanticismo si potevano far veicolare messaggi più facilmente raggiungibili al pubblico borghese: per questo motivo l’elemento storico nella pittura italiana del primo ottocento e di Francesco Hayez (1791-1882) in particolare nascondeva, come era accaduto per il coevo romanzo storico, contenuti politici e propagandistici a favore del Risorgimento italiano e contrario alla restaurazione dell’Assolutismo.
L’avvio della discussione fra classicisti e romantici è dato dalla pubblicazione di un articolo di Madame de Staël sulla “Biblioteca italiana” nel gennaio 1816.
Madame de Staël aveva da poco pubblicato il libro “De l’Allemagne”, con il quale aveva introdotto nei paesi latini le nuove teorie estetiche del Romanticismo provenienti dalla cultura tedesca.
Nel suo articolo, la baronessa prendeva di mira il gusto dell’erudizione e l’amore per la mitologia del mondo classicista italiano, la scarsa conoscenza degli autori stranieri nel nostro paese e l’estraneità della nostra letteratura al dibattito letterario europeo; Madame de Staël auspicava altresì un rinnovamento da compiersi anche con la traduzione delle opere moderne dei paesi stranieri, inglesi e tedesche in particolare.
I classicisti risposero polemicamente alla Staël, mentre la difesero Ludovico di Breme, Giovanni Berchet, Ermes Visconti. I primi “manifesti romantici” nacquero proprio in questa occasione, nel 1816.
In breve i temi del dissenso si concentravano su alcuni punti: i classicisti sostenevano l’eternità del bello, i romantici il suo carattere storico; i primi proponevano l’imitazione degli autori dell’antichità, i secondi l’originalità; gli uni facevano ricorso a temi mitologici, gli altri a motivi cristiani e ad argomenti moderni e per questo più “interessanti”. Inoltre il pubblico dei classicisti era ristretto a una élite di studiosi e di eruditi nonché all’aristocrazia, il pubblico dei romantici era invece costituito dal “popolo” o dalla borghesia.
Hayez fu uno degli artisti che maggiormente accese questo dibattito anche se egli si era dichiarato estraneo alla polemica tra classicisti e romantici anzi si può affermare che egli sia stato l’anello di congiunzione tra i moduli stilistici e tematici del Neoclassicismo e del Romanticismo.

Francesco Hayez, il maggiore pittore del primo Ottocento italiano, la cui opera risulta emblematica per definire il tipo di relazione che si stabilisce tra la letteratura e le arti figurative in quegli anni.
Veneziano di nascita, Hayez si era formato a Roma fra il 1809 e il 1817, dove frequentò lo studio di Canova, subendone un’enorme influenza che caratterizza a lungo il suo stile anche quando, trasferitosi a Milano, abbandona il repertorio classico e mitologico e si dedica a temi di argomento moderno. A Milano Hayez entrò a contatto con i maggiori intellettuali e scrittori dell’epoca, allora impegnati nel dibattito tra classicisti e romantici, nei quali si riconosce per la necessità di ammodernare la pittura italiana confinata nella ripetizione accademica di modelli e argomenti mitologici. Anche Giacomo Leopardi, che pure è schierato sul fronte dei classici e non rivela mai particolari interessi figurativi, nota in una pagina della Zibaldone del 19 settembre 1823: «L’eccessivo uso, anzi abuso intollerabile della mitologia che fanno e fecero i pittori e scultori ecc. cristiani, non d’Italia solo [...]. Se sta ad essi a scegliere il soggetto, potete esser sicuro massime degli scultori, ch’e’ non escirà della mitologia [...]. Par che tutto lo scopo che si propone uno scultore (siccome un poeta) sia che la sua opera paia una statua antica (come un poema antico)».
Il problema era stato già individuato da Ermes Visconti, che in un importante articolo del 1818 per il “Conciliatore”, intitolato “Idee elementari sulla poesia romantica”, aveva esortato gli artisti ad abbandonare i temi mitologici o di storia antica, in quanto artifici scolastici, e a rivolgersi a soggetti storici moderni: «Alla poesia romantica appartengono tutti i soggetti ricavati dalla storia moderna e dal medio evo [...]. Non tutto ciò che è romantico può essere convenientemente ricantato al presente; il poeta stia a livello de’ suoi coetanei».
Influenzata da queste idee, l’ispirazione di Hayez diventa letteraria, sollecitata cioè dalla lettura di testi fondamentali per i romantici italiani, come nel quadro del 1821 Catmor e Sulmalla, che riproduce un episodio dei Canti di Ossian, e come nel Carmagnola, ispirato all’omonima tragedia di Alessandro Manzoni. Lo scrittore ne è entusiasta al punto da esprimere il desiderio di veder tradotto visivamente anche l’Adelchi, cosa che però non si realizzò mai .
