sabato 1 luglio 2023

I pannelli dipinti di Melchior Broederlam del Polittico della Crocifissione

Osserviamo attraverso una vecchia fotografia una rara immagine del Polittico della Crocifissione con le ante chiuse. 


Le quattro scene, dai vaghi ricordi bizantini risciacquati in Arno, sono inserite in una cornice architettonica e in un ampio paesaggio che tradisce l'influsso del Trecento toscano e più precisamente la contaminazione del metodo di lavoro di Giotto e di quello di pittori senesi, come Duccio, Simone Martini e ancor di più i fratelli Lorenzetti.
In questi due pannelli Melchior Broederlam raffigura quattro scene, due per pannello.
In quello di sinistra racconta due episodi che precedono la nascita di Gesù, l'Annunciazione, la Visitazione; in quello di destra racconta due episodi successivi alla sua nascita, la Presentazione al Tempio e la Fuga in Egitto.
In queste quattro scene il pittore svolge un lavoro raffinato e prezioso.
Innanzi tutto Broederlam usa la foglia d'oro per il cielo e lumeggiature dorate con motivi punzonati negli abiti. Poi, utilizza una gamma di colori abbaglianti tra cui il blu oltremare per il manto della Vergine. Questo blu, com’è noto, era ottenuto dalla macinazione del lapislazzulo ed era allora il pigmento più costoso.
A causa dei colori vivaci e dell'uso di pigmenti tanto costosi, possibili solo con ricchissime committenze, i pannelli di Broederlam hanno il carattere di miniature ingrandite e lussuose. Sembrano infatti delle grandi pagine di un codice miniato.
L’artista sfrutta poi con estrema intelligenza la forma irregolare dei riquadri che non sono perfetti rettangoli, ma in alto sono tagliati in base alla forma del polittico, inoltre stabilisce un'alternanza di episodi all'interno e all'esterno nonché una simmetria con un’architetture a sinistra e montagne sormontate da un castello sulla scena di destra.
Sebbene poi i paesaggi salgano piuttosto che scendere rispetto ai personaggi, Broederlam dà alle figure abbastanza spazio intorno a ciascuna per dare l'impressione che i personaggi si trovino all’interno del paesaggio piuttosto che di fronte ad esso.
Gli schematici paesaggi rupestri e gli edifici sono in parte presi in prestito da esempi italiani, in particolare dalla scuola senese, mediati dalle precedenti e coeve generazioni di artisti e di miniaturisti franco-fiamminghi.
Rispetto a loro, però la resa della luce è più varia e sfumata.
Sebbene la costruzione prospettica, in particolare quella dell’Annunciazione, sia ancora piuttosto rudimentale, il chiaroscuro degli spazi interni è attraente e già abbastanza sofisticato.
Nei volti e nei gesti delle sue figure, Broederlam preannuncia tempi nuovi, quelli del realismo di Robert Campin e di Jan van Eyck: non si tratta più infatti di tipi intercambiabili di persone come accadeva prima, ma di personaggi pieni di carattere che interpretano i loro ruoli con vivacità e naturalezza.
Il pittore combinò questo nuovo naturalismo con la grazia del Gotico internazionale, allora dominante.
Ma qual è il motivo conduttore che collega le quattro scene raffigurate nei due pannelli?
Tutte e quattro insistono sul riconoscimento della divinità di Cristo: prima dalla Vergine, poi da Elisabetta, poi da Simeone e infine dal mondo pagano che crolla riconoscendo la sua sconfitta.

    1. Il pannello sinistro
Tenuto conto di questi elementi di carattere generale dello stile di Broederlam, osserviamo ora in dettaglio il pannello sinistro con le sue due storie dell’Annunciazione e della Visitazione.
Si osservi in dettaglio l’Annunciazione
La scena si svolge in un'architettura immaginaria.
Maria, vestita di azzurro, è seduta in una loggia aperta sull'esterno, sul cui sfondo si schiude una camera da letto, ed è intenta nella lettura di un libro posto su un leggio che, come di tradizione, è retto da un'aquila.
Nella mano sinistra la Vergine regge una matassa di lana viola, un elemento iconografico tratto da un racconto dei Vangeli apocrifi, secondo il quale Maria, la più umile delle fanciulle del Tempio, avrebbe avuto l'incarico di tessere un nuovo velo nel più pregiato dei materiali dell'epoca, la lana tinta di porpora, colore simbolo della regalità.
Questa iconografia mariana era già frequente nell'Arte bizantina e paleocristiana, dove la Vergine poteva essere rappresentata anche con un fuso in mano. In altre parole Maria era raffigurata come erano descritte e rappresentate le virtuose fanciulle romane, dedite al fuso e alla conocchia, un elemento questo che rivela il consueto sincretismo iconografico di Arte pagana e Arte cristiana.
L’angelo vestito di rosso è ovviamente San Gabriele, inginocchiato su una specie di terrazza antistante la camera da letto di Maria.
Si tratta di due spazi molto ben scanditi, uno appartenente al mondo divino, l'altro a quello terreno.
L’angelo ha in mano un cartiglio su cui è scritto: “Ave gratia plena Dominus tecum”.
In alto l’Eterno Padre, portato in volo dagli angeli, emana dalla sua bocca raggi di luce che terminano sul capo di Maria con una colomba, simbolo dello Spirito Santo. 
Anche l'architettura raffigurata assume una forte carica simbolica: la Vergine ad esempio è seduta in un padiglione gotico che ricorda una cella certosina e che, per così dire, si aggancia a un più ampio edificio romanico. Sulla facciata della loggia dove siede la Vergine sono rappresentate le figure di Mosè e Isaia che reggono due filatteri, ma privi di iscrizioni.
Ci sono poi molte allusioni al passaggio dall'Antica Legge alla Nuova Legge infatti con la nascita di Cristo si passa dall'Antico al Nuovo Testamento: la presenza dei due profeti sul portico ricorda infatti che le loro profezie annunciano la Redenzione, e la stessa torre massiccia, di stile piuttosto orientale, con finestre in stile romanico si contrappone al resto dell'architettura nel moderno stile gotico.