Hayez diventò il capofila della scuola romantica italiana, che spesso si ispira ad episodi esemplari della nostra storia medievale, con quadri nei quali è riconoscibile un intento educativo e patriottico: lo scopo è quello di esaltare con toni patetici ed enfatici l’origine e la radice della moderna civiltà italiana, la rivolta del popolo contro le dominazioni straniere, l’eroismo e la riscossa dall’ingiustizia. In particolare, si registra una certa predilezione per i temi storico-letterari e per le grandi storie d’amore o patriottiche: è il caso dei dipinti Romeo e Giulietta, ispirato a Shakespeare, Maria Stuarda, Valenza Gradenigo, Bice del Balzo, eroina del romanzo Marco Visconti romanzo del 1834 di Tommaso Grossi, e L’ultimo abboccamento di Jacopo Foscari con la propria famiglia del 1838, ispirato alla tragedia I due Foscari di George Byron.
Si nota allora che il rapporto tra arte e letteratura in Italia non è più di coincidenza o di analogia di intenti ideali, ma sostanzialmente di dipendenza delle arti figurative dalla letteratura, che fornisce temi e contenuti culturali; anche quando cronologicamente il dipinto è precedente, questo si attiene ad una retorica e ad una sensibilità romantica di derivazione letteraria: è il caso de La disfida di Barletta del 1831, il quadro di Massimo d’Azeglio (1798-1866), che ne riprende poi l’argomento storico nel romanzo Ettore Fieramosca del 1833, trasferendo sulla carta il carattere, gli atteggiamenti, l’enfasi dell’immagine con risultati migliori. Il Romanticismo di Hayez, che fa dire a Stendhal questo pittore m’insegna qualcosa di nuovo sulle passioni che dipinge (Lettera ad Alphonse Gonssolin, 17 gennaio 1828), emerge anche nella precisione e nell’approfondimento psicologico ed emotivo dei personaggi che egli ritrae con grande originalità, collocando la figura su un fondo neutro e concentrando sul volto tutta l’attenzione dello spettatore: si ricordano qui i celebri ritratti della cantante Matilde Juva Branca del 1851, di Rossini del 1835, di Cavour del 1864, di d’Azeglio del 1864 e di Manzoni del 1841, realizzato dal vero, che ci consegna un’immagine dello scrittore molto misurata ma di grande forza interiore.
Lo stile di Hayez, pur accostandosi a temi mitologici, è molto vicino alla sensibilità romantica, che egli però reinterpreta alla luce di una temperie spiccatamente classicheggiante e accademica. Questa posizione intermedia fra classicismo e romanticismo ebbe un ruolo decisivo per la fortuna della produzione artistica di Hayez, che in questo modo esercitò una decisa influenza sulla pittura ottocentesca e sul gusto estetico italiano. Quest’ultimo, a differenza del modello d’Oltralpe, risultava, infatti, ancora sottoposto alle limitazioni dell’adesione al repertorio mitologico e ai canoni classici. Nella sua prima maturità, Hayez rifletté questo gusto, risentendo dell’influenza esercitata da Canova e da Raffaello.
Le prime opere dell’artista sono caratterizzate da un gusto moderato e da uno stile limpido che si risolveva nelle felici scelte cromatiche che, grazie ad accattivanti giochi di colore, si fondevano con il resto degli elementi del dipinto in un sobrio equilibrio visivo. Tra l’altro i cromatismi adottati da Hayez erano spesso dei veri e propri veicoli allegorici, con i quali egli poté provvedere alla diffusione quasi subliminale degli ideali risorgimentali.
Oltre che per i dipinti di soggetto storico, Hayez si distinse anche per una cospicua produzione di ritratti, in cui raggiunse i risultati espressivi più alti. Nelle sue tele sono raffigurati gli esponenti di maggiore spicco del Risorgimento, come Cristina Belgioioso Trivulzio,  che con Bianca Milesi funge da ponte tra Hayez e gli ambienti progressisti milanesi.

Altra peculiarità dello stile pittorico di Hayez è il suo audace realismo: l’artista, infatti, andava in direzione di un’efficace trasposizione del vero, che si manifestava soprattutto nei nudi femminili, che non di rado suscitarono scandalo perché giudicati privi di armonia e volutamente volgari, trascurando le proporzioni ideali.