Mi piace ricordare che come il Nuovo Testamento proviene dall’Antico perfezionandolo, così le origini del Gotico si traggono nel momento in cui i primi costruttori, coordinando elementi già presenti nel Romanico e nell'architettura orientale siriaco bizantina, giunsero a soluzioni del tutto originali, dando vita al Gotico.
Occorre inoltre osservare che le finestre della torre sono chiuse mentre tutte le finestre e le porte dell'edificio gotico sono aperte, e questo vuole mostrare la cecità dell'Ebraismo di fronte alla luce cristiana.
Un pensiero quest’ultimo che pervade la cultura figurativa in Borgogna.
La scena è molto ricca anche di altri riferimenti simbolici.
Le allusioni alla verginità di Maria sono poi molto numerose e rappresentate dall’hortus conclusus dietro l'angelo, un giardino piantato con aquilegie - il fiore a cinque petali che evocava la mano pura della Vergine -, e con rose, la caraffa tra Maria e l'angelo contiene un giglio bianco, la torre, spesso simbolo di castità, i raggi di luce e la colomba che attraversa il vetro senza romperlo è allusivo alla partenogenesi.
Numerosi sono anche i simboli della Trinità rappresentati dai tripli balconi dietro la Vergine, dal lampadario a tre bracci e dai tre ceri accesi, dalle tre finestre della sala centrale, e questo si richiama al fatto che la certosa di Champmol era intitolata alla Santissima Trinità.
Si deve notare infine che l'oratorio in cui Maria è seduta si trova centralmente fra la costruzione romanica e quella gotica, e questo serve a mettere in evidenza che la Vergine, con la sua accettazione del saluto evangelico, compie il passaggio tra l'Antico e il Nuovo Testamento.
Adesso osserviamo alcuni riferimenti iconografici e culturali.
La collocazione dell'evento in una specie di portico o di oratorio, con l’arcangelo Gabriele in piedi e di fronte, è di origine italiana, ma Broederlam l'ha trasformata in una costruzione più complessa con prospettive più complicate. Anche i Fratelli di Limburgo hanno elaborato questo aspetto con varianti prospettiche ancor più convincenti nel loro Très Riches Heures, come si vede in questa bellissima Annunciazione 
La torre, simbolo di castità, iconograficamente rimanda sia alle Sante Barbara e Caterina d’Alessandria, sia al mito di Danae, che nel tardo Medioevo era talvolta considerata una prefigurazione di Maria.
Quest'interpretazione del mito classico era stata esposta nel Fulgentius metaforalis del frate francescano inglese del Trecento “John Ridewall[1 NOTA LETTERARIA].
Sebbene Danae fosse stata rinchiusa in una stanza della torre da suo padre Acrisio, re di Argo, per impedire l’avveramento della profezia secondo cui suo figlio avrebbe ucciso suo nonno, ella tuttavia rimase comunque incinta di Perseo quando Zeus la visitò sotto forma di pioggia d'oro. 
Ridewall istituì per la prima volta un confronto tra questa gravidanza soprannaturale nel mito classico e quella di Maria, rimasta incinta ad opera dello Spirito Santo, spesso raffigurato come una colomba in un fascio di raggi di sole dorati.
Il contrasto poi fra il padiglione gotico e la torre a cupola orientale rimanda, come ho detto prima, all'alba della nuova Età della Grazia ovvero al Cristianesimo, che avrebbe dovuto sostituire l'Età della Legge, ovvero l’Ebraismo.
Questa differenza significativa nello stile architettonico diventò in seguito un motivo ricorrente tra i primi fiamminghi, con Robert Campin e con Jan van Eyck, che avrebbe preso il posto di Broederlam alla corte di Borgogna, entrambi vagamente orientalizzanti con i loro riferimenti, storicamente e validamente connessi all'architettura romanica locale.
Lo stesso contrasto fra le due età è espresso dalle finte sculture di Mosè e Isaia in contrapposizione alla rappresentazione invece realistica e viva di Maria e di Gabriele.
Broederlam scelse queste due figure dell’Antico Testamento perché Mosè simboleggia la legge e Isaia fu il profeta che predisse: "Ecco, una vergine concepirà e partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele".
Le finte sculture in pietra ricordano inoltre la Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti del 1342. 
I vari esemplari di piastrelle sono riconducibili a una delle opere perdute di Broederlam per Filippo l’Ardito che è nota solo attraverso i dettagliati resoconti dal 1388 in poi, vale a dire la progettazione di pavimenti piastrellati per il belvedere della torre nel Castello di Hesdin.
Osserviamo ora “La visitazione” che occupa la seconda metà del pannello. Fig 27
La visita di Maria a Elisabetta mentre era incinta di Gesù è narrata nel “Vangelo di San Luca” dove però la scena si svolge all’interno della dimora: Broederlam preferisce invece collocarla all'esterno in un paesaggio montuoso trattato schematicamente, solo con pochi elementi di vegetazione e un castello fortificato.
L’artista si serve della simmetria anche nell'uso dei colori degli abiti. Un vezzo questo che avrà ampio seguito anche in Italia.
Maria è venuta a incontrare sua cugina Elisabetta che è incinta del futuro San Giovanni Battista. Al momento del loro saluto, il bambino che Sant’Elisabetta porta in grembo, sussulta di gioia riconoscendo il Signore ed Elisabetta e dice a Maria: “Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo seno”. Nel dipinto questo concetto del dettato evangelico è espresso dalla mano di Sant’Elisabetta appoggiata sul ventre della cugina.
Broederlam era ancora legato alla tradizione medievale dell'oro che ricopre lo spazio al di sopra del paesaggio come rappresentazione del luogo in cui risiede Dio e come spazio dell’eterno in contrapposizione al paesaggio e all’uomo come spazio del contingente. Ma ha già fatto un passo avanti con la presenza di un rapace che scende in picchiata da una roccia.
Il cielo d’oro come spazio del sacro non era una facile rinuncia, ed è ancora presente anche in Robert Campin come si vede per esempio nel bellissimo Trittico Seilern meglio noto come Trittico della Deposizione, realizzato fra il 1410 e il 1415 al massimo appena una quindicina d’anni dopo l’opera di Broederlam. 
Una raffigurazione di un cielo azzurro con uccelli che volano intorno, sarebbe avvenuta nella celeberrima Pala di Gand dei fratelli van Eyck, solo due decenni dopo l’opera di Campin.
Questo per comprendere quanto sia stato graduale il “miracolo” Van Eyck. 
Quest’evoluzione in chiave naturalistica fu certamente più veloce nella miniatura dei libri, in particolare nelle opere di Jacquemart de Hesdin che fiorisce fra fine Trecento e inizio Quattrocento, dunque contemporaneo a Broederlam come si vede esemplarmente nella Salita al Calvario delle Grandi ore 
come si vede ancora nella “Fuga in Egitto” del “Maestro del Mareciallo di Boucicaut”
 
o nella bellissima Visitazione entrambe del Libro d'ore del maresciallo Boucicaut o come si vede ancora nelle Ricchissime ore del duca de Berry dei fratelli di Limburgo, per esempio nella pagina del mese di luglio con il Castello di Poitiers nel calendario del predetto codice. fig. 32
Ecco come vanno ricostruite le tappe della pittura fiamminga prima di van Eyck, dimentichi che sia venuto anche Campin prima di Jan e che ci siano stati insigni miniaturisti durante la generazione di Broederlam.

    2. Il pannello destro
Osserviamo ora il pannello destro con le sue due storie: “La presentazione al tempio” e “La fuga in Egitto”. Fig. 33
Nella Presentazione al Tempio la scena segue ancora il racconto del Vangelo di San Luca.

Maria e Giuseppe si erano recati al tempio con Gesù perché, secondo la legge ebraica, il primogenito maschio doveva essere presentato a Dio trenta giorni dopo la sua nascita in ricordo dell'esodo dall'Egitto.
L'anziano sacerdote Simeone aveva realizzato prima di morire il suo desiderio di vedere il Cristo.
La scena si svolge in un edificio gotico in gran parte aperto che permette di vedere distintamente i vari personaggi.
Broederlam racconta la storia in maniera molto umana e segue uno schema visivo convenzionale, prestando però attenzione al contatto visivo tra madre e figlio come in una “sacra conversazione” anche in questo caso tema ereditato dall’Arte italiana, ma assente in quella nordica.
Il vecchio Simeone prende in braccio il Bambino, nel quale riconosce il Messia che, a sua volta, stringe nel pugno una ciocca della folta barba del sommo sacerdote.
Dietro la Vergine, ci sono Giuseppe e una serva con una candela e reggono un cesto con due colombe. Questi due dettagli si riferiscono alla conclusione del periodo di purificazione di Maria dopo la sua gravidanza, quando dovevano essere sacrificate le due colombe, mentre il cero, allusione alla luce di Dio, è riferito all'antica tradizione di portare candele durante le processioni della Candelora, la festa che celebra la presentazione di Gesù al tempio.
San Luca suggerisce che entrambi i rituali siano stati eseguiti contemporaneamente sebbene, secondo la legge ebraica, la purificazione della madre sarebbe dovuta avvenire dieci giorni dopo la dedicazione del primogenito.
La composizione, realizzata in prospettiva centrale, è stata spesso associata all’omonimo dipinto di Ambrogio Lorenzetti, anche se la forma poligonale dello spazio in questa scena ricorda maggiormente le soluzioni spaziali usate da Pietro Lorenzetti. 
Confrontando però la Presentazione senese con questa di Broederlam, si nota che, mentre Ambrogio Lorenzetti raffigura distintamente le figure del sommo sacerdote e di Simeone, Broederlam fonde in uno i due personaggi: Simeone indossa infatti sia le vesti esotiche del sommo sacerdote ebreo sia l'aureola del santo cristiano. Questa combinazione, apparsa già alcuni secoli prima nell'Arte bizantina, potrebbe risalire al Protovangelo di Giacomo, un apocrifo che racconta di Simeone che dopo la morte di Zaccaria era diventato lui il sommo sacerdote del Tempio.
Nel suo racconto, Broederlam effettua anche un altro scarto narrativo: la giovane donna prende il posto della profetessa Anna, che secondo San Luca era presente anche lei alla cerimonia. Nella pittura italiana era solitamente rappresentata, ma non nell'Arte nordica.
Si osservi ora “La fuga in Egitto” [2 NOTA ICONOGRAFICA] che occupa la seconda metà del pannello destro, uno spettacolo particolarmente originale in cui il tema è svolto con un linguaggio particolarmente popolaresco con l’immagine di Giuseppe che beve a garganella.
Con l'otre alla bocca, conduce l'asino con Maria e il Bambino e li guida lungo tortuosi sentieri attraverso un paesaggio inospitale. La scena assume un aspetto naturalistico con le colline di sabbia che rievocano le dune delle coste fiamminghe.
Come sempre ricorro alle fonti letterarie.
La storia di Gesù Giuseppe e Maria che scappano in Egitto per sfuggire al re Erode è narrata nel Vangelo di San Matteo. Solo tre versetti registrano però che i tre fuggirono di notte e che rimasero in Egitto fino alla morte di Erode. In realtà, tenendo conto che il “Gesù storico” sarebbe nato nel 6 a.C. e che Erode sarebbe morto il 4 d.C., la Sacra Famiglia rimase in Egitto una decina d’anni.