Lo stesso Hayez definì il suo stile pittorico, in un consiglio che egli rivolse a tutti i giovani aspiranti artisti, cui disse: «si guardino tanto dal tenersi troppo ligi alle regole dell’arte come dall’imitazione materiale del vero: l’artista dopo aver ben studiato sui modelli antichi le regole fondamentali dell’arte, se è veramente chiamato a seguire le orme dei grandi maestri, deve formare nella propria fantasia l’immagine che egli eseguirà quando abbia trovato un modello che gli rappresenti il tipo che egli si è formato nella mente e al quale, copiando le linee esteriori, presterà quella parte ideale che forma il bello nel vero».
Nel XIX secolo tutte le avventure della mitologia scompaiono dalla pittura, vi succede invece un tipo di pittura che rappresenta avvenimenti di storia.
Un grande merito si dà a Francesco Hayez, il quale presentò per primo un dipinto di chiara valenza civile "Pietro l'Eremita" esposto nella pinacoteca di Brera, definito anche il "manifesto" della pittura civile di Hayez.

La polemica classico-romantica si riaccese dopo il successo del Pietro Rossi di Hayez all’esposizione di Brera nel 1820. Majer aveva indicato nei dipinti storici eseguiti da Hayez, i primi passi verso una nuova meta espressiva. Le novità tematiche e formali del dipinto, tratto da una vicenda di storia locale, colta nei suoi sviluppi più sentimentali, riuscirono a soddisfare le attese suscitate nel pubblico dalla polemica romantica e da Majer.

“Pietro Rossi prigioniero degli Scaligeri” è un dipinto che misura 157,5 x 131 cm, datato 1818-1820. Realizzato con tecnica a olio su tela è conservato nella Collezione di San Fiorano a Milano.
L’opera destò molto clamore all’esposizione di Brera del 1820, a causa sia della scelta del soggetto “storico-medioevale” anziché “mitologico” sia a causa della scelta cromatica piuttosto scura e ombrosa che volutamente doveva rafforzare l’emozione e il dramma nella scena.
Il dipinto riscosse tanti consensi e ravvivò la polemica tra i più distinti letterati sul predominio del romanticismo sul classicismo, Hayez specificò più volte che non era sua intenzione aprire questa polemica, ma questo cambiamento gli derivò da puro sentimento dell’arte, senza un’idea preconcetta.
Quest’opera è il primo quadro di soggetto storico-medievale della produzione di Francesco Hayez e, come i “Vespri Siciliani”, utilizzava un episodio storico come metafora per gli ideali risorgimentali: la tela fu eseguita in un periodo nel quale la pesante censura austriaca rendeva di fatto obbligata l'adozione di temi storici.
Il protagonista Pietro Rossi fu chiamato dal doge di Venezia Dandolo per assumere il comando delle forze veneziane per resistere ai tentativi di espansione degli Scaligeri che, guidati da Mastino della Scala, stavano assediando il Castello di Pontremoli.
Nonostante la moglie e le figlie lo pregassero di non accettare, Pietro Rossi diede il suo assenso.
In questo quadro sono dunque esaltati i valori dell’eroismo, al pari di quanto possiamo vedere nel “Giuramento degli Orazi” e delle libertà repubblicane contro quelle dispotiche, rappresentate dagli Scaligeri, signori di Verona.
Il contrasto fra l’atteggiamento del condottiero, assorto nella meditazione sui compiti che lo attendono e la disperazione dei famigliari che temono per la sua sorte è un tema tipicamente romantico: è in gioco una scelta dolorosa fra gli affetti familiari e l’amore per la patria, in una lotta interiore nella quale prevalgono la dedizione e lo spirito di sacrificio come valori nei quali potevano identificarsi i patrioti italiani.
Si capisce dalle manifeste pose delle figure femminili che mostrano dolore per la partenza forse senza ritorno del loro caro, per cui il romanticismo artistico italiano è stato definito “teatrale”. Le figure sono come fisse in pose eloquenti. Oltre alla gestualità ricalcata, anche gli sguardi e la stessa disposizione dell’opera sono teatrali. Infatti, lo sfondo è scenico, come una quinta teatrale e le figure sono disposte intorno al protagonista come se fosse un proscenio.
La ricostruzione storica appare molto verosimile, la narrazione lenta e l’ambientazione ricca di dettagli. Per tali motivi il Pietro Rossi di Hayez è visto come una specie di manifesto della pittura romantica italiana. Pur riferendosi a un episodio di storia risalente al Trecento l'opera lancia un chiaro riferimento all'attualità politica dell'Italia settentrionale sotto la dominazione asburgica. 
Il nuovo successo riportato col Carmagnola, accolto entusiasticamente dallo stesso Manzoni e da Stendhal, significò la definitiva consacrazione di Hayez come pittore romantico. Una consacrazione però molto contrastata, come dimostrano i vivaci dibattiti scatenati dall’esposizione delle sue opere successive, l’Aiace e la Maddalena, nel 1822 e 1825.

Il conte di Carmagnola è un olio su tela, eseguito nel 1820. Il quadro fu commissionato dal conte Francesco Teodoro Arese Lucini famoso per essere stato condannato alla reclusione presso la Fortezza dello Spielberg.
Il dipinto, andato distrutto nell’incendio del castello di Montenero durante i bombardamenti di Montecassino nel 1944, è documentato da una vecchia foto esposta presso la Biblioteca Nazionale Braidense di Milano e da un’incisione del dipinto realizzata da Giuseppe Beretta. Nell’opera che si può studiare solo attraverso degli studi preparatori vediamo il conte di Carmagnola mentre sta per essere condotto al supplizio e raccomanda la sua famiglia all’amico Gonzaga, famosa ultima scena della tragedia di Alessandro Manzoni.
L’opera fu esposta a Brera nel 1821 guadagnando all’autore non solo la stima dello stesso Manzoni, ma anche le simpatie di un pubblico pronto a riconoscervi un chiaro riferimento alla drammatica attualità delle vicende politiche italiane.
Manzoni fu grato ad Hayez per aver saputo rappresentare nel dipinto, l’umanità umiliata, infatti, gli donò, nel 1822, un esemplare della nuova tragedia L’Adelchi, ponendovi un omaggio in versi:
“Già vivo al guardo la tua man pingea.
Un che in nebbia m’apparve all’intelletto:
altra or fugace e senza forma
idea timida accede all’alto tuo concetto:
lieto l’accogli, e un immortal ne crea
di meraviglia e di pietade oggetto;
mentre aver sol potea dal verso mio,
pochi giorni di spregio, e poi l’oblio”.
Il quadro rappresenta quindi la tragedia scritta da Manzoni nel periodo 1816-1820, ambientata nell’Italia del XV secolo e avente come protagonista Francesco di Bartolomeo Bussone, conte di Carmagnola e capitano di ventura al servizio prima dei Milanesi e poi di Venezia.
La vicenda editoriale per Manzoni non fu semplice: erano gli anni in cui la polizia austriaca aveva intensificato la censura e disposto la chiusura del Conciliatore. Manzoni, amico dei redattori del giornale, era tra gli autori che erano guardati con sospetto.
Giulio Ferrario, bibliotecario di Brera, che era stato incaricato della pubblicazione del Conte, preferì rinunciare, cedendo l’opera al fratello Vincenzo, vicino all’ambiente romantico e stampatore del Conciliatore. Nel 1820 la prima tragedia manzoniana era quindi stampata dalla tipografia di Vincenzo Ferrario.
Il dramma manzoniano assumeva così, grazie al successo del dipinto di Hayez, una risonanza che dovette forse compensare quella assai scarsa che godeva sul palcoscenico.
Con quest’opera Hayez fu consacrato campione della nuova pittura di storia “impegnata”.
Defendente Sacchi, critico e intellettuale di punta, allievo e seguace di Giuseppe Mazzini, afferma che questa pittura coltivata da Hayez debba chiamarsi pittura civile, perché appunto rappresenta avvenimenti di storia riconducibili all’attualità politica.
Per Sacchi il "Pietro Rossi" o "Il Carmagnola" sono i primi "manifesti" romantici, i quali sono centrati su un singolo eroe, al contrario invece nelle altre opere di Hayez: "I Vespri Siciliani" o in "Pietro l'Eremita" in cui il desiderio di riscatto politico si esprime in azioni popolari.

I Vespri Siciliani è il titolo dei tre quadri realizzati da Francesco Hayez rispettivamente nel 1822, nel 1826 e nel 1846.
Sostanzialmente, nei tre dipinti è raffigurato un nobile palermitano che vendica l’oltraggio fatto da un soldato angioino di nome Drauet al decoro della propria sorella promessa sposa: da quel fatto accaduto in Monreale nel 1282 ebbe principio la strage dei francesi in tutta l’isola.
La prima versione dell’opera che misura 150 x 200 cm, fu commissionata dalla marchesa Visconti d’Aragona e fu dipinta da Hayez a Milano, nello studio di Brera. Attualmente fa parte di una collezione privata.
La seconda versione, che misura 91 x 114 cm e anch’essa facente parte di una collezione privata, fu dipinta su commissione del conte Arese.