La rappresentazione di Broederlam risale, come quasi tutte le opere che raffigurano La fuga in Egitto, alla versione ben più estesa del Vangelo dell'infanzia dello Pseudo-Matteo, un vangelo apocrifo che fa parte dei cosiddetti “Vangeli dell’infanzia”.[3 NOTA LETTERARIA] La Storia dell’Arte è piena zeppa di leggende popolari che hanno spesso origine dalla ragguardevole tradizione letteraria dei testi apocrifi.
La Vergine, seduta su un asino, porta in braccio il Bambino e Giuseppe cammina accanto a loro, nello stesso tipo di paesaggio che abbiamo già visto nella Visitazione.
Di fronte a loro lungo la strada, un idolo pagano cade dal suo piedistallo. Infine, in primo piano, una vasca raccoglie l'acqua da una sorgente.
Il dettaglio più diffuso di questo dipinto è Giuseppe che beve.
Che cosa vuol dire questo? Significa che ci troviamo di fronte a un’applicazione monumentale di un motivo che tradizionalmente appare nei marginalia dei codici miniati franco fiamminghi – un vecchio che si disseta all'aria aperta – un topos ricorrente in vari manoscritti, come nel Libro d'Ore di Bruges oggi a Rouen.
La rappresentazione di Giuseppe effettuata da Broederlam, tuttavia, è molto più che un dettaglio rustico, mutuato dal repertorio miniaturistico del realismo fiammingo, si tratta infatti di un riferimento alla sorgente d'acqua visibile in fondo al dipinto, che, secondo la leggenda, sarebbe scaturita miracolosamente quando la Sacra Famiglia stava per morire di sete durante la sua fuga in Egitto. Nel dipinto, Giuseppe ha appena riempito la sua borraccia con l'acqua scaturita miracolosamente, da cui ora sta bevendo un sorso.
Ora, mentre il pannello di sinistra mostrava il mondo prima della nascita di Cristo come un deserto arido simile al paesaggio che appare nella Visitazione sul pannello di destra la Sacra Famiglia viaggia attraverso un lussureggiante paesaggio verde. In altri termini è come se Cristo, in viaggio verso l'Egitto, guarisse gradualmente il mondo e la natura stessa annunciasse la venuta del Salvatore.
Anche nell’aneddoto riportato sullo sfondo nel dipinto, un idolo che cade, l’apocrifo racconta che le divinità d'Egitto cadevano da sole al passaggio del Bambino: è un'ulteriore allusione al Vangelo dell’infanzia con cui si vuole contrapporre la caduta dei vecchi idoli di fronte al riconoscimento del vero Dio e dal rinnovamento portato dal Messia.

    3.Conclusione
Melchior Broederlam, la cui esistenza si dipana dalla seconda metà del Trecento al primo decennio del Quattrocento è il più importante pittore fiammingo della generazione che precede e anticipa Robert Campin, alias il Maestro di Flémalle”, e i fratelli van Eyck.
E non è l’unico a spianare loro la strada. Anche i fratelli di Limburgo, il Maestro di Boucicaut e Jacquemart d’Hesdin furono dei grandi pittori e degli importanti precursori, anche se essi si applicarono al supporto piccolo della miniatura e, se lavorarono ad altro tipo di pittura, di questo a noi non ci è pervenuto nulla, se non qualche sparuta notizia d’archivio.
Solo i due pannelli esterni dipinti del Polittico della Crocifissione sono sopravvissuti alle ingiurie del tempo.
Eppure anche solo questi due pannelli bastano a dare un esempio da manuale della cosiddetta pittura pre-Eyckiana.
Anche se Broederlam è ancora in parte debitore della tradizione del Gotico internazionale, egli si distingue come un artista profondamente innovativo.
Nelle quattro scene bibliche dei due pannelli, pur basate su modelli tradizionali, riesce a dare ad alcune figure una dimensione umana e prospettica, sia nella loro fisionomia sia nelle loro azioni sceniche.



Legato ancora alla tradizione, Broederlam usa sontuosamente la foglia d'oro e non solo per il cielo, ma anche in numerosi dettagli, su abiti e tessuti che esegue in oro e, per aumentarne l'effetto ottico, sul fondo applica motivi decorativi realizzati a punzone e usandone di spessore diverso.
L’accuratezza con cui l'artista rappresenta la trama di preziosi broccati d'oro testimonia l’alto livello di abilità tecnica conseguito con quella la tecnica lenticolare che è la cifra dell’Arte fiamminga: la foglia d'oro è finemente dipinta e lavorata con strumenti di punzonatura e anche di incisione. Le cornici dorate recano le lettere f e m, iniziali dei nomi del committente Filippo e di sua moglie Margherita van Mâle.
Come altri pittori del suo tempo e del suo ambiente, Broederlam fu un pittore di spicco e un artista polivalente.
Ma perché considero Melchior Broederlam un artista tanto innovativo da individuarlo come il punto di origine di una generazione di artisti fiamminghi che traghettarono definitivamente la pittura dal Gotico internazionale verso le novità del Quattrocento?
Il Gotico internazionale, quello stile tardo medievale che si era sviluppato in tutta l’Europa occidentale tra la metà del Trecento e l'inizio del Quattrocento, era stato e per quanto mi riguarda continuava ad essere la koinè della cultura figurativa europea chiaramente permeata sì da alcuni dialettismi locali, come ho messo in luce nei miei interventi sull’area renana su quella baltica e su quella boema.
Ma in due regioni dell’Europa, Fiandre e Toscana, quelle differenze locali presero vigore e quelli che erano dialettismi diventarono due veri e propri linguaggi artistici, caratterizzati e caratterizzanti, e fecero sì che per prime queste due regioni si affrancassero dal Gotico internazionale in due modi specifici diversi e non subito. Questi due linguaggi artistici però non crebbero isolatamente, ma interagirono fra di loro pur conservando la loro peculiarità che sarebbe diventata identitaria per secoli.
Sicuramente Broederlam conserva ancora alcuni aspetti del Gotico internazionale. Oltre all’uso dell’oro, conserva per esempio quel gusto per il meraviglioso nel rappresentare le architetture e quel gusto per lo splendore dei colori abbaglianti. Conserva ancora la raffinatezza nella rappresentazione dei personaggi, con quelle loro dita lunghe e affusolate e con i loro gesti alquanto manierati.