Infine, la terza versione, misura 225 x 300 cm e fu commissionata ad Hayez dal principe collezionista Vincenzo Ruffo, principe di Sant’Antimo, ed è conservata presso la Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea di Roma.
L’opera di Hayez rappresenta il momento iniziale dei vespri siciliani, la rivolta popolare che si ebbe in Sicilia nel 1282 contro la dominazione degli Angioini francesi.
Tutte e tre le versioni dell’opera mostrano il momento in cui Drauet è ucciso, trafitto dalla sua stessa spada, sottrattagli dal fratello della nobildonna.
Nell’opera si manifestano ancora gli effetti della pittura storica neoclassica di Jacques-Louis David. Lo stesso dipinto è realizzato in stile neoclassico, con tratti precisi e utilizzo del chiaroscuro per dare profondità alla scena e un’immagine nel complesso molto chiara.
Gli unici aspetti dell’opera che la fanno inquadrare all’interno dell’orizzonte romantico sono il soggetto, una storia di epoca medievale e il significato, che Hayez fa trasparire. Il quadro pertanto si trova ad assumere il significato simbolico della rivolta contro lo straniero (fosse esso francese, austriaco o spagnolo) finalizzata all’unificazione dell’Italia.
L’opera ha una connotazione molto descrittiva, ma, secondo alcuni, povera di profondità emotiva. Tutte le figure sono rappresentate come se fossero in una quinta teatrale, con pose statiche; anche se, nel suo complesso, l’opera non è per niente statica, dando anzi la sensazione dalla concitazione del momento, grazie all’uso delle linee diagonali e dei movimenti delle pieghe degli abiti.

La congiura dei Lampugnani, nota anche come la congiura di Cola Montano fu realizzata da Hayez per la contessa Stampa nel 1826 con la tecnica dell’olio su tela e misura 149 X 117 cm.
La tela è conservata nella pinacoteca di Brera.
Secondo Giuseppe Sacchi un famoso critico intellettuale testimonia che la congiura di Montano fu portata a termine solo tre anni dopo, per sostituire il “ritratto di gruppo della famiglia Borri Stampa”.
Nel 1826 Hayez dipinse per il banchiere Francesco Peloso di Genova un dipinto tratto dal dramma di Schiller ”La congiura dei Fieschi” il cui tema è ispirato a un evento milanese relativo alla congiura ordita contro il tiranno Gian Galeazzo Maria Sforza, per porre fine alla sua tirannide.
La vicenda fu ricavata da alcuni appunti delle Storia delle repubbliche Italiane dei secoli di mezzo del ginevrino Sismondi e delle “Istorie fiorentine" di Machiavelli.
Il brano di Machiavelli fu trovato riprodotto per intero anche in appendice della tragedia “La congiura di Cola Montano “ di Alessandro Verri.
Il titolo del brano ”segretario Fiorentino Libro Settimo delle Istorie”, che ritroviamo tra gli appunti di Hayez, fa pensare che questa sia stata la versione da lui stesso eseguita.
Il dipinto “La congiura dei Lampugnani” presenta un tema romantico e uno stile classico.
Il dipinto rappresenta in primo piano dei ragazzi tra cui Giovanni Andrea Lampugnani, Girolamo Olgiati, Carlo Visconti e Cola Montano, un anziano umanista loro educatore che ispirò i tre giovani alla congiura, mentre prega davanti alla statua di Sant’Ambrogio perché li protegga.
Questi ultimi sono rappresentati nel momento in cui stanno per sfoderare i pugnali, pronti a scagliarli contro il duca che sta per fare il suo ingresso nella chiesa.
Quest’ultima all’inizio dell’800 si presentava con un rifacimento Barocco che ne aveva snaturato l’antico aspetto. Hayez dipinse perciò una basilica romanico-gotica di sua invenzione, ma chiaramente simbolica è la statua di Sant’Ambrogio, mai esistita in questo tempio, ma menzionata erroneamente da Machiavelli.
Il basamento della scultura è un elemento portante del quadro, caratterizzato da uno schema prospettico che mette in primo piano i quattro personaggi, mentre isola in fondo la folla e l’arrivo dello Sforza.
La statua è un’evidente ripresa tizianesca, così come anche la prima figura di giovane a sinistra trova un possibile riferimento all’affresco del Miracolo del Santo a Padova.
La composizione è molto teatrale, il colore è uniforme, circoscritto da contorni lineari ben evidenziati e da forti contrasti chiaroscurali.
La composizione diventa molto teatrale, soprattutto se ci si concentra su l’uso della luce che rende l’atmosfera incalzante.
Il dipinto infine rappresenta “Il mito della gioventù carbonara”, per il forte sentimento di libertà che dal 1820 animava i giovani affinché l’Italia ottenesse libertà e unità.
L’opera fu commissionata dalla contessa Teresa Borri stampa a Francesco Hayez qualche anno prima di sposarsi con Alessandro Manzoni.
“La congiura dei Lampugnani” non fu l’unica opera commissionata dalla contessa Teresa Borri Stampa ad Hayez, infatti, dopo essersi sposata con Alessandro Manzoni, incaricherà Hayez di ritrarre lo stesso Manzoni.

“I profughi di Parga”, realizzato nel 1831 su commissione di Francesco Chioggi di Casalmaggiore.
Il quadro, realizzato ad olio su tela, misura 201 x 290 cm ed è custodito nella Pinacoteca Tosio Martinengo a Brescia.
I profughi di Parga è ispirato fondamentalmente a due fatti, uno storico e uno letterario. La vicenda storica avvenne nel 1819 quando il piccolo paesino greco di Parga e tutti i suoi abitanti, all’epoca sotto la protezione inglese, furono ceduti come oggetti al nemico ottomano; la vicenda letteraria è legata al poemetto di Giovanni Berchet, I profughi di Parga, appunto, pubblicato nel 1823 che raccontava proprio del triste fatto di pochi anni prima.
La vicenda è tradotta con una grossa carica di partecipazione sentimentale, che Hayez ottiene con il carattere teatrale tipico delle sue opere di soggetto storico-patriottico.
Il dipinto si colloca sulla scia del filellenismo, una “corrente” del romanticismo, che aveva visto i maggiori intellettuali europei schierarsi a favore del popolo greco insorto “ufficialmente” contro il dominio turco nel 1821, ma che già covava volontà indipendentiste da molto prima. Il tema centrale dell’opera è infatti l’orgoglio nazionale, il categorico rifiuto di sottostare alla dominazione nemica, le stesse spinte, in sostanza, che avevano portato i profughi di Parga a lasciare la loro cittadina per migrare verso le isole di Cefalonia e Corfù.
«Che t´importa, o vilissimo inglese,
se un ramingo di Parga morì? –
Quella voce è il dispetto de´ forti
che, traditi, più patria non hanno»
dice Berchet nel poemetto. Orgoglio, filellenismo, spirito di combattimento e di rivalsa sono quindi i temi sottesi a questa pietra miliare del romanticismo pittorico, oltre che i motori della rivoluzione che ha portato all’indipendenza dello popolo greco dall’oppressione del nemico ottomano.
La scena si articola su piani che permettono allo spettatore di avere una visione di insieme che abbraccia sia quanto sta succedendo sullo sfondo, dove la città arroccata su un promontorio a sbalzo sul mare brucia, sia in primo piano, dove invece si colloca il manipolo di esuli che abbandonano le loro case in un clima di grande malinconia e toccante rassegnazione. Alcuni di loro, inoltre, affollano la spiaggia in attesa dell’arrivo delle imbarcazioni, visibili tra la foschia, all’orizzonte, che li porteranno verso la loro nuova casa, lontana dal continente e dagli affetti.
La città situata sul colle ha una doppia funzione; la prima è quella di creare uno sfondo scenografico e spettacolare, giocato negli effetti di controluce e dei colori degradanti del paesaggio al tramonto. La seconda funzione è quella di separare la parte centrale dalle ali laterali viste in lontananza.
In queste ultime zone Hayez racconta il fatto storico mostrando l’esodo della popolazione a sinistra, le navi in mare aperto sulla destra.
Il popolo che vive la tragedia è posto in primo piano.
Il capannello in primo piano, con indosso gli abiti tradizionali greci, si abbandona in gesti di profonda tristezza: c’è chi abbraccia per l’ultima volta gli alberi della città natia, chi rivolge un ultimo, disperato sguardo alla città prima che sia presa definitivamente dal conquistatore, che si avvicina, inesorabile e ben visibile. Una donna, china sul terreno, raccoglie un pugno di sabbia da portare con sé, mentre i padri e le madri abbracciano i figlioli per alleviar loro le pene della partenza coatta.
Accanto al gruppetto, integrato ma allo stesso tempo ritirato in un’aura di intima spiritualità, un pope ortodosso prega in silenzio e incarna la fede che non abbandona i profughi e che, anzi, è per loro un barlume di speranza in questo momento così tetro; la fede ortodossa, così come la lingua greca, sono due degli elementi di autodefinizione del popolo greco, appellandosi ai quali i rivoluzionari inizieranno, nel 1821, la guerra di indipendenza.