Ma innova.
Broederlam innova molto, aprendo la strada alla grande pittura fiamminga del Quattrocento.
Broederlam dipingeva già a olio, è il primo di cui abbiamo testimonianza sicura dell’uso di questa tecnica su tavola e, se molto non fosse andato perduto, potremmo immaginare lui come l’inventore, ma non possiamo esserne certi. Inoltre, siccome lui applicava la pittura ancora come se fosse una tempera e faceva ancora poco uso della velatura, i suoi dipinti non hanno ancora la trasparenza che Jan van Eyck avrebbe raggiunto qualche decennio dopo, grazie ai suoi esperimenti con prodotti siccativi, diventando, e questa è una certezza, se non l’inventore sicuramente il perfezionatore della pittura a olio.
È nuova la sua estrema preoccupazione per il realismo. La ricerca di realismo era certamente già presente nel Gotico internazionale, ma in lui è ancora più accentuata e meglio realizzata: Broederlam presta attenzione ai dettagli botanici nella rappresentazione delle piante, delle architetture, degli oggetti di uso quotidiano e talvolta anche dei personaggi. Così, per esempio il Giuseppe della Fuga in Egitto è un vero contadino fiammingo, vestito con un costume dell'epoca, che parte per un lungo viaggio con il suo fagotto da cui pende una piccola pentola, con la sua borsa legata sotto la cintura per paura dei briganti, e beve a garganella all’otre. Per questa attenzione ai dettagli, è vicino alle miniature del suo tempo che sono anch’esse molto legate all'osservazione naturalistica e preludono alla tecnica lenticolare.
Osserviamo il modo di rappresentare la pagina del Mese di Agosto delle Ricchissime ore del duca di Berry dei fratelli di Limburgo, oggi al Museo Condé di Chantilly. Erano più giovani di Broederlam, ma la peste se li portò via presto, solo pochi anni dopo la sua morte.
La postura e le espressioni dei loro personaggi a cavallo, pur mantenendo una certa rigidità propria della loro condizione aristocratica, sono molteplici e caratteristiche: la prima dama da destra, si regge timorosa al suo compagno, un'altra dama tende disinvoltamente le redini, mentre una coppia dialoga amabilmente. Ma ancor più libero e spontaneo si rivela l'atteggiamento del modesto falconiere in testa al corteo, che si volta verso il primo cavaliere in attesa di ricevere ordini. Elaborati dettagli del virtuosismo grafico dei fratelli di Limburgo si possono ravvisare nelle bardature dei cavalli e nelle rifiniture dei sontuosi abiti dei nobili. Intorno al corteo, corrono alcuni cani addestrati ad uccidere e a riportare la cacciagione. L'accurata modellazione dei corpi dei cavalli e dei cani è il frutto di un approccio già diverso alla natura, un metodo che cerca il realismo non solo nella raffigurazione della figura umana, ma anche in quella degli animali.
E siamo già un trentennio prima della Pala di Gand dei fratelli van Eyck.
In secondo piano, degli uomini nudi fanno il bagno nel fiume nel tentativo di placare il caldo dell’estate, mentre due contadini nel campo retrostante finiscono di raccogliere le messi in attesa che giunga il carro destinato a ritirarle. Anche negli straordinari fratelli di Limburgo la realtà è messa sotto una lente di ingrandimento ancor più spessa.
Broederlam è nuovo per il suo desiderio di costruire spazi convincenti non solo attraverso il colore, ma anche attraverso l'uso del chiaroscuro, come già avviene nei miniaturisti fiamminghi della sua generazione.
Ma lui lo fa su scala ben più ampia.
Stabilisce inoltre nella stessa scena diverse planimetrie che permettono allo spettatore di orientarsi anche al di fuori dello spazio del dipinto come avviene per esempio nell'Annunciazione con lo spazio antistante la terrazza, o nella Fuga in Egitto davanti alla vasca da cui sgorga l’acqua per le quali si rimanda alle relative immagini.
Broederlam è nuovo ancora per la sua nozione di profondità con l’impiego di linee di fuga, che certo non si incontrano in un unico punto, come avviene nella pittura toscana, ma che permettono di suggerire la profondità degli spazi. Va comunque osservato che nella pittura fiamminga anche del Quattrocento gli artisti, pur conoscendo le regole toscane della prospettiva geometrica e razionale, raramente le avrebbero utilizzate e si sarebbero serviti sempre di una prospettiva intuitiva con più punti di fuga.
Va inoltre ricordato che l'uso delle linee di fuga gli serve anche per trasmettere un messaggio: per esempio nell’Annunciazione, se seguiamo le linee di fuga molto oblique dell'oratorio della Vergine, ci accorgiamo che esse partono dallo spazio dell'angelo, attraversano l'oratorio per finire nella camera da letto di Maria.
Che cosa vuole intendere il maestro con questo espediente puramente tecnico?
È stato il suo modo di mostrare il passaggio dall'Annunciazione all'Incarnazione e forse, per quel che ne so, è una delle prime volte che un pittore si serve della prospettiva così direttamente per trasmettere un messaggio teologico tanto specifico.
Nella Annunciazione (c. 1400) delle Piccole Ore del Duca di Berry della Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, uno dei tanti squisiti lavori di Jacquemart si legge la stessa preoccupazione di suggerire profondità grazie alla pavimentazione.
Ma l’Annunciazione di Broederlam è ben più avanti.
Broederlam innova infine, ispirandosi alla pittura italiana del Trecento, ma non a quella del Gotico internazionale, ma a quella dei seguaci anche senesi della rivoluzione giottesca. E questo si vede nel modo di trattare il paesaggio, che evoca chiaramente le montagne fantastiche della pittura di Siena come è evidente nel dettaglio del Trittico di Sant'Agostino di Simone Martini.

Nel pannello a destra in alto, nell’episodio della Visitazione si vede lo stesso tipo di montagna sormontata da un castello.
Allo stesso modo, ad esempio, il Tempio della Presentazione ricorda chiaramente, come ho già precedentemente posto in rilievo, la Presentazione al Tempio di Ambrogio Lorenzetti degli Uffizi, sebbene il racconto di Broederlam sia stato semplificato.
Broederlam è nuovo infine nel rappresentare le superfici, direi l’epidermide di tutto ciò che appare in un’opera fiamminga, un effetto tanto ricercato, continuato e sviluppato dai pittori venuti dopo di lui.
In conclusione di questa lectura artis, posso affermare che nel cuore della Borgogna alla fine del Medioevo, Melchior Broederlam ha avviato, pur facendo leva su varie influenze, un insieme di innovazioni nel modo di dipingere che preludono alla nascita della grande pittura fiamminga che nella vulgata continua a essere annunciata da un orribile aggettivo di primitiva, che anch’esso ha una spiegazione se non una giustificazione.
La sua preoccupazione per il realismo nell'osservazione e nell'elaborazione dello spazio, e il suo uso frequente di un linguaggio simbolico e allegorico, fondano l'arte dei pittori del Quattrocento come Robert Campin, i fratelli Van Eyck o Rogier Van Der Weyden e dei discepoli di quest’ultimo. In questo possiamo considerare Broederlam il primo dei Primitivi.
L’espressività della sua opera è tutta fiamminga, mentre i realistici decori naturali testimoniano l'influenza italiana.
Fedele al precetto di Lucrezio del nihil ex nihilo ho indagato a lungo e meticolosamente con gli strumenti che avevo a disposizione per capire da cosa nascesse la pittura fiamminga, da quale retroterra storico artistico prendesse linfa vitale. Generalmente i testi di Storia dell’Arte italiani la fanno iniziare dalla Pala di Gand dei due van Eyck, come se quest’opera fosse piovuta dal cielo.
Mi sono impegnato in questa ricerca lenticolare per capire bene da che cosa la pala nascesse, che cosa ci fosse prima di essa e intorno ad essa e, proprio come l’opera di Masaccio nella Cappella Brancacci al Carmine di Firenze, non è nata ex nihilo.
Durante le mie scorribande, mi sono anche tristemente accorto che in Italia esiste solo una cattedra di “Storia dell’Arte fiamminga”, e sta a Torino.
È desolante, perché l’Arte fiamminga è patrimonio generale dell’Arte dell’Occidente europeo né più né meno dell’Arte italiana. Sarebbero inimmaginabili i secoli successivi al Quattrocento senza il contributo di quest’Arte che è diventata per me un’area culturale fra le più affascinanti cui mi sia affacciato, ma che purtroppo in Italia passa sempre in sordina.
Deo iuvante, continuerò questa mia indagine per conoscerne io stesso gli sviluppi, e non di passaggio, e proporre a voi, gentili lettori, i miei studi e le mie ricerche con la stessa passione, ma con mezzi più limitati di quelli della Prof.ssa Silvia Piretta dell’Ateneo torinese. Sempre scrutando il tutto dalla confort zone della corte borgognona dei discendenti di Filippo l’Ardito.
_______________________________________
[1] NOTA LETTERARIA - John Ridewall (in latino, Johannes Ridovalensis) era un monaco francescano inglese del Trecento, autore del Fulgentius metaforalis, trattato di mitologia di cui Fulgenzio, il mitografo cristiano del V\IV secolo, è la fonte principale.
Il Fulgentius metaforalis ha una serie di capitoli, in ciascuno dei quali Ridewall, dopo un capitolo introduttivo sugli idoli, associa una divinità e una virtù o talvolta un vizio.
L'edizione critica di H. Liebeschütz fornisce solo i primi sei capitoli, ma il testo conservato da diversi manoscritti aveva altri capitoli, come Apollo e Verità, Mercurio ed Eloquenza, Ganimede e Sodomia, ecc. Nella tradizione di Fulgenzio, Ridewall dà un'interpretazione moralizzata, cristianizzata e allegorizzata dei miti antichi come accade nel celeberrimo Ovidius moralizzatus, scritto nel 1340 che è una trasformazione in senso cristiano delle Metamorfosi di Ovidio.
[2] NOTA ICONOGRAFICA - La base canonica della Fuga in Egitto è tanto esigua che sembra quasi irreale un’eco così potente nella Storia dell’Arte. Questa Fuga, diventata tanto famosa, è menzionata esplicitamente solo in uno dei quattro Vangeli canonici, quello di San Matteo in cui però solo tre versetti registrano che i tre fuggirono di notte e che rimasero in Egitto fino alla morte di Erode.
I dizionari di patristica – cito il Nuovo dizionario patristico e di antichità cristiane edito nel 2010 – specificano che la Fuga in Egitto non fu oggetto di riflessione nei primi secoli cristiani, che questo momento del ciclo dell’infanzia di Cristo non è mai stato celebrato da una festa del calendario cristiano, che la riflessione teologica su questo episodio è molto abbondante, almeno nella tradizione occidentale, e che infine la ricerca storico-critica attuale sul tema è svolta piuttosto in sordina.
Perché la Sacra famiglia per sfuggire Erode, di nome re ma di fatto vassallo dei Romani, fuggono in Egitto già provincia romana dove poteva giungere la longa manus di questo reuccio passato alla Storia come Erode il Grande?
Politicamente rifugiarsi in Egitto non sembrerebbe così sicuro.
Su cosa contava Giuseppe, al netto dell’aiuto di Dio?
In Egitto già da secoli, fin dal VI a.C., vivevano diverse comunità ebraiche quindi poteva contare su quel reticolo di amicizie e di protezioni che si creano sempre fra connazionali all’estero e questo a maggior ragione avveniva nelle comunità ebraiche la cui forte identità religiosa e la convinzione di essere un popolo eletto creava un collante fortissimo anche rispetto ad altre comunità nazionali all’estero.