Gli uomini con gli occhi al cielo, le donne con i bambini in braccio, la vicinanza fisica, sono tutti espedienti di forte impatto emotivo per alludere ad una fratellanza e a una sorta di canto corale con chiaro intento moraleggiante e patriottico.
Il dipinto presenta un certo gusto, anch’esso spettacolare, per l’eroismo e il folclore che rivela una delle componenti romantiche dell’artista.
Al tempo in cui fu realizzata, l’opera serviva ad esaltare l’orgoglio per le proprie tradizioni, il rifiuto di sottostare al nemico storico, l’amore per la propria terra: si pensi a quanto fossero importanti tali valori in epoca risorgimentale. Anche per questo i sentimenti dei personaggi ci appaiono così forti e carichi.
C’è infine da notare la cura che Hayez ha posto nel realizzare gli abiti tipici degli abitanti di Parga: il romanticismo, del resto, esaltava la storia e le tradizioni dei singoli popoli.

“Giorgio Cornaro inviato a Cipro dalla Repubblica Veneta fa conoscere alla regina Caterina Cornaro, sua parente, che ella non è più padrona del suo regno, poiché lo stendardo del Leone sventola già sulla fortezza dell’isola” è un’opera di Francesco Hayez di dimensioni 121 x 151 cm, datata 1842, realizzata con tecnica a olio su tela e conservata nell’Accademia Carrara.
La tela raffigura l’episodio culminante della vicenda di Caterina Cornaro, talmente popolare nella prima metà dell’Ottocento, da diventare spunto per diversi romanzi storici e opere liriche. Giorgio Cornaro informa la sorella Caterina, regina di Cipro, che la Repubblica di Venezia ha deciso la sua destituzione e le annuncia il futuro esilio nel castello di Asolo.
Il tema dell’infelice regina di Cipro fu proposto da Hayez con un effetto tipico “colpo di scena” teatrale, sia nella distribuzione della luce, sia negli atteggiamenti dei personaggi. Egli mette in evidenza la figura di Giorgio in maniera sublime con caratteristiche espressive e dignitose.
L’effetto del dipinto si basa sulla trovata, esaltata dal colpo di luce che al centro investe l’abito di sfarzo orientale di Caterina, di lasciare appena intravedere le fisionomie dei protagonisti, affidando invece ai personaggi secondari l’espressione drammatica del momento.
Sul piano tipologico e tematico l’opera si configura come un momento di passaggio tra i quadri di storia veneziana, dedicata ai Foscari, Vilton Pisani, Martin Foliero e la più tarda produzione di costume veneziano come “Accusa segreta” e “il consiglio della Vendetta”.
D’altra parte il soggetto offriva al pittore una possibilità di fusione di due generi, la storia della Serenissima e il filone esotico-orientaleggiante degli Harem e delle Odalische.
Questa nuova tipologia di quadri storici, carichi di allusioni, si uniscono con le scelte anche personali del pittore come risulta anche dalle sue "Memorie"; una sorta di autobiografia di Hayez in cui emerge un quadro molto precoce come "il conte Arese in carcere " scritto durante la liberazione del carbonaro o come anche "Gli Apostoli Giacomo e Filippo" un quadro allusivo all'esilio dei due federati.
La polemica fra classicisti e romantici si fece più accesa quando l’artista affrontò la tematica mitologica, come in “Ettore rimprovera Paride” e “Venere che scherza con due colombe” esposti nel 1830. In particolare il segretario dell’Accademia di Brera Ignazio Fumagalli, recensore ufficiale della “Biblioteca italiana”, accusò Hayez di dissacrare la scena con il suo scandaloso realismo e la trasgressione di ogni canone del bello ideale, quando dava a personaggi omerici una “fisionomia” che “si direbbe lombarda anzi che frigia o troiana”. La conclusione dei sostenitori del Romanticismo, come Giuseppe Sacchi, fu completamente diversa: essi lodarono Hayez per la sua intrepidezza.
La consacrazione ufficiale di Hayez a “pittore nazionale” avvenne grazie alla lettura critica di Giuseppe Mazzini nell’articolo saggio “La peinture moderne en Italie”, pubblicato nel 1841 sulla prestigiosa “London Westminster Review”.
Il saggio, pressoché sconosciuto in Italia, ci presenta un Mazzini critico d'arte del tutto insolito. A differenza di altri padri della patria, come Cavour, Garibaldi o Vittorio Emanuele II, Mazzini fu uomo di vasta e profonda cultura artistica, e, nel suo utopico disegno politico, reputava la pittura forte motivo di identità per gli italiani che vi potevano riconoscere una memoria storica comune. Ed è alla pittura storica, giudicata strumento necessario e indispensabile, che Mazzini affida la missione del riscatto nazionale.