Il numero di opere d’arte che ha saputo suscitare questo episodio, considerato certamente storico, fu notevole. Questo si può verificare in ogni epoca e con ogni espressione delle arti figurative, dalle miniature medievali ai gruppi scultorei dei Sacri monti in Italia.
Nell’Arte, al di là dell’infinito numero di super soggetti come la Natività, la Madonna col Bambino o la Crocifissione, il numero di opere dedicate alla Fuga in Egitto è davvero considerevole.
Questo successo, questa popolarità così duratura nel corso dei secoli merita qualche riflessione.
Innanzitutto si deve precisare che questo successo nel tempo valse solo per l’Arte occidentale: nell’iconografia delle varie chiese orientali, questo episodio infatti godette di un certo peso nell’arte monumentale bizantina o bizantineggiante solo fino ai secoli apicali del Medioevo soprattutto nella decorazione di chiese con mosaici (Cappella Palatina, Palermo) fig 36 o con affreschi.
Con il passare dei secoli tale tendenza nel Cristianesimo orientale cambiò: la Fuga in Egitto non fece mai parte delle dodici festività più importanti dell'anno liturgico ortodosso e nell’Arte fu presente solo accanto ad altri episodi del ciclo dell’infanzia.
Tornando all’eco più lunga che questo episodio ebbe nell’Arte occidentale, tre caratteristiche della Fuga in Egitto contribuirono a spiegarne il successo.
In primo luogo l’importanza e la diffusione dei testi apocrifi in generale, e quelli sul ciclo dell’infanzia di Cristo in particolare, che circolavano nel mondo latino e che fornivano abbondanti dettagli al sobrio racconto del Vangelo di San Matteo, rendendolo una narrazione viva, che i pittori hanno a loro volta raccontato ed elaborato secondo il proprio stile.
La letteratura apocrifa ha fornito nomi di città e la letteratura copta ha costruito elaborati itinerari, talvolta in contraddizione tra loro come tutte le tradizioni nate orali. Gli apocrifi hanno inoltre arricchito il viaggio della Sacra Famiglia di accompagnatori: Salomè, la levatrice di Gesù secondo il Protovangelo di Giacomo, o la cugina della Vergine secondo il Sinassario alessandrino, e Giacomo, uno dei figli del precedente matrimonio di Giuseppe.
La letteratura apocrifa abbonda inoltre di dettagli sul percorso: gli attraversamenti del Nilo, il moltiplicarsi di miracoli, leoni e leopardi che scortano la Sacra Famiglia nello Pseudo Vangelo di Matteo, alberi di palme che si piegano per offrire datteri a Maria particolarmente golosa, Gesù che accelera il viaggio per evitare che i genitori soffrano troppo il caldo del deserto e un numero infinito di guarigioni spettacolari nel Vangelo arabo-siriaco dell’infanzia.
In secondo luogo le fonti apocrife, abbondanti di dettagli e particolari spesso fantasiosi, avrebbero permesso a pittori, mosaicisti, scultori di ricamare racconti con sfumature adattate alla committenza e al gusto dei propri clienti e questo è il secondo motivo del successo di questo episodio che lo distingue da altri momenti della vita di Gesù: il ricco potenziale di interpretazioni inventive che non si riscontra altrove.
Eventi come il Battesimo di Cristo nel Giordano o la sua Trasfigurazione sul monte Tabor sono eventi che si svolgono in un luogo e in un momento ben determinato, mentre la Fuga in Egitto è esteso nello spazio e nel tempo, e così povero di precisazioni su luoghi, eventi, date, da permettere libero sfogo alla fantasia dei pittori.
Quest’ampio margine di manovra senza precedenti fu utilizzato per una serie di fini teologici o politici. Pochi passi dalla vita di Gesù, per esempio, si sono prestati come la Fuga in Egitto a una dimostrazione del rapporto conflittuale e chiaramente antitetico tra sua presenza sulla terra e quella degli idoli. Pochi momenti della sua vita furono l’occasione di un numero così abbondante di miracoli, accaduti l’uno dopo l’altro, come quello del tronco che si apre, dei datteri, del grano della presenza di angeli che scortano la Sacra Famiglia, la riconfortano e la distraggono dalle fatiche del viaggio.
Finito il Medioevo fu il periodo privilegiato del tema del Riposo durante la Fuga, accompagnato da concerti di violino e flauto dolce, palme che si inclinano e spighe di grano che crescono con straordinaria rapidità per nascondere la Sacra Famiglia dai suoi persecutori. Per i pittori, soprattutto nell’area nordica dalla fine del Trecento al Cinquecento la Fuga in Egitto, fu il pretesto per dimostrare la loro abilità nel dipingere la natura, la vegetazione, i paesaggi, in lontananza, di notte, ma anche scorci urbani e orizzonti ben studiati.
Il terzo elemento del successo duraturo di questo episodio tra pittori, committenti e fedeli è la capacità di trasmettere un’emozione contagiosa, una risonanza umana che ha un carattere universale, sperimentato o immaginato, dell’esperienza dello spostamento altrove, dello sradicamento, dell’esilio, della fuga dalla propria terra anche solo per rimanere in vita. Ogni popolo, in varie epoche ha temuto o ha sofferto a causa di questa sciagura.
Tornando al soggetto iconografico, la Fuga in Egitto è probabilmente, con Le tentazioni nel deserto, l’Agonia di Gesù nel Getsemani”, la “Crocifissione”, uno dei momenti della vita di Cristo in cui la sua solitudine e la durezza del suo destino si sono manifestati nel modo più eloquente e drammatico.
[3] NOTA LETTERARIA - Gli antichi apocrifi cristiani costituiscono una letteratura di una vastità impressionante e presentano un insieme di tradizioni che sono circolate in comunità diverse per luogo di origine, per lingua e per cultura e, come tali diverse, diverse per i loro orientamenti teologici e spirituali.
Questi testi, la cui composizione è compresa tra il II secolo d.C. e l’alto Medioevo, grosso modo il VII secolo, sono stati variamente ritrovati e da allora sono oggetto di affascinanti ricerche e di discussioni particolarmente vivaci, in particolare a causa della scoperta e della pubblicazione di sempre nuovi manoscritti come nel caso della recente pubblicazione del Vangelo di Giuda.
Questi documenti, espunti dall'elenco ufficiale del Canone di Scritture, contengono testimonianze preziose sulle mentalità che hanno segnato i primi secoli del Cristianesimo e sui dibattiti che agitarono talvolta anche troppo animosamente le prime comunità cristiane lasciando, più o meno tracce profonde, nella Storia della Teologia, della Liturgia e dell'Arte per la quale essi rappresentano una fonte fondamentale per la costruzione dell’iconografia cristiana.
Per chi conosce solo i quattro vangeli canonici, la figura di Gesù narrata dagli apocrifi riserva molte affascinanti sorprese, come avvenne per me ai tempi del mio esame di "Letteratura cristiana antica" con il compianto Prof Antonio Nazzaro, che era considerato un esame complementare, ma che si rivelò per me uno dei miei esami più formativi.
In questa letteratura apocrifa, il posto dato all’infanzia di Gesù è piuttosto considerevole e questa è solo una delle caratteristiche che emergono più eloquentemente dal confronto tra i Vangeli canonici e i Vangeli apocrifi.
Data la natura eterogenea di questi testi e il cattivo stato di trasmissione di alcuni manoscritti, è spesso molto difficile, se non impossibile, determinare con precisione le aree di diffusione di tale o tal altra tradizione, ma è possibile individuare alcune linee guida, pur mantenendo generalizzazioni affrettate.
I Vangeli dell'infanzia illustrano i dettagli relativi alla vita prima dell’inizio della predicazione di Gesù, soprattutto la sua infanzia, che altrimenti sarebbero sconosciuti perché sono taciuti dai vangeli canonici.
Presentano un carattere molto miracolistico che sfocia spesso nel magico-fiabesco, in netto contrasto con la sobrietà dei quattro vangeli canonici.
La lettura dei Vangeli apocrifi permette di fare alcune osservazioni sugli orientamenti di questi scritti che possono essere raggruppabili intorno a tre assi, che sono intimamente intrecciati: il modo di raccontare, la concezione dell'infanzia, la cristologia.
- L'arte narrativa dei vangeli apocrifi sull’infanzia è caratterizzata dal fatto che spesso essi forniscono dettagli mancanti nei Vangeli canonici: essi riempiono gli spazi dei testi canonici. È così che si ottengono informazioni sul viaggio in Egitto, sulla carriera scolastica di Gesù, sui suoi rapporti con i ragazzi della sua età, sulla sua percezione degli eventi, e quant’altro.
- La gestione letteraria dell'itinerario formativo ed esistenziale di Gesù mette in discussione la percezione stessa di cosa significhi l'infanzia. Diverse sequenze dei vangeli dell’infanzia ci fanno capire il paradosso che consiste nel presentare Gesù conforme alle caratteristiche della sua età (la pratica dei giochi infantili, o il suo atteggiamento di ubbidienza nei confronti dei suoi genitori), pur mostrando di godere di qualità eccezionali, che stimolano in lui interrogativi sulla sua origine. Alcuni testi addirittura si spingono a mostrarlo come se fosse già un uomo maturo come se il bambino fosse la proiezione di ciò che in potenza sarebbe stato l'adulto.
- Infine, è importante la cristologia. Attraverso aneddoti, ricchi di dettagli concreti, questi testi offrono risposte a volte sorprendenti alle domande che la teologia cristiana ha incontrato fin dalle sue origini per esempio: quali e come sono i limiti della condizione umana che Gesù ha assunto? Che consapevolezza egli aveva della propria identità e missione? Si può parlare per lui dell'apprendimento e dell'evoluzione delle sue conoscenze? Come ha vissuto il suo rapporto con Dio e con la sua famiglia umana?
Alcune delle opzioni espresse da questi testi sono ovviamente in contraddizione con le posizioni assunte dalla Chiesa ufficiale e che a volte furono formalizzate solo molto tardi.
Quindi, un certo modo di nascondere i segni della crescita del bambino contraddice certe affermazioni esplicite del Nuovo Testamento (Lc 2, 40.52) di cui cito il passo: «Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui. I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza; ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte. Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero le sue parole. Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.»
Non si profila qui un’umanità di Cristo solo come una pura apparenza in cui si può intravedere una forma di docetismo?
Nello stesso senso, alcuni miracoli che sembrano motivati ​​da pure ragioni di convenienza per Gesù e il suo seguito, o altri interventi che hanno conseguenze drammatiche per alcune persone, non rientrano nel quadro della presentazione del mistero di Cristo come emerge dalla lettura del Nuovo Testamento.
Su tutti questi punti bisogna guardarsi da una semplicistica operazione di generalizzazione.
Una certa diversità caratterizza i testi canonici: ciascuno dei Vangeli insiste su questo o su quell'aspetto della presentazione di Cristo e questa differenza diventa ancora maggiore nella letteratura apocrifa a causa delle condizioni stesse della sua produzione e della sua diffusione.
La considerazione di tutti questi testi rende ancor più incisiva e rilevante la domanda che riecheggia sia nei vangeli canonici sia negli antichi scritti apocrifi: che cosa doveva essere questo bambino perché si dicesse tutto questo di lui?
In Italia la più vecchia edizione dei Vangeli apocrifi è quella curata da Mario Erbetta e pubblicata da Marietti che il Prof. Nazzaro mi consigliò di leggere, per la mia passione per l'Arte che aveva scorto nel corso dell'esame, e in commercio tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento. Più recente è il volume I vangeli apocrifi curato da Marcello Craveri molto più completa ed edita da Einaudi.

Nessun commento:

Posta un commento

Archivio blog