In questo saggio Mazzini definisce Hayez «il capo della scuola di Pittura Storica, che il pensiero Nazionale reclamava in Italia [...]. La sua ispirazione emana direttamente dal Popolo; la sua potenza direttamente dal proprio Genio: non è settario nella sostanza; non è imitatore nella forma. Il secolo gli dà l'idea, e l'idea la forma. Non è uno spirito sterile di riazione che l'ha rotta coi tipi del passato e con le regole convenzionali; è su questa via che l'istinto della missione riservata all'Arte nei tempi attuali e per sua vocazione».
Mazzini afferma inoltre che nessuno «tra i pittori, ha sentito come lui dignità della creatura umana, non quale brilla agli occhi di tutti sotto la forma del potere, del grado, della ricchezza o del Genio, ma quale si rivela agli uomini di fede e di amore, originale, primitiva, inerente a tutti gli esseri che sentono, amano, soffrono e aspirano, secondo le loro forze, con la loro anima immortale. In mezzo alle mille forme umane, che la storia evoca, variate, ineguali, attorno a lui, egli domina, sacerdote del Dio che penetra, riabilita, e santifica tutte le cose».
Tale è Hayez, «artista completo per quel tanto che i tempi lo permettono: che si assimila, per riprodurlo in simboli, il pensiero dell'epoca, quale esso s'agita compresso nel seno della nazione [...]; crea protagonisti, non tiranni: fa molto sentire e molto pensare».
In quanto alle donne della sua pittura, «belle di pietà, di rassegnazione, di dolcezza [...], si rannodano al tipo svelto, slanciato, grazioso del Canova, con anima infinitamente viva più che lo scultore non abbia potuto o saputo mettervi: noi presentiamo ben altra cosa, ma la missione della donna nell'epoca futura è ancor troppo confusamente intravvista, perché il pittore possa sino da oggi incarnarla»
Non è casuale che Mazzini incentri la propria analisi su opere come il "Pietro Rossi" e "Aiace" del 1827 e il primo "Pietro l'Eremita", trascurando la produzione del 1830/40 a causa dell'insuccesso dei moti mazziniani.
Per Mazzini la cultura, l'arte, non viaggiano per conto loro, ma offrono la base teorica, morale alle motivazioni di un popolo per diventare vera nazione, nazione unita. Soprattutto la pittura storica perché è "nella continuità della tradizione storica che l'Italia deve attingere le ispirazioni e le sue forze per fondare la sua Nazionalità"
I maestri del passato e il contemporaneo, la moderna pittura italiana oggetto di un saggio pubblicato in francese, a Londra nel 1841, durante uno dei tanti periodi di esilio, su di una importante rivista.
"L'Arte - scrive Mazzini all'inizio del saggio - è per noi una manifestazione eminentemente sociale, un elemento di sviluppo collettivo, inseparabile dall'azione di tutti gli altri, che formano insieme quel fondamento di vita una e comune, in cui l'Artista attinge, rendendosene conto o no, la sua missione, la sua nozione dello scopo da perseguire, e i simboli nei quali incarna quel che Dio gli ispira riguardo al modo di raggiungerlo". "Perché l'Arte del Popolo, della Nazione Italiana possa esistere, bisogna che la Nazione sia". 
Mazzini identifica nel Romanticismo "il movimento che ha saputo dare espressione agli ideali del secolo, diventando quell'arte nazionale e popolare interprete dei cambiamenti che stavano sconvolgendo in tutto il mondo la politica e la società". Romanticismo italiano ben diverso da quello francese e tedesco. In Italia il Romanticismo come fenomeno generale (musica, letteratura, arti visive), legato all'illuminismo, si manifestava nell'impegno civile, nella missione didascalica, era concreto. Quello francese e tedesco avevano un carattere di spiritualità, di sovrannaturale, alimentavano la fantasia e l'inconscio. 
Nel 1848/49 la pittura storica andò in crisi, mentre cominciò ad affermarsi una pittura di genere e costume moderno.
Alcuni pittori, infatti, in questo periodo preferirono restare inoperosi invece di apprestare le proprie opere al destino, altri invece, non dissimili da un poeta epico, si espressero a fare delle mezze figure; e altri infine disdegnarono di toccare i pennelli. La missione della pittura è nobile e santa, fa scuotere il vizio e rende amabili le virtù con la magia dei colori.

